Rigassificatore

Gas, i consumi Ue tra agosto e novembre scendono del 20,1%. Italia stop a -15%

Da gennaio a oggi le esportazioni di gas di Gazprom verso i Paesi extra Csi (l’ex Unione Sovietica) sono state pari a 97,8 miliardi di metri cubi, in calo del 45,1% (di 80,2 miliardi di metri cubi) rispetto allo stesso periodo del 2021. In particolare, quelle verso l’Europa sono crollate di oltre l’80%: a novembre la Ue ha importato 1,86 miliardi di metri cubi rispetto ai 10,09 miliardi del novembre 2021. E con meno gas sono precipitati i consumi di metano nell’Unione: -20,1% nel periodo agosto-novembre, rispetto al consumo medio negli stessi mesi tra il 2017 e il 2021, come ha certificato Eurostat.

L’utilizzo di gas è diminuito nella maggior parte degli Stati membri. In 18 Paesi è sceso oltre l’obiettivo del 15% – fissato dal regolamento Ue 2022/1369 del Consiglio sul coordinamento le misure di riduzione della domanda di gas, parte del piano REPowerEU per porre fine alla dipendenza dell’Ue dai combustibili fossili russi – e in alcuni con un margine superiore al 40%. I consumi sono diminuiti maggiormente in Finlandia (-52,7%), Lettonia (-43,2%) e Lituania (-41,6%). Sei Stati membri invece, pur riducendo la propria domanda di gas, non hanno ancora raggiunto l’obiettivo del 15%. Al contrario, i consumi sono aumentati a Malta (+7,1%) e in Slovacchia (+2,6%). L’Italia si colloca attorno a un -15%, in linea con gli obiettivi del regolamento Ue, compiendo uno sforzo superiore ad altri Stati visto che il metano è necessario per produrre quasi metà dell’energia elettrica nella penisola.

L’uso di gas è stato inferiore alla media degli ultimi anni già da inizio anno. Osservando i dati mensili da gennaio a novembre, rivela Eurostat, i consumi sono stati costantemente al di sotto della media 2017-2021 dei rispettivi mesi di quegli anni. Tra gennaio e luglio 2022, il consumo di gas naturale nella Ue è variato tra 1 938 petajoule (PJ) a gennaio, un mese stagionalmente più freddo con un consumo più elevato, e 785 PJ a luglio, indicando una diminuzione mensile complessiva, anche prima dell’obiettivo europeo del 15%. Questo calo è stato maggiore a maggio (-12,9% rispetto alla media di maggio del periodo 2017-2021 di 956 PJ) quando sono stati consumati 833 PJ, per poi diminuire del 7,1% a giugno (775 PJ vs 833 PJ). La riduzione è balzata al 13,9% in agosto, 14,2% in settembre, 24,2% in ottobre e 23,6% in novembre.

Il riempimento degli stoccaggi per oltre il 95% e la riduzione appunto del 23-24 per cento dei consumi a ottobre e novembre hanno permesso al prezzo del gas di scendere ad Amsterdam fin sotto i 100 euro per megawattora, una soglia psicologica che il Ttf ha testato anche in queste ore, considerando che un clima più mite e ventoso in gran parte d’Europa ha permesso di utilizzare più rinnovabili (oltre che il carbone) per produrre energia elettrica. Il prezzo del metano che ovviamente influisce sulle bollette di aziende e famiglie rimane tuttavia ancora fuori media a confronto con gli ultimi decenni. Per questo, altro risvolto della medaglia dei minori consumi di gas, la produzione industriale europea è in contrazione da vari mesi e i consumi sono in calo. Per questo la Bce ha avvisato di un Pil negativo in questo trimestre e nei primi mesi del 2023. Meno gas, più recessione.

L’Inflazione scende in Europa, in Italia invece no. Ecco spiegato il perché

Stabile a novembre l’inflazione in Italia anche se rimane a livelli che non si vedevano dal 1984.
“Dopo la brusca accelerazione di ottobre, a novembre l’inflazione, che rimane a livelli che non si vedevano da marzo 1984 (quando fu +11,9%), è stabile. I prezzi di alcune componenti, che ne avevano sostenuto l’ascesa, tra cui gli energetici non regolamentati e in misura minore gli alimentari non lavorati, rallentano su base annua, mentre quelli di altre componenti continuano ad accelerare, tra cui gli energetici regolamentati e in misura minore gli alimentari lavorati. Anche i prezzi del carrello della spesa accelerano ma di poco. Se nei prossimi mesi continuasse la discesa in corso dei prezzi all’ingrosso del gas e di altre materie prime, il fuoco dell’inflazione, che ha caratterizzato sin qui l’anno in corso, potrebbe iniziare a ritirarsi”. Commenta così l’Istat la stima preliminare flash sull’inflazione, che ha visto i prezzi crescere dello 0,5% rispetto ad ottobre, contro attese di un +0,2%, e dell’11,8% nei confronti di novembre 2021, la stessa percentuale dello scorso mese. Per le associazioni dei consumatori una famiglia tipo spenderà mille euro in più solo per il cibo, mentre le organizzazioni imprenditoriali lanciano l’allarme consumi in vista del Natale ma soprattutto verso il 2023.
Secondo l’Istat l’aumento mensile del tasso d’inflazione è dovuto prevalentemente ai prezzi dei Beni energetici regolamentati (+3%) – nonostante la diminuzione nel mercato tutelato delle bollette del gas, – degli Energetici non regolamentati (+2,2%), degli Alimentari lavorati (+1,5%) e dei Beni non durevoli (+0,6%). In calo invece, a causa per lo più di fattori stagionali, i prezzi dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (-0,4%) e dei Servizi relativi ai trasporti (-0,2%). Anno su anno continua a essere più caro il famoso carrello della spesa: i prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona registrano una accelerazione su base tendenziale (da +12,6% a +12,8%), mentre rallentano, al contrario, quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +8,9% a +8,8%). E sempre 2022 su 2021 va segnalato che l’inflazione ‘di fondo’, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, accelera da +5,3% a +5,7% e quella al netto dei soli beni energetici sale da +5,9% a +6,1%.
Stabili congiunturalmente i prezzi dei Beni alimentari non lavorati (da +12,9% a +11,3% anno su anno), a causa della decelerazione dei vegetali (da +25,1% a +14,8%; -4,9% su base mensile), mentre accelerano quelli della frutta (da +6,4% a +6,9%; +3,4% rispetto a ottobre).
Andamenti in accelerazione si osservano per i prezzi del gas di città e nel mercato tutelato (da +3,4% a +13,4%; +9,8 rispetto al mese precedente), per i prezzi degli alimentari lavorati (da +13,3% a +14,4%; +1,5 su base mensile) e di ristoranti e bar (da +6,6% a +7,3%; +0,9% il congiunturale).
Proprio l’incremento di quasi il 10% del prezzo del gas rispetto ad ottobre, nonostante il crollo della quotazione all’ingrosso della materia prima e l’abbassamento delle bollette nel mercato tutelato, fa sì che in Italia l’inflazione continui ancora a salire. Nel resto d’Europa invece, mese su mese, il caro-vita è sceso nei principali Paesi: -0,5% in Germania, +0,4% in Francia (con un annuale però di +6,2% rispetto al +11,8% italiano) e -0,1% in Spagna.
Infatti l’Eurostat certifica che su base mensile l’indice dei prezzi al consumo nella Ue ha mostrato una flessione dello 0,1% rispetto al +1,5% dello scorso mese, mentre anno su anno l’inflazione è salita del +10% contro attese ferme al +10,4% e un dato precedente al +10,6%.

co2

Ue sempre più insostenibile: aumentano le emissioni di Co2

L’Ue del Green Deal aumenta la sua insostenibilità. Questo almeno suggeriscono i numeri. Nel secondo trimestre del 2022 l’economia a dodici stelle nel suo complesso ha liberato in atmosfera 905 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (CO2-eq), una quantità di gas a effetto serra superiore del 3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Attenzione, però. Eurostat, nel diffondere i numeri, sottolinea come questo incremento tra aprile-giugno 2021 e aprile-giugno 2022 sia il risultato della ‘riaccensione’ dell’economia dei Ventisette dopo lo stop dovuto alla crisi sanitaria. “L’aumento documentato è in gran parte correlato all’effetto della ripresa economica a seguito del forte calo dell’attività dovuto alla crisi Covid-19”.

Ue dunque con più CO2 prodotta, ma rispetto ad una situazione che vedeva il tessuto produttivo non produrre e, quindi, non emettere. Il dato del secondo trimestre 2022 rileva in realtà una riduzione in termini di insostenibilità. Tra gennaio e marzo l’Ue ha prodotto 1.011.276.753 tonnellate di CO2 equivalente. Tra aprile e giugno si registra dunque una riduzione di 106mila tonnellate di anidride carbonica. Se poi si considera il quarto trimestre 2021, dove l’economia Ue ha sprigionato 1.026.134.414 tonnellate del gas clima-alterante, i 905 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti tra aprile e giugno scorsi segnano un -121mila tonnellate nel raffronto.

Dunque l’Ue ha iniziato ad emettere di più, per poi iniziare una parabola discendente nel primo trimestre dell’anno in corso e confermata, ancora di più, nel secondo trimestre. Su questa tendenza di riduzione l’istituto di statistica europeo non si pronuncia, ma va considerato come a fine febbraio sia iniziata l’aggressione russa all’Ucraina, tuttora in corso. Possibile che le ricadute economiche abbiano iniziato a ‘spegnere’ nuovamente la produzione. Le recenti previsioni economiche della Commissione europea del resto confermano come la guerra abbia fermato la crescita.
Ad ogni modo tra aprile e giugno 2022 i settori economici responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra sono stati manifatturiero (23%), fornitura di energia elettrica e gas (19%) e famiglie (17%), seguiti da trasporti e stoccaggio (14%) e agricoltura (13%).

grano

Mercato instabile e prezzi alle stelle: l’agricoltura è sempre più cara

Il problema è noto da tempo e sia gli agricoltori, sia i consumatori lo stanno sperimentando direttamente: le conseguenze della guerra russa in Ucraina, con il blocco delle esportazioni dai porti del Mar Nero, sta avendo un impatto significativo sui prezzi dei prodotti agricoli e alimentari in tutto il mondo, e l’Europa non fa eccezione. Ma a certificare e quantificare questo rincaro con i dati dell’economia dell’Unione europea è Eurostat, che rileva “l’ulteriore instabilità dei mercati, con forti aumenti dei prezzi dei principali prodotti e input agricoli” a causa dell’invasione dell’Ucraina messa in atto dal Cremlino: “Ciò ha disturbato in modo significativo i mercati agricoli globali, soprattutto perché Russia e Ucraina sono stati grandi esportatori di cereali, grano, mais, semi oleosi e fertilizzanti“, si legge nella nota di Eurostat a corredo dei dati pubblicati il primo luglio.

A spiccare è l’aumento del prezzo medio della produzione agricola nei Paesi membri dell’Unione Europea, pari al 19,9% dal primo trimestre del 2021 allo stesso periodo di quest’anno, con particolare attenzione per i cereali (+41,5%), i semi oleosi (+51,7%), i bovini (+24,2%), il pollame (+22,2%) e il latte (+21,4%). La tendenza al rialzo dei prezzi era già stata rilevata nell’ultimo trimestre dello scorso anno, ma l’accelerazione è stata sensibile nei primissimi mesi di quest’anno, in particolare dopo il 24 febbraio: rispetto all’ultimo trimestre del 2021, sul territorio comunitario si è assistito a un ulteriore rincaro del 6%, con i picchi registrati in Lituania (+18,1%), Romania (+14,4%) e Paesi Bassi (+13,9%). L’Italia rimane invece in linea con la media Ue, al +5,4%.

A questo si deve aggiungere il parallelo aumento dei prezzi dei beni e servizi attualmente consumati in agricoltura (ovvero i fattori produttivi non legati agli investimenti). Comparati con i dati di un anno fa, nel primo trimestre 2022 è stato registrato un rincaro del 27%, causato dal quasi raddoppio dei prezzi dei fertilizzanti (+96,2%) e di poco più della metà per l’energia e i lubrificanti (+55,6%), senza dimenticare i mangimi (+22,9%). Che la tendenza sia esponenziale dal momento dello scoppio della guerra in Ucraina lo conferma il confronto con gli ultimi tre mesi del 2021. A livello Ue l’aumento è del 9,5% e tutti i Paesi membri l’hanno sperimentato in diversa misura: se in Italia si attesta al +8%, è ancora la Lituania a registrare il livello più alto (+24,5%), seguita da Lettonia (+18,9%) e Slovacchia (+14,6%), mentre i tassi di incremento più bassi sono stati registrati a Malta (+4,7%), Slovenia e Portogallo (entrambi +6,2%).

(Photo credits: Oleksandr GIMANOV / AFP)

iaea

Crescono gli investimenti globali in energia nucleare

A oltre 36 anni dal disastro di Chernobyl, punto di svolta nella storia dell’energia nucleare, sono 441 i reattori in funzione nel mondo, secondo gli ultimi dati forniti dal Power Reactor Informations System dell’Iaea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Il numero di reattori attivi nel mondo è sempre cresciuto dagli anni 50 fino al 1989, quando se ne contavano 420. Da allora il dato è rimasto pressoché stabile, anche se va considerato che attualmente risultano 53 i reattori in fase di costruzione. Ma la frenata alla costruzione di nuovi impianti alla fine degli anni 80 porta a un quadro dove l’età media dei reattori in funzione supera i 30 anni. Attualmente il paese con più impianti sono gli Stati Uniti (93), seguiti da Francia (56) e Cina (55), anche se il “gigante” asiatico vanta 15 reattori in fase di costruzione. Stringendo il campo alla sola Europa, dopo la Francia ci sono Regno Unito (11), quindi Belgio e Spagna (7 per entrambi).

Ma quanto incide la produzione nucleare sul fabbisogno globale di energia? Circa il 10%, secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia. Si tratta della quarta fonte dopo carbone (36,7%), gas (23,5%) e idroelettrico (16%). Nel 2020 le centrali nucleari nel mondo hanno fornito 2553 TWh di elettricità, in calo rispetto ai 2657 TWh del 2019. Ma la tendenza ad abbandonare questa fonte per puntare maggiormente sulle rinnovabile risulta chiara se si pensa che nel 1996 era nucleare il 17,5% dell’energia prodotta in tutto il mondo. Com’è facilmente intuibile, l’incidenza dell’atomo varia parecchio da zona a zona. Ad esempio, secondo i dati Eurostat nel 2020 circa il 25% dell’energia prodotta in Ue è arrivata dalle centrali nucleari. Dato che sale al 34,3% se si tolgono dal mazzo i Paesi che, come l’Italia, non utilizzano l’atomo. Il primato è della Francia, che trae dal nucleare circa due terzi della propria energia.

I numeri sembrano quindi raccontare un progressivo abbandono del nucleare, ma in realtà il trend potrebbe invertirsi nei prossimi anni a causa di due fattori: la spinta di paesi ‘affamati’ di energia come Cina e India e l’evoluzione tecnologica che sembra poter portare a reattori più sicuri, efficienti e puliti come quelli di quarta generazione. Per non parlare delle potenzialità racchiuse nella fusione, che promette di produrre energia senza scorie, emissioni nocive e rischi di incidenti disastrosi per l’ambiente. Il combinato disposto di tutto ciò porta a prevedere una crescita degli investimenti sul nucleare. Rystad Energy, società indipendente di ricerca energetica e business intelligence con sede a Oslo, ha stimato che le spese per il nucleare ammonteranno a 45 miliardi di dollari nel 2022 e 46 miliardi nel 2023, rispetto ai 44 miliardi di dollari del 2021. Una crescita dunque contenuta, ma che potrebbe accelerare non di poco negli anni successivi. Pechino infatti sta pianificando almeno 150 nuovi reattori nucleari nei prossimi 15 anni, con un esborso stimato di 440 miliardi di dollari. Mentre Nuova Dehli ha annunciato l’obiettivo di triplicare la produzione annuale di energia nucleare nei prossimi 10 anni.

(Photo credits: ALEX HALADA / AFP)

importazioni petrolio

Ue vicina agli obiettivi di sviluppo dell’Onu ma ancora troppo dipendente da fossili

Buoni progressi verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile che riguardano il consumo energetico, la fornitura di energia e l’accesso all’energia a prezzi accessibili, ma l’Unione Europea rimane ancora troppo dipendente dalle importazioni, specialmente quelle fossili. Sono le osservazioni dell’ultima relazione di monitoraggio sui progressi dell’Unione Europea verso i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, adottati dalle Nazioni Unite (ONU) nel settembre 2015, pubblicata lunedì da Eurostat. Monitorando in particolare i progressi raggiunti dall’Unione europea verso l’obiettivo numero 7 – che chiede di garantire l’accesso universale ai servizi energetici moderni, migliorare l’efficienza energetica e aumentare la quota di energia rinnovabile – l’ufficio statistico dell’Ue osserva che i maggiori progressi dell’Ue sono stati compiuti nel consumo di energia. “Le misure adottate in risposta alla pandemia di COVID-19 e le relative restrizioni alla vita pubblica e alla riduzione dell’attività economica hanno ridotto notevolmente i consumi nel 2020”, si legge nel rapporto. Motivo per cui l’Ue è stata in grado di raggiungere l’obiettivo fissato per il 2020 e sembra sulla buona strada per raggiungere quello fissato per il 2030. Lo stesso si riscontra per quanto riguarda l’energia prodotta da risorse rinnovabili, come il sole o il vento: l’Ue è nella giusta traiettoria per gli obiettivi al 2030.

Il documento, di oltre 380 pagine, è meno ottimista per quanto riguarda la dipendenza dell’Ue dalle importazioni di energia da Paesi terzi e in particolare le risorse fossili. Si osserva “un miglioramento”, ma negli ultimi 5 anni il trend per l’Unione europea è stato quello di un progressivo allontanamento dagli obiettivi dell’Onu per quanto riguarda la dipendenza energetica. L’Ue dipendeancora fortemente dai combustibili fossili per la sua energia”, si legge nel documento, in cui viene specificato che la relazione osserva i progressi compiuti dall’Ue nel 2020, quindi non tiene conto dell’aumento dei prezzi dell’energia causati anche dalla guerra di Russia in Ucraina. Ma proprio la guerra di Ucraina deve portare l’Ue a riconsiderare le proprie forniture energetiche.

I numeri snocciolati nel documento parlano di importazioni di combustibili dai Paesi extra-Ue che hanno contribuito al 57,5% dell’energia disponibile lorda nel 2020 nel Vecchio continente. Si tratta di una quota quasi identica a quella del 2005, quando le importazioni coprivano il 57,8%. Questa stagnazione secondo Eurostat può essere spiegata in due modi: da un lato, l’Ue ha ridotto il suo consumo di energia e ha aumentato l’uso delle energie rinnovabili nazionali; dall’altro lato, però, ha assistito a una riduzione della produzione primaria di combustibili fossili a causa dell’esaurimento o dell’antieconomicità delle fonti interne, in particolare del gas naturale. In sostanza, dal momento che costano tanto, meglio importarle.

Tanto che, nel 2020, le principali importazioni nette sono state di petrolio e prodotti petroliferi (97,0%), seguite dal gas naturale (83,6%) e dai combustibili solidi (prevalentemente carbone, per il 35,9% importato). Le importazioni nette di energie rinnovabili, compresi i biocarburanti, hanno rappresentato solo l’8,5% dell’energia rinnovabile lorda disponibile nel 2020 e solo l’1,7% delle importazioni nette totali. Il rapporto ricorda che la Russia ha continuato a essere il principale fornitore di energia all’Ue nel 2020, con il 43,6% del gas, il 28,9% dei prodotti petroliferi e il 53,7% delle importazioni di combustibili solidi da paesi terzi. I successivi maggiori fornitori di gas e prodotti petroliferi sono stati i Paesi europei che non fanno parte dell’Ue (principalmente Norvegia e Regno Unito), che hanno fornito il 25,4% del gas e il 16,5% delle importazioni di petrolio.

Negli ultimi cinque anni un ”leggero allontanamento” rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile per la vita sulla terraferma (l’obiettivo numero 15), indicano che gli ecosistemi e la biodiversità sono rimasti “sotto pressione”, principalmente a causa delle attività umane. Sebbene sia la superficie forestale dell’Ue che le aree protette terrestri “siano leggermente aumentate, la pressione sulla biodiversità ha continuato ad intensificarsi”. Ad esempio, si legge, la presenza di uccelli comuni è un indicatore di biodiversità perché molti di loro richiedono habitat specifici per riprodursi e trovare cibo, che spesso ospitano anche molte specie animali e vegetali minacciate. Dal 2000, Eurostat stima “che il numero di uccelli comuni sia diminuito del 10%. Tuttavia, dopo molti anni di declino, sembra che il numero di uccelli comuni abbia iniziato a stabilizzarsi”, conclude il rapporto.

Obiettivi per lo sviluppo sostenibile

trasporti

I trasporti ‘tradiscono’ il Green Deal. Dal 2012 sempre più merci su strada

Meno ferrovia, più strada. E quindi più Co2, che vuol dire tradire Green Deal e agenda verde dell’Unione europea. L’Europa che lavora alla transizione sostenibile ha nel trasporto merci uno dei principali nemici del cambiamento che il club a dodici stelle si è imposto, eppure negli ultimi anni troppi camion hanno smentito le buone intenzioni. Dal 2012 in poi la quota di merci movimentata su strada è continuamente aumentata, e contestualmente si è ridotta quella spostata su rotaia.

A lanciare il campanello d’allarme è Eurostat, con i suoi dati aggiornati sulle modalità di consegna di beni. Tra strada, ferrovia, acque interne la prima opzione resta la più utilizzata, e lo risulta sempre di più. Se nel 2012 il ricorso a camion, tir, mezzi pesanti valeva il 73,5% del totale dei carichi merci, questo dato è cresciuto sempre di più: 73,9% nel 2013 e nel 2014, 74,1% nel 2015, 74,5% nel 2016, 75,4% nel 2017, 75,6% nel 2018, 76,3% nel 2019, e 77,4% nel 2020. Contestualmente i treni merci si sono ridotti. Se dieci anni fa rappresentavano il 19,1% dei prodotti da spostare all’interno del mercato unico, alla fine del 2020 rappresentavano il 16,8%.

Tutti dati che confermano i limiti strutturali e infrastrutturali dell’Unione europea, che offrono una chiara indicazione su dove investire per fare della transizione verde quella realtà che l’Ue vorrebbe. L’Istituto di statistica europea richiama all’ordine anche tutta una serie di Paesi, a cominciare da Irlanda, Grecia e Spagna, quelli che praticamente fanno del trasporto merci su strada la loro regola (rispettivamente al 99%, 97% e 96% dei carichi consegnati).

L’Italia non fa eccezione. Alla fine del 2020 strade e autostrade erano percorse dall’88% delle merci da trasportare dentro e fuori il Paese. Anche nel caso nazionale si registra un aumento al ricorso della modalità più insostenibile, anche in questo caso un vero e proprio ‘marchio di fabbrica’. Già nel 2012 si utilizzavano autoarticolati più della media europea, con l’87,3% di merci spostate in questo modo.

gas russia

Energia europea: quanto l’Ue dipende dalla Russia?

Nel 2020 l’Ue ha importato il 58% dell’energia consumata, perché la propria produzione ha soddisfatto appena il 42% del proprio fabbisogno. Lo riferisce l’Eurostat in uno studio diffuso oggi. Il mix energetico dell’Ue nel 2020 era composto per il 35% da petrolio e prodotti petroliferi, per il 24% da gas naturale, per il 17% da fonti rinnovabili, per il 13% da energia nucleare e per l’11% da combustibili fossili solidi. La Russia è il principale fornitore dell’Ue di gas naturale, petrolio e carbone, che sono i principali prodotti energetici del mix dell’Ue. Nel 2020 le importazioni da questa origine hanno soddisfatto il 24% del fabbisogno energetico dell’Ue.

Energia

Il gas naturale, uno dei principali combustibili per la produzione di elettricità e il riscaldamento nell’Ue, prosegue l’analisi dell’Eurostat, è stato il combustibile con la maggiore esposizione alle importazioni dalla Russia. Nel 2020, l’Europa infatti ha ricevuto il 46% delle sue importazioni di gas naturale da questo fornitore, soddisfacendo il 41% dell’energia disponibile lorda derivata dal gas naturale. Il petrolio greggio, un bene essenziale per la produzione di carburanti per autotrazione e per l’industria petrolchimica, è stata la seconda famiglia di combustibili con la seconda maggiore esposizione alle importazioni dalla Russia. Nel 2020, l’Ue si è affidata a questo fornitore per il 26% delle sue importazioni di petrolio greggio, che ha soddisfatto il 37% del fabbisogno energetico dell’Ue. Infine, i combustibili fossili solidi (come il carbone) hanno avuto la più bassa dipendenza dalle importazioni dalla Russia, che ha fornito il 19% dell’uso dell’Ue di questo tipo di combustibile. Nel 2020, l’Ue ha importato il 53% di carbon fossile da questo Paese, che rappresentava il 30% del consumo di carbon fossile dell’Ue.

agricoltura

Italia sul podio Ue per agricoltura bio, perde in gestione rifiuti

L’Italia batte l’Unione europea sul tema dell’agricoltura biologica, ma sul fronte della gestione dei rifiuti il nostro Paese ha ancora molta strada da fare.

Eurostat ha pubblicato sul suo sito le statistiche più rilevanti per il Green Deal europeo, che è una delle sei priorità della Commissione europea per il 2019-24. Le macro aree sono tre: la riduzione dell’impatto sul clima, la tutela del pianeta e della salute e il viaggio verso una transizione verde e giusta. Si tratta di un quadro di insieme sulle maggiori performance in ambito ambientale registrate dal 2009 al 2020. Confrontando i risultati dell’Italia con quelli della media europea, emerge un quadro fatto di luci ed ombre. Nel campo delle emissioni di gas serra si nota come l’Italia, pur partendo da una situazione molto più critica rispetto agli altri Paesi europei, sia riuscita comunque ad allinearsi ai parametri nel 2019. Ad esempio, nel 2009 partiva con un indice di emissione di 92 punti (la base 100 era quella del 1990), mentre l’Ue era a 81,8; dieci anni dopo Italia e media Ue sulle emissioni erano praticamente appaiate: 74,9 l’Italia contro il 74,1 dell’Ue.

Per quanto riguarda invece le materie prime, l’Italia ne consuma molte meno rispetto alla media Ue: se sostanzialmente nel 2011 il nostro Paese e l’Europa erano vicine (13,9 tonnellate pro capite contro le 15,6 dell’Ue), da quella data in poi il crollo nel Bel Paese è stato verticale, mentre in Ue l’andamento è rimasto stabile. Al 2019 l’Ue consuma 14,5 tonnellate pro capite, l’Italia 9,3.

L’Italia resta indietro anche nella spesa pubblica per ricerca e sviluppo: l’Ue al 2020 aveva speso il 2,32% del Pil, l’Italia solo l’1,53%. Amplissimo invece è il divario tra Europa e Italia nel consumo di energia primaria, un gap ormai atavico (era così sin dal 2009): nel 2020 l’Europa ha consumato in media 1.236,5 milioni di tonnellate di petrolio equivalente (Mtep) contro i 132,3 dell’Italia.

La Penisola vince invece a mani basse nel capitolo ‘Zone di agricoltura biologica’: nel nostro Paese, nel 2020, il 16% della superficie agricola era a vocazione biologica, contro appena il 9,1% della media Ue. Tutt’altro scenario, invece, alla voce ‘Popolazione incapace di riscaldare la casa’: nel 2019 in Italia l’11,1% della popolazione non era in grado di scaldare la propria casa, contro il 6,9% della media Ue. Impennata vertiginosa invece per quanto riguarda la produzione di rifiuti; se l’Italia nel 2008 ne produceva molti meno della media Ue (1.595 kg pro capite contro i 1.731 dell’Europa), in quattro anni l’ha appaiata e superata di 30 kg nel 2018 (1.850 kg pro capite contro i 1.820 dell’Ue).
Infine un altro dato non esaltante per l’Italia è la percentuale di passeggeri che viaggiano in treno: solo il 6,3% di passeggeri interni per km contro gli 8 dell’Unione europea.