Von der Leyen rivendica Green Deal e arruola Draghi per competitività

La Commissione europea ha portato a termine oltre il 90 per cento degli obiettivi ce si era proposta nel 2019. Nel suo discorso sullo ‘stato dell’Unione’. La presidente Ursula von der Leyen  fa il punto sui dodici mesi appena trascorsi e su quelli a venire. E lo fa rivendicando il lavoro svolto e confermando alcuni dei capisaldi della sua Commissione, a partire dal Green Deal, “la risposta europea all’appello della storia”. E poi le sfide future: lavoro, inflazione, imprese. In questo quadro Von der Leyen annuncia un ‘collaboratore’ d’eccezione: Mario Draghi. Al quale la presidente della Commissione ha chiesto un’analisi sulla competitività dell’Ue. “Ho chiesto a Mario Draghi – una delle più grandi menti economiche europee – di preparare un rapporto sull’argomento il futuro della competitività europea. Perchè l’Europa farà ‘what ever it take’ per mantenere il suo vantaggio competitivo”.

GREEN DEAL – “Quattro anni fa, la Commissione europea ha presentato “il Green Deal europeo come la nostra risposta all’appello della storia. E quest’estate, la più calda mai registrata in Europa, ce lo ha ricordato con forza. La Grecia e la Spagna sono state colpite da devastanti incendi, e solo poche settimane dopo sono state nuovamente colpite da devastanti inondazioni”, ha sottolineato Von der Leyen. “Questa è la realtà di un pianeta in ebollizione”, ha puntualizzato, ricordando che il Green Deal europeo “è nato da questa necessità di proteggere il nostra pianeta ma è stato anche concepito come un’opportunità per preservare la nostra prosperità futura”.

INDAGINE AUTO ELETTRICHE DA CINA – Von der Leyen annuncia inoltre che la Commissione europea “sta avviando un’indagine antisovvenzioni sui veicoli elettrici provenienti dalla Cina. L’Europa è aperta alla concorrenza, non per una corsa al ribasso”. I mercati globali sono ora invasi da auto elettriche cinesi più economiche e “il loro prezzo è tenuto artificialmente basso da enormi sussidi statali e questo distorce il nostro mercato. E poiché non lo accettiamo dall’interno, non lo accettiamo nemmeno dall’esterno”, spiega la presidente . “Dobbiamo difenderci dalle pratiche sleali, ma è altrettanto fondamentale mantenere aperte le linee di comunicazione e di dialogo con la Cina”, dal momento che “ci sono anche argomenti in cui possiamo e dobbiamo collaborare”. L’approccio europeo con la leadership cinese al Vertice Ue-Cina sarà dunque quello del de-risking, non il decoupling.

CRISI ENERGETICA – “Un anno fa il prezzo del gas in Europa era di oltre 300 euro per MWh. Ora è di circa 35 euro”, rivendica Von der Leyen ricordando il ruolo fondamentale degli acquisti congiunti di gas per abbassare il prezzo dell’energia. “Siamo rimasti uniti, unendo la nostra domanda e acquistando energia insieme e dobbiamo quindi pensare a come replicare questo modello di successo in altri settori, come le materie prime critiche o l’idrogeno pulito”.

SFIDE ECONOMICHE – Esistono “tre grandi sfide economiche per il nostro settore nel prossimo anno: la carenza di manodopera e di competenze, l’inflazione e la semplificazione degli affari per le nostre aziende”. L’Unione non ha dimenticato i primi tempi della pandemia globale, ricorda von der Leyen “quando tutti prevedevano una nuova ondata di disoccupazione di massa stile 1930, ma noi abbiamo sfidato questa previsione”. A partire da Sure – “la prima iniziativa europea di lavoro a tempo ridotto – abbiamo salvato 40 milioni di posti di lavoro” e poi con Next Generation Eu “abbiamo poi riavviato immediatamente il nostro motore economico, e oggi ne vediamo i risultati”.

DIGITALE – “Quando si tratta di semplificare gli affari e la vita, abbiamo visto quanto sia importante la tecnologia digitale. È significativo che abbiamo superato di gran lunga l’obiettivo del 20% di investimenti in progetti digitali della Next Generation Eu”, spiega la presidente. “Gli Stati membri hanno utilizzato questi investimenti per digitalizzare l’assistenza sanitaria, il sistema giudiziario o la rete dei trasporti”.

Rutte propone Hoekstra per il dopo Timmermans. Martedì colloquio con von der Leyen

E’ l’attuale ministro degli Esteri, Wopke Hoekstra, il candidato indicato dal governo dei Paesi Bassi per sostituire Frans Timmermans nel ruolo di commissario europeo con il portafoglio dell’azione per il clima. 47enne e attuale ministro degli Esteri del governo Rutte, Hoekstra è esponente dei conservatori liberali del partito Appello Cristiano Democratico (CDA), che a Bruxelles è membro del Partito popolare europeo di centrodestra. Il gruppo è lo stesso della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ma è un segnale di discontinuità con Timmermans che appartiene invece alla famiglia dei Socialisti & Democratici.

Martedì prossimo, ha confermato la portavoce dell’esecutivo, Dana Spinant, si terrà il tradizionale colloquio del candidato con von der Leyen, per poi arrivare ad essere audito in Parlamento europeo. All’audizione all’Eurocamera partecipano una o più commissioni parlamentari competenti per il portafoglio, dopo aver risposto a un questionario scritto e presentato la propria dichiarazione di interessi. La Commissione deve ottenere l’approvazione del Parlamento a maggioranza dei voti espressi prima che i candidati possano essere nominati dal Consiglio europeo.

Quanto al portafoglio del successore di Timmermans, ancora non è chiaro quante competenze avrà e se manterrà la sola priorità dell’azione per il clima. Timmermans era il vicepresidente esecutivo con la delega al Green Deal e commissario per l’azione per il clima. Accettando le dimissioni dell’olandese, von der Leyen ha ‘spacchettato’ le sue competenze, scegliendo di assegnare il ruolo di vicepresidente esecutivo per il Green Deal europeo al vicepresidente per le relazioni interistituzionali, Maroš Šefčovič, al quale andrà solo temporaneamente anche la responsabilità del portafoglio per la politica di azione per il clima fino alla nomina di un nuovo commissario proveniente dai Paesi Bassi (il collegio si compone di un membro per ciascuno Stato membro). Tutto lascia pensare che la delega al Green Deal rimarrà nelle mani di Sefcovic fino alla fine della legislatura, mentre al nuovo commissario andrà solo la competenza per l’azione del clima, che sul piano internazionale avrà un grande peso dovendo rappresentare Bruxelles nei negoziati alla prossima COP28 che si terrà negli Emirati Arabi dal 30 novembre al 12 dicembre.

Non solo per il piano internazionale il portafoglio climatico sarà importante. Timmermans se ne va lasciando aperti sul tavolo diversi dossier del Patto verde, come la direttiva sull’efficientamento energetico degli edifici (la famosa ‘direttiva case green’ su cui i negoziatori di Parlamento europeo e Consiglio si rincontreranno a settembre nel trilogo) e il regolamento sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggi, passando per la proposta di revisione della direttiva del Consiglio sulla tassazione dei prodotti energetici e dell’elettricità e dal taglio dei pesticidi. La Commissione ancora non conferma e spiega solo che il portafoglio del prossimo commissario olandese dipenderà dal “suo profilo e dalle sue qualifiche”, che emergeranno dal colloquio di martedì con von der Leyen. Già prima della conferma da parte di Palazzo Berlymont, le indiscrezioni sul nome hanno suscitato le critiche del gruppo S&D al Parlamento europeo che in una nota ha chiarito che ancora non c’è nulla di deciso e che il portafoglio di Timmermans del clima dovrebbe rimanere nella famiglia dei Socialdemocratici. “Sullo sfondo delle recenti manovre ciniche e populiste del PPE conservatore per annacquare il Green Deal e far deragliare documenti legislativi chiave come la legge sul ripristino della natura, è fondamentale per il nostro Gruppo che il portafoglio sul clima rimanga nelle mani dei socialisti”, si legge.

La tutela del clima cambia anche l’aria negli archivi

Un’economia meno energivora, anzi, il più “verde possibile” porta con sé anche meno stress per chi lavora. Meno tensioni negli uffici comunali, in quelli delle varie amministrazioni pubbliche, con indubbio beneficio sulla salute, oltre che sull’economia. Potrebbe essere uno degli effetti collaterali della corsa all’impatto climatico zero, accelerata negli ultimi mesi anche dalla guerra della Russia in Ucraina, che ha costretto ad anticipare i tempi della transizione energetica.

Il 16 marzo la Commissione europea ha presentato il ‘Net Zero Industry Act‘, il regolamento per sviluppare un’industria a emissioni zero, che sarà il perno del Piano industriale per il Green Deal. Ci sono dentro le priorità sulle quali intervenire, un elenco di otto tecnologie energetiche strategiche, e c’è dentro un ‘alt’ alla burocrazia.

Nero su bianco la Commissione europea spiega che il Net-Zero Industry Act “mira a semplificare le procedure”, ad esempio richiedendo agli Stati membri di prendere in considerazione gli studi ambientali esistenti e le valutazioni raggruppate per evitare sovrapposizioni. E non è una frase isolata, no, nel testo si spiega che i ‘Progetti strategici Net-Zero‘ per le tecnologie prioritarie, beneficeranno di procedure di autorizzazione ancora più rapide.

Per ridurre ulteriormente la burocrazia, il Net-Zero Industry Act, assicura la Commissione, garantisce che le procedure di autorizzazione “siano completamente online e che le prove pertinenti necessarie per completare tali procedure possano essere scambiate direttamente tra le amministrazioni competenti attraverso il sistema tecnico istituito nell’ambito dello sportello digitale unico”.

E la cosa dovrà funzionare anche sul fronte, dovesse capitare, giuridico: “A questi progetti – raccomanda il documento – dovrà essere riservato, se necessario, un trattamento urgente in tutte le procedure giudiziarie e di risoluzione delle controversie”.

E insomma, il concetto è chiaro: per avere un’economia efficiente e ‘verde’ non basta lavorare sulle fonti energetiche o sui consumi: bisogna snellire la burocrazia. Un effetto secondario che, ci si augura, diventi contagioso.

Von der leyen

Fondo sovrano e materie prime, il piano di Ursula von der Leyen per l’industria green europea

Un contesto normativo aggiornato per lo sviluppo dell’industria a zero emissioni, finanziamenti a breve e lungo termine per finanziarli, sviluppo di competenze e accordi commerciali per non perdere la corsa all’approvvigionamento di materie prime considerate critiche per la doppia transizione. Quattro pilastri e un solo obiettivo: lo sviluppo di una industria europea verde, a prova di dipendenze esterne.

Ha preso forma oggi nelle parole di Ursula von der Leyen il Piano industriale per il Green Deal, annunciato a Davos nelle scorse settimane come la “forte risposta” che l’Unione europea vuole dare al piano Usa contro l’inflazione, l’Inflation Reduction Act (Ira). Un piano di investimenti per le tecnologie verdi da quasi 370 miliardi di dollari varato dal governo statunitense in agosto, che fa preoccupare l’Ue perché potrebbe svantaggiare le imprese europee dal momento che prevede sgravi fiscali per acquistare prodotti americani tra cui automobili, batterie ed energie rinnovabili.
La presidente della Commissione europea è scesa in conferenza stampa dopo l’adozione della comunicazione (che non ha valore legislativo) messa a punto per contribuire al dibattito che si terrà la prossima settimana al Consiglio europeo del 9 e 10 febbraio, in cui la risposta dell’Ue all’Ira statunitense sarà tema centrale in agenda, insieme alla gestione comune dei flussi migratori. Sulla base del dibattito che si terrà tra i capi di stato e governo, la Commissione Ue dovrebbe presentare “entro metà marzo” le proposte legislative vere e proprie, così da arrivare a una discussione più articolata al Consiglio ordinario del 23 marzo.

Come anticipato nei giorni scorsi, il piano si fonderà su quattro pilastri. Sul piano normativo, von der Leyen conferma che il nucleo duro di questo piano per l’industria verde sarà il ‘Net-Zero Industry Act’, una Legge europea per l’industria a zero emissioni, sulla scia del ‘Chips Act’ varato da Bruxelles per i semiconduttori. L’atto normativo dovrebbe fissare degli obiettivi produttivi vincolanti entro il 2030, in base ad analisi settoriali specifiche, per quelle tecnologie che vengono considerate chiave per il passaggio allo zero netto, tra cui nella comunicazione vengono menzionate batterie, mulini a vento, pompe di calore, solare, elettrolizzatori (per la produzione di idrogeno rinnovabile) e tecnologie per la cattura e lo stoccaggio del carbonio.

Un aumento massiccio dello sviluppo tecnologico verde va di pari passo con l’approvvigionamento delle materie prime critiche, utili per la realizzazione delle tecnologie pulite (vedi il litio per le batterie), di cui ora l’Ue dipende per il 98% dalla Cina. Per questo, la comunicazione conferma che a marzo sarà presentato anche il ‘Raw Material Critical Act’ (per ora calendarizzato all’8 marzo), un atto europeo sulle materie prime critiche che dovrebbe concentrarsi sull’estrazione, la lavorazione ma anche il riciclaggio delle materie prime critiche nell’Unione Europea, e sulla ricerca di sostituti. Terza novità legislativa sarà la riforma del mercato elettrico dell’Ue, anche questa attesa nel mese di marzo, che da quanto si legge nella comunicazione si concentrerà sui “contratti di prezzo a lungo termine per consentire a tutti gli utenti di energia elettrica di beneficiare di servizi più prevedibili e minori costi dell’energia rinnovabile“.

Il secondo pilastro, quello che rischia di creare maggiori fratture tra gli Stati membri, e riguarda i finanziamenti a breve, medio e lungo termine per lo sviluppo delle tecnologie pulite. Da una parte, Bruxelles ha proposto ai governi una revisione del quadro attuale sugli aiuti di stato per semplificare gli aiuti per la diffusione delle energie rinnovabili e la decarbonizzazione dei processi industriali. La Commissione vuole che la flessibilità degli aiuti di Stato entrata in vigore per un periodo di tempo limitato a causa delle crisi della pandemia nel 2020, sia prorogata e rivista fino al 2025.

Consapevole che allentare le regole sugli aiuti rischia di creare una frammentazione del mercato unico e una frattura tra gli Stati che hanno lo spazio fiscale per gli aiuti pubblici (di cui la gran parte sono notificati da Germania e Francia) e quelli che non ce l’hanno, come l’Italia, la presidente ha confermato che proporrà un Fondo sovrano europeo per rilanciare l’industria, sfruttando la revisione intermedia del quadro finanziario pluriennale in programma prima dell’estate 2023. Sulle tempistiche e su come il Fondo sarà finanziato in concreto non c’è nulla di sicuro. “Le discussioni andranno avanti in estate”, ha chiarito von der Leyen, senza sbilanciarsi. In attesa di un Fondo sovrano, Bruxelles evoca soluzioni finanziarie ‘ponte’ sfruttando risorse esistenti da redistribuire, come il piano ‘REPowerEU’ (che secondo von der Leyen avrebbe a disposizione almeno 250 miliardi di euro da poter redistribuire verso l’industria a zero emissioni), il programma InvestEU e il Fondo europeo per l’innovazione.

Il terzo e il quarto pilastro del piano riguardano rispettivamente lo sviluppo delle competenze e gli accordi commerciali per non perdere la corsa alle materie prime. Sul piano delle competenze di manodopera ‘verde’, Commissione promette ad esempio di avviare un partenariato di competenze su larga scala per le energie rinnovabili onshore nel quadro del Patto per le competenze entro febbraio 2023 ed entro la fine di quest’anno dar vita a un partenariato per le competenze sulle pompe di calore, portandone avanti un terzo sull’efficienza energetica.

L’ultima parte del piano riguarda l’accelerazione degli accordi commerciali, che la Commissione europea ritiene strategici per l’approvvigionamento di materie critiche. “Lavoreremo sulla nostra agenda commerciale”, ha confermato von der Leyen, precisando che l’esecutivo comunitario è al lavoro per concludere accordi con Messico, Cile, Nuova Zelanda e Australia. Il Cile è il secondo produttore al mondo di litio, impiegato per le batterie, e anche l’Australia è uno dei maggiori produttori al mondo. Al vaglio anche un accordo con il Messico e la ripresa delle trattative con il blocco del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay) sospese dal 2019.

commissione ue

Nutriscore, è battaglia in Ue ma la decisione slitta

E’ un’etichetta nutrizionale semplificata e colorata a dividere l’Europa. Si chiama ‘NutriScore’ ed è un sistema di valutazione nutrizionale che va dalla ‘A’, associata al colore verde scuro, alla ‘E’, di colore rosso, che è stata inventato in Francia e che potrebbe essere indicata dalla Commissione europea per diventare il modello di etichettatura nutrizionale uguale per tutti i Paesi in Ue. O almeno questo è quello che spera la Francia, dove il sistema è già stato adottato insieme al Belgio, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, mentre in Spagna è in fase di approvazione. Nel quadro della sua politica agroalimentare, la strategia ‘Farm to Fork’ (Dal campo alla tavola) pubblicata a maggio 2020, la Commissione europea ha promesso di rivedere tutta la legislazione europea relativa alla cosiddetta ‘Informazione alimentare ai consumatori’, andando a proporre un sistema di etichettatura con i valori nutrizionali armonizzata a livello Ue. Una proposta doveva arrivare entro il 2022, ma per ora è slittata a data da destinarsi e potrebbe anche non arrivare in tempo per la fine della legislatura attuale nel 2024.

Gli Stati membri dell’Ue sono divisi sul sistema di etichettatura nato in Francia, principalmente perché qualunque sistema di etichettatura viene considerato da molti un sistema di condizionamento per i consumatori, che tendono a orientarsi sui cibi che l’etichetta definisce “più sani”. Attorno alla battaglia ci sono essenzialmente due schieramenti. Da un lato, una coalizione di almeno 7 Paesi, ovvero Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna e Svizzera, che negli anni scorsi ha promosso l’istituzione di un meccanismo di coordinamento al livello comunitario per facilitare l’adozione del Nutriscore.

Dall’altro lato, si pone una coalizione guidata dall’Italia, che comprende Paesi come Repubblica Ceca, Grecia e Romania. Per l’Europa meridionale la posta in gioco è ancora più alta visto che diversi prodotti mediterranei come l’olio d’oliva, il parmigiano o il prosciutto vengono penalizzati con un colore che rispecchia un voto basso, come ‘C’ o ‘D’. Per l’Italia il sistema Nutriscore è inaccettabile ed è in prima linea sul fronte europeo contro l’adozione, per una volta unita tra politica e mondo della filiera nel condannare questo sistema di etichettatura semplificata. Ormai più di tre anni fa ha presentato a Bruxelles una proposta per un sistema di etichettatura alternativo, chiamato ‘Nutrinform Battery’, un sistema che si presenta come una batteria, che indica il valore nutrizionale di un prodotto in relazione all’apporto nutrizionale giornaliero raccomandato per quel determinato alimento. Dal canto loro, i Paesi scandinavi (Danimarca, Norvegia e Svezia) utilizzando il simbolo a colori ‘Keyhole’ (buco della serratura), istituito in Svezia nel 1989, che rappresenta un’etichetta alimentare che identifica i prodotti più sani perché contengono meno zuccheri e sale, più fibre e cereali integrali o meno grassi rispetto ai prodotti simili dello stesso gruppo. Dal momento che il simbolo nordico non discrimina i prodotti ma si concentra solo sulla valenza positiva, secondo molti potrebbe rappresentare una buona via di compromesso tra la proposta francese e quella italiana.

La proposta italiana è partita già svantaggiata nella corsa europea, dal momento che il Nutriscore è già adottato in diversi Paesi e quindi i consumatori si stanno abituando piano piano al suo utilizzo quotidiano al supermercato. Nonostante il vantaggio che è innegabile, la partita è ancora tutta aperta finché la Commissione europea non deciderà di avanzare la proposta vera e propria. Anche a livello produttivo sta emergendo sempre maggiore consapevolezza sui limiti del Nutriscore, il cui principale punto di forza – riconosciuto anche dall’Italia stessa – è il sistema colorimetrico, a colori, che risulta molto semplice e immediato per i consumatori. Con il rischio, secondo molti, di condizionarne le scelte. Sull’etichetta “sono in corso lavori tecnici per raccogliere ulteriori prove scientifiche” per una valutazione d’impatto e non c’è data certa per una presentazione da parte dell’Ue.

commissione ue

Commissione europea, il 2023 tra riforma del mercato elettrico e banca dell’idrogeno

Riforma del mercato dell’energia, banca dell’idrogeno e nuove tecniche genomiche. Il programma di lavoro che attende la Commissione europea nel 2023 comprenderà 43 nuove iniziative politiche a sostegno dei sei punti cardine della sua legislatura: Green Deal, Europa Digitale, un’economia a sostegno delle persone, Ue nel mondo, promozione dello stile di vita europeo e un nuovo slancio alla democrazia dell’UE. Di queste, 9 saranno dedicate alla più importante priorità della Commissione a guida Ursula von der Leyen: la decarbonizzazione del continente entro il 2050, ovvero l’attuazione del patto verde per l’Europa.

Prima tra tutte, nel primo trimestre dell’anno è attesa da parte della Commissione una proposta di riforma del mercato elettrico dell’Ue. In un primo tempo scettica sull’argomento, dalla scorsa primavera la Commissione Ue ha pienamente “abbracciato” l’idea di una riforma che non sia solo una risposta alle necessità immediate, ma una soluzione a lungo termine per ottimizzarne il funzionamento. Bruxelles ha già confermato che priorità sarà disaccoppiare i prezzi dell’energia elettrica prodotta dal gas da quella prodotta da altre fonti di energia, per evitare l’effetto contagio dei costi. La riforma dovrà contribuire a ridurre la volatilità dei prezzi, migliorare la liquidità del mercato, garantire gli scambi commerciali (di energia) tra gli Stati membri. Sulla riforma del mercato in Ue ci sono però posizioni molto diverse (come lo erano quelle sul price cap) e quindi si preannunciano negoziati lunghi: Germania e Paesi Bassi guidano il fronte di chi scoraggia un intervento strutturale sul mercato, mentre la Spagna, la Francia e anche l’Italia spingono per una riforma importante, che includa anche il disaccoppiamento dei prezzi.

Bisognerà attendere il terzo trimestre del 2023 per la presentazione di un altro importante tassello per la politica energetica dell’Ue: ovvero il lancio della prima Banca europea dell’idrogeno, di cui ha accennato la prima volta la presidente Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione a settembre, anticipando che sarà dedicata allo sviluppo dell’idrogeno su larga scala e sarà in grado di investire almeno 3 miliardi di euro nei prossimi anni. Nel piano ‘REPowerEu’ presentato lo scorso maggio, la Commissione si è posta l’obiettivo di portare a 20 milioni di tonnellate la produzione di idrogeno verde: 10 milioni di tonnellate di produzione interna e 10 milioni di tonnellate di importazioni ogni anno entro il 2030. L’obiettivo di dar vita a una Banca di investimenti per l’idrogeno rinnovabile è quello di passare da un mercato che in Europa è ancora “di nicchia” a uno per la produzione su larga scala.

Queste le proposte più attese sul versante energetico e climatico, ma non saranno le uniche. Per il secondo trimestre è attesa la revisione della direttiva rifiuti per la parte tessile e alimentare così come il quadro normativo annunciato da Bruxelles per le cosiddette nuove tecniche genomiche usate per la produzione di piante. Seguiranno poi un’iniziativa per i suoli sani, la revisione della legislazione sul benessere animale e un quadro per la sicurezza alimentare, anche alla luce della guerra in Ucraina. Nel secondo trimestre attese anche tre proposte legislative per il trasporto merci pulito (consegne internazionali, dimensioni e pesi, trasporto misto). Quanto alla trasformazione digitale, la prima iniziativa che viene menzionata è quella, molto attesa, sulle materie prime critiche attesa nel primo trimestre dell’anno.

Le sfide fuori dal programma di lavoro. Oltre alle iniziative legislative previste per il 2023, Bruxelles dovrà continuare il lavoro di preparazione al prossimo inverno 2023/2024 e di contrasto all’aumento dei prezzi, oltre che mettere in pratica alcune delle misure promesse nel 2022. A partire dal nuovo indice di riferimento (benchmark) per il gas naturale liquefatto che sarà complementare al TTF olandese, che la Commissione ha annunciato nel quadro del pacchetto di emergenza contro il caro bollette del 18 ottobre. Tra le misure, la Commissione Ue ha preso atto del fatto che il TTF di Amsterdam, il mercato olandese plasmato sulle transazioni da gasdotto, non rispecchia più l’attuale andamento del mercato e quindi ha promesso entro marzo un indice europeo complementare solo per i prezzi del Gnl.

L’altra grande sfida che attende Bruxelles è quella delle riserve e della preparazione al prossimo inverno. A partire dalla primavera i governi dovranno iniziare a riempire di nuovo gli stoccaggi sotterranei di gas, che si saranno svuotati durante questo inverno. Se quest’anno il riempimento delle riserve è riuscito senza grosse difficoltà, per l’anno prossimo potrebbe non essere altrettanto dal momento che mancherà la gran parte del gas russo. L’Agenzia internazionale per l’energia ha stimato un potenziale deficit di quasi 30 miliardi di metri cubi di gas naturale il prossimo anno. Per questo, a partire da gennaio Bruxelles dovrà accelerare il lavoro sugli acquisti congiunti di gas, mettendo a punto uno strumento di aggregazione della domanda con l’intenzione di chiudere i primi contratti entro l’estate. I Paesi Ue hanno accettato di aggregare la domanda di volumi di gas per almeno il 15% dei rispettivi obblighi di riempimento degli stoccaggi. Oltre il 15%, l’aggregazione sarà volontaria.

Strada in salita per il price cap Ue sul gas. Pichetto: Criteri, non numeri

La strada verso un tetto europeo al prezzo del gas resta in salita. L’ultimo Consiglio energia non ha portato i frutti sperati (e attesi dalla scorsa estate), ma l’Italia non ha alcuna intenzione di mollare la presa. Anzi, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, elenca almeno un risultato ottenuto dalla riunione di ieri a Bruxelles. Perché “abbiamo unanimemente sgombrato il campo da quella ipotesi“, dice riferendosi alla proposta della Commissione Ue di fissare un price cap per il metano a 275 euro per megawattora. Cifra che non convince praticamente nessuno, né i Paesi favorevoli alla misura né quelli sfavorevoli. Perché “se noi applicassimo quella proposta – spiega il responsabile del Masesarebbe inefficace nel modo assoluto, quindi perfettamente inutile“.

La fascia indicata da Bruxelles per il price cap, dunque, “non funziona, è inapplicabile” insiste. “Se prendessimo questa proposta di regolamento e la collaudassimo, o se volessimo fare una simulazione su cosa è avvenuto durante l’estate, sarebbe inefficace“, ribadisce Pichetto. Ricordando, invece, qual è stata l’idea portata al tavolo dall’Italia: “Abbandoniamo un numero di tetto, determiniamo invece dei parametri di intervento, allo scopo fondamentale di predisporre un intervento unitario da parte dell’Ue per evitare la speculazione“. Un vero e proprio “corridoio dinamico, che dovrebbe funzionare con una differenza rispetto ai prezzi medi di un certo periodo sull’oscillazione rispetto agli sbalzi“. Questo perché “non riusciamo a frenare il valore della quotazione internazionale, ma gli sbalzi e la speculazione possiamo frenarli“.

Da par suo, la Commissione europea fa sapere che non ne presenterà una nuova, ma la procedura seguirà l’iter normale. A chiarirlo è il portavoce, Eric Mamer, durante il briefing con la stampa, precisando che la proposta dell’esecutivo comunitario è stata già presentata al Consiglio Ue e che “non abbiamo dato indicazioni sul fatto che presenteremo una nuova proposta. Il processo legislativo seguirà la normale procedura“, per cui la proposta della Commissione europea può essere emendata e modificata. La puntualizzazione arriva dopo il Consiglio straordinario dell’energia, in cui i ministri hanno rimandato alla prossima riunione (che dovrebbe tenersi il 13 dicembre) la decisione sul meccanismo di correzione del mercato.

Sempre restando al vertice di ieri, Pichetto rivela un altro dettaglio: “Non c’è stato il muro contro muro, ma la disponibilità a ragionarci sopra, a valutare, a tentare di trovare soluzioni di mediazione e equilibrio“. Dunque la situazione non è così tesa come sembra agli osservatori esterni: “Il clima è che almeno ci parliamo – aggiunge il ministro -, che questo arrivi a una soluzione lo vedremo strada facendo“. Almeno “il fatto positivo è che già ieri sera le strutture tecniche, in modo informale, si parlavano. E non è qualcosa da non considerare“.

Sul fronte interno, poi, Pichetto torna sulla vicenda del rigassificatore galleggiante da installare a Piombino entro la prossima primavera, per accogliere le nuove forniture di Gnl provenienti dall’Algeria. Il Comune ha presentato ricorso al Tar, ma il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica annuncia l’opposizione del governo: “Noi abbiamo bisogno di quei 4-5 miliardi di metri cubi” o “la difficoltà per il 2023 ci sarebbe tutta“. Non avere il 4% di gas da Piombino vorrebbe dire “non riuscire a riempire gli stoccaggi o fare tanta fatica e dover cercare soluzioni alternative“. Un lusso che l’Italia proprio non può permettersi.

Ma insomma, gli Stati vogliono un accordo sul price cap del gas?

La storia del price cap, ovvero di porre un limite europeo al prezzo del gas, ha iniziato a puzzare pesantemente quando il 9 novembre il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha attaccato frontalmente la presidente della Commissione Ursula von der Leyen in Parlamento. Il belga accusava la tedesca di non essersi data da fare a sufficienza per presentare una proposta ai ministri dell’Unione.

Von de Leyen l’ha presa con filosofia, ha taciuto per una giornata, poi ha risposto. Ed ha risposto ricordando che abbondantemente prima dell’estate la Commissione, spinta anche da Mario Draghi, aveva espresso la necessità di un provvedimento del genere, proposta caduta però nel pressoché totale silenzio dei governi. Poi il 18 ottobre arrivò una prima idea scritta dai funzionari di von der Leyen, anche quella, vista e accantonata senza alcun seguito. Il 9 novembre bel bello Michel prende e attacca. Era iniziato lo scaricabarile (per non dire che il Belgio, Paese del quale Michel è stato primo ministro è tra i governi capofila a favore di un price cap).

La proposta della Commissione alla fine è arrivata di nuovo sul tavolo dei ministri. C’è voluto tempo per conoscerla tutta, è arrivata a pezzi e bocconi, prima estremamente vaga, poi sempre più dettagliata, fino al testo finale, sostanzialmente respinto dal Consiglio energia del 24 novembre. Ma non respinto del tutto, perché una nuova riunione per discuterne è alle viste il 13 dicembre, in un vertice convocato lì per lì, su due piedi (ed infatti manca ancora l’invito ufficiale). La Commissione ha già fatto sapere che non ci sarà una nuova proposta: “si mettessero d’accordo loro, a questo punto”.

Che gioco stanno giocando i governi? Un gioco di rinvio ad oltranza, scaricando però la responsabilità non sulla loro incapacità, forse anche impossibilità, a fare sintesi, ma sulla presunta o “vaghezza” o “timidezza” o “inutilità”, o “eccessività” della proposta della Commissione.

Il testo uscito dagli uffici della commissaria Kadri Simson è in effetti complesso, pieno di condizionalità, potrebbe anche non essere una buona proposta. Ma la verità è che è oggettivamente impossibile fare una proposta perché gli Stati ad ogni passo che vien fatto oppongono nuove resistenze, nuovi “ma”, nuovi giudizi di insufficienza. Si capisce dunque che la Commissione sia riluttante a presentare un testo che certamente verrà impallinato, anche perché dai governi non è venuta alcuna indicazione univoca per lavorare in una direzione o in un’altra.

Anche il fronte della quindicina di Stati favorevoli è in realtà ben poco compatto, con Paesi come il Belgio che già stanno lavorando a forme di price cap nazionali, o come l’italiano che nella totale incertezza del nuovo ministro Pichetto Fratin sembrano non aver un’idea chiara di dove stanno, perché e di dove vogliono arrivare.

I tedeschi son lì che difendono ad ogni prezzo (è il caso di dirlo) la loro interpretazione di sicurezza delle forniture, gli olandesi che non vogliono veder smontato il mercato del gas che ospitano ma che per praticamente univoca opinione oramai non funziona più e non si può più aggiustare.

Per una volta si può dire che la Commissione è impotente, di fronte alla oramai quasi evidente volontà degli Stati di non avere un price cap.

La proposta al vaglio dei governi: price cap sul gas a 275 euro/MWh

Un meccanismo di correzione del mercato da attivare automaticamente di fronte a picchi di prezzo sul mercato olandese usato per le transazioni nell’Ue, il TTF (Title Transfer Facility). Dopo non poche indecisioni, è da Strasburgo (dove è riunito l’Europarlamento) che la Commissione europea ha avanzato oggi nei dettagli la proposta per introdurre uno strumento temporaneo di correzione del mercato (MCM – Market Correction Mechanism), di cui la scorsa settimana aveva presentato ai governi uno schema privo dei dettagli essenziali, tra cui il prezzo di riferimento per farlo scattare.

Il nome tecnico scelto dall’esecutivo è quello di un meccanismo di correzione del mercato, ma nei fatti si traduce in un prezzo massimo “di sicurezza” da applicare in automatico sulle transazioni quando sono soddisfatte due condizioni contemporaneamente: quando il prezzo del gas sul TTF supera i 275 euro per megawattora (MWh) per un periodo di due settimane e quando i prezzi del gas sul TTF sono superiori di 58 euro rispetto al prezzo di riferimento del GNL per 10 giorni consecutivi nelle due settimane di scambi. Il prezzo di riferimento del GNL viene calcolato sulla media giornaliera di un paniere di parametri di riferimento globali, tra cui la Commissione Ue cita il Mercato Spot Giornaliero del Mediterraneo, il Mercato Spot Giornaliero dell’Europa Nordoccidentale.

Di fronte a entrambe le condizioni, ha chiarito Simson in conferenza stampa, il tetto massimo che impedisce le transazioni sul mercato olandese si applicherebbe automaticamente, senza un ulteriore passaggio decisionale a livello politico. Nello specifico, la proposta della Commissione prevede che sia l’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (ACER) a pubblicare un avviso nella Gazzetta ufficiale Ue, informandone l’Esecutivo europeo, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) e la Banca centrale europea (BCE). Proprio a queste tre autorità di controllo, insieme al Gas Coordination Group e all’European Network of Transmission System Operators for Gas (ENTSO-G), spetta il compito di monitoraggio dello strumento e della sicurezza dell’approvvigionamento in Ue. La commissaria estone ha assicurato il meccanismo è progettato “per essere efficace, ma senza compromettere la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Ue. Come ‘freno di emergenza’, la Commissione ha previsto che il meccanismo possa essere sospeso o disattivato a seconda dei casi attraverso due procedimenti diversi: può essere disattivato automaticamente quando la seconda condizione di attivazione (ovvero la differenza tra il prezzo TTF e il prezzo di riferimento del GNL) viene meno per dieci giorni; oppure, la Commissione europea propone che possa essere solo sospeso (dietro decisione della Commissione stessa) “quando ci sono rischi per la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Unione”, ha chiarito Simson. Secondo la Commissione, la proposta dovrebbe entrare in vigore già dal 1° gennaio 2023 e restare in vigore per un anno, fa leva sull’articolo 122 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dunque prevede l’approvazione a maggioranza qualificata degli Stati membri al Consiglio (quando il 55% degli Stati membri vota a favore, ovvero 15 paesi su 27; e quando gli Stati membri che appoggiano la proposta rappresentano almeno il 65% della popolazione totale dell’Ue).

La prima occasione di confronto e dibattito tra gli Stati membri sarà domani nella riunione degli ambasciatori dei 27 stati membri che si incontreranno al Coreper, il comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue. Ma il primo confronto a livello politico sulla questione sarà giovedì al Consiglio Energia che si terrà a Bruxelles, dove i ministri sono chiamati a dare il via libera al terzo pacchetto di misure di emergenza presentato dalla Commissione lo scorso 18 ottobre (che comprende l’obbligo di acquisti congiunti di gas e solidarietà in caso di tagli alle forniture) e alla proposta di regolamento per accelerare i permessi sulle infrastrutture energetiche rinnovabili. Sul price cap, visti i tempi stretti, si prevede solo un primo confronto, fonti europee chiariscono che è troppo ottimistico sperare in un accordo già in settimana. I ministri dell’energia hanno in programma, da calendario, un’altra riunione il 6 dicembre, ma non è da escludere che la questione possa finire direttamente sul tavolo dei capi di stato e governo il 15-16 dicembre al Vertice Ue.

La soglia dei 275 euro/MWh è stata stabilita dopo varie indecisioni da parte de, scelta accuratamente alta in parte perché la Commissione europea spera di non attivare mai il meccanismo (lo vuole usare da deterrente) in parte perché sa che nei negoziati gli Stati membri giocheranno al ribasso per abbassarla. La maggior parte dei governi sposa l’idea di un limite di prezzo che si aggira tra i 150-180 euro per megawattora. Ad agosto, il mese che viene preso come riferimento per il picco, i prezzi si sono avvicinati ai 310 euro/MWh ma non sono mai andati oltre la soglia dei 275 euro/MWh per un periodo consecutivo di due settimane, il che rende improbabile che a queste condizioni il cap sia attivato realmente.

Motivo di attrito con i governi sulla proposta sarà quindi la fascia di prezzo, ma sicuramente anche il fatto che la decisione di sospendere il meccanismo rimarrebbe in capo alla Commissione europea. E’ sicuro che gli Stati membri, in sede di negoziato politico, cercheranno di spostare l’asse delle competenze sulla sospensione del meccanismo al Consiglio stesso.

Thierry Breton, European Commissioner for Internal Market

L’Ue lancia i nuovi standard Euro 7: limiti per auto e mezzi pesanti

Ambiente, clima, sostenibilità, salute e Green Deal. Le nuove iniziative della Commissione per una mobilità pulita su strada intendono rispondere a più sfide contemporaneamente. Si rimette mano al sistema di eco-compatibilità delle quattro-ruote di ogni categoria, istituendo una nuova classe, l’Euro 7, per meglio coniugare gli sforzi di una transizione sostenibile con tutte le iniziative intraprese sin qui per migliorare vita dei cittadini e lotta all’inquinamento. Obiettivo: abbattere le emissioni di ossido di azoto (NOx) e particolato (Pm2,5) su tutte le strade e autostrade dell’Unione europea.

La nuova proposta di regolamento non si concentra sulla CO2, principale gas a effetto serra, ma sul resto. L’inquinamento atmosferico derivante dai gas di scarico dei veicoli è responsabile per il 39% delle emissioni nocive di ossidi di azoto (NOx) nell’Ue e del 47% delle stesse emissioni nelle sue sole aree urbane, nonché del 10% delle emissioni di particolato (Pm2,5) di tutta l’Unione. Si stima che solo nel 2018 l’esposizione cronica all’inquinamento atmosferico da polveri sottili e ossidi di azoto dal traffico stradale sia stata responsabile di oltre 70mila morti premature tra i cittadini europei. Da qui la proposta dell’esecutivo comunitario, che mentre spinge per l’elettrificazione della mobilità su gomma, dall’altra preme per veicoli tradizionali ancora più puliti. Rispetto all’attuale classe più ecologica di veicoli (Euro 6), vale a dire tutte le immatricolazioni dal 2015 in poi, l’obiettivo è ridurre, entro il 2035, del 35% le emissioni di NOx per auto e veicoli commerciali leggeri (automobili e furgoni), e fino al 56% per autobus e veicoli commerciali pesanti (camion e autoarticolati). Sempre entro il 2035 si fissa una riduzione del 13% delle emissioni di polveri sottili rilasciate dal tubo di scappamento di auto e furgoni, e del 39% per bus e camion. Questo per ciò che riguarda i sistemi di scarico e i tubi di scappamento. Mentre per quanto riguarda il sistema di frenata, la Commissione prevede una riduzione fino al 27% di polveri sottili per automobili e veicoli commerciali leggeri.

La data dell’avvio della nuova rivoluzione è differenziata: 1 luglio 2025 per veicoli leggeri e 1 luglio 2027 per veicoli pesanti. Questi i momenti che la Commissione vorrebbe per l’entrata in vigore della nuova categoria di veicoli ‘Euro 7’, nell’auspicio che Parlamento e Consiglio non stravolgano questa tabella di marcia come pure l’obiettivo dichiarato. Bruxelles non vuole imporre troppi oneri ai costruttori, tanto che gli obiettivi di riduzione “dovrebbero essere ottenute con le tecnologie esistenti”. Per questo, sostiene il commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, “ritengo che la nostra proposta sia equilibrata”, oltre che necessaria “per proteggere il nostro clima”. E’ un tassello ulteriore di una strategia a dodici stelle di ampio respiro. “Oltre a monitorare e sostenere l’elettrificazione della flotta, ora stiamo affrontando le emissioni che aggravano l’inquinamento atmosferico e influiscono sulla nostra salute”. Una linea confermata anche da Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea responsabile per il Green Deal. “I nostri standard sulle emissioni di CO2 e le norme Euro 7 lavorano di pari passo per assicurarci di ottenere più veicoli puliti e convenienti sulle strade europee”.

L’industria del settore però storce la bocca. L’Associazione dei costruttori europei d’automobili (Acea) ritiene che “la proposta rischia di rallentare il passaggio al trasporto a emissioni zero”. A detta di Oliver Zipse, presidente di Acea e amministratore delegato di Bmw, “il vantaggio ambientale della proposta della Commissione è molto limitato, mentre aumenta notevolmente il costo dei veicoli”.

L’esecutivo comunitario non nasconde che sulla scia delle nuove proposte si prevede “un moderato impatto” sui costi delle auto, stimato tra i 90 e 150 euro, e sul costo di autobus e camion, stimato a circa 2.600 euro. Allo stesso tempo, però, prevede ritorni per l’industria. Da una parte, il passaggio a nuovi testi più moderni e digitali “si tradurrà in una diminuzione dei costi di conformità e degli oneri amministrativi per l’industria automobilistica”. Dall’altra parte ci sono opportunità di mercato, in particolare sul fronte dell’esportazione, visto che “diversi paesi al di fuori dell’Ue, come Australia, Brasile, Cina o India, tendono a basare le proprie regole sulle norme sulle emissioni dell’euro”.

Anche sui test, però, Acea ha qualcosa da dire. Perché la nuova proposta introduce nuove modalità di misurazione delle performance di scarico. “Ci si concentra su condizioni di guida estreme che non hanno quasi alcuna rilevanza nella vita reale”, sostiene l’ad dell’associazione dei produttori di quattro ruote. Una visione che va a sbattere contro quella di Bruxelles. “Avremo test delle emissioni più precisi che riflettano le condizioni di guida reali”, sostiene Timmermans. L’Euro 7 rischia dunque di riprodurre scontri e divisioni politiche tutte europee, come già avvenuto per la messa al bando dei motori tradizionali dal 2035.