Antonio Gozzi: “L’Unione Europea in testacoda sul green deal”
Il gruppo parlamentare dei Verdi al Parlamento Europeo ha commissionato a un famoso think tank francese, il Rousseau Institute, uno studio sui costi della transizione energetica. I risultati dello studio, il cui committente certamente non può essere tacciato di essere contro la transizione energetica, sono impressionanti.
I costi della transizione energetica, secondo lo studio citato, ammonterebbero da qui al 2050 a 40.000 miliardi di euro solo per l’Unione Europea, e cioè 1520 miliardi l’anno, pari al 10% del PIL europeo.
Lo studio del Rousseau Institute afferma che questi costi non sono sostenibili senza un ricorso molto importante a fondi pubblici.
Ma qui, come è stato giustamente rilevato (Sergio Giraldo, StartMagazine, 10 febbraio 2024) scatta la contraddizione e il testa coda. Infatti l’intervento così importante degli Stati è reso impossibile dalle regole fiscali europee, anche di quelle stabilite nel nuovo Patto di stabilità. Infatti, nonostante la richiesta dell’Italia e di altri Stati membri di non conteggiare nel deficit le spese sostenute per favorire la transizione energetica, questa proposta non è passata. Risultato: il Green Deal fortemente voluto dalla Commissione Europea è a rischio per le regole di austerità imposte all’Europa dalla stessa Commissione.
Nel suo studio il centro di ricerca francese ipotizza che quasi tre quarti degli investimenti per la neutralità climatica provengano dai governi. Per questo motivo il messaggio chiave è che se non si allentano i parametri del patto di stabilità, o non si ridimensionano più realisticamente gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050, il Green Deal concepito nell’attuale dimensione è del tutto irrealistico e non realizzabile.
Le risorse pubbliche sono indispensabili perché moltissimi degli investimenti richiesti sono privi di redditività e quindi il settore privato non riesce a finanziarli da solo specie nei settori della ristrutturazione edilizia e dell’industria pesante.
Si possono portare molti esempi.
C’è il tema dell’idrogeno, e in particolare dell’idrogeno verde: sarebbe fondamentale per la decarbonizzazione dei trasporti e dei processi industriali più energivori, i così detti hard to abate, ma non ha ancora trovato una sua plausibilità e sostenibilità economica, veleggiando attualmente a un costo/prezzo che è circa tre volte quello del gas naturale, anche tenuto conto dell’impatto delle CO2.
Gli interventi ipotizzati sulle abitazioni, particolarmente costosi per patrimoni immobiliari non moderni come sono la maggior parte delle case italiane, sono stati ridimensionati per le proteste di molti Stati membri.
Non esiste un fondo europeo per accompagnare i costosissimi processi di decarbonizzazione delle industrie di base (acciaio, chimica, cemento, carta, vetro, ceramica ecc.) e vi è il concreto rischio di una forte deindustrializzazione in questi settori con gravi ripercussioni per le filiere a valle.
Le recenti proteste degli agricoltori in tutt’Europa testimoniano di un malessere diffuso per politiche dell’Unione che non sono state capaci di valutare le conseguenze di provvedimenti spesso dettati più da ideologismo ambientalista che da pragmatismo e razionalità.
In generale tutta la legislazione europea sul climate change ha evitato di prendere in considerazione normali analisi e studi costi/benefici relativi alle azioni intraprese, generando appunto una situazione che sta diventando ingovernabile.
Esiste un grave deficit europeo di comprensione della situazione in cui siamo.
Abbiamo inseguito per molto tempo l’idea di un’Europa protagonista della globalizzazione sottovalutando il potenziale di concorrenza sleale che sarebbe venuto da paesi come la Cina che non rispettano le nostre regole del gioco. L’industria europea, pur trovandosi in difficoltà, inizialmente ha retto la sfida. Poi però abbiamo fatto un ulteriore passo dotandoci di politiche ambientali sempre più ambiziose e sempre più assertive e unilaterali, ignorando quello che accadeva nel resto del mondo. Tali politiche hanno scaricato enormi costi sull’industria europea. E qui è esplosa la contraddizione: può un continente aperto in modo indiscriminato al commercio internazionale dotarsi internamente di obblighi e di costi asimmetrici?
Questi due modelli sono antitetici: si può scegliere di perseguire il massimo di competitività, ma allora non bisogna gravare le imprese di costi insostenibili, oppure si può decidere di costruire un modello di economia sostenibile ma allora bisogna riequilibrare la concorrenza internazionale.
Il rischio di deindustrializzazione dell’Europa è figlio di questa contraddizione. A cui si è aggiunto negli ultimi anni un terzo elemento: abbiamo scoperto la fragilità delle catene internazionali del valore. La ricerca spasmodica dell’efficienza ci ha indotti a sottovalutare, se non proprio ignorare, la sicurezza. E l’illusione che l’Europa fosse al centro del mondo ci ha spinto a trasformare i nostri disegni astratti in obblighi concreti con l’illusione che il mondo ci avrebbe seguito; il mondo, purtroppo, non ci ha seguito e noi ci siamo spiazzati da soli.
Di queste gravi contraddizioni incomincia a farsi strada la consapevolezza. L’Italia Paese fondatore dell’Unione e secondo paese manifatturiero d’Europa deve fare sentire la sua voce. L’Europa ha bisogno di più industria non di meno industria.