Caldo record

L’allarme dell’Onu: Il 2023 sarà l’anno più caldo mai registrato

Il 2023 sarà l’anno più caldo mai registrato, segnato da una serie di statistiche da record, che richiamano l’urgenza di agire contro il cambiamento climatico.

I gas serra sono a livelli record. Le temperature globali sono a livelli record. Il mare è a livelli record e la banchisa antartica non è mai stata così sottile“, avverte il capo dell’Organizzazione meteorologica mondiale, Petteri Taalas.

Per Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, queste temperature record dovrebbero “far sudare freddo i leader mondiali“.

Per gli scienziati, la capacità di limitare il riscaldamento a un livello gestibile sta sfuggendo all’umanità. Gli accordi sul clima di Parigi del 2015 miravano a limitare il riscaldamento globale al di sotto dei due gradi Celsius rispetto ai livelli medi preindustriali misurati tra il 1850 e il 1900 – e a 1,5°C se possibile. Alla fine di ottobre 2023, tuttavia, la temperatura era già di circa 1,4°C al di sopra del livello di riferimento preindustriale.

L’agenzia pubblicherà il suo rapporto finale sullo stato del clima solo tra qualche mese, ma è già convinta che il 2023 sarà in cima al podio per l’anno più caldo, davanti al 2016 e al 2020, sulla base del termometro da gennaio a ottobre.

È molto improbabile che gli ultimi due mesi possano influenzare la classifica“. Gli ultimi nove anni dal 2015 sono stati i più caldi da quando sono iniziate le misurazioni moderne. “Queste sono più che semplici statistiche”, rimarca Petteri Taalas. Ritiene che “rischiamo di perdere la corsa per salvare i nostri ghiacciai e rallentare l’aumento del livello del mare“.

Non possiamo tornare al clima del XX secolo, ma dobbiamo agire ora per limitare i rischi di un clima sempre più inospitale nel corso di questo secolo e dei secoli a venire“, ripete come un mantra.
L’OMM ha avvertito che il fenomeno climatico El Niño, apparso a metà dell’anno, “probabilmente si aggiungerà al caldo nel 2024“.

Questo fenomeno è generalmente associato a un aumento delle temperature globali nell’anno successivo alla sua comparsa. Il rapporto preliminare rivela anche che le concentrazioni dei tre principali gas serra – anidride carbonica, metano e protossido di azoto – hanno raggiunto livelli record nel 2022 e i dati preliminari indicano che i livelli hanno continuato a salire quest’anno.
I livelli di CO2 sono più alti del 50% rispetto all’era preindustriale, il che significa che “le temperature continueranno a salire per molti anni a venire“, anche se le emissioni saranno notevolmente ridotte.

Tutti questi record hanno conseguenze socio-economiche drammatiche, tra cui la riduzione della sicurezza alimentare e le migrazioni di massa. “Quest’anno abbiamo visto comunità in tutto il mondo colpite da incendi, inondazioni e temperature estreme“, ha ricordato Antonio Guterres in un video messaggio.

Guterres invita i leader riuniti a Dubai per la COP28 a impegnarsi a prendere misure drastiche per frenare il cambiamento climatico, in particolare eliminando gradualmente i combustibili fossili e triplicando la capacità delle energie rinnovabili. “Abbiamo una tabella di marcia per limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5°C ed evitare il peggiore dei caos climatici”, ricorda. “Ma abbiamo bisogno di leader che diano il via alla COP28“.

Si è aperta a Dubai la Cop28. Il presidente Al Jaber: “Combustibili fossili siano nella dichiarazione finale”

Centottanta tra primi ministri e capi di Stato, oltre 97mila visitatori accreditati e 12 giorni di incontri, negoziati, bilateriali e trattative, con un obiettivo ambizioso: limitare il riscaldamento globale sotto i 2°C rispetto ai livelli preindustriali. Si è aperta oggi a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, la COP28, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. All’Expo City della città il mondo cercherà di trovare soluzioni concrete per affrontare la sfida del cambiamento climatico in tutti gli scenari internazionali, valorizzando le esperienze e le buone pratiche di ciascun Paese. Sullo sfondo, la guerra in Ucraina, quella in Medioriente e tutti i temi legati al surriscaldamento globale, dai fenomeni meteo estremi all’acuirsi della fame nel mondo, dai migranti a causa del clima ai rischi per la salute. A guidare la Conferenza c’è l’emiratino Sultan Al Jaber, che guida l’Adnoc, la più grande compagnia petrolifera del Paese e finito in questi giorni al centro di accese polemiche a causa di alcuni documenti trovati e resi pubblici dal Centre for Climate Reporting e dalla BBC, che lo accusano di usato la sua posizione di presidente della COP28 per promuovere i progetti petroliferi ed energetici degli Emirati in diversi Paesi.

Non omettere “alcun argomento” dai testi che saranno negoziati nell’arco di due settimane dai delegati di quasi 200 Paesi, quindi nemmeno i combustibili fossili. Lo ha chiesto proprio Al Jaber, in apertura della Conferenza sul clima. “Dobbiamo assicurarci di includere il ruolo dei combustibili fossili. So che ci sono forti opinioni sull’idea di includere formule sui combustibili fossili e sulle energie rinnovabili nel testo negoziato”, ha dichiarato. E di combustibili fossili ha parlato anche Simon Stiell, segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: “Se non segnaliamo la fine dell’era dei combustibili fossili così come la conosciamo – ha detto –  ci prepariamo al nostro declino terminale. E il prezzo da pagare sarà quello delle vite umane”. Stiell ha chiesto l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, seguendo le raccomandazioni di numerosi rapporti delle Nazioni Unite.

Assenti alla conferenza il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden e quello cinese Xi Jinping. I due leader sono alla guida dei Paesi che più di tutti inquinano. La Cina è in cima alla classifica per le emissioni di gas serra: nel 2021 sono state 14,3 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente. Gli Usa, invece, si piazzano al secondo posto, anche se si sono impegnati a dimezzare le proprie emissioni entro il 2030 rispetto al 2005 (nel 2021 sono state 6,28 miliardi di tonnellate).

E a Dubai non ci sarà nemmeno Papa Francesco che avrebbe dovuto portare per la prima volta nella storia la Santa Sede al tavolo dei negoziati. La sua presenza era prevista dall’1 al 3 dicembre. Anche se le sue condizioni di salute sono migliorate, i medici hanno sconsigliato il viaggio. In programma, il Pontefice aveva due discorsi pronunciati in spagnolo, nella sua lingua madre, e trenta bilaterali. Non avrebbe voluto rinunciare a Dubai, Jorge Mario Bergoglio, una occasione troppo importante per una delle battaglie simbolo del suo Pontificato, la cura del Creato. Dei trenta incontri a porte chiuse, venti sarebbero dovuti essere con capi di Stato e di governo, dieci con realtà impegnate nella lotta al cambiamento climatico. E’ possibile, non certo, che il Papa possa essere comunque presente in videocollegamento.

Ci sarà, invece, la premier Giorgia Meloni, che sarà negli Emirati Arabi Uniti dall’1 al 3 dicembre. La prima parte della COP28 si svolgerà da venerdì 1 a sabato 2 dicembre in occasione del World Climate Action Summit, il cosiddetto segmento di alto livello a cui prenderanno parte i capi di Stato e di Governo, compresa la presidente del Consiglio, che interverrà per esporre i piani e gli obiettivi del nostro Paese. E a Dubai voleranno anche il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin e la viceministra Vannia Gava.

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Dalla transizione energetica al fondo ‘perdite e danni’: i 5 nodi della Cop28 che si apre domani a Dubai

Temperature record, inondazioni catastrofiche nel Corno d’Africa o addirittura incendi devastanti nelle foreste del Canada: di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico, i leader mondiali sono chiamati, più che mai, a forti risposte collettive.

Ecco cinque cose a cui prestare attenzione alla Cop28, il vertice sul clima delle Nazioni Unite, che si aprirà domani a Dubai.

1. TRANSIZIONE ENERGETICA. Tutti gli occhi saranno puntati sui termini adottati per la transizione energetica, dai combustibili fossili alle rinnovabili. Una transizione cruciale per riuscire a limitare il riscaldamento a 1,5°C rispetto all’era preindustriale, l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi. Durante la COP26, a Glasgow nel 2021, le parti hanno concordato una riduzione della quota di carbone. Da allora, gli attivisti e alcuni governi hanno spinto affinché venissero nominati il ​​petrolio e il gas, ma resta ancora da trovare la formulazione esatta. Le aspettative ruoteranno anche attorno agli impegni dei paesi per triplicare le loro capacità di energia rinnovabile entro il 2030 – un obiettivo recentemente sostenuto dal G20, poi ribadito da Stati Uniti e Cina in una dichiarazione congiunta all’inizio di questo mese – e a raddoppiare il tasso di miglioramento dell’energia. efficienza.
Idealmente, questi impegni dovrebbero assumere la forma di una risposta ad una valutazione tecnica dell’accordo di Parigi pubblicata all’inizio di settembre, che ha evidenziato gli sforzi decisamente insufficienti compiuti finora.

2. FONDO PERDITE E DANNI. La svolta più importante della COP27 a Sharm-el-Sheikh, in Egitto, è stata la creazione di un fondo destinato a compensare le ‘perdite e i danni’ dei paesi particolarmente vulnerabili ai disastri climatici e storicamente meno responsabili delle emissioni di gas effetto serra. Ma l’attuazione di questo nuovo fondo si sta rivelando complessa e i negoziati slittano da un anno. Tra le questioni da risolvere: chi dovrebbe pagare? Chi ne trarrà beneficio? Chi dovrebbe essere responsabile della sua gestione?
All’inizio di novembre è stato trovato un fragile compromesso sul suo funzionamento e il presidente degli Emirati della Cop28, Sultan Al Jaber, ha recentemente dichiarato che spera che possa essere approvato dai paesi fin dall’inizio della Cop28, al fine di creare uno slancio positivo.

3. FINANZIAMENTI PER IL CLIMA. Gruppi di esperti stimano che il mondo dovrà investire più di 3mila miliardi di dollari all’anno entro il 2030 per raggiungere gli obiettivi climatici. Ma finora i paesi sviluppati sono lontani da questo, sia che si tratti di investimenti per la transizione energetica o di adattamento alle conseguenze del cambiamento climatico.
Nel 2009, i paesi ricchi, principali responsabili delle emissioni e storici colpevoli della crisi climatica, hanno promesso di raggiungere i 100 miliardi di dollari all’anno per i paesi più poveri entro il 2020. Un obiettivo finalmente “probabilmente” raggiunto lo scorso anno, con due anni di ritardo, secondo l’OCSE. La Cop28 dovrebbe anche gettare le basi per un nuovo obiettivo di finanziamento successivo ai 100 miliardi, anche se le parti non saranno obbligate a prendere una decisione quest’anno.

4. METANO. Il metano è un potente gas serra, il secondo maggior contributore al cambiamento climatico dopo la CO2, ma che finora ha ricevuto molta meno attenzione. Cina, Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti devono organizzare congiuntamente un vertice sul metano e altri gas serra, oltre alla CO2, durante la Cop28. Potrebbe portare a un inasprimento dell’impegno preso nel 2021 di ridurre le emissioni di metano di almeno il 30% rispetto al 2020.

5. SISTEMI ALIMENTARI. La Cop28 sarà anche la prima a concentrarsi così tanto sui sistemi alimentari globali, responsabili di circa un terzo dei gas serra emessi. La produzione alimentare e la sua distribuzione sono quindi minacciate dalla siccità, oltre ad altri disastri climatici.

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Il cambiamento climatico affama il mondo: 750 milioni di persone senza cibo

(Photocredit: Roger Lo Guarro)

Nel mondo 750 milioni di persone soffrono la fame e il cambiamento climatico contribuisce sempre di più ad acuire il dramma: i progressi per contrastarla sono in stallo dal 2015 e nel 2023 la situazione è cupa, con la fame a livelli grave o allarmante in 43 Paesi e il numero di persone malnutrite salito a 735 milioni. Mentre si sommano l’impatto di disastri climatici, guerre, crisi economiche e pandemie, le conseguenze ricadono soprattutto sulle persone più giovani, le cui prospettive future sono minacciate: l’instabilità alimentare attuale significa rischiare una vita adulta di povertà estrema, di soffrire la fame, di vivere in contesti incapaci di far fronte ai disastri climatici e all’intrecciarsi di altre crisi.

Ad aver di fronte lo scenario più buio sono, in particolare, le ragazze: donne e bambine rappresentano circa il 60% delle vittime della fame acuta, mentre il lavoro di assistenza non pagato le sovraccarica, tanto da triplicare la loro probabilità di non accedere a lavori retribuiti rispetto ai loro omologhi. Il quadro emerge dall’Indice Globale della Fame (Global Hunger Index – GHI), tra i principali rapporti internazionali sulla misurazione della fame nel mondo, curato da Cesvi per l’edizione italiana e redatto annualmente da Welthungerhilfe e Concern Wordlwide, organizzazioni umanitarie che fanno parte del network europeo Alliance2015. Il rapporto è stato presentato a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, che ha ospitato l’iniziativa. L’analisi, che calcola il punteggio GHI di ogni Paese sulla base dello studio di quattro indicatori (denutrizione, deperimento infantile, arresto della crescita infantile e mortalità dei bambini sotto i cinque anni) è stata presentata alla vigilia dell’apertura della Cop28 a Dubai.

Il cambiamento climatico ha un impatto diretto e significativo sull’insicurezza alimentare: all’aumentare di temperature e disastri climatici, crescono la difficoltà e l’incertezza nel produrre alimenti. Gli effetti sono particolarmente evidenti nei Paesi poveri e sulla salute dei loro abitanti: il 75% di chi vive in povertà nelle zone rurali si affida alle risorse naturali, come foreste e oceani per la sopravvivenza, essendo quindi particolarmente vulnerabile ai disastri; inoltre, stima il World Food Program, l’80% delle persone che soffrono la fame sul Pianeta vive in zone particolarmente colpite da catastrofi naturali. Secondo la Banca mondiale, dal 2019 al 2022 il numero di persone che vivono in insicurezza Alimentare è aumentato da 135 milioni a 345 milioni, sotto l’effetto combinato delle varie crisi ed emergenze. “La sovrapposizione delle crisi sta intensificando le diseguaglianze sociali ed economiche, vanificando i progressi sulla fame, mentre il peso più grave è sui gruppi più vulnerabili, come donne e giovani”, ha dichiarato Gloria Zavatta, presidente di Fondazione CESVI. “I giovani devono avere un ruolo centrale nei processi decisionali, mentre il diritto al cibo va posto al centro delle politiche e dei progressi di governance dei sistemi alimentari”, ha aggiunto. Inoltre, ha sottolineato, “nei prossimi anni è previsto che il mondo affronti un numero crescente di shock, provocati soprattutto dai cambiamenti climatici. L’efficacia della preparazione e della capacità di risposta alle catastrofi è destinata a diventare sempre più centrale dal punto di vista della sicurezza alimentare”.

Dopo che i passi avanti nella lotta alla fame si sono interrotti nel 2015, il punteggio di GHI 2023 per il mondo è 18,3, considerato moderato, meno di un punto in meno dal 2015 (19,1), e dal 2017 il numero di persone denutrite è aumentato da 572 milioni a circa 735 milioni. Le regioni con i dati peggiori sono Asia meridionale e Africa Subsahariana (27,0 per entrambe, ossia fame grave): negli ultimi vent’anni hanno costantemente registrato i più alti livelli di fame e, dopo i progressi dal 2000, nel 2015 la situazione è entrata in stallo.

Nel 2023 in nove Paesi la fame è allarmante: Burundi, Lesotho, Madagascar, Niger, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sud Sudan e Yemen. In altri 34 Paesi è grave. In 18 nazioni dal 2015 la fame è aumentata (situazioni moderate, gravi o allarmanti) e in altri 14 il calo è stato trascurabile (inferiore al 5%). Al ritmo attuale, 58 Paesi non raggiungeranno un livello di fame basso entro il 2030.

A destare le maggiori preoccupazioni nel 2023 sono Afghanistan, Haiti, Nigeria, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Yemen, oltre a Burkina Faso e Mali nel Sahel: tra i fattori chiave ci sono conflitti e cambiamento climatico, nonché la recessione economica. In sette Paesi il miglioramento è superiore al 5% dal 2015: Bangladesh, Ciad, Gibuti, Mozambico, Nepal, Laos e Timor Est. “I conflitti, insieme alla crisi climatica e agli shock economici, rappresentano le cause principali di queste emergenze che coinvolgono persone, comunità e territori ad ogni latitudine. Purtroppo, i dati indicano che nei prossimi 6 mesi l’insicurezza Alimentare acuta rischia di peggiorare in almeno 18 aree ad alto rischio. Insieme alla Palestina, sono il Burkina Faso, il Mali, il Sud Sudan le frontiere di massima preoccupazione dove il rischio di morire di fame o di un deterioramento rapido verso condizioni catastrofiche è altissimo. Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Haiti, Pakistan, Somalia, Siria, Yemen sono anch’esse realtà preoccupanti. La prospettiva non è incoraggiante, ma è necessaria per poter comprendere che occorre agire con urgenza”, dichiara Maurizio Martina, vice direttore generale FAO. 

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Sfuma il sogno del Papa: viaggio alla Cop28 annullato su richiesta dei medici

Il viaggio di Papà Francesco a Dubai per la Cop28 è annullato. L’annuncio arriva improvviso in serata, su richiesta dei medici. “Pur essendo migliorato il quadro clinico generale relativamente allo stato influenzale e all’infiammazione delle vie respiratorie, i medici hanno chiesto al Papa di non effettuare il viaggio previsto per i prossimi giorni a Dubai, in occasione della 28a Conferenza delle Parti per la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici”, spiega il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, che solo poche ore prima aveva tenuto un briefing sul viaggio. “Papa Francesco ha accolto con grande rammarico la richiesta dei medici e il viaggio è dunque annullato – precisa -. Permanendo la volontà del Papa e della Santa Sede di essere parte delle discussioni in atto nei prossimi giorni, saranno definite appena possibile le modalità con cui questa si potrà concretizzare”.

In programma, il Pontefice aveva due discorsi pronunciati in spagnolo, nella sua lingua madre, e trenta bilaterali. Non avrebbe voluto rinunciare a Dubai, Jorge Mario Bergoglio, una occasione troppo importante per una delle battaglie simbolo del suo Pontificato, la cura del Creato. La conferenza delle parti alla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici degli Emirati Arabi (30 novembre-12 dicembre) sarebbe stata la prima della storia a ospitare un Pontefice.

Se crediamo nella capacità degli esseri umani di trascendere i nostri meschini interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la Cop28 porterà ad un’accelerazione della transizione energetica. Questa Conferenza può essere un punto di svolta”, aveva twittato il Papa il giorno prima di essere costretto a annullare il viaggio e il suo intervento alla conferenza, che era in agenda per il 2 dicembre.

Dei trenta incontri a porte chiuse, venti sarebbero dovuti essere con capi di Stato e di governo, dieci con realtà impegnate nella lotta al cambiamento climatico. “E’ un viaggio particolare“, aveva spiegato Bruni, ricordando che Bergoglio tenne bilaterali anche in Kazakistan, che ha visitato dal 13 al 15 settembre 2022 in occasione del Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali. In quei giorni, il Pontefice tenne colloqui privati con leader religiosi, tra cui il grande imam di Al Azhar, Al Tayyeb.

Lo stesso Al Tayyeb, figura di spicco dell’Islam sunnita, ha accompagnato il Papa nella firma del documento sulla fratellanza umana nel 2019, sempre negli Emirati Arabi, ad Abu Dhabi, e avrebbe ritrovato Francesco anche a Dubai il 3 dicembre, per l’inaugurazione del Faith Pavillon sempre nell’area dell’Expo. Il padiglione, istituito dall’Interfaith Center for Sustainable Development insieme al Muslim Council of Elders, è il primo del suo genere nella storia delle Cop e promuove l’impegno religioso e il dialogo interreligioso nell’attuazione di misure efficaci per affrontare la crisi climatica. Con al-Tayyeb, Francesco avrebbe dovuto firmare la Dichiarazione ‘Confluence of Conscience’.

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COP28, da Lula proposta fondo internazionale per foreste tropicali

Durante la COP28, che si terrà la prossima settimana a Dubai (30 novembre-12 dicembre), il Presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva proporrà la creazione di un fondo per preservare le foreste tropicali di circa 80 Paesi.

L’iniziativa consiste in “un meccanismo di pagamento per foresta, per ettaro, per aiutare a proteggere le foreste tropicali degli 80 Paesi” che le hanno sul loro territorio, ha spiegato la ministra dell’Ambiente, Marina Silva, durante un seminario sulla valutazione e il miglioramento della spesa pubblica a Brasilia.

Questa settimana, il governo brasiliano ha presentato l’idea agli altri membri dell’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica (ACTO), un blocco socio-ambientale che condivide con altri sette Paesi dove si estende la più grande foresta tropicale del mondo. Il fondo ha “un’architettura semplice, che è innovativa ed efficace“, ha commentato Silva, riservando i dettagli dell’annuncio a Lula in occasione della 28a Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Il leader della sinistra ha ribadito che i Paesi industrializzati devono assumersi la responsabilità dell’inquinamento e della deforestazione contribuendo finanziariamente alla conservazione di foreste e giungle. Il meccanismo si differenzia dal Fondo per l’Amazzonia già esistente, che è amministrato dalla Banca pubblica di sviluppo (BNDES). Il nuovo fondo internazionale sarà gestito da “un’istituzione finanziaria multilaterale“, ha dichiarato Silva ai media locali.

Roberto Perosa, Segretario per il Commercio e le Relazioni Internazionali del Ministero dell’Agricoltura, ha annunciato poi, in un’altra conferenza stampa, che il Brasile presenterà un piano alla COP28 per aumentare la superficie agricola del Paese senza deforestazione, convertendo i terreni da pascolo.

Abbiamo condotto uno studio e contato quasi 160 milioni di ettari di pascoli. Di questi, circa 40 milioni di ettari sono pascoli degradati, ma molto adatti alle colture. Quindi, con un certo investimento nel suolo, questi terreni possono essere convertiti in terreni coltivabili“, ha precisato Perosa con i media internazionali.

In dieci anni, il governo prevede di investire 120 miliardi di dollari e di espandere le aree coltivate del Brasile da 65 a 105 milioni di ettari, senza deforestazione. “Ci espanderemo senza abbattere alcun albero”, ha detto il funzionario, facendo riferimento a una “grande rivoluzione“. L’iniziativa privata sta attualmente consentendo di convertire quasi un milione e mezzo di ettari ogni anno.

Il presidente di sinistra Lula, tornato al potere a gennaio, ha fatto della difesa dell’ambiente, e dell’Amazzonia in particolare, uno dei cavalli di battaglia della sua politica, soprattutto sulla scena internazionale. Ma vuole anche consentire lo sviluppo del potente settore agroalimentare, in un momento in cui il Brasile è diventato un gigante agricolo. La deforestazione in Amazzonia è aumentata notevolmente sotto il suo predecessore di estrema destra Jair Bolsonaro, che aveva incoraggiato l’espansione delle attività minerarie e agricole nella regione. Lula aveva promesso di sradicare la deforestazione illegale entro il 2030.

Il lato oscuro del Black Friday: boom di acquisti ma schizzano le emissioni di CO2

E’ arrivato il tanto atteso Black Friday, che per un giorno – ma a dire il vero anche per una settimana – spinge sugli acquisti, complici grandi sconti e offerte speciali. Prezzi ribassati che, se da un lato fanno bene al portafoglio, dall’altro rischiano di far diventare questo venerdì ancora più nero per l’ambiente. E le ragioni sono tante, a cominciare dalla questione trasporti, soprattutto a causa degli acquisti online. Un prodotto comprato sul web, infatti, deve essere imballato, spedito e consegnato al domicilio del cliente, passando da hub e magazzini vari, spesso percorrendo migliaia di chilometri a bordo di aerei e camion prima di arrivare a casa dell’acquirente.

“Quando sono milioni i consumatori che fanno acquisti contemporanei in un arco di tempo ristretto – spiega Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima)i costi ambientali si impennano raggiungendo livelli altissimi”. In base alle stime di Sima, gli italiani che acquisteranno online e nei negozi fisici durante l’intera settimana del Black Friday, contribuiranno all’immissione in atmosfera di circa 500mila di tonnellate di CO2 a livello globale.

Non solo. Secondo un white paper di Up2You Insight dedicato alle emissioni nel settore retail, in Europa, durante il Black Friday dello scorso anno i camion impiegati per trasportare i pacchi nei magazzini e nei negozi hanno rilasciato nell’aria 1,2 milioni di tonnellate di CO2. Questo dato rappresenta un aumento del 94% rispetto a una settimana media, equivalente alle emissioni di circa 7.000 voli da Parigi a New York. Complessivamente, il 25% delle emissioni globali è attribuibile alle attività commerciali e se si pensa che il giro d’affari in Italia sfonderà la soglia dei 4 miliardi di euro (dati Codacons), in aumento del 15% rispetto al 2022, è evidente che la questione ambientale esiste.

Eppure, secondo la recente ricerca Unguess-Scalapay, un consumatore su due considera decisivo nel comportamento d’acquisto l’impatto ambientale nella scelta di cosa e dove comprare durante questo Black Friday. Ogni italiano spenderà quest’anno tra i 216 e i 238 euro, ma la Gen Z (cioè i giovani fino a 26 anni) sarà quella più propensa agli acquisti green. E in questa direzione spinge anche il Wwf. “Il Pianeta non fa sconti”, dice l’organizzazione ambientalista, che punta il dito contro “il sovra consumo camuffato da affare” che raggiunge l’apice in questo periodo, soprattutto nel settore della moda. “Ci contendiamo vestiti e prodotti di moda, che acquistiamo magari a un prezzo basso – spiega il Wwf – per poi indossarli pochissime volte e buttarli velocemente”.

Dietro il costo molto basso che paghiamo per portare a casa quel capo si nascondono infatti “l’utilizzo di materie prime di bassa qualità e additivi chimici – ricorda l’associazione – elevate emissioni di gas serra, l’utilizzo e lo spreco di risorse come suolo e acqua e l’inquinamento delle falde acquifere e degli ecosistemi acquatici, ma anche lo sfruttamento di lavoratori che spesso vivono dall‘altro capo del mondo”.

In arrivo la prima sciabolata artica di Attila: temperature sotto la media

Il 2023 potrebbe essere l’anno più caldo della storia a livello globale, gli ultimi 5 mesi sono stati da record assoluto per la calura italiana, le temperature di metà novembre hanno segnato dati estremi: ad esempio, con i 30 gradi al Sud per il nostro Paese e l’anomalia di +2,07°C a livello globale il 17 novembre, giorno più caldo dall’era pre-industriale in poi per il nostro Pianeta. Lorenzo Tedici, meteorologo del sito www.iLMeteo.it, conferma questo andamento di caldo estremo con un Global Warming imperante, ma intravede anche l’eccezione che conferma la regola: spunta una previsione straordinaria per i prossimi giorni.

Dopo mesi e stagioni di caldo anomalo, arriverà dal weekend la prima sciabolata artica di Attila dell’inverno, il primo lungo periodo di freddo e di temperature sottomedia: in altre parole farà freddo con il termometro che rimarrà sotto la media stagionale per almeno 10 giorni, evento mai accaduto quest’anno su gran parte dell’Italia. La prima irruzione artica della stagione colpirà tutto lo Stivale da sabato 25 novembre e porterà un tracollo delle temperature: ci vestiremo con berretti e sciarpe almeno fino alla festività dell’Immacolata.

Nel dettaglio, nelle prossime ore dovremo prestare la massima attenzione anche al Ciclone in spostamento verso il meridione: sono previste piogge a tratti intense su Medio Adriatico e Sud, e tra Abruzzo e Molise vedremo anche la neve in alta collina, fino ai 1.000 metri; infine, le piogge si intensificheranno sulle regioni ioniche gradualmente e nella prossima notte sono previsti nubifragi tra Calabria e Sicilia.

Ma la previsione straordinaria, oltre alle piogge importanti e forti attese nelle prossime 24 ore, riguarda sabato 25 e i giorni successivi: inizieremo a battere i denti ed il cambio dell’armadio sarà definitivo. Almeno fino alla prima settimana di dicembre i termometri saranno sottomedia e il meteo parlerà chiaro: a Milano sono previste minime intorno a -1°C e massime di 5/6°C per almeno 10 giorni con valori ovviamente sottomedia, a Bologna e Firenze idem sottomedia con -1/7°C e pure a Roma con 0°/9°. Inoltre, non si escludono fiocchi svolazzanti tra Bologna e Firenze ed è molto probabile che la neve cadrà fin quasi in pianura o addirittura lungo le coste adriatiche nel corso della prossima settimana: in sintesi, prepariamoci al meteo straordinario, dopo mesi di gran caldo torniamo a vivere il freddo e non siamo più abituati.

L’ultima frontiera climatica: ‘manipolare’ le nuvole per fare piovere a comando

Manipolare le nuvole per far piovere o ridurre la grandine: in un contesto di riscaldamento globale, molti Paesi stanno raddoppiando l’interesse per queste tecniche, con il rischio di creare tensioni geopolitiche. In Australia, la società elettrica Snowy Hydro sta completando la sua tradizionale campagna di semina nelle Snowy Mountains, la catena montuosa più alta dell’isola-continente. L’obiettivo è quello di aumentare le precipitazioni nevose utilizzando generatori di particelle di ioduro d’argento. Snowy Hydro alimenterà poi le riserve d’acqua per produrre più energia idroelettrica, spiega l’azienda.

Che sia per l’agricoltura, il consumo umano o l’elettricità, l’immenso bisogno di acqua è aggravato dal riscaldamento globale. Secondo le Nazioni Unite, 2,3 miliardi di persone vivono già in Paesi in cui la scarsità d’acqua è un problema. In queste condizioni, diversi Paesi stanno cercando di cambiare il clima: India, Thailandia, Stati Uniti, ma anche Cina. Nel 2020, Pechino ha pubblicato una circolare che illustra la sua strategia: secondo questo documento, la Cina avrà un sistema di modifica del tempo sviluppato entro il 2025. Anche gli Emirati Arabi Uniti si stanno dando da fare. Qualche anno fa, il Centro meteorologico nazionale ha lanciato un programma di ricerca per migliorare le precipitazioni, con sovvenzioni di 1,5 milioni di dollari per ogni progetto di ricerca riuscito.

Fin dagli incantesimi alle ninfe della pioggia dell’antichità, le speranze di far piovere su richiesta non si sono mai esaurite. Dalla fine degli anni ’40 gli Stati Uniti ci hanno provato, anche per scopi militari: durante la guerra del Vietnam, l'”Operazione Popeye” dell’esercito americano consisteva nel seminare nuvole nel tentativo di rallentare le truppe di Ho Chi Minh. L’efficacia della manovra è tuttora oggetto di dibattito. Da allora le tecniche sono cambiate relativamente poco, anche se la ricerca è in corso. In genere si tratta di disperdere particelle – ioduro d’argento, sale igroscopico, ecc. – nelle nuvole, sia con aerei che con generatori o razzi da terra. Le mini-particelle introdotte nella nuvola ne modificano la struttura e potenzialmente ne provocano la precipitazione.

Ma la semina ha le sue insidie. Anche perché è difficile valutare la reale efficacia delle tecniche. In Francia, l’Association nationale d’étude et de lutte contre les fléaux atmosphériques (Anelfa), istituita a cavallo degli anni ’50, utilizza questa tecnica per cercare di ridurre la grandine che danneggia le colture agricole. “È difficile valutare l’efficacia di questa tecnica a causa dell’ampia variabilità di questo fenomeno naturale“, ammette Claude Berthet, il suo direttore. “Ma le nostre indagini mostrano una correlazione tra le aree che hanno ricevuto lo ioduro d’argento e quelle che hanno ricevuto meno grandine”. Snowy Hydro riporta un aumento del 14% della neve nelle Snowy Mountains durante le campagne di semina.

Questo è solo un aspetto del problema. “L’idea principale alla base del cambiamento climatico è che stiamo andando verso una scarsità di risorse idriche, che porterà a un numero sempre maggiore di conflitti per averle”, avverte Marine de Guglielmo Weber, ricercatrice presso l’Istituto di Relazioni Internazionali e Strategiche, che ha scritto la sua tesi sull’argomento. In questo contesto, “le tecniche presentate come in grado di forzare una nube a precipitare quando normalmente ci sarebbero volute diverse ore per farlo diventeranno sempre più foriere di conflitti”. Nel 2018, ad esempio, un alto funzionario iraniano ha accusato Israele di ‘rubare’ le nubi iraniane.

Eppure, lamenta lo scrittore ed ex avvocato Mathieu Simonet, che ha appena pubblicato un articolo sull’argomento, non esiste una legge internazionale sulle nuvole. “Le nuvole sono un bene comune, quindi abbiamo bisogno di regole comuni per condividerle”, sostiene. “Soprattutto, queste regole comuni non devono essere determinate dalla posizione geografica: le nuvole circolano ovunque. Allo stesso modo, non devono essere determinate dalle capacità tecniche e dalla ricchezza di un particolare Paese”. Nel frattempo, l’autore sta girando la Francia per fare una campagna per il riconoscimento di una Giornata internazionale delle nuvole.

Il verde in città? Abbassa la temperatura ma non sempre l’inquinamento

La vegetazione in città contribuisce ad abbassare temperatura e velocità del vento, ma non porta sempre a una riduzione degli inquinanti nell’aria. È quanto emerge da due studi ENEA pubblicati sulla rivista scientifica Forests e realizzati nell’ambito del progetto Life VEG-GAP.

“Abbiamo usato sistemi modellistici per la qualità dell’aria, ma configurati in modo da includere con maggior dettaglio la vegetazione presente e la morfologia urbana, stimando la quantità di inquinanti rimossi e mostrando che, localmente, questa rimozione non garantisce sempre un miglioramento della qualità dell’aria”, spiega Mihaela Mircea, ricercatrice del Laboratorio Inquinamento atmosferico e responsabile del progetto per l’ENEA.

Nello scorso mese di luglio, nelle tre città prese in esame (Milano, Bologna e Madrid), i ricercatori Enea hanno rilevato che la vegetazione ha ridotto localmente la temperatura fino a 0,8° a Milano, 0,6° a Madrid e 0,4° a Bologna. Le concentrazioni di inquinanti, invece, sono variate con la stagione e a seconda della città presa in esame, perché sono il risultato di interazioni molto complesse tra centinaia di gas e composti chimici controllati dalle condizioni meteorologiche ed emissioni. D’estate, l’ozono, particolarmente dipendente dalle emissioni delle piante, ha mostrato una riduzione a Madrid (fino a -7,40 mg/m3) ma un aumento a Milano (fino a +2,67 mg/m3.).

Le variazioni dell’ozono hanno una relazione inversa con un altro inquinante come il biossido di azoto: infatti, quest’ultimo aumenta a Madrid (fino a +7,17 mg/m3) mentre diminuisce a Milano ( fino a -3,01 mg/m3). Nel caso del particolato atmosferico (PM10), la vegetazione ha un impatto più forte a gennaio, in corrispondenza dell’aumento delle emissioni antropiche, e mostra riduzioni a Milano (fino a -3,14 mg/m3) e aumenti a Madrid (fino a +2,01 mg/m3).

La presenza della vegetazione produce effetti in tutta la città, non solo nelle aree verdi, e non solo d’estate: gli alberi decidui infatti modificano le proprietà dell’aria anche in inverno, agendo come ostacoli che riducono la velocità del vento e la dispersione degli inquinanti, e come sorgente di acqua attraverso il suolo permeabile intorno a loro, aumentando così l’umidità relativa dell’aria. “I nostri studi hanno considerato l’interazione continua tra la vegetazione e l’aria urbana e sono applicabili in qualsiasi città che abbia a disposizione un inventario della vegetazione presente”, conclude Mircea.