Green Deal trascurato e inevitabile tra fondi Ue e sponde capitalistiche

Secondo un parere della Commissione Politica di coesione territoriale e bilancio dell’Ue (Coter) del Comitato europeo delle regioni (Cdr), adottato mercoledì 3 luglio, l’Unione europea dovrebbe sostenere tutte le regioni nella realizzazione di una transizione giusta ed equa, in particolare quelle fortemente dipendenti da un unico settore economico o da industrie ad alta intensità energetica. Come sostiene la Coter, le difficoltà incontrate nell’approvazione dei piani di transizione e la riduzione dei fondi alla fine del periodo di programmazione evidenziano la necessità di prorogare il termine per l’utilizzo delle risorse del “Fondo per la transizione” nell’ambito del piano di ripresa dell’Ue di prossima generazione. Il parere invita la Commissione europea a semplificare i finanziamenti e a migliorare la trasparenza nel prossimo quadro finanziario pluriennale (Qfp) dell’Ue post-2027. Presa a prestito da Agence Europe, uno dei punti di riferimento dell’informazione da Bruxelles e su Bruxelles, questa notizia offre lo spunto per rivisitare il Green Deal nell’ottica della Commissione che sarà.

E intanto… Manfred Weber, nominato presidente del Ppe, ha ribadito in un recente intervista che dal Green Deal non si torna indietro. Weber è stato seguito a ruota da Ursula von der Leyen che, nel delicato tentativo di mettere insieme una maggioranza non traballante, ha posto sempre il Green Deal tra le cinque priorità dei prossimi cinque anni di governo. Ovviamente ammesso che, come accade spesso nei Conclave, chi entra Papa non esca cardinale. Green Deal, per la verità, che è stato sorpassato a sinistra da altre tematiche cogenti come la competitività, la Difesa, le questioni sociali e la semplificazione normativa. Sintetizzando: la transizione verde è indispensabile ma non così indispensabile come nel 2019. Ora: cosa sia cambiato in meglio o in peggio dopo un lustro di propositi più o meno buoni è difficile da stabilire con determinazione matematica, ma che siano indispensabili delle correzioni ‘in corsa’ questo è ineluttabile.

Con o senza i Verdi, oppure anche solo con l’appoggio esterno, il Green Deal continuerà a esserci. Giusto. Ma qui si torna al punto di partenza: più delle ideologie e di certe rigide ottusità saranno i denari da investire nella transizione verde a fare la differenza. E di denari ne serviranno davvero tanti: in fondo, più le pratiche sono virtuose più i costi aumentano. Saranno determinanti i fondi privati e il buonsenso collettivo, sarà determinante coinvolgere sempre di più Cina, India e Stati Uniti in un percorso che abbia cura del Pianeta senza creare ulteriori diseguaglianze non solo tra Paesi ma tra blocchi di Paesi, come ad esempio la Ue e i Brics.

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, scrive in un suo intervento che “dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni ‘grandi vecchi’, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi”. Cita Noam Chomsky e Robert Pollin e giunge a sostenere che Occidente e Stati Uniti andranno avanti ma dovranno fare i conti con il popolo. “’Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?, è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste”, sottolinea Gozzi.

Non è indispensabile essere d’accordo, è fondamentale riflettere. E fornire risposte concrete. Il cambiamento climatico è sotto i nostri occhi, “non ci sono più le stagioni di una volta” direbbe qualcuno, ed è una evidenza che si abbatte sulle economie, sul turismo, sull’agricoltura. Come se ne esce? E’ chiaro che ricerca, innovazione, nuove tecnologie, rinnovabili, nucleare sono gli ingredienti indispensabili di una ricetta che, comunque, dovrà avere il sostegno economico di Stati e di industrie. Finanziare il futuro delle generazioni future: non è uno slogan ma una necessità. Insomma, adelante ma con juicio.

La sicurezza sopra e sotto il mare: un progetto strategico per l’industria italiana

In una bella intervista al ‘Foglio’ (7/3/2024) Pierroberto Folgiero, Amministratore Delegato di Fincantieri, rilancia il tema della sicurezza nel Mediterraneo e spiega come sia vitale, per il nostro Paese, disporre di un apparato industriale e di tecnologie capaci di far giocare all’Italia un ruolo da protagonista in questa partita. Abbiamo più volte sostenuto su queste pagine che il baricentro dell’Unione Europea, storicamente determinato dal rapporto franco-tedesco, sia destinato a spostarsi verso sud, verso il Mediterraneo, area nella quale si registreranno in futuro i maggiori tassi di crescita e le maggiori potenzialità di sviluppo. Il Mediterraneo e l’area balcanica anche per questo sono tornati ad essere luoghi strategici per il confronto tra occidente e altre potenze regionali, con la delicatezza rappresentata dalle turbolenze in medio oriente, da un probabile futuro minor impegno degli USA in quest’area, da una sempre maggiore iniziativa turca, da una sempre maggiore presenza della marina militare russa (11 navi da guerra presenti in questo momento rispetto alle poche unità di qualche anno fa).

In questo contesto il ruolo dell’Italia, della sua economia, del suo apparato industriale saranno sempre più importanti. Per collocazione geografica, storia, cultura possiamo svolgere un ruolo fondamentale di ambasciatori e traduttori dei valori dell’occidente in questa area del mondo, e probabilmente siamo i soli a poterlo fare grazie alla tradizionale capacità di dialogo della nostra diplomazia e grazie alla nostra naturale empatia con quei popoli. Ma le ambizioni e le possibilità concrete di giocare questa partita si misurano innanzi tutto con la capacità di tutelare l’interesse nazionale ed europeo attraverso una rinnovata politica della sicurezza.

Folgiero chiarisce bene che la sicurezza non riguarda soltanto i traffici marittimi di superficie così importanti per un’economia manifatturiera come la nostra, ma anche tutto ciò che sta sotto la superficie del mare e sui fondali, in primis infrastrutture energetiche e cavi per la trasmissione dei dati. Si pensi che la nostra Marina Militare in questo momento ha molte unità impegnate nella sorveglianza e protezione di queste infrastrutture. Vi immaginate cosa succederebbe se un attentato come quello che ha gravemente danneggiato il gasdotto North Stream 2 colpisse il tubo del Trans Med (gasdotto Enrico Mattei) che porta in Italia il gas algerino oggi vitale per l’approvvigionamento energetico del Paese? O ancora se vi fossero danneggiamenti alle grandi dorsali dei cavi che portano dati, come è recentemente successo nel mar Rosso dove l’affondamento di una nave portacontainers inglese, causato da missili Houti, ha provocato una riduzione di oltre il 25% del traffico internet tra Asia e Europa? Il danneggiamento di cavi sottomarini, dai quali passa ormai la stragrande maggioranza dei dati globali, deriva da molte cause; le prevalenti, per ora, non sono quelle dovute al terrorismo ma quelle legate alla posa delle ancore delle navi e alla pesca a strascico.

L’underwater sarà in futuro il campo di sviluppo e innovazione tecnologica per le imprese italiane, all’interno delle quali Fincantieri è destinata a svolgere il ruolo di pivot candidandosi ad essere il campione nazionale della subacquea. Il colosso di Trieste ha la straordinaria opportunità e possibilità di estendere agli usi civili le soluzioni e le tecnologie sperimentate in ambito militare. Da questa ambizione e prospettiva nasce anche l’iniziativa del Ministero della Difesa di istituire a La Spezia il Polo Nazionale della subacquea. Si tratta di un’iniziativa strategica per l’Italia che vede la Liguria al centro, e che vede il rilancio delle attività di blue economy come uno degli assi portanti per il futuro della nostra regione.

In un mondo sempre più turbolento i temi della sicurezza strategica e della difesa, sul mare e sotto il mare, saranno al centro della scena. L’apparato industriale italiano fatto da grandi imprese a controllo pubblico (Fincantieri, Leonardo, Eni, Terna, Enel, Snam, Saipem ecc.) ma anche di moltissime imprese private di varie dimensioni impegnate nelle filiere e nell’indotto può dire la sua in maniera autorevole.

Occorre un grande disegno strategico e un’interlocuzione operativa su progetti e tecnologie che consentano all’industria italiana di cogliere questa grande opportunità di sviluppo e innovazione. Occorre costruire le occasioni e i luoghi perché ciò avvenga. Il lavoro è appena cominciato.

Il cliclo virtuoso degli investimenti tra scelte pubbliche e private

Gli investimenti sono determinanti per la crescita economica e lo sono anche per il consumo di acciaio. Il consumo di acciaio è considerato un indicatore di ciclo. Analisti, studiosi, banchieri quando ragionano sul ciclo economico e cercano di fare previsioni al riguardo guardano i consumi di acciaio perché gli stessi anticipano sempre gli andamenti della congiuntura.

Così avviene che se la congiuntura volge verso il bello e il ciclo economico è nella fase ascendente i volumi di consumo di acciaio crescono e con essi i prezzi di vendita. Se le cose vanno male succede il contrario. Ma cosa in particolare ‘tira’ la domanda di acciaio?

Gli esperti dicono che il driver principale di questa domanda è rappresentato dal così detto ‘fixed assets investments ratio’. Questo indice segnala la proporzione degli investimenti fissi sul totale degli investimenti di un’azienda, dell’economia di un Paese, o addirittura del Pil mondiale (poiché quello dell’acciaio è un mercato regionale ma anche mondiale).

In questo mercato globale la Cina, negli ultimi venti anni, ha fatto la parte del leone con una crescita della sua produzione e dei suoi consumi di acciaio impressionante. La Cina con il suo miliardo di tonnellate anno di produzione e consumo di acciaio rappresenta più del 50% del mercato mondiale.

Costruzioni, strade, ponti, fabbriche, treni e ferrovie, navi, macchine movimento terra, centrali elettriche di ogni tipo, torri eoliche, campi fotovoltaici ecc. sono gli investimenti fissi (i fixed assets) che costituiscono quasi il 70% della domanda mondiale di acciaio. Automobili, elettrodomestici e gli altri beni di consumo rappresentano più o meno il 30% della domanda di questo prodotto.

Ho usato questo riferimento al mondo dell’acciaio che è quello che conosco meglio perché mi interessa ragionare, come detto in premessa, sul tema degli investimenti, sulla loro natura in continua evoluzione, su quanto gli investimenti siano fondamentali per la crescita, l’occupazione e il lavoro e su come dovrebbe imporsi una cultura atta a favorirli in ogni modo e non il contrario (la cultura del NO sempre e comunque, la decrescita felice ecc.).

Gli investimenti inoltre danno dignità e onore al capitalismo e ai capitalisti perché sono coessenziali alla vita delle imprese e alla loro capacità di progresso e inclusione sociale. Un’impresa che non investe è un’impresa morta.

Gli economisti ci insegnano che la domanda è fatta di consumi, investimenti, esportazioni nette (la differenza tra esportazioni e importazioni).

Le economie che crescono hanno un’incidenza significativa degli investimenti sul PIL. In Cina fino a qualche anno fa gli investimenti rappresentavano più del 50% del PIL, grazie anche ai mastodontici investimenti nell’immobiliare e in tutti i sistemi infrastrutturali. Negli Usa tale incidenza è intorno al 16-17%, in Europa intorno al 12% (a proposito di minor crescita dell’UE ).

Come detto gli investimenti sono importantissimi per la crescita. Perché?

Perché gli economisti, in particolare negli anni ’30 del secolo scorso l’economista inglese R.F. Kahn seguito da John Maynard Keynes, hanno scoperto e sintetizzato in una formula matematica il fatto che una variazione della componente autonoma degli investimenti produce una variazione più che proporzionale del reddito.

Si tratta del così detto moltiplicatore degli investimenti che parte da una constatazione molto semplice.

Ogni aumento nell’acquisto di nuovi strumenti di produzione dà vita a una catena di relazioni causa-effetto:

  • Aumenta l’occupazione nel settore in cui si producono tali beni o il salario nel caso in cui gli occupati prestino ore di lavoro straordinario;
  • Cresce il reddito dei nuovi o maggiori occupati (e conseguentemente quello nazionale);
  • Cresce di conseguenza la domanda di beni di consumo (si tratta normalmente di beni di consumo durevoli come automobili, elettrodomestici, telefonini, personal computer ecc.);
  • Ne consegue una maggiore attività delle imprese che producono i beni di cui la domanda è aumentata. Tali imprese nello spirito dell’aumento della domanda richiedono nuovi e più grandi strumenti di produzione;
  • Le industrie fornitrici di questi strumenti di produzione a loro volta concedono aumenti salariali agli occupati ecc.

Il reddito addizionale dovuto all’originario investimento in strumenti di produzione genera la nascita di una serie di industrie produttrici di beni di consumo e strumentali e aumenti di occupazione e di reddito. In altri termini un aumento degli investimenti netti provoca un aumento sempre maggiore del reddito nazionale.

Ma cosa è che determina la domanda di investimenti?

Sono gli imprenditori che decidono di farli e gli imprenditori sono mossi fondamentalmente da due fattori nelle loro scelte di fare o non fare investimenti:

  • Il primo fattore è la fiducia. Ecco perché in economia sono così importanti le aspettative psicologiche. Gli imprenditori scrutano l’orizzonte e sono influenzati dall’andamento dell’economia, dalla domanda specifica del proprio settore, dalla stabilità politica, dall’efficienza o inefficienza della Pubblica Amministrazione ecc.
  • Il secondo fattore sono i tassi di interesse. Per fare investimenti è necessario il capitale e questo può essere proprio o preso a prestito. In entrambi i casi ha un costo. Nel caso di capitale proprio un costo/opportunità e cioè la rinuncia al rendimento apportato da un investimento alternativo produttivo o finanziario, nel caso di capitale preso a prestito (debito) gli interessi passivi pagati al soggetto finanziatore.

In una situazione come l’attuale, di forte rallentamento economico, specie in Europa, di turbolenze geopolitiche rappresentate da due gravi crisi e guerre internazionali quali quelle in Ucraina e in Medio-Oriente, di inflazione con conseguente rialzo dei tassi di interesse il clima percepito, almeno da noi Italia Unione Europea, non è favorevolissimo agli investimenti.

In fondo la scelta dell’UE di finanziare un gigantesco piano di investimenti pubblici (il Next generation fund che ha dato vita al nostro PNRR) nata nella crisi pandemica si può rivelare oggi uno straordinario strumento anticiclico promuovendo attraverso la domanda pubblica (perché la domanda di beni e servizi è anche pubblica) la tenuta degli investimenti globali e la ripresa economica.

Anche nelle altre grandi aree economiche del mondo (USA e Cina) lo Stato sta intervenendo con giganteschi investimenti là dove la semplice iniziativa privata non ce la fa, in particolare nel campo della transizione e energetica e digitale.

L’investimento pubblico ha senso se si applica in quei settori, tipico quello delle infrastrutture, in cui la redditività è differita in tempi lunghi che i privati non sono in grado di attendere.

La sfida in questo caso è tutta nella capacità della Pubblica Amministrazione di fare presto e bene. Anche per l’Italia il PNRR è uno straordinario banco di prova.

Antonio Gozzi: “L’Unione Europea in testacoda sul green deal”

Il gruppo parlamentare dei Verdi al Parlamento Europeo ha commissionato a un famoso think tank francese, il Rousseau Institute, uno studio sui costi della transizione energetica. I risultati dello studio, il cui committente certamente non può essere tacciato di essere contro la transizione energetica, sono impressionanti.

I costi della transizione energetica, secondo lo studio citato, ammonterebbero da qui al 2050 a 40.000 miliardi di euro solo per l’Unione Europea, e cioè 1520 miliardi l’anno, pari al 10% del PIL europeo.

Lo studio del Rousseau Institute afferma che questi costi non sono sostenibili senza un ricorso molto importante a fondi pubblici.

Ma qui, come è stato giustamente rilevato (Sergio Giraldo, StartMagazine, 10 febbraio 2024) scatta la contraddizione e il testa coda. Infatti l’intervento così importante degli Stati è reso impossibile dalle regole fiscali europee, anche di quelle stabilite nel nuovo Patto di stabilità. Infatti, nonostante la richiesta dell’Italia e di altri Stati membri di non conteggiare nel deficit le spese sostenute per favorire la transizione energetica, questa proposta non è passata. Risultato: il Green Deal fortemente voluto dalla Commissione Europea è a rischio per le regole di austerità imposte all’Europa dalla stessa Commissione.

Nel suo studio il centro di ricerca francese ipotizza che quasi tre quarti degli investimenti per la neutralità climatica provengano dai governi. Per questo motivo il messaggio chiave è che se non si allentano i parametri del patto di stabilità, o non si ridimensionano più realisticamente gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050, il Green Deal concepito nell’attuale dimensione è del tutto irrealistico e non realizzabile.

Le risorse pubbliche sono indispensabili perché moltissimi degli investimenti richiesti sono privi di redditività e quindi il settore privato non riesce a finanziarli da solo specie nei settori della ristrutturazione edilizia e dell’industria pesante.

Si possono portare molti esempi.

C’è il tema dell’idrogeno, e in particolare dell’idrogeno verde: sarebbe fondamentale per la decarbonizzazione dei trasporti e dei processi industriali più energivori, i così detti hard to abate, ma non ha ancora trovato una sua plausibilità e sostenibilità economica, veleggiando attualmente a un costo/prezzo che è circa tre volte quello del gas naturale, anche tenuto conto dell’impatto delle CO2.

Gli interventi ipotizzati sulle abitazioni, particolarmente costosi per patrimoni immobiliari non moderni come sono la maggior parte delle case italiane, sono stati ridimensionati per le proteste di molti Stati membri.

Non esiste un fondo europeo per accompagnare i costosissimi processi di decarbonizzazione delle industrie di base (acciaio, chimica, cemento, carta, vetro, ceramica ecc.) e vi è il concreto rischio di una forte deindustrializzazione in questi settori con gravi ripercussioni per le filiere a valle.

Le recenti proteste degli agricoltori in tutt’Europa testimoniano di un malessere diffuso per politiche dell’Unione che non sono state capaci di valutare le conseguenze di provvedimenti spesso dettati più da ideologismo ambientalista che da pragmatismo e razionalità.

In generale tutta la legislazione europea sul climate change ha evitato di prendere in considerazione normali analisi e studi costi/benefici relativi alle azioni intraprese, generando appunto una situazione che sta diventando ingovernabile.

Esiste un grave deficit europeo di comprensione della situazione in cui siamo.

Abbiamo inseguito per molto tempo l’idea di un’Europa protagonista della globalizzazione sottovalutando il potenziale di concorrenza sleale che sarebbe venuto da paesi come la Cina che non rispettano le nostre regole del gioco. L’industria europea, pur trovandosi in difficoltà, inizialmente ha retto la sfida. Poi però abbiamo fatto un ulteriore passo dotandoci di politiche ambientali sempre più ambiziose e sempre più assertive e unilaterali, ignorando quello che accadeva nel resto del mondo. Tali politiche hanno scaricato enormi costi sull’industria europea. E qui è esplosa la contraddizione: può un continente aperto in modo indiscriminato al commercio internazionale dotarsi internamente di obblighi e di costi asimmetrici?

Questi due modelli sono antitetici: si può scegliere di perseguire il massimo di competitività, ma allora non bisogna gravare le imprese di costi insostenibili, oppure si può decidere di costruire un modello di economia sostenibile ma allora bisogna riequilibrare la concorrenza internazionale.

Il rischio di deindustrializzazione dell’Europa è figlio di questa contraddizione. A cui si è aggiunto negli ultimi anni un terzo elemento: abbiamo scoperto la fragilità delle catene internazionali del valore. La ricerca spasmodica dell’efficienza ci ha indotti a sottovalutare, se non proprio ignorare, la sicurezza. E l’illusione che l’Europa fosse al centro del mondo ci ha spinto a trasformare i nostri disegni astratti in obblighi concreti con l’illusione che il mondo ci avrebbe seguito; il mondo, purtroppo, non ci ha seguito e noi ci siamo spiazzati da soli.

Di queste gravi contraddizioni incomincia a farsi strada la consapevolezza. L’Italia Paese fondatore dell’Unione e secondo paese manifatturiero d’Europa deve fare sentire la sua voce. L’Europa ha bisogno di più industria non di meno industria.

Gozzi: “Bene governo con decreto Energia. Misure per alleviare costi per le imprese”

Il Consiglio dei Ministri di lunedì scorso ha finalmente varato misure molto importanti per l’industria italiana specie quella ad alto consumo di energia. Le due misure, denominate con anglicismi che ormai caratterizzano anche i provvedimenti di governo, vanno sotto il nome di “gas release” e “power release”.

La prima consiste nell’agevolazione di nuove concessioni per la ricerca e l’estrazione di gas nazionale che dovrebbe essere fornito, a prezzi calmierati, alle imprese energivore.

La seconda consiste nella fornitura da parte del GSE (la struttura pubblica che gestisce il mercato elettrico) per tre anni, sempre alle imprese energivore, di elettricità proveniente da impianti rinnovabili anche in questo caso a prezzi calmierati. Le imprese energivore destinatarie di queste forniture di elettricità si devono però impegnare a costruire impianti per la produzione di energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) che siano capaci di restituire al sistema in 20 anni l’energia elettrica da fonti rinnovabili che è stata fornita alle imprese stesse  per i primi tre anni dal GSE.

Si tratta di due misure importanti che le imprese italiane e Confindustria chiedevano da tempo per colmare, almeno parzialmente, il drammatico divario sui prezzi dell’energia che si è creato dopo le decisioni di Francia, Germania e Spagna di sostenere, con varie misure, le loro imprese energivore fornendo loro energia elettrica a 70 euro al MWh. In Italia fino ad oggi le imprese energivore la pagano 120 euro a MWh. Bene quindi l’azione del Governo e in particolare del Ministro Pichetto Frattin che ha proposto e sostenuto queste misure, anche se bisogna essere consapevoli che esse mitigano il gap con gli altri Paesi europei ma non lo colmano del tutto.

Bisognerà nei prossimi mesi adottare altri provvedimenti che allineino completamente il prezzo dell’energia elettrica per le industrie energivore italiane a quello pagato dalle imprese francesi, tedesche e spagnole e ciò per evitare pericolose asimmetrie competitive che danneggerebbero la nostra industria manifatturiera.

Nel testo del decreto energia invece non c’è la proroga del mercato tutelato dell’energia elettrica e del gas di prossima scadenza, proroga che in molti chiedevano anche all’interno della stessa maggioranza di governo.

Il Governo Draghi si era impegnato con l’Europa, in sede di negoziazioni delle regole e delle riforme connesse al PNRR, di superare il mercato tutelato e di affermare definitivamente il principio del libero mercato dell’elettricità e del gas.

Come si è detto c’erano molte richieste di proroga della liberalizzazione completa del mercato. Ma la Meloni non se l’è sentita di accordarla per non venir meno all’impegno a suo tempo assunto dall’Italia con l’Unione Europea di arrivare alla piena concorrenza anche su questo mercato.

L’opposizione di sinistra, e in particolare il PD e il M5S hanno vibratamente protestato contro la fine del mercato protetto, o di maggior tutela come lo si definisce, che causerebbe gravi disagi e danni alle famiglie italiane che su questo mercato si approvvigionavano.

Tale atteggiamento non è corretto per due motivi. Il primo, più sostanziale, è che molte autorevoli ricerche hanno dimostrato che i prezzi praticati sul mercato della maggior tutela quasi sempre erano più alti di quelli che si potevano trovare sul mercato libero dell’elettricità.

Il secondo motivo che non rende credibile la posizione di PD e M5S è che sia il PD che il M5S erano al governo quando Draghi assunse l’impegno nei confronti dell’Europa di porre termine al mercato tutelato dell’energia entro la fine del 2023 e ciò costituì una delle condizioni poste dall’Unione Europea per accordare gli ingentissimi aiuti del PNRR.

Perché a quell’epoca non vennero sollevate obiezioni e oggi invece sì? Misteri, poco seri, della politica italiana.

Frans Timmermans

Gozzi: “Timmermans ha smesso di fare danni ma la sua eredità è pesante”

Frans Timmermans, olandese, socialista, Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’, ha lasciato il suo incarico per candidarsi primo ministro dello schieramento di sinistra per le elezioni che si terranno prossimamente nel suo Paese.

Gli ultimi mesi della sua attività europea sono stati frenetici nel tentativo di far passare, nel complesso meccanismo legislativo comunitario (Commissione, Consiglio Europeo e Parlamento, il cosiddetto Trilogo), il maggior numero di norme e regolamenti riguardanti la transizione energetica e la lotta al climate change.

Timmermans, che parla un perfetto italiano e che è tutt’altro che un idealista sognatore ma, a detta di chi lo conosce bene, un politico scaltro e navigato che ha cavalcato l’onda ambientalista, è stato l’esempio e l’alfiere di un approccio ideologico ed estremista che ha pervaso tutta l’azione europea degli ultimi anni in tema di transizione, decarbonizzazione, emissioni di CO2. Un approccio fatto di obiettivi irraggiungibili in tema di decarbonizzazione (Fit for 55), di sovrana noncuranza per le conseguenze economiche, industriali e sociali delle scelte estremiste che hanno trasformato le politiche ambientali e la lotta al cambiamento climatico in una nuova religione pagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e tecnologico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

In molti hanno salutato il suo ritiro dalla scena europea dicendo che “ha finito di fare danni”.

In particolare sembra finalmente farsi strada, all’interno del mondo industriale europeo, una più forte riflessione e consapevolezza sulle conseguenze e sui danni provocati da un approccio estremista alla transizione. Non stiamo parlando di posizioni negazioniste, ma al contrario di soggetti attivi che perseguono convintamente politiche di decarbonizzazione dei processi industriali, fatte però con razionalità e pragmatismo e senza fanatismi ideologici.

Alla Assemblea di Assolombarda tenutasi nel luglio scorso il presidente Alessandro Spada ha ad esempio affermato: “L’Unione Europea con i suoi ambiziosi obiettivi ambientali sta forzatamente intaccando la competitività delle imprese manifatturiere europee. E quello che è del tutto irragionevole è l’accelerazione impressa dalla Commissione Europea che con questi tempi e modalità sta dimostrando di voler scaricare sulle imprese i costi della transizione ecologica”.

Una riflessione matura sul tema apre molteplici interrogativi.

Quale è la ragione per la quale un’area del mondo, l’Europa, responsabile di meno dell’8% delle emissioni globali di CO2 deve adottare un atteggiamento così estremista e così negativo per il futuro economico, industriale e quindi sociale del continente quando a livello mondiale le emissioni crescono ogni anno soprattutto per la fame di energia e di crescita che caratterizza quelli che una volta si chiamavano paesi in via di sviluppo?

Se con un colpo di bacchetta magica l’industria europea, tutta l’industria europea, che è responsabile di meno della metà di quell’8%, chiudesse i battenti (con le conseguenze economiche e sociali facilmente immaginabili) a livello mondiale non cambierebbe praticamente niente in termini di emissioni di CO2.

Quale è la ragione per la quale l’Europa è l’unica tra le grandi aree del pianeta ad aver vietato dal 2035 la produzione di auto a combustione interna e per ridurre le emissioni ha scelto di puntare tutto sull’elettrico (senza peraltro dire come verrà prodotta tutta questa energia elettrica) anziché farlo anche attraverso l’uso di altri combustibili come biocarburanti, carburanti sintetici ecc.?

Le conseguenze di questa scelta, fatta sulla base di un postulato ideologico (rifiuto della neutralità tecnologica ma scelta di una sola tecnologia per la decarbonizzazione e cioè l’elettrico), sono l’aver creato una nuova gigantesca dipendenza dalla Cina, primo paese al mondo per la produzione di auto e di auto elettriche e quasi monopolista nel controllo di tutte le materie prime necessarie alla produzione di batterie (litio, cobalto, vanadio, nichel). Su queste basi il futuro è quello di una grave perdita di quote di mercato dell’industria dell’auto europea a favore di quella cinese.

Quale è la ragione per la quale l’Europa si appresta a perdere una parte consistente della sua produzione di acciaio fatto con gli altoforni e con il carbone quando questo acciaio, detto da ‘ciclo integrale’, è indispensabile alla produzione automobilistica?

E ancora: se perderemo quote importanti di produzione di acciaio, settore in cui l’Italia eccelle (perché applica per più dell’80% della sua produzione la tecnologia del forno elettrico che ha ridottissime emissioni di CO2) perché dobbiamo farlo a favore di Cina, India, Indonesia ecc. mettendoci in condizione di esportare lavoratori disoccupati e di importare CO2?

Abbiamo sostenuto più volte, anche da queste pagine, che l’applicazione delle direttive europee nei prossimi anni comporterà la desertificazione industriale del continente con la scomparsa e/o il ridimensionamento di settori strategici quali l’acciaio, la chimica, la carta, il cemento, il vetro, la ceramica.

Perché tutto questo? Ritorniamo alla domanda iniziale.

L’atteggiamento di Timmermans e della maggioranza della sinistra europea può essere spiegato con il fatto che, persa la rappresentanza della classe operaia e dei ceti produttivi (ad esempio, il 75% degli operai iscritti alla Fiom di Brescia, sulla base di un sondaggio coraggiosamente pubblicato dalla Fiom stessa, ha votato Lega) ha sposato l’ecologismo estremista come nuovo rifugio ideologico.

La sinistra radicale, che non ha mai vinto le elezioni in Europa, non può fare a meno di un nemico (i capitalisti che inquinano) e di un totem ideologico (la decrescita infelice).

Questo estremismo della sinistra, che purtroppo ha condizionato e talvolta improntato le politiche europee, nasce anche da un senso di colpa sui temi dell’ambiente che considerata la situazione dell’Europa è totalmente ingiustificato. Questo senso di colpa non tiene conto infatti degli importantissimi risultati positivi messi a segno, in questi anni, dalla UE sul fronte della difesa dell’ambiente.

Secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto delle pressioni esercitate sull’ambiente da ogni singola nazione, l’Italia figura, nell’elenco dei virtuosi, terza al mondo dopo Regno UnitoSpagna e, tra i paesi che emettono meno CO2, sette sui primi dieci in classifica, tra cui anche Germania Francia oltreché l’Italia, appartengono all’Unione Europea.

Il perché di una posizione ambientalista radicale, astratta e ideologica della sinistra può dunque essere spiegato come sopra, anche se è in contraddizione con la tradizione di quello schieramento politico storicamente attento all’economia e ai problemi del mondo del lavoro.

Ma perché il Partito Popolare e le altre forze moderate, compreso Renew Europe di Macron, hanno seguito questo approccio in maniera quasi acritica? Mistero.

Un mistero che ha aperto spazi e consenso a movimenti populisti e sovranisti di destra cresciuti in molti paesi riscuotendo sostegno in fasce di popolazione che non si sono sentite rappresentate (gilets jaunes in Francia, il partito dei contadini in Olanda, AfD in Germania).

A me sembra che oggi si presenti l’occasione di rilanciare una nuova visione europeista, non sovranista né populista, che non neghi i problemi del climate change, che continui ad essere attenta ai problemi della transizione energetica, ma che lo faccia con gradualità e buon senso e con la consapevolezza che solo le tecnologie e le imprese possono essere i motori di questa transizione. Ciò significa mettere al centro dell’agenda europea la difesa dell’industria, la sua competitività, il suo accompagnamento e sostegno nel difficilissimo sentiero della transizione.

Tale visione deve essere comune a tutte le grandi famiglie politiche europee: Popolari, Liberal-democratici, e perfino i Verdi tedeschi che ultimamente sembrano riflettere sugli errori commessi seguendo l’approccio radicale alla Timmermans. Le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sembrano andare in questa direzione anche se non si può negare che l’appoggio dei verdi e dei socialisti alla sua presidenza l’abbia condizionata non poco.

Anche i socialisti dovrebbero adottare una visione più realistica e razionale invece di continuare ad assecondare la retorica ideologica degli ambientalisti estremisti di fatto nemici dell’Europa. Un aiuto più importante del Sindacato in questo senso forse aiuterebbe, richiamando la sinistra al fatto che senza economia e senza lavoro l’unica transizione è verso la miseria e sarebbero i ceti più deboli a pagarne le peggiori conseguenze.

Crescita, produttività e salari: l’impresa al centro

Il biennio 2021-2022 è stato fortemente segnato da rialzi dell’inflazione innescati dapprima dalle strozzature dell’offerta conseguenti alla crisi del Covid e poi dalla crisi energetica dovuta all’invasione russa dell’Ucraina, alla guerra e alle sanzioni che ne sono derivate.

Il rialzo inflazionistico ha eroso fortemente il potere di acquisto di salari e stipendi mostrando, ancora una volta, che l’inflazione è la più iniqua delle imposte e che la migliore protezione dei redditi fissi è rappresentata dalla stabilità dei prezzi (inflazione=0).

Esiste una questione salariale in Italia? Certamente sì.

Siamo in presenza di una massiccia perdita del potere di acquisto dei lavoratori che in economia sono anche consumatori. L’OCSE ha recentemente messo in evidenza che il calo dei salari reali nel nostro Paese è stato il più significativo tra tutte le economie sviluppate, con un -7% alla fine del 2022 rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre 2023 con una diminuzione su base annua del -7,5%.

La crescita dei salari reali tra il 2000 e il 2020 non era stata male in Italia: +24,3%, in linea con il 25,3% della Francia, il 18,1% della Germania, il 14,4% della Spagna.

Questi aumenti si sono realizzati nonostante una performance in termini di crescita del PIL, nei vent’anni considerati, molto bassa rispetto al resto d’Europa.

Inoltre, come indicato dal Centro Studi di Confindustria, la produttività del lavoro nel nostro Paese è cresciuta, nel ventennio 2000-2020, molto meno che negli altri paesi nostri competitors europei; in Germania ad esempio, nel periodo considerato, la produttività è cresciuta quasi il doppio che in Italia.

Salari, crescita, produttività sono tre questioni indissolubilmente legate e vanno affrontate nel loro complesso senza propagandismi e bandierine.

Partiamo dalla crescita. L’Italia dopo un ventennio di performance molto basse (il fanalino di coda europeo) ha visto due anni eccezionali, il 2021 e il 2022 nei quali l’economia nazionale è cresciuta a ritmi straordinari: con il +11% nel biennio ha fatto meglio di tutte le più importanti economie sviluppate compresa la Cina.

Se è vero che il +6,6% del 2021 è stato, almeno in parte, un rimbalzo rispetto alla caduta della nostra economia durante il Covid (che era stata superiore rispetto alla media europea), il +3,9% del 2022, realizzato nonostante il deterioramento del quadro internazionale, rappresenta senza dubbio un fatto molto importante, così come la tenuta della nostra economia nel primo semestre del 2023 nonostante un ormai generalizzato rallentamento.

Le tesi interpretative sulle determinanti di questa straordinaria performance dell’Italia in termini di crescita del PIL sono molte.

I declinisti incalliti, coloro i quali mai e poi mai riescono a non parlare male dell’Italia e ce ne sono molti purtroppo, ritengono che la straordinaria crescita della nostra economia negli ultimi due anni sia tutta dovuta all’aumento del debito, alla misura del 110% e al reddito di cittadinanza.

Mi sembrano tesi parziali e propagandistiche.

Condivido invece il pensiero di chi sostiene che la nostra performance recente sia certamente imputabile anche al boom congiunturale dell’edilizia connesso alla misura del 110%, ma dipenda soprattutto da due altri  fattori, uno congiunturale e l’altro più strutturale.

Quello congiunturale è la grande iniezione di fiducia e positività per gli operatori economici e industriali rappresentata dal Governo di Mario Draghi. Chi si intende un po’ di economia sa quanto contino la psicologia e le aspettative.

L’elemento strutturale è costituito dalla forza della manifattura italiana che vede nella sua diversificazione multisettoriale, nel suo forte orientamento all’export, nella leadership mondiale in molti segmenti di prodotto, nelle catene logistiche mediamente corte, nell’innovazione tecnologica dovuta alla misura del 4.0, un modello di straordinaria modernità e tenuta.

È questa la base su cui costruire nuova crescita con tutte le sue positive ricadute anche sui salari. È l’industria il futuro dell’Italia, come non ci stancheremo mai di ripetere.

Ma come si concilia questa rappresentazione dell’eccellenza della manifattura italiana con il ragionamento fatto poc’anzi in merito alla bassa crescita della produttività dell’industria nazionale rispetto ai principali competitors europei? Una bassa crescita della produttività che impedisce o limita la crescita dei salari netti.

L’osservazione è corretta e impone una risposta ragionata. A nostro giudizio è necessario disaggregare il dato generale sulla manifattura che, come tutte le medie statistiche, spiega la realtà solo fino a un certo punto.

In Italia, accanto a settori particolarmente competitivi quali quelli rappresentati dalle imprese che esportano molto (il 25-30% del totale), dalle imprese manifatturiere di media dimensione (non piccolissime) dei settori style based, dalle affiliate estere, dalle imprese a forte innovazione tecnologica (meccatronica, farmaceutica ecc.) accanto a tutte queste vi è una vasta platea di mini e microimprese che rappresentano storicamente, salvo eccezioni, la debolezza dell’apparato produttivo del Paese.

Le prime si pongono a livello di efficienza, produttività e quindi salari al livello delle migliori imprese europee e mondiali con salari più elevati; le seconde faticano a realizzare margini e profitti e quindi non riescono a destinare parte degli stessi agli investimenti e all’aumento dei salari.

Proprio qui sta il nodo, o i nodi.

Da una parte bisogna promuovere e favorire in ogni modo la crescita dimensionale delle imprese piccole e piccolissime, superando il nanismo dove c’è. Come detto, la crescita della dimensione favorisce gli investimenti e la produttività.

Dall’altra solo una generalizzata modernizzazione di ciò che sta fuori delle imprese industriali ma che può aiutare la loro performance e cioè: servizi, Pubblica amministrazione, reti infrastrutturali e logistiche, porti, università, formazione del capitale umano, può spingere in alto questo pezzo di industria italiana oggi meno efficiente e qualitativa.

Non è possibile che quella italiana sia la seconda manifattura in Europa, la settima del mondo ma contemporaneamente il Paese sia solo il diciottesimo su ventisette in Europa per digitalizzazione. Una contraddizione drammatica e emblematica.

Oggi le imprese meno performanti non riescono ad alzare i salari perché così facendo il loro CLUP (Costo del lavoro per unità di prodotto) sarebbe superiore alla crescita di produttività e alimenterebbe ulteriori spirali inflazionistiche, erodendo la redditività dell’impresa a danno della propensione a investire.

Accanto a un grande processo di modernizzazione, che in fondo è la vera scommessa del PNRR, il capitalismo italiano, come tutti i capitalismi dei paesi democratici e avanzati del mondo, se vuole sopravvivere deve essere sempre più equo ed inclusivo.

Ciò vale in particolare per il capitalismo europeo alle prese con l’enorme sforzo della decarbonizzazione e con la sfida a realizzare consenso su un’ipotesi meno estremista e ideologica della lotta al cambiamento climatico.

Non si tratta soltanto di questioni economiche e salariali. Certamente l’aumento reale dei salari e stipendi e del potere di acquisto degli stessi è importantissimo. Ma gli strumenti con cui raggiungerlo sono altrettanto importanti, perché si portano dietro un dato culturale di cambiamento di approccio e di paradigma.

La diminuzione del cuneo fiscale è il contributo che lo Stato deve dare rendendo strutturale questa misura, soprattutto per i salari e stipendi più bassi, senza fare crescere il deficit di bilancio e il debito.

Ma gli imprenditori e le imprese private devono lavorare senza sosta per fare aumentare il consenso intorno alle imprese che sono il più importante strumento della crescita.

Come imprenditori ci dobbiamo impegnare sempre di più nello sviluppo del welfare aziendale, nel sostegno delle pari opportunità, nella partecipazione agli utili dei lavoratori che va almeno in parte defiscalizzata, nel premio al merito alla qualità e alla fedeltà, nella solidarietà sociale.

Si tratta di strumenti in parte nuovi che l’industria italiana deve sviluppare e incentivare con convinzione per consolidare i suoi primati e per coniugare crescita, produttività e aumento del potere di acquisto dei lavoratori.

Gozzi: “Italia deve pretendere da Ue cambio indirizzo su politiche industriali”

Gli anni da cui veniamo, per quanto riguarda le scelte europee sull’industria, sono stati molto difficili. Un’Europa tutta concentrata sulla finanza, sulla disciplina fiscale, sul cambiamento climatico è sembrata non avere alcuna attenzione né passione per l’industria manifatturiera e in particolare per quella di base”. Lo diceva il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, nella relazione all’Assemblea annuale di Federacciai, tenutasi a Milano il 10 maggio scorso, spiegando che si tratta di “un’impostazione per così dire nordica, di Paesi ormai senza industria, in particolare Olanda e Danimarca, che importano tutto, che per questo declinano spesso un mercatismo estremista e che sono ideologicamente votati a politiche di transizione energetica estreme”. Gozzi parlava di “pregiudizio anti industriale”, e ora difende le sue parole dalle critiche in un intervento su Il Riformista: “Le critiche vanno sempre considerate con attenzione e umiltà ma in questo caso ho ragione io: i miei quindici anni di attività industriali in Belgio, vicino a Bruxelles, alla Commissione Europea e alla sua burocrazia guardiana (alla quale purtroppo gli italiani partecipano poco e male) mi hanno dato una sensibilità e un fiuto per ciò che bolle in pentola a Berlaymont che raramente mi fanno sbagliare”.

A sostegno della sua tesi, Gozzi porta un’intervista realizzata da ‘L’Echo’, il giornale economico belga, a Pierre Régibeau, ex braccio destro della VicePresidente e Commissaria europea alla concorrenza la danese Margrethe Vestager. “I contenuti dell’intervista – scrive il presidente di Federacciai -, nella loro radicalità mercatista, ecologista e antindustriale sono emblematici dell’atteggiamento che ho denunciato nella mia relazione, un atteggiamento nel quale un liberismo estremo (mercatista appunto) si intreccia ad un ecologismo acritico e a una visione tutta finanziaria e antindustriale o a-industriale dell’economia”.

Gozzi conclude spiegando che “l’Europa non è più il centro del mondo ma, purtroppo, un continente demograficamente e economicamente in declino. In famiglia, da noi, si dice che l’arroganza è sempre un peccato ma che nel business è un peccato mortale. Purtroppo questo adagio pare essere ignorato a Bruxelles e dintorni dove si decide il futuro dell’Europa. Rileggendo questa intervista, due insegnamenti bisogna trarre. Il primo è che il sistema industriale nel suo complesso non è stato capace di fare sentire sufficientemente la sua voce. E ciò non deve più succedere, tanto più che i prossimi anni saranno decisivi per le sorti della manifattura europea impegnata nella colossale sfida della decarbonizzazione; il secondo è che bisogna mandare a Bruxelles i migliori. L’Italia deve presidiare con forza le Direzioni e deve pretendere un cambio di indirizzo europeo sulle politiche industriali. Questo oggi significa costituire un grande fondo europeo per la transizione industriale e per la decarbonizzazione dell’industria di base”.

Federacciai bacchetta l’Europa. Gozzi: “Saremo campioni del mondo green”

Per la prima Assemblea del suo secondo mandato da presidente di Federacciai, il professor Antonio Gozzi ha scelto la strada della chiarezza estrema perché, verosimilmente, non è (più) il tempo delle mezze misure e dei cerchiobottismi. Uno dei comparti industriali più importanti del Made in Italy, una delle eccellenze del Paese, non può restare immobile e non può difendersi da sola. Così Gozzi, prendendo la parola in uno dei padiglioni dell’immensa Fiera di Rho, non l’ha toccata proprio pianissimo. Ha richiamato l’Europa alle sue responsabilità e sollecitato il Governo di Giorgia Meloni ad agire, ha profilato un futuro sempre più decarbonizzato per il mondo siderurgico in maniera da diventare “campioni del mondo” perché adesso “siamo campioni d’Europa”. Traguardo ambizioso, da raggiungere esplorando frontiere al momento vietatissime, come quella del nucleare. Supportato, in questo, dalle promesse del ministro Urso, reduce da un viaggio in Romania in cui ha consolidato l’idea che noi, come sistema Paese, non possiamo rimanere indietro.

Siamo i siderurgici più green d’Europa e l’Italia è il Paese europeo con la più alta produzione di acciaio decarbonizzato (oltre 80 percento) e questo ci permette di rivendicare tale primato ai tavoli europei”, ha cominciato Gozzi. Ma l’interlocuzione con Bruxelles non è facile, tutt’altro, quasi un muro contro muro: “Estremismo e ideologia in campo ambientale, estremismo finanziario e mercatista, non considerazione adeguata da parte delle istituzioni europee della centralità dell’industria, crescenti asimmetrie competitive fra gli Stati gravano come macigni sul futuro economico e sociale dell’Unione. L’Europa deve cambiare approccio e deve farlo rapidamente, pena una vera e propria desertificazione industriale del continente”. Un chiodo fisso, quello della Ue. Nella sua compattezza, Federacciai chiede a Commisione e Parlamento un cambio di passo. “Non esiste un piano europeo per la siderurgia: il vero pensiero che si coglie è che l’acciaio sia il passato e che parte della produzione siderurgica debba lasciare l’Europa. Ma l’acciaio non è il passato , anche l’Europa deve sostenere lo sforzo di decarbonizzazione in siderurgia“, la denuncia del presidente. E ancora: “Bisogna non perdere mai di vista la competitività delle nostre imprese perché solo in questo modo la transizione può essere virtuosa ambientalmente e sostenibile economicamente e socialmente”.

Se è vero che la strada non è breve e, a tratti, potrà sembrare disagevole, è innegabile che debba essere intrapresa subito e senza tentennamenti. Soprattutto, dicono in Federacciai, senza incagliarsi in ideologie sorpassate. Un esempio? Eccolo: “Con riferimento all’energia nucleare, che ancora oggi rappresenta il 25% della produzione elettrica europea, vogliamo esprimere al Governo, anche in questa sede, il nostro totale sostegno alla ripresa anche in Italia di questa opzione. Sappiamo che molti dicono che per l’ltalia è troppo tardi e che i costi sarebbero troppo elevati. Sappiamo però anche che la velocità dell’innovazione tecnologica, l’avvento del nucleare di quarta generazione e dei microreattori rappresentano un’opportunità straordinaria, da non perdere”, ha teorizzato Gozzi.

Se l’Ucraina è un’opportunità da sfruttare “per l’elettrosiderurgia italiana”, i casi dell’ex Ilva e di Piombino non sono da trascurare. “Gli interventi sono stati imponenti e, probabilmente, Taranto oggi è l’impianto siderurgico più ambientalizzato del mondo“, ha sottolineato il presidente di Federacciai, “Per nostro difetto storico di comunicazione e per l’incapacità di narrare la siderurgia italiana per quello che è, cioè un settore industriale avanzato e di eccellenza, i punti problematici e di crisi, e cioè Taranto e Piombino, spesso nell’immaginario collettivo sono diventati l’esempio di come l’acciaio sia sporco, brutto e cattivo e di come alla parola acciaio si associ la parola crisi – ha spiegato -. Vi abbiamo raccontato perché non è così. Ormai più dell’80% dell’acciaio prodotto in Italia non è fatto né a Taranto né a Piombino ma nei mini-mills elettrici e decarbonizzati del Nord, protagonisti della più grande macchina europea di economia circolare“.

Riaprire il tribunale del Levante, ecco cosa fare veramente e rapidamente

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, interviene nel suo editoriale su ‘Piazza Levante‘ sul tema della riapertura del Tribunale di Levante.

“Questo giornale ha sempre sostenuto che la perdita del Tribunale è stato un durissimo colpo per la città di Chiavari e per il suo ruolo di capoluogo del Tigullio.

È sempre utile ricordare il clima in cui maturò a livello governativo quella scelta scellerata.

Fu una scelta demagogica del governo Monti.

Non riuscendo a procedere con altri tagli di spesa pubblica che l’Europa chiedeva all’Italia dopo la tempesta speculativa che aveva costretto il Governo Berlusconi alle dimissioni, il premier professore pensò bene di procedere alla chiusura dei piccoli tribunali non collocati in capoluoghi di provincia, per dare prova della capacità del suo governo di praticare veramente politiche di austerità.

Si trattò appunto di una scelta demagogica perché in realtà i risparmi di spesa furono minimi o nulli e i disagi per i cittadini utenti del servizio di giustizia enormi.

L’esempio del Tribunale di Chiavari è sotto gli occhi di tutti.

Si trattava di un Tribunale ben organizzato e molto efficiente nella qualità e nei tempi del servizio di giustizia, che serviva un vasto bacino di popolazione compresa una parte dell’entroterra ligure e cioè la Val Fontanabuona, la Valle Sturla e la Val Graveglia tradizionalmente gravitanti su Chiavari.

Si trattava di un Tribunale di presenza antica, abolito sotto il fascismo che detestava ogni forma di decentramento, e riaperto con la Liberazione e la Repubblica.

Si trattava di un’attività direzionale di rango superiore con un importantissimo indotto anche sulle altre attività di servizio e commerciali della città e punto di riferimento di un ceto professionale fatto di avvocati, commercialisti, notai, ingegneri, geometri, periti che caratterizza da sempre la città.

Si trattava di un Tribunale che aveva condotto lo Stato a un ingente investimento per la realizzazione di una nuova sede più moderna ed efficiente, realizzata in aderenza al carcere mandamentale e al commissariato di Pubblica Sicurezza secondo criteri di efficienza anche logistica del servizio di giustizia.

Tutti questi elementi non furono minimamente tenuti in conto, anche per la debolezza politica e di rappresentanza del Tigullio, che non avendo ‘santi in Paradiso’ ancora una volta pagò pegno a favore di Genova matrigna.

Non ci fu un solo politico genovese che prese le parti delle esigenze di Chiavari e del Tigullio e anzi con il tipico egoismo del capoluogo la chiusura del Tribunale di Chiavari e l’accentramento dei suoi servizi nel Tribunale di Genova fu vissuta come un atto quasi dovuto alla Superba.

L’onda ‘razionalizzatrice’ e ‘accentratrice’ fu anche cavalcata da vasti settori e correnti della Magistratura e della burocrazia ministeriale da sempre fautori dei grandi tribunali e della loro specializzazione, in spregio ai presidi territoriali e al decentramento delle attività sul territorio.

Fino ad oggi nessuno ha avuto il coraggio di fare il bilancio, numeri alla mano, di quella chiusura spiegando ai cittadini quali sono stati i risparmi, se mai ve ne sono stati, analizzando i costi aggiuntivi che sicuramente l’accentramento ha comportato (spazi mancanti presso il Tribunale di Genova ad esempio), cercando di calcolare il peso e i sacrifici per la popolazione comportati dall’accentramento su Genova.

Una brutta pagina di demagogia e cattiva amministrazione confermata dal fatto che alcuni tribunali non in capoluoghi di provincia (e cioè nella stessa situazione di Chiavari) vennero salvati non si sa in base a quali criteri e valutazioni se non il peso politico di qualche ‘santo protettore’ che Chiavari non aveva avuto.

Con Nordio Ministro di Grazia e Giustizia sembra aprirsi una prospettiva nuova. Noi stimiamo molto l’ex magistrato per la sua visione della giustizia e per il suo garantismo tanto più rilevante perché proviene da un ex pm.

Nordio ha avuto l’onestà di dire alla Camera che le chiusure dei piccoli tribunali molto spesso sono stati atti non giustificati da elementi concreti e ha affermato che il Governo Meloni ha intenzione di riesaminare la questione facendo una corretta e non demagogica analisi costi-benefici riesaminando il dossier caso per caso.

Emergono sia nelle dichiarazioni del Ministro che soprattutto in quelle del sottosegretario onorevole Delmastro due questioni fondamentali al fine di avere qualche chances:

L’eventuale riapertura dei tribunali soppressi potrà avvenire solo se il servizio riguarderà un’area territoriale più vasta di quella servita in precedenza;
La disponibilità di locali idonei e immediatamente fruibili sarà particolarmente importante.
Entrambi gli elementi costituiscono una chiarissima indicazione di un lavoro politico e amministrativo che va svolto con celerità ed intelligenza.

Il Tribunale del Levante (così dovrà chiamarsi e non più Tribunale di Chiavari) quali territori nuovi dovrà servire in più rispetto alla vecchia circoscrizione? Una parte di genovesato? Una parte di provincia di La Spezia? Bisogna convincere le Amministrazioni di quelle località a lavorare per la nuova struttura e a condividere il progetto.

Bisogna al più presto liberare l’edificio del nuovo Tribunale in corso De Michiel dai servizi che vi sono stati collocati dalla Civica Amministrazione negli ultimi anni. Bisogna farlo subito trovando soluzioni di ricollocazione per Inps, GdF, Agenzia delle Entrate, Giudice di Pace e Centro per l’impiego.

La disponibilità immediata dei locali è considerata come si diceva un elemento fondamentale. Bassano del Grappa, nella stessa identica situazione di Chiavari, ha tenuto duro per più di dieci anni tenendo vuoto l’edificio e oggi lo ha pronto e a disposizione.

Noi siamo sempre stati molto critici con l’Amministrazione Di Capua prima e Messuti poi perché il tema di volumi direzionali, fondamentali per presidiare il ruolo di capoluogo di Chiavari, non è mai stato al centro dell’attenzione e anzi si sono perse e si stanno perdendo occasioni per dare volumi direzionali alla città.

Basta fare l’elenco delle occasioni perdute: palazzo Ferden, intervento nell’area Cantero Ginocchio, area Italgas ed altre ancora che se oggi fossero disponibili consentirebbero di rilocalizzare immediatamente i servizi collocati nel nuovo Palazzo di Giustizia liberandolo per la riapertura del Tribunale.

Vediamo cosa farà nelle prossime settimane la Civica Amministrazione e capiremo rapidamente se davvero ci tiene e se crede alla riapertura del Tribunale operando coerentemente in tal senso.

I discorsi stanno a zero: fatti, non parole“.