Novità in arrivo per i bonus per le ristrutturazioni edilizie

Novità in arrivo per i bonus per le ristrutturazioni edilizie e agevolazioni fiscali legate alle abitazioni con la Legge di Bilancio 2025. La manovra conferma anche per il 2025 la detrazione del 50% sulle spese di ristrutturazione della prima casa. Questa agevolazione è applicabile su un limite di spesa di 96.000 euro per unità immobiliare e va ripartita tra i soggetti che partecipano alla spesa.

Per le seconde case, invece, la detrazione scenderà al 36%, con un tetto massimo di 48.000 euro per immobile. Dal 2028 al 2033, la detrazione si ridurrà ulteriormente al 30%.

“Confermata anche la proroga del bonus mobili, con una detrazione Irpef calcolata su un importo massimo di 5.000 euro per l’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici legati a interventi di ristrutturazione. La detrazione – evidenzia Alfredo Accolla, consigliere d’amministrazione della Cassa di previdenza dei ragionieri e degli esperti contabili – è ripartita in dieci quote annuali di pari importo. I pagamenti devono essere effettuati tramite bonifico o carta di debito/credito”.

Sospeso, per il momento, il bonus verde.

“Rimarrà invariato il bonus per le barriere architettoniche, che prevede una detrazione Irpef del 75% sulle spese sostenute per l’eliminazione delle barriere – prosegue Accolla – applicabile su un limite di spesa tra 30.000 e 50.000 euro, variabile in base all’edificio”.

Infine, dal 2025, il nuovo sistema di quoziente familiare introdurrà una modulazione delle detrazioni in base al reddito familiare e al numero di figli a carico. I tetti di detraibilità saranno variabili in base a tre fasce di reddito: fino a 50.000 euro; tra 50.000 e 100.000 euro; oltre 100.000 euro.

L’edilizia verde apre a opportunità da 1,8 trilioni di dollari al 2030

Un nuovo rapporto del World Economic Forum delinea una roadmap per la trasformazione del settore edilizio globale per combattere il cambiamento climatico e proteggere la biodiversità. In un contesto di rapida urbanizzazione a livello mondiale, guidata principalmente dalle economie emergenti, il rapporto presenta un’argomentazione tempestiva per la decarbonizzazione del settore, mostrando come questa possa generare significativi guadagni economici per chi la adotta per tempo e un impatto ambientale positivo per tutti.
Verso le catene di valore dell’edilizia verde‘, pubblicato in collaborazione con il Boston Consulting Group (BCG), identifica 11 leve strategiche di transizione lungo l’intera catena del valore degli edifici. Queste leve, se combinate, potrebbero sbloccare oltre l’80% del potenziale di abbattimento del settore e aprire un’opportunità di mercato da 1.800 miliardi di dollari, secondo la nuova ricerca.

La nuova frontiera della crescita e della competitività per gli operatori del settore edilizio consisterà nello sviluppo di materiali, nella progettazione di metodi di costruzione e nel raggiungimento di risultati operativi a zero emissioni di carbonio, positivi per la natura e resistenti agli shock climatici estremi, promuovendo al contempo il benessere della comunità e le connessioni tra le persone“, spiega Gim Huay Neo, direttore generale del World Economic Forum.

Gli edifici sono responsabili del 37% delle emissioni globali di anidride carbonica (CO2) e il 34% delle specie terrestri sta subendo una perdita di habitat a causa dello sviluppo urbano. Con la rapida urbanizzazione, soprattutto nelle economie emergenti, che si prevede continuerà nei prossimi decenni, il rapporto richiede un approccio globale e olistico alla transizione verde lungo tutta la catena del valore globale del settore edilizio e l’intero ciclo di vita degli edifici, compresa la costruzione, l’uso e la fine del ciclo di vita.

Il rapporto individua quattro caratteristiche di una visione olistica per gli edifici verdi: Net zero, ridurre al minimo le emissioni nell’intero ciclo di vita attraverso materiali e tecnologie innovative; Nature positive, migliorare le prestazioni ambientali degli edifici integrando gli elementi naturali; Resilienza, massimizzare la capacità degli edifici di resistere a condizioni meteorologiche estreme e alla volatilità del clima; Orientamento al benessere: aumentare il benessere fisico e mentale degli occupanti, migliorano lo sviluppo della comunità e garantiscono l’accesso a tutti.

La complessità della catena del valore dell’edilizia richiede che gli attori a monte e a valle lavorino insieme su azioni abilitanti come l’allineamento degli standard e l’innovazione tecnologica“, commenta Yvonne Zhou, Managing Director e Senior Partner del BCG. “Solo attraverso questa collaborazione le 11 leve potranno essere pienamente sbloccate“.

Per realizzare questa visione, è necessario affrontare diversi fattori abilitanti critici. Tra questi, le politiche di regolamentazione e gli standard industriali, i dati e le tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale, i biomateriali, i finanziamenti e il sostegno all’aggiornamento professionale.

Come mercato edilizio più grande del mondo e con più della metà della capacità produttiva globale di molti materiali da costruzione, la Cina ha un ruolo importante nella decarbonizzazione dell’industria edilizia, secondo il rapporto. La transizione verde della catena del valore dell’edilizia cinese non solo creerà valore e nuove opportunità di business per gli operatori del settore in Cina, ma potrebbe anche contribuire a catalizzare lo sviluppo e l’adozione di prodotti e servizi per l’edilizia verde a livello globale.
La Cina è il più grande mercato al mondo per la produzione e il consumo di materiali da costruzione“, scandisce Wu Yong, presidente dell’Associazione cinese per l’efficienza energetica degli edifici. “Dobbiamo agire rapidamente per poter sfruttare il notevole contributo della Cina all’ecologizzazione della catena del valore dell’edilizia globale“.

Il rapporto mette in evidenza casi di studio di aziende in diverse fasi della catena del valore, come sviluppatori immobiliari, studi di progettazione, fornitori di sistemi di gestione dell’energia e produttori di cemento. Presenta inoltre le migliori pratiche della Cina e di altre economie emergenti, come gli Emirati Arabi Uniti e il Brasile, nelle aree della produzione di materiali, della costruzione e delle operazioni, nonché gli strumenti politici che possono essere adottati o adattati da altri.

Innovativo e attento all’ambiente, è ‘griffato’ Italia il nuovo palazzo della City di Shanghai

Un palazzo di 16 piani caratterizzato da una lunga rampa da 1 chilometro in corten posizionata nella facciata ovest che costituisce un percorso di accesso ai vari piani, mentre due rampe a ovest e sud-est conducono ai garage sotterranei. Con queste caratteristiche è stata inaugurata a Shanghai la nuova sede dell’East China Electronic Power Design Institute, progettato dallo studio fiorentino di Archea Associati guidato dall’achistar Marco Casamonti, autore tra le altre cose del Viola Park, della cantina Antinori nel Chianti Fiorentino recentemente considerata la più bella del mondo, del nuovo stadio nazionale e della torre di Tirana, e che sta ultimando il Kiss bridge in Vietnam.

Il progetto mira a integrare le varie funzioni all’interno di un unico blocco in cui tutte le esigenze funzionali sono centralizzate, rendendo il progetto più economico ed efficiente. L’intervento ha voluto rispettare la scena esistente e rispondere alle caratteristiche del sito, tenendo conto del paesaggio urbano e dei requisiti di pianificazione generale. L’immobile si affaccia su due strade principali della città di Shanghai: Wuning Road a est e Zhongshan North Road (Inner Ring Elevated) a sud, posizione che gli conferisce il potenziale per diventare un punto di riferimento cittadino.

Il progetto mantiene due ingressi su Wuning Road utilizzati uno come accesso principale e l’altro come entrata secondaria per il traffico veicolare e pedonale. Elemento caratterizzante dell’intero edificio è una lunga rampa (1 km) in corten posizionata nella facciata ovest che costituisce un percorso di accesso ai vari piani, mentre due rampe a ovest e sud-est conducono ai garage sotterranei. L’edificio si sviluppa su sedici livelli fuori terra per una superficie di 50mila metri quadrati e due piani interrati di 25mila metri quadrati, per un totale di 75mila mq.

I primi piani ospitano molteplici funzioni: reception, sale riunioni, area espositiva, palestra, sala conferenze, archivio. I piani intermedi sono open space destinati ad aree di lavoro, mentre gli ultimi piani sono adibiti a uffici direzionali e sale riunioni. Il tetto, invece, ha funzione più ricreativa grazie alla presenza di un piccolo bar e di un giardino.

 

Photo credit: Jump comunicazione

Tutti i bonus edilizi del 2024. Ma dal 2025 calano gli sgravi per molte misure

Quali e quanti sono i bonus edilizi ancora disponibili nel 2024 e nel 2025? A fare una sintesi di cosa sarà possibile fare quest’anno è Confedilizia.

SUPERBONUS. Per quanto riguarda il Superbonus, quest’anno sarà attivo solo per alcuni soggetti tra cui i condominii e i proprietari di edifici da 2 a 4 unità immobiliari con aliquota al 70% (percentuale che cala al 65% nel 2025) e massimali diversi a seconda dello specifico intervento. Permane l’aliquota al 110% per gli interventi effettuati nei Comuni dei territori colpiti da eventi sismici verificatisi a far data dall’1.4.2009 dove sia stato dichiarato lo stato di emergenza (ex art. 119, comma 8-ter, d.l. n. 34/2020).

BONUS BARRIERE ARCHITETTONICHE. Il bonus per l’eliminazione delle barriere architettoniche sarà disponibile con una aliquota al 75%, con massimali diversi a seconda dello specifico intervento. Solo per il 2024 sarà inoltre possibile avvalersi, in alcuni casi, della cessione del credito e dello sconto in fattura.

BONUS CASA. Il bonus casa quest’anno avrà un’aliquota del 50% (che scende al 36% l’anno prossimo) e massimale di spesa pari a 96.000 euro per unità immobiliare (cifra che si abbassa a 48mila euro il prossimo anno).

BONUS MOBILI. Il bonus mobili con detrazione al 50% vede un massimale di spesa di 5000 euro, una misura che non è prevista il prossimo anno.

ECOBONUS. Per quanto concerne l’ecobonus l’aliquota nel 2024 sarà variabile dal 50% al 75% (percentuale che si ridurrà al 36% il prossimo anno). I massimali sono diversi a seconda dello specifico intervento, con un tetto a 48mila per unità immobiliare nel 2025.

SISMABONUS. Il sismabonus vede invece una detrazione variabile dal 50% all’85% con massimale di spesa pari a 96.000 euro per unità immobiliare: il prossimo anno l’aliquota cala al 36% e il limite di spesa scende a quota 48mila euro.

ECO-SISMABONUS. Infine gli Eco-sismabonus combinati sulle parti comuni edifici quest’anno vedranno un’aliquota variabile dall’80% all’85% con massimale di spesa pari a 136.000 euro per unità immobiliare, mentre il Bonus verde avrà quest’anno una detrazione al 36% e massimale di spesa pari a 5.000 euro per unità immobiliare. Entrambe le misure non sono previste nel 2025.

Varianti progettuali non sono problema per bonus

La presentazione di un progetto in variante alla comunicazione di inizio lavori asseverata (Cilas), o al diverso titolo abilitativo richiesto in ragione della tipologia di intervento edilizio da eseguire, non assume alcuna rilevanza né ai fini del periodo transitorio disciplinato dall’art.1, comma 894 della Legge n.197/2022, né per il blocco delle cessioni introdotto dal Dl n.11/2023.

“È opportuno ricordare infatti che l’articolo 119, comma 13-quinquies, del Dl n. 34/2020, nell’ammettere le varianti progettuali quale naturale eventualità, prevede espressamente che in caso di varianti in corso d’opera dall’altra – spiega Rosa Santoriello, consigliera d’amministrazione della Cassa dei ragionieri e degli esperti contabiliqueste sono comunicate alla fine dei lavori e costituiscono integrazione della Cila presentata. Dello stesso avviso anche la Circolare 27/E del 2023 secondo la quale, in caso di varianti in corso d’opera, queste possano essere comunicate alla fine dei lavori e costituiscono integrazione dell’originaria Cila presentata”.

“La verifica temporale necessaria per stabilire l’applicabilità delle deroghe alla cessione del credito previste dall’articolo 2, commi 2 e 3, del Dl. 11/2023, deve sempre avvenire con riferimento – prosegue Santoriello – nel caso del Superbonus, alla data di presentazione dell’originaria Cilas, negli altri casi, alla data di presentazione dell’originario diverso titolo abilitativo richiesto in ragione della tipologia di intervento da eseguire. In tutti i casi di interventi condominiali, indipendentemente dalla natura dell’agevolazione, con riferimento alla data della delibera di esecuzione dei lavori”.

Case green, Ue boccia edilizia italiana: fino a 3,7 milioni di edifici da ristrutturare entro il 2033

Nuovi edifici a zero emissioni dal 2030 e standard minimi (e comuni) di rendimento energetico per la ristrutturazione degli edifici esistenti in Europa. La proposta di revisione della direttiva sul rendimento energetico nell’edilizia (la cosiddetta EPDB – ‘Energy Performance of Building Directive’, parte del pacchetto sul clima ‘Fit for 55’), avanzata dalla Commissione europea il 15 dicembre 2021 è tornata a far parlare di sé in Italia, dove già prima di essere presentata aveva sollevato un’aspra polemica. Secondo le stime, basate sulla proposta della Commissione Ue che difficilmente rimarrà uguale dopo il negoziato con il Parlamento europeo e gli Stati membri, per l’Italia potrebbe significare dover ristrutturare al massimo tra 3,1 e i 3,7 milioni di edifici residenziali entro il 2033, degli oltre 12 milioni totali.

LA PROPOSTA. La revisione della direttiva è parte dei piani della Commissione Ue del ‘Fit for 55’, il pacchetto legislativo presentata a luglio 2021 per abbattere le emissioni del 55% entro il 2030, come tappa intermedia per la neutralità climatica al 2050. L’Ue prende atto del fatto che l’edilizia è responsabile del 40% dei consumi energetici d’Europa e del 36% dei gas a effetto serra provenienti dal settore energetico.
La proposta della Commissione Ue prende di mira gli edifici con le prestazioni energetiche peggiori, introducendo standard comuni minimi di performance energetiche sulla base dei quali costruire una classificazione che va dalla ‘A’ (gli edifici con gli standard migliori) a ‘G’, per quelli peggiori. Ci sono tempi diversi per gli immobili pubblici (come gli ospedali o gli uffici) e quelli residenziali, le case vere e proprie su cui in Italia si è concentrata di più la polemica. L’approccio che adotta la Commissione europea è quello della ristrutturazione degli edifici con le peggiori prestazioni energetiche, quindi quelli nelle classi “G” o “F”. Quanto agli edifici pubblici che hanno il livello di prestazione energetica più scarso “G” dovranno rientrare almeno nella classe superiore “F” entro il primo gennaio 2027 e di classe E entro il primo gennaio 2030. Per gli edifici residenziali, le case vere e proprie, i tempi si allungano e dovrebbero raggiungere la classe “F” entro il primo gennaio 2030 e la classe “E” entro il primo gennaio 2033.

Nello specifico, Bruxelles ha proposto di inserire nella classe G, il 15% degli edifici con le prestazioni peggiori. Nel caso italiano, questa classe si applicherebbe al 15% dei 12,2 milioni di edifici residenziali presenti in Italia, dunque circa 1,8 milioni di case e palazzi. Complessivamente, se la direttiva dovesse rimanere così come proposta dalla Commissione dopo il negoziato con Eurocamera e Consiglio Ue, l’efficientamento edilizio in Italia potrebbe riguardare tra i 3,1 e 3,7 milioni di edifici entro il 2033, anche se il calcolo potrebbe essere rivisto al ribasso viste le esenzioni previste nella proposta (come ad esempio quella per gli edifici storici e per le seconde case). Ad oggi, però, riuscire a stabilire i numeri è difficile, soprattutto perché è improbabile che il testo finale della direttiva sarà lo stesso della proposta originaria della Commissione.

I FONDI PER FINANZIARE LA TRANSIZIONE. Parte della polemica montata in Italia riguarda i costi di questa ondata di rinnovamento richiesta da Bruxelles, per la quale la Commissione Ue non ha previsto un fondo specifico. Agli Stati membri sarà richiesto di mettere a punto dei piani nazionali di ristrutturazione degli edifici, che saranno poi integrati in quelli nazionali di energia e clima (Pnec) in cui stabilire una roadmap con specifiche scadenze per raggiungere classi di rendimento energetico più elevate in linea con il loro percorso verso le emissioni zero al 2050.

Così come è difficile adesso calcolare quanti edifici potrebbero essere toccati dal rinnovamento, è difficile capire quanti soldi potrebbe avere a disposizione l’Italia. Uno degli strumenti finanziari dall’Ue che potrebbe essere usato è il Fondo sociale per il clima, uno dei pilastri del ‘Fit for 55’ pensato proprio per ammortizzare i costi della transizione. Nel complesso si tratterà di circa 86,7 miliardi di euro complessivi tra tutti e 27 da mobilitare tra 2026 e 2032, un fondo finanziato con parte delle entrate del secondo mercato del carbonio per trasporti ed edifici, parte della revisione Ets. Altre risorse, secondo Bruxelles, potrebbero arrivare dai fondi regionali e dal piano nazionale di ripresa e resilienza (pnrr) su cui gli Stati membri hanno piena responsabilità di come e dove indirizzare le risorse.

La polemica è rimontata in Italia con l’avvicinarsi del primo voto all’Eurocamera il prossimo 9 febbraio in commissione Industria, ricerca ed energia (Itre), dopo che gli Stati membri hanno trovato la loro posizione (stravolgendo la proposta della Commissione) a ottobre. Dopo l’adozione del mandato in plenaria, potranno iniziare i negoziati a tre con l’Eurocamera e gli Stati membri, per un accordo finale.

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Bce riduce consumi. Ma non può spegnere macchinette del caffè

Verde e sostenibile, anche più del dovuto. Tra risparmio energetico, riduzione degli sprechi idrici, impianti di riscaldamento e climatizzazione di nuova generazione, la Banca centrale europea porta l’agenda sostenibile dell’Ue in ufficio. L’Eurosistema non vuole certe dare il cattivo esempio quando si parla di transizione green, e gli edifici che ospitano i lavori del board, dei tecnici, degli analisti e dei funzionari si allineano alle nuove ambizioni dell’Ue. A cominciare dall’edificio Sonnemannstrasse 20, quello principale, nel quartiere Ostenda di Francoforte sul Meno, dove avviene la maggior parte dei lavori dell’istituzione comunitaria.

Inaugurato nel novembre 2014, supera del 29% i requisiti della direttiva federale tedesca sul risparmio energetico (“Energiesparverordnung”). Un immobile ancor più virtuoso del minimo richiesto grazie alla facciata del grattacielo che presenta un triplo strato ad alta efficienza energetica. Inoltre le facciate e il tetto della Grossmarkthalle sono isolati in modo efficiente dal punto di vista energetico così da non avere dispersioni né indurre ad aumentare la temperatura interna a seconda delle stagioni. All’interno a ventilazione naturale è assicurata da elementi di facciata azionabili, schermature solari elettriche e illuminazione a basso consumo energetico, fornendo condizioni di lavoro ottimali con la massima luce diurna. Ancora, è presente un sistema di raccolta del l’acqua piovana per l’alimentazione dei servizi sanitari così come l’irrigazione degli spazi verdi interni. Il calore in eccesso generato dal centro di calcolo non viene dissipato, bensì ri utilizzato per riscaldare gli uffici. La Bce ha inoltre provveduto a piantare alberi attorno all’edificio. Questo inverdimento dell’area intorno all’edificio principale si è aggiunto al la rete di parchi cittadini, contribuendo ad accrescere la superficie boschiva di Francoforte.

Prima di Grossmarkthalle tutto si svolgeva tra l’Eurotower e il Japan Center, nel centro della città, e che oggi forniscono quasi la metà dei posti di lavoro totali della Bce, ospitando il personale di supervisione bancaria. Nel 2020 l’Eurotower ha ottenuto la certificazione Gold nell’ambito dell’iniziativa Leadership in Energy and Environmental Design (Leed), grazie ai miglioramenti apportati alla sua infrastruttura tecnica tra il 2015 e il 2016. Tra questi si segnalano l’ installazione di sistemi di schermatura solare ad alta efficienza energetica, l’ isolamento del nucleo in calcestruzzo, l’installazione di nuove centrali termoelettriche combinate, il rinnovo degli impianti di condizionamento per ridurre consumi e migliorare l’efficienza energetica, oltre alla conversione degli impianti elettrici per gli uffici, oggi interamente a Led.

Tutti questi interventi rispondono all’obiettivo che la Bce si è data di ridurre del 20% i consumi energetici entro il 2030. Alla fine del 2021 il taglio registrato è del 16,1%, in linea con le politiche interne. Merito anche della politica per l’area parcheggi, dove si è deciso di mettere lampadine più tenui. Curiosità: tutte le macchinette del caffè presenti negli edifici della Bce non vengono spente mai. “Per ragioni di igiene non si può”, spiegano a Francoforte. Si è dunque provveduto a fare in modo che durante la notte e per tutto il week-end entrino in modalità ‘risparmio energetico’.

(Photo credits: Daniel ROLAND / AFP)

Antonio Buzzi

Federbeton: “Valorizziamo i rifiuti con combustibili solidi secondari”

Aumento dei costi dell’energia, impatto ambientale, emissioni di CO2, economia circolare. Di fronte a uno scenario mondiale che – complice la guerra in Ucraina – ha necessariamente dovuto accelerare su questi temi, si è tornato a parlare dei cosiddetti Css, cioè i combustibili solidi secondari, quella frazione di rifiuti solidi urbani o industriali che, opportunamente trattata, potrebbe essere utilizzata come fonte di energia invece di finire nelle discariche o negli inceneritori. Un argomento, questo, su cui Federbeton – associata di Confindustria che rappresenta la filiera del cemento e del calcestruzzo – punta da tempo. La situazione del settore non è delle più rosee, perché, dice a GEA Antonio Buzzi, vicepresidente di Federbeton, “arriva da una situazione di lunghi anni di forte calo dei consumi e delle produzioni di cemento e calcestruzzo“.

IL PESO DELLA CRISI ENERGETICA

Una discesa iniziata a metà degli anni 2000, complice una crisi finanziaria globale senza precedenti. Poi, un periodo di stabilità con alti e bassi (e circa 19 milioni di tonnellate di consumi, a fronte dei 45 del decennio precedente) seguito dalla pandemia e, ora, dalla guerra in Ucraina e dalle sue conseguenze sia sul fronte della produzione sia su quello dell’energia. Qualcuno la chiama la ‘tempesta perfetta’. E l’energia pesa, pesa tantissimo sul settore. “Le componenti energetiche – dice Buzzi – sono quelle che impattano di più sui nostri costi di produzione, sia quelle elettriche sia quelle derivate dai combustibili fossili“, tra cui il pet-coke, combustibile fossile che soddisfa l’80% delle necessità energetiche caloriche. Le aziende del settore, in un simile contesto di forte inflazione da costi e non da domanda, spiega il vicepresidente Buzzi, “hanno necessità di riportare un po’ di marginalità“.

RISORSA ‘A CHILOMETRI ZERO’

Ed è qui che si inseriscono i combustibili solidi secondari, anche perché “in Italia il fattore energetico è estremamente penalizzante per la mancanza di risorse interne a cui fare ricorso“. I Css sono una risorsa “quasi a chilometro zero“, spiega Buzzi, che offre “benefici ambientali” e, al tempo stesso, dà “agli imprenditori la possibilità di produrre in modo più competitivo, con dei costi inferiori“.

IL POSSIBILE UTILIZZO DEI CSS

Ma facciamo un passo indietro e proviamo a capire in che modo potrebbero essere riutilizzati. I rifiuti solidi urbani e quelli speciali subiscono alcuni trattamenti prima di essere indirizzati ai diversi impianti di smaltimento o riciclati. Ciò che resta e che non può essere recuperato in alcun modo finisce in discarica o negli inceneritori. Ecco da dove parte l’idea della circolarità: invece di bruciare i rifiuti senza alcun altro fine se non quello di liberarsene – è il ragionamento di Federbeton – si potrebbero utilizzare per produrre combustibile per i forni che servono alla produzione di cemento, sostituendo almeno in parte i prodotti petroliferi. Il funzionamento di questi impianti, infatti, richiede grandi quantità di energia per raggiungere elevatissime temperature e, ad oggi, è difficile pensare di ottenere le stesse prestazioni da fonti completamente green. Con l’energia termica si soddisfa il processo a caldo, quello che serve a ‘cuocere’ la materia prima a temperature comprese tra i 950 e i 1450 gradi e, dice Buzzi, “con le fonti green sarebbe molto complesso perché i nostri processi sono continui, h24, e le rinnovabili – almeno per ora – sono discontinue“. L’energia elettrica, invece, serve prevalentemente alle operazioni di macinazione prima e dopo la cottura. In questo caso una parte può essere sostituita da fonti rinnovabili “ed è proprio in questa direzione che si stanno muovendo molti operatori del settore“, anche grazie alle recenti semplificazioni introdotte dal Governo.

IL PROBLEMA DELLE EMISSIONI

E gli effetti sul pianeta? Una delle obiezioni degli ambientalisti è che bruciare i rifiuti è in ogni caso dannoso. Ma l’utilizzo dei combustibili solidi secondari negli stabilimenti, spiega Buzzi, “non aumenta le emissioni. Anzi, per alcuni parametri si hanno lievi miglioramenti e si riducono significativamente le emissioni di CO2. E allora perché non possiamo usarli di più? Altri Paesi ne fanno un ampio utilizzo, specie laddove le politiche industriali sono più lungimiranti e perché forse c’è una maggiore comprensione di questa pratica“.

In effetti, è fuori Italia che i combustibili solidi secondari sono impiegati maggiormente nell’industria e, in particolare nei cementifici, raggiungendo un tasso del 60%, a volte anche dell’80%. La Germania, ad esempio, è al 70%. Nel nostro Paese la sostituzione dei prodotti petroliferi tramite Css è limitata a circa il 21%. Secondo la stima elaborata dal Laboratorio REF Ricerche, un tasso di sostituzione del 66% in Italia porterebbe al taglio di 6,8 mln di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera, grazie al mancato conferimento in discarica che verrebbe sostituito dalla valorizzazione energetica in cementeria. Non si tratta di negare le emissioni prodotte dalla combustione, è il ragionamento di Federbeton, ma di “riqualificare” ciò che comunque finirebbe in atmosfera senza portare alcun beneficio, restituendo, inoltre, competitività. Attraverso la sostituzione dei combustibili fossili con il Css, infatti, si annulla l’impatto emissivo della CO2 del combustibile fossile sostituito, sottraendo nello stesso tempo i rifiuti non riciclabili ad altri trattamenti che comunque darebbero luogo a emissioni di CO2. Come dire: finché non si trova una soluzione globale al problema della spazzatura non riciclabile, sfruttiamo ciò che abbiamo per ottenere benefici ambientali.

I LIMITI NORMATIVI

Dal punto di vista normativo, i limiti emissivi concessi agli inceneritori e alle cementerie sono simili per molti parametri. Differiscono unicamente per alcuni parametri in ragione del processo produttivo e sempre nel rispetto delle Bat (Best Available Techniques, ovvero migliori tecnologie di settore disponibili). Spesso poi, dove autorizzate all’impiego dei CSS “le cementerie hanno limiti più restrittivi rispetto a quanto non avrebbero con l’utilizzo del solo fossile“.

COME NASCE IL CSS

Oggi l’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti urbani e più di 150 milioni di rifiuti speciali, che vengono processati e trattati negli impianti gestiti prevalentemente dal settore pubblico. Una parte, poi, è convogliata in altre strutture che procedono alla loro biostabilizzazione per abbattere la carica batterica. Il materiale residuo viene poi triturato e declorurato trasformandosi in ‘coriandolato’. È il Css. Secondo le analisi di Federbeton, sarebbe possibile impiegare almeno 1 milione di tonnellate all’anno di questo materiale nelle cementerie, cioè circa il 10% dei rifiuti urbani indifferenziati. In realtà, come spiega Margherita Galli, referente Ambiente ed economia circolare Federbeton, “se ne usano appena 230mila tonnellate. Parlando, invece, di combustibili alternativi nel loro complesso siamo a circa 420mila tonnellate“. Ma quali sono gli altri combustibili alternativi utilizzati? Combustibili derivati da plastiche, gomme, pneumatici e fanghi di acque reflue.

LA VOLONTÀ POLITICA

Per aumentare il recupero dei Css nelle cementerie servono “una maggiore conoscenza di questa pratica – spiega Buzzi – più trasparenza nel raccontare l’impatto dei materiali nel ciclo produttivo, la condivisione delle informazioni con i portatori di interesse. Abbiamo tutti gli strumenti per poterlo fare, compresi quelli normativi. Gli enti autorizzativi conoscono molto bene questa possibilità, ma ci vuole la volontà politica e delle amministrazioni locali“.

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UniPd, Human in the building: Uomo al centro dell’edificio

Immaginiamo un grande ufficio open space. In inverno l’intera stanza viene riscaldata, in estate viene raffrescata. Ma se potessimo invece regolare in maniera indipendente temperatura e comfort di ogni singola postazione di lavoro? Dal punto di vista tecnico si può, grazie all’impiego di Pcs (Personal comfort systems), ovvero dispositivi e sistemi in grado di intervenire soltanto sulle zone occupate dello spazio all’interno dell’edificio, mantenendo il volume rimanente a uno stato meno riscaldato o meno climatizzato.

Per il momento, si tratta di sistemi che ancora non svolgono un ruolo chiave come strumento integrativo per il comfort negli edifici. Ma è una direzione in cui la ricerca si sta indirizzando, come spiegano Luca Schenato, professore di ingegneria dell’informazione all’università di Padova, e Wilmer Pasut dell’università Ca’ Foscari di Venezia. I due ricercatori sono infatti tra i proponenti di un progetto di ricerca (“Human in the building”) che punta a identificare e testare quello che potrebbe diventare un paradigma futuro per la progettazione e il controllo del comfort termico negli edifici. “L’idea è mettere l’uomo sempre più al centro dell’edificio” spiega Luca Schenato, dell’università di Padova, “e la chiave di questa evoluzione, tutta da esplorare, è l’analisi dei moltissimi dati che possiamo raccogliere dall’ambiente”.

In questa proiezione, i dati vengono raccolti a partire dai Pcs. Può trattarsi di una sedia capace di riscaldarsi a seconda dei nostri desiderata, oppure di tecnologie foot warmer da installare sotto la scrivania, fino al classico (ed efficientissimo) ventilatore da tavolo. Portando il sistema di raffrescamento e riscaldamento sempre più vicino alle persone, insomma, sarebbe possibile raggiungere due vantaggi importanti. “Il primo è legato alla personalizzazione” spiega Schenato, “ogni utente è infatti libero di controllare i propri Pcs in base alla propria percezione del comfort, che come sappiamo non è uguale da persona a persona”.

Il secondo impatta invece sui consumi energetici. L’analisi dei parametri scelti dagli utenti, infatti, avrebbe come scopo la possibilità di regolare l’impianto di riscaldamento, ventilazione e condizionamento dell’aria dell’edificio in maniera più efficiente. “Facendo un esempio a spanne in termini di energia utilizzata” spiega Wilmar Pasut, dell’università di Venezia, “l’impiego di dispositivi che permettono di settare la temperatura di una stanza in estate a 29 gradi invece che 26, otterremo un risparmio complessivo che può andare dal 15 al 20%”. Il tutto utilizzando sistemi Pcs pensati per consumare molto poco: “Una sedia riscaldante/raffrescante” continua Pasut, “può consumare circa 16 watt”.

Tra gli impatti legati al metodo proposto nel progetto di ricerca, viene inoltre sottolineato il potenziale di riduzione delle emissioni di anidride carbonica: “Le attuali attività per ridurre il consumo di energia e le emissioni di CO2 degli edifici”, spiegano infatti i ricercatori, “si concentrano su tecnologie che non incorporano il potenziale di risparmio energetico dell’ambiente interno e l’interazione tra gli occupanti e i sistemi”.

Ma come può avvenire l’integrazione fra i Pcs, i sistemi Hvac, e il sistema di automazione degli edifici? L’integrazione tra i sistemi di comfort personale e il sistema di automazione degli edifici sarà possibile grazie ai servizi resi disponibili da un’infrastruttura di rete che, a sua volta, fa parte di un ecosistema Internet of Things. “La criticità sarà nei sistemi di raccolta dati delle singole aziende che producono o produrranno i dispositivi” spiega Luca Schenato, “spesso si tratta infatti di sistemi proprietari. Ma la spinta della ricerca scientifica punta alla creazione di protocolli o standard comuni. I dati, a quel punto, potranno essere raccolti in un database interno all’edificio o in cloud”.

Un trend da esplorare, insomma, che potenzialmente può trovare impiego non soltanto negli uffici, ma anche in altri luoghi – soprattutto di grande dimensione – dove miglioramenti nella gestione del comfort può impattare sui consumi energetici,come per esempio palestre, teatri, edifici pubblici” dice Wilmer Pasut. Il primo passo, come spiega Luca Schenato, “potrebbe essere studiare un edificio in cui non possiamo controllare la temperatura dell’impianto generale, e testare la raccolta dati dei Pcs per osservare trend e sviluppare elaborazioni che ad oggi nessuno ha mai effettuato”. Le sfide successive porterebbero poi a incrociare i risultati con la gestione del controllo degli impianti Hvac di un edificio fino a controllarli in funzione dei dati.

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Italia non è ancora Smart Building, lo dice un report del Poli Milano

Lo smart building viene spesso utilizzato come parola-simbolo dell’edilizia del futuro: più sostenibile in termini di consumi, più attenta all’uso delle rinnovabili, e capace di migliorare comfort e salute degli abitanti. Il tutto grazie all’attivazione di sistemi automatici di gestione. Ma nella reale applicazione, in Italia, siamo ancora indietro, ed è sempre più urgente mettere a terra questo potenziale. Soprattutto considerando l’impatto degli edifici sull’ambiente, che pesa – stime del Politecnico di Milano – il 40% dei consumi energetici complessivi.

LA MATURITA’ TECNOLOGICA DEGLI SMART BUILDING

L’Italia non è un paese per gli smart building (ma non lo è ancora nemmeno l’Europa). A fine 2021, un report Energy&Strategy della school of management del Politecnico di Milano ha stimato il livello di maturità tecnologica degli smart building nel nostro paese. Il risultato? In ambito residenziale l’85% degli edifici intelligenti è caratterizzato da un limitato numero di device e tecnologie, gestite fra l’altro da piattaforme diverse fra loro.

In uno smart building, gli impianti sono gestiti in maniera intelligente e automatizzata attraverso un’infrastruttura di supervisione e controllo capace di minimizzare il consumo energetico e garantire le migliori condizioni per gli occupanti, assicurandone poi l’integrazione con il sistema elettrico di cui l’edificio fa parte. “Uno smart building completo, però, è quello che riesce ad avere un layer di intelligenza comune che gestisce e automatizza tutti i componenti” spiega Federico Frattini, vicedirettore dell’Energy&Strategy. “Nel residenziale soltanto il 3% degli edifici risponde a queste caratteristiche, e il dato sale a circa il 20% nel terziario”. Continua Frattini: “Pesano ancora i costi infrastrutturali, che rendono necessari investimenti importanti. E, soprattutto, la mancanza di una vera standardizzazione dei componenti, specialmente digitali”.

LA RIPRESA ATTESA DOPO IL COVID

La pandemia non ha aiutato la diffusione di edifici smart. Il trend degli investimenti relativi al 2020 (gli ultimi dati al momento elaborati dalla school of management) aveva infatti restituito un calo dell’11% rispetto ai dati pre-covid. Escludendo le superfici opache, tra residenziale e terziario, siamo fermi a 7,67 miliardi di euro investiti nell’ambito dell’edilizia intelligente.

Ancora presto per conoscerne l’evoluzione, “ma se facciamo un parallelo con l’andamento degli investimenti del settore industriale nell’ambito dell’efficienza energetica” spiega Federico Frattini, “possiamo immaginare per gli smart building uno scenario analogo, con una crescita sul 2020 vicina al 10%, senza però ancora arrivare ai livelli pre-pandemia”.

È comunque vero che il ruolo centrale della casa fra lockdown e smart working ha ridato attenzione alla qualità dell’abitare, tanto è vero che, a differenza di quanto accade per gli edifici, ha ripreso a correre il mercato della ‘smart home‘ (in questo caso i dati vengono dell’osservatorio Internet of Things del Politecnico), con un +29% nel 2021 guidato dall’acquisto di elettrodomestici connessi, smart speaker, soluzioni per la sicurezza, caldaie, termostati e condizionatori connessi per riscaldamento e climatizzazione. “In generale, anche nelle tecnologie per il building ci aspettiamo una crescita di alcune tecnologie con livelli di investimenti consistenti, come sistemi per il monitoraggio e l’ottimizzazione dell’aria, serrature intelligenti, o sistemi di videosorveglianza”, spiega Frattini, “ma va sempre considerato il freno dovuto all’oscillazione dei prezzi che ha colpito il settore dei microchip e dell’elettronica”.

IL VOLUME D’AFFARI NEGLI SMART BUILDING

La ricerca verso una gestione sempre più efficiente dell’energia guida gli investimenti negli smart building in Italia. Degli oltre 7 miliardi e mezzo investiti, il 63% viene dall’implementazione di ‘building device and solutions’, vale a dire tecnologie e impianti per la generazione di energia, per l’efficienza energetica, safety&security e comfort. Di tutta la categoria, oltre la metà del valore investito (circa 4,8 miliardi di euro) è relativa a tecnologie per la produzione di energia elettrica e produzione efficiente di energia termica.

Nel caso della generazione di energia termica, sono i sistemi di climatizzazione e le pompe di calore a rappresentare la maggioranza degli investimenti. Mentre “nell’ambito della generazione elettrica il fotovoltaico è la tecnologia più diffusa (94% del totale), spinta anche da costi sempre minori che la rendono sostenibile anche senza incentivi” spiega Federico Frattini. “Ma la crescita più interessante è nei sistemi di accumulo associati al fotovoltaico, anche nel residenziale. Accoppiare batterie a un impianto, infatti, permette di aumentare la quota di autoconsumo dal 30% fino al 70-80%. Un dato importante in un momento di aumento dei prezzi dell’energia”. Il restante 37% degli investimenti totali, invece, è riferito agli attuatori e alla sensoristica per la raccolta dati dagli impianti, oltre ai software che compongono la piattaforma di controllo e gestione e l’infrastruttura di rete.

UN CAMBIO DI PASSO

Ma su quali leve dovremmo intervenire per immaginare un buon livello di maturità tecnologica negli smart building italiani, e avvicinarci di conseguenza agli obiettivi europei di decarbonizzazione? “Gli stanziamenti del Pnrr sono un buon inizio ma non possono bastare per raggiungere gli obiettivi richiesti dal pacchetto Pniec e dal Fit for 55” dice Federico Frattini, “soprattutto perché il tasso di ristrutturazione è ancora troppo basso”. Gli edifici italiani registrano infatti un consumo di energia termica più alto della media europea. “Serve un passo diverso, insomma, e non solo nel residenziale” continua Frattini, “promuovendo interventi importanti anche negli edifici della pubblica amministrazione”.

Un aiuto in più potrebbe arrivare dall’Europa, con l’avvio dello ‘Smart readiness indicator’, l’indice comune dell’Unione europea introdotto per valutare la predisposizione degli edifici a utilizzare tecnologie intelligenti. “Molto dipenderà da come verrà implementato” conclude Frattini, “ma potrebbe dare un incentivo importante a predisporre edifici all’uso di tecnologie smart per migliorare la qualità complessiva della vita e del lavoro nelle strutture”. Con effetti sulla qualità della vita e sull’ambiente.