Le emissioni di Co2 minacciano la sopravvivenza degli orsi polari

Photo credit: AFP

Gli orsi polari sono da tempo un simbolo dei danni causati dal cambiamento climatico, che sta sciogliendo il pack ice da cui dipende la loro sopravvivenza. Ma non è mai stato possibile quantificare l’impatto di una singola centrale elettrica a carbone su questi emblematici mammiferi. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, dimostra che è ora possibile calcolare il legame diretto tra una certa quantità di emissioni di gas serra e il numero di giorni senza ghiaccio nelle aree abitate dagli orsi, che a sua volta influisce sulla percentuale di orsi che raggiungono l’età adulta. Grazie a questo grado di precisione, gli autori dello studio sperano di poter porre rimedio a quella che viene percepita come una lacuna nella legge americana. Gli orsi polari sono stati classificati come specie minacciata dal 2008, sotto la protezione dell’Endangered Species Act statunitense. Ma un’argomentazione legale pubblicata lo stesso anno impedisce di utilizzare questa legge per valutare i permessi di nuovi progetti di combustibili fossili alla luce delle considerazioni sul clima e del loro impatto su queste specie.

Scritto da David Bernhardt, avvocato dell’amministrazione del presidente repubblicano George W. Bush, il documento sostiene che la scienza non è in grado di distinguere l’impatto di una specifica fonte di gas serra dall’impatto delle emissioni nel loro complesso. Steven Amstrup, uno degli autori dello studio, ha dichiarato: “Abbiamo presentato le informazioni necessarie per smontare questa argomentazione“.

Gli orsi polari hanno bisogno del ghiaccio per cacciare le foche, muoversi e riprodursi. Quando il ghiaccio si scioglie in estate, gli orsi si ritirano nell’entroterra o sul ghiaccio lontano dalla costa, dove possono rimanere a lungo senza mangiare. Questi periodi di digiuno si stanno allungando con l’intensificarsi del riscaldamento globale. Un importante studio pubblicato nel 2020 è stato il primo a calcolare il legame tra i cambiamenti osservati nel ghiaccio marino dovuti al cambiamento climatico e il numero di orsi polari.

Sulla base di questo lavoro, i due autori del nuovo studio hanno stabilito la relazione tra le emissioni di gas serra, il numero di giorni di digiuno e il tasso di sopravvivenza dei cuccioli. Hanno effettuato questo calcolo per 15 delle 19 sottopopolazioni di orsi polari, tra il 1979 e il 2020. E sono riusciti a trarre una serie di conclusioni. Ad esempio, attualmente il mondo emette ogni anno 50 miliardi di tonnellate di CO2 o gas equivalente nell’atmosfera, il che, secondo lo studio, riduce il tasso di sopravvivenza dei cuccioli nella popolazione di orsi polari del Mare di Beaufort del 3% all’anno. Nelle popolazioni sane, il tasso di sopravvivenza dei cuccioli nei primi anni di vita è di circa il 65%. “Non è necessaria una grande variazione verso il basso per non avere abbastanza cuccioli per la generazione successiva“, sottolinea Amstrup.

Lo studio fornisce inoltre alle autorità americane gli strumenti per quantificare l’impatto di nuovi progetti di energia fossile, come nuove centrali elettriche, sugli orsi polari. La tecnica può anche essere applicata retroattivamente per comprendere l’impatto passato di un progetto specifico. Per Joel Berger, ricercatore specializzato nella conservazione della fauna selvatica presso la Colorado State University, questo nuovo studio stabilisce “un legame quantitativo indiscutibile tra le emissioni (di gas serra), il declino del ghiaccio marino, la durata del digiuno e la demografia degli orsi polari“.

La coautrice Cecilia Bitz ritiene che questo lavoro potrebbe avere implicazioni che vanno ben oltre gli orsi polari, e potrebbe essere adattato ad altre specie come i coralli o i cervi delle Keys. “Spero davvero che questo porti a molte ricerche scientifiche“, ha dichiarato all’AFP, aggiungendo di essere sempre alla ricerca di nuove collaborazioni.

ambiente

Una seconda Laudato si’ il 4/10. Papa: “Fermiamo insensata guerra al Creato”

L’enciclica sull’ambiente, la ‘Laudato Si” avrà un seguito e, come la prima, sarà pubblicata nella festa di San Francesco d’Assisi, il 4 ottobre.

L’1 settembre si celebra la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, sul tema ‘Che scorrano la giustizia e la pace‘: così si inaugura il Tempo del Creato che durerà appunto fino al 4 ottobre. E’ in quella data, spiega il Papa in udienza generale, che uscirà un’esortazione apostolica sul clima.

La notizia era stata anticipata dal Pontefice lo scorso 21 agosto, quando aveva ricevuto in udienza una delegazione di avvocati di Paesi membri del Consiglio d’Europa.

Per Bergoglio, in partenza per la Mongolia per la sua 43esima visita apostolica all’estero, è “necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche sforzandosi di porre fine all’insensata guerra alla nostra casa comune, che è una guerra mondiale terribile“. L’esortazione è a “lavorare e pregare affinché essa abbondi nuovamente di vita“, scandisce. Anche la Mongolia subisce gli effetti devastanti della crisi climatica, inondazioni e inverni estremi stanno danneggiando pesantemente i raccolti, mentre le città non sono risparmiate dal sovraffollamento e da un inquinamento incontrollato.

Nel Messaggio per la Giornata della cura del Creato, diffuso il 25 maggio scorso, il Papa lancia un nuovo appello al mondo, parlando dei “peccati ecologici”: “Pentiamoci – supplica -, danneggiano il mondo naturale e anche i nostri fratelli e le nostre sorelle”. La richiesta è ad adottare stili di vita meno consumistici, “con meno sprechi e meno consumi inutili, soprattutto laddove i processi di produzione sono tossici e insostenibili”. Cercare di essere il più possibile attenti alle abitudini e alle scelte economiche, in modo che “tutti possano stare meglio”: “I nostri simili, ovunque si trovino, e anche i figli dei nostri figli. Collaboriamo alla continua creazione di Dio attraverso scelte positive – afferma -: facendo un uso il più moderato possibile delle risorse, praticando una gioiosa sobrietà, smaltendo e riciclando i rifiuti e ricorrendo ai prodotti e ai servizi sempre più disponibili che sono ecologicamente e socialmente responsabili“.

L’1 settembre, il Movimento Laudato si’ terrà una preghiera ecumenica e durante tutto il Tempo del Creato, non mancheranno eventi globali e regionali, tra cui una veglia ecumenica in piazza San Pietro organizzata dalla Comunità di Taizé, il 30 settembre che, oltre ad aprire l’Assemblea generale del Sinodo in Vaticano, sarà a sostegno e promozione del Trattato di Non Proliferazione dei Combustibili Fossili (TNPCF) per mitigare la crisi del cambiamento climatico in America Latina, Oceania e Africa.

Dal bilancio Ue 547 miliardi per gestire crisi e mitigazione climatica entro il 2027

Lotta ai cambiamenti climatici, mitigazione dei rischi e contrasto ai fenomeni meteorologici estremi. I soldi ci sono, e non sono pochi. Oltre cinquecento miliardi di euro, quasi un terzo del totale della dote a dodici stelle da investire qui. Da Bruxelles giunge il promemoria per gli Stati, invitati a utilizzare le tante risorse a disposizione. Del resto, ricorda la commissaria per la Coesione, Elisa Ferreira, c’è l ’accordo inter-istituzionale che accompagna il quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e che prevede “l’impegno a spendere almeno il 30% di tutte le risorse disponibili nell’ambito del bilancio settennale e di NextGenerationEU”, il programma di ripresa post-pandemico.

A prezzi costanti il solo bilancio settennale dell’Ue vale 1.074 miliardi, a cui si aggiungono i 750 miliardi di euro del programma di ripresa post-pandemico. Il 30% di tutto questo si traduce in 547,2 miliardi di euro “per affrontare gli obiettivi climatici, compreso l’adattamento. Sono diversi i capitoli da cui attingere. Il solo programma ‘Ambiente e azione per il clima’ vale 12,8 miliardi. Qui ricadono il Just Transition Fund (transizione sostenibile) e il programma Life (conservazione della natura), ma ci sono anche le risorse messe a disposizione dalle politiche di coesione (330 miliardi in totale, tra i diversi fondi). A questi si aggiungono i programmi Horizon (ricerca), per soluzioni innovative, InvestEU (investimenti strategici), politica agricola comune e fondo per il mare. Senza dimenticare il meccanismo di protezione civile (1,1 miliardi) per le emergenze, che potrebbe anche vedere l’arrivo di soldi extra. Nel processo di revisione intermedia di bilancio, la Commissione ha proposto un aumento di 2,5 miliardi di euro della riserva per la solidarietà e gli aiuti d’urgenza per rafforzare la capacità dell’Ue di affrontare crisi e situazioni di emergenza. Se approvata, salirebbe a 549,7 miliardi il totale per far fronte alla questione climatica.

Tutto questo ‘tesoretto’ per il clima riaccende una volta di più le luci dei riflettori sulla capacità dei governi di fare buon uso delle risorse, attraverso la buona politica. “Il regolamento recante disposizioni comuni che disciplina il Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fondo sociale europeo Plus, il Fondo di coesione, il Fondo per una transizione giusta e il Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura, richiede che la prova climatica sia parte integrante della programmazione e dell’attuazione di questi fondi”, ricorda Ferreira, a riprova del fatto che la questione climatica è sempre più centrale nell’agenda europea, come pure quella nazionale.

La necessità di un’attenzione al clima, con le risorse dedicate, ripropone il tema della capacità di attuare le riforme, in particolare quelle concordate con Bruxelles per la messa in atto dei piani nazionali per la ripresa (Pnrr) che prevedono azioni e misure per clima, ambiente. Un nuovo invito a fare presto e bene, in nome di ambiente, tenuta economica e competitività.

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Arriva il ciclone ‘Poppea’: dal week end temporali e temperature in calo

Addio ai bollini rossi e all’aria condizionata. Nel corso del weekend si avvicinerà all’Italia il pericoloso ciclone Poppea che di fatto, scalzando l’anticiclone africano Nerone, porrà fine all’estate 2023 per come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi 10 giorni. Secondo Antonio Sanò, fondatore del sito www.iLMeteo.it, “tutti gli elementi atmosferici sono a suo favore (del ciclone) affinché possa scatenare una violenta burrasca di fine estate”.

In primis l’aria fresca che alimenterà il ciclone si scontrerà con quella caldissima preesistente. Inoltre il vortice Poppea si tufferà sul Mar Mediterraneo e dalle Isole Baleari raggiungerà la Corsica e quindi il Mar Tirreno. Teniamo presente che le acque del nostro mare sono molto calde e ancora attorno ai 28-30°C.

Con questi presupposti il ciclone Poppea potrebbe approfondirsi ulteriormente e nella peggiore delle ipotesi, trasformarsi in un uragano. Tutto questo avverrà tra domenica 27 e lunedì 28. Prima di allora dovremo fare i conti ancora con la bolla rovente di Nerone e con i sistemi pre-frontali richiamati dalla discesa di latitudine del ciclone. Questi ultimi, in parole semplici, sono temporali piuttosto forti che anticipano la vera e propria perturbazione. Sabato e Domenica ci saranno quindi forti temporali pre-frontali su Alpi, Prealpi e alte pianure di Piemonte e Lombardia. Sul finire di domenica irromperà il ciclone Poppea che scatenerà una forte ondata di maltempo.

Bisognerà prestare molta attenzione alle regioni colpite dalle precipitazioni in quanto queste ultime potranno risultare forti, sotto forma di temporale con grandine (anche grossa) e di nubifragio. In tal caso, dato che l’Italia proviene da un periodo secco, l’acqua che potrebbe cadere in poche ore non riuscirà ad essere assorbita dal terreno, provocando quindi improvvisi allagamenti o alluvioni lampo. In montagna non mancheranno frane o smottamenti.

Sotto il profilo delle temperature invece l’aria fresca in dote al ciclone Poppea, provocherà un sensibile abbassamento dei valori massimi che rispetto a questi giorni, potrebbero perdere fino a 20°C. Questo tracollo potrebbe favorire il ritorno della neve sull’arco alpino a partire dai 2000-2500 metri.

 

ghiacciaio rutor

Ghiacciai in piena emorragia: sul Rutor persi 1,5 km² in 50 anni

(Photocredit: Legambiente)

Il nuovo record italiano dello zero termico raggiunto alla stazione di radiosondaggio Novara Cameri a 5.328 metri testimonia l’aumento senza precedenti delle temperature e l’inesorabile destino dei ghiacciai alpini, in piena emorragia, per effetto della crisi climatica. E’ la sentenza senza appello di Legambiente, che oggi ha presentato il monitoraggio sul Ghiacciaio del Rutor, in Valle d’Aosta nella prima tappa della IV edizione di Carovana dei Ghiacciai, la campagna internazionale promossa da Legambiente con la partnership scientifica del Comitato Glaciologico Italiano (CGI). E che quest’anno assume una dimensione internazionale, grazie alla collaborazione con Cipra (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) con ben due delle sei tappe localizzate in Austria e Svizzera, allo scopo di costruire nuove alleanze attraverso uno scambio con il mondo della ricerca europeo ma anche con i cittadini e le istituzioni locali e che farà il suo viaggio dal 20 agosto al 10 settembre attraverso l’alta quota per monitorare il drammatico ritiro dei ghiacciai a causa della crisi climatica.
Secondo i dati di Legambiente, il Ghiacciaio del Rutor, il terzo ghiacciaio valdostano per estensione (dopo Miage e Lys) e allo stato attuale con un’area di circa 7,5 Km2 , è sempre più minacciato dagli effetti dei cambiamenti climatici, che provocano una crescente perdita di massa glaciale. Una perdita di superficie di circa 4 km² dal 1865 ad oggi, di cui 1,5 km² persi solo negli ultimi cinquant’anni. Sempre facendo un confronto con la situazione dei primi anni Settanta, la fronte del lobo destro si è ritirata di 650 metri mentre quella del lobo sinistro di 750 metri.   Secondo Arpa Valle d’Aosta, nonostante l’accumulo invernale 2023 del ghiacciaio risulti sorprendentemente tra i migliori degli ultimi vent’anni (situazione ben più positiva rispetto a quelle degli accumuli dei vicini ghiacciai di Timorion e del Grand Etret), quest’estate ci si aspetta un bilancio di massa negativo anche se meno severo rispetto agli ultimi anni.

Nel suo complesso, la dinamica di ritiro del Rutor risulta condizionata dal paesaggio geomorfologico caratterizzato da un’alternanza di conche colme di sedimenti e ricche di laghi e dorsali rocciose allineate alle strutture geologiche alpine. “Questo fa sì – spiega Legambiente – che il ritiro non avvenga in modo lineare, ma alternando fasi relativamente stazionarie o di lento ritiro (come l’attuale) quando la fronte si trova in prossimità di una conca, fino a quando emerge una barra rocciosa che isola la fronte dal resto del ghiacciaio, momento in cui si verifica un marcato e rapido regresso della fronte”.   “ll ghiacciaio del Rutor – commenta Marco Giardino, vicepresidente del Comitato Glaciologico Italiano e docente dell’Università di Torino – è emblematico perchè le condizioni geologiche e geomorfologiche consentono di conservare traccia dell’evoluzione ambientale, nel breve e nel lungo termine. Un luogo ideale per dimostrare l’importanza di associare al monitoraggio diffuso e comparativo sui ghiacciai operato dal Comitato Glaciologico Italiano, un approccio multidisciplinare anche alle zone proglaciali, per rilevare i fenomeni di deposito ed erosione e stabilire un bilancio idrico e dei sedimenti traspostati dalle acque di fusione”.

Dopo la Valle D’Aosta la Carovana dei Ghiacciai 2023 farà la sua seconda tappa in Piemonte, sul Ghiacciaio del Belvedere, focalizzata su ghiacciai e rischi in alta montagna. La tappa inizierà il 24 agosto con un incontro con gli amministratori locali dal titolo ‘La carta di Budoia per l’adattamento ai cambiamenti climatici: un impegno a favore del clima’

caldo record

E’ allerta rossa per il caldo in 16 città. Attese punte di 38 gradi per cinque giorni consecutivi

Sono 16 le città italiane da bollino rosso a causa dell’allerta caldo, che saliranno a 17 mercoledì 23 agosto. Temperature eccezionali che, secondo il bollettino del ministero della Salute, rappresentano un’emergenza a Bologna, Bolzano, Brescia, Firenze, Frosinone, Latina, Palermo, Perugia, Rieti, Roma, Torino e Verona, a cui domani si aggiungerà anche Venezia.

Il caldo non accenna infatti a diminuire: con la coda dell’anticiclone Nerone sono attese punte fino a 38°C per 5 giorni consecutivi. Ma non solo. Come ricorda Antonio Sanò di ilmeteo.it, è in corso “un cambiamento epocale”: lo zero termico è salito di circa 300 metri oltre il precedente record in Italia, registrato alla stazione di radiosondaggio Novara Cameri a 5.328 metri. Si tratta del valore più alto dal 1954, anno di inizio rilevazioni con le radiosonde.

Tutta la colonna troposferica, schiacciata dalla potenza dell’anticiclone, presenta valori di almeno 10 gradi superiori alle medie del periodo: “pensate – dice Sanò – che lo zero termico, cioè il livello minimo delle temperature sotto lo zero, dovrebbe essere a 3500 metri in questo periodo dell’anno sulle Alpi: abbiamo una quota di 1800 metri superiore, i ghiacciai fonderanno ancora di più e l’ecosistema impazzirà”.

I record storici di questi giorni riguardano la temperatura in quota, ovvero quella che non risente dall’urbanizzazione e dunque quella che, senza alcun tipo di influenza ‘terrena’ dà esattamente l’idea del riscaldamento globale. Una cosa è il calore nella libera atmosfera e un’altra è la temperatura che si esplicita al suolo.
E nei prossimi giorni non andrà meglio. Si verificherà una vera e propria ‘tempesta di calore’, come viene definita dal servizio meteo californiano quando le massime di almeno 38°C insistono per più di tre giorni su una superficie molto ampia: con l’Heat Storm di Nerone ci saranno addirittura sette giorni di canicola e valori roventi.

Tempo asciutto e caldissimo, quindi, al Centro-Nord, possibili temporali sul meridione a causa di un’area depressionaria tra Sicilia e Libia: proprio tra Sicilia, Calabria e Campania si potranno avere disturbi temporaleschi pomeridiani che manterranno le temperature del Sud decisamente più basse di quelle del Centro-Nord.

“I numeri – spiega l’esperto – non smettono dunque di mandare segnali di allarme, e non è meteo terrorismo come qualcuno scrive: sono record che, grazie alla sapiente pazienza dei nostri nonni e dei nostri bisnonni, possiamo confrontare con tabelle, archivi, libri polverosi e annali meteorologici storici. Sono i valori più alti da 70 anni per i radiosondaggi, sono i valori più alti in alcuni casi da 300 anni per i dati delle stazioni meteo”.

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Caldo record per altri 5 giorni consecutivi: zero termico raggiunto sopra i 5.300 metri

Una “situazione critica” quella in cui versano “tutti i ghiacciai alpini a tutte le quote sopra lo zero”. L’allarme scatta in una settimana in cui si prevede un’ondata di caldo duratura su tutto il Centro-Nord, con temperature oltre i 38°C per 5 giorni consecutivi. Fino a sabato 26 quindi i valori massimi diurni raggiungeranno facilmente i 37-39°C in Toscana, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte con le città principali che diventeranno roventi e irrespirabili come Milano, Roma, Firenze, Bologna, Padova, Pavia, Alessandria, Torino, Mantova, Bolzano, Terni. Soltanto al Sud il caldo sarà meno intenso e i 36-37°C si toccheranno soltanto su tarantino, casertano, siracusano, agrigentino e coste ioniche della Basilicata, altrove non si andrà oltre i 32-34°C.

Intanto, è stato necessario salire a un’altitudine record di quasi 5.300 metri affinché il servizio meteorologico svizzero registrasse il limite degli zero gradi. Lo ha annunciato MeteoSvizzera, quando gran parte del Paese è in allerta per l’ondata di caldo. “La radiosonda Payerne (una stazione meteorologica della Svizzera nordoccidentale, ndr) per questa notte dal 20 al 21 agosto 2023 ha misurato l’isoterma 0°C a 5.298 m, che è un record dall’inizio delle misurazioni nel 1954”, fa sapere su Twitter. Il record precedente risaliva solo al 25 luglio dello scorso anno con 5.184 metri.

Intanto, il ghiacciaio della Marmolada è sorvegliato speciale. A distanza di poco più di un anno dal disastro in cui persero la vita 11 alpinisti, sabato la Provincia autonoma di Trento ha diffuso un comunicato raccomandando prudenza per l’innalzamento termico di questi giorni.  A Punta Penia, a 3.343 di quota, la piattaforma “Marmoladameteo” ha registrato alle 16:50 di sabato la temperatura +13,3 gradi. Il 3 luglio dell’anno scorso, giorno del collasso di parte del ghiacciaio, il termometro segnava +12,7 gradi. Ieri alle 17.30  il termometro ha toccato i 14 gradi, la temperatura più alta degli ultimi 10 anni.

Clima, se le emissioni triplicano addio a metà dei ghiacciai del mondo entro il 2100

(Lo scioglimento del ghiacciaio sul Monte Bianco. Photocredit: Jean-Baptiste Bosson, Asters-CEN74)

I cambiamenti climatici causati dall’attività umana in uno scenario ad alte emissioni potrebbero dimezzare l’area coperta dai ghiacciai al di fuori delle calotte antartiche e della Groenlandia entro la fine del secolo. E questo ritiro potrebbe creare nuovi ecosistemi che copriranno una superficie grande quanto l’area compresa tra il Nepal e la Finlandia entro il 2100. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su Nature e condotto da Jean-Baptiste Bosson, del Conservatoire d’espaces naturels de Haute-Savoie, in Francia e da Nicolas Lecomte dell’Università di Moncton in Canada.

La comprensione di questi ecosistemi post-glaciali crea ora un nuovo obiettivo per i ricercatori che si affianca ai continui sforzi per mitigare l’ulteriore declino glaciale. Una delle conseguenze dei cambiamenti climatici causati dall’uomo, infatti, è la riduzione dei ghiacciai, che provoca un rapido cambiamento ecologico con lo sviluppo di nuovi ecosistemi per riempire il nuovo habitat emergente.

Tuttavia, mancano analisi di questo cambiamento su scala globale. Jean-Baptiste Bosson e colleghi utilizzano un modello di evoluzione globale dei ghiacciai per esaminare la traiettoria prevista per il XXI secolo di 650.000 km2 di terreno ghiacciato che si trovano al di fuori delle calotte antartiche e groenlandesi. I profili dei ghiacciai, i modelli digitali di elevazione del terreno subglaciale e i dati climatici sono utilizzati per prevedere la risposta di ogni singolo ghiacciaio agli scenari climatici fino al 2100. Inoltre, il modello è in grado di prevedere le caratteristiche degli ecosistemi emergenti nelle aree deglaciate, classificati in categorie marine, d’acqua dolce o terrestri.

Lo studio prevede che la deglaciazione si verificherà a un ritmo simile, indipendentemente dallo scenario climatico, fino al 2040, dopodiché le stime divergono a seconda della gravità delle emissioni. In uno scenario ad alte emissioni (in cui quelle globali di gas serra triplicano entro il 2075), circa la metà dell’area dei ghiacciai del 2020 potrebbe andare persa entro il 2100. Tuttavia, questo fenomeno potrebbe essere frenato da uno scenario a basse emissioni (in cui si raggiunge lo zero netto entro il 2050), che ridurrebbe questa perdita a circa il 22%.

Si prevede che entro la fine del secolo la deglaciazione esporrà un’area di terra grande all’incirca come il Nepal (149.000 ± 55.000 km2) e la Finlandia (339.000 ± 99.000 km2), con questi habitat classificati come 78% terrestri, 14% marini e 8% di acqua dolce. Queste aree potrebbero fornire un rifugio per le specie adattate al freddo e spostate dal riscaldamento altrove. Gli autori sostengono che, oltre a limitare la deglaciazione, si dovrebbero destinare risorse e attenzione alla protezione di questi ecosistemi di nuova formazione per garantirne il futuro.

 

 

Alluvione

Il 40% della popolazione Ue vive su coste minacciate dai cambiamenti climatici

“Le regioni costiere sono estremamente importanti per l’economia europea. Circa il 40% della popolazione dell’Ue vive entro 50 km dal mare. Quasi il 40% del Pil dell’Ue è generato in queste regioni marittime e il 75% del volume del commercio estero dell’Ue è condotto via mare”. È quanto scrive il programma Ue Copernicus a proposito del dataset sulle zone costiere 2012-2018, avvertendo allo stesso tempo che “i cambiamenti climatici renderanno probabilmente più vulnerabili queste regioni e le società che le abitano”.

“Questo importante ruolo svolto dalle nostre coste ha avuto un costo per l’ambiente. Attività come il trasporto marittimo, l’estrazione di risorse, il turismo, le energie rinnovabili e la pesca esercitano pressioni sulle aree marine e costiere”, spiega Copernicus, sottolineando che “queste pressioni sono state avvertite nella maggior parte delle regioni costiere europee e hanno portato alla perdita di habitat, all’inquinamento e all’accelerazione dell’erosione costiera“.

Il deterioramento in atto “minaccia il perdurare della salute delle nostre aree costiere” e per questo motivo “la loro gestione deve essere condotta bilanciando gli interessi concorrenti dello sviluppo umano con la necessità di garantire ecosistemi costieri sani e resilienti”.

E in Italia? Secondo l’Ispra sono circa 1,3 milioni gli italiani che vivono in zone a rischio elevato di frane; quelli a rischio alluvioni in uno scenario di pericolosità idraulica media sono 6.818.375 (11,5% della popolazione). Le regioni con i valori più elevati di rischio frane e alluvioni sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria.

Su un totale di oltre 14,5 milioni di edifici, quelli ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono 565.548 (3,9%), quelli che si trovano in aree allagabili nello scenario medio sono 1.549.759 (10,7%).

 

Schizzano i prezzi del succo d’arancia: colpa degli uragani e di una malattia

Il prezzo del succo d’arancia negli Stati Uniti ha raggiunto nuovi massimi storici negli ultimi giorni, mentre i raccolti sono stati decimati dagli uragani e dalla malattia del drago giallo. Il contratto futures per il succo d’arancia congelato e concentrato da consegnare a settembre alla Borsa di Chicago era scambiato giovedì sopra i 3 dollari alla libbra (circa 450 grammi). Alla fine di luglio, aveva addirittura raggiunto i 3,20 dollari. “Forse abbiamo finalmente raggiunto un picco, ma c’è anche la possibilità che possa arrivare a 3,50 dollari“, ha previsto Jack Scoville, analista del mercato agricolo di Price Futures Group.

Gli agricoltori della Florida, il secondo produttore mondiale di succo d’arancia dopo il Brasile, hanno subito due uragani di fila, Ian e Nicole, alla fine del 2022, che hanno devastato i frutteti. A questo si aggiunge l’avanzata della Malattia del Drago Giallo o Huanglongbing (HLB), veicolata più di 15 anni fa da un insetto, lo psillide asiatico degli agrumi. Gli alberi infetti producono frutti che si induriscono, diventano verdi e diventano pungenti e inadatti al consumo. “Non c’è niente da fare, non c’è una cura conosciuta. Non si possono spruzzare gli alberi con un prodotto chimico per prevenire la malattia. Tutto ciò che si può fare è uccidere l’albero, sradicarlo e ricominciare da capo”, ha detto Jack Scoville.

In queste condizioni, i raccolti di arance si sono ridotti a zero. Nel suo ultimo rapporto di luglio, l’USDA ha previsto che la produzione di arance negli Stati Uniti sarebbe scesa del 25% a 2,3 milioni di tonnellate, “il livello più basso degli ultimi 56 anni“. “Le rese in Florida sono diminuite a causa della malattia del drago giallo (…) e dei forti venti provocati dagli uragani“, ha dichiarato il dipartimento. Per quanto riguarda la produzione di succo d’arancia, si prevede una riduzione “della metà, a 85.000 tonnellate, un minimo storico“, aggiunge l’USDA.

La produzione di arance è in calo anche in Brasile e in Messico, soprattutto a causa della siccità, ha detto Jack Scoville. L’aumento dei prezzi è anche il risultato di un’impennata della domanda, rilevata in concomitanza con lo sviluppo dell’epidemia Covid-19. “In reazione al Covid, non so perché, le persone hanno iniziato a bere succo d’arancia“, ha osservato Jack Scoville, sottolineando che questo boom della domanda sta iniziando a diminuire.