Ue, Bonetti: “Investimenti comuni con fiscalità agevolata. Sul Mes errore grave”

Si candida all’Europarlamento con un progetto che metta al centro politica estera, difesa comune e un approccio al Green Deal non ideologico. Elena Bonetti, vicepresidente di Azione, co-fondatrice di Per-Popolari europeisti riformatori, in passato ministra delle Pari opportunità e la Famiglia nel governo Conte 2 e nell’esecutivo a guida Mario Draghi, racconta al #GeaTalk (clicca qui per rivedere l’intervista integrale) gli obiettivi per la nuova legislatura Ue. “Solo un’Europa solida, forte e coesa può rispondere alle esigenze dei cittadini e dei Paesi membri da un lato, e svolgere un ruolo di grande potenza sul piano internazionale dall’altro“. Ai suoi occhi il pericolo è evidente: “L’asse Russia-Cina da una parte, e Stati Uniti (ci auguriamo di no, ma magari a guida Trump potrebbe accadere) dall’altra, renderebbero l’Europa totalmente schiacciata e anche succube di decisione altrui“.

Si parte da una base ben definita: per agganciare il trend internazionale “uno sviluppo tecnologico industriale che affianca il piano di transizione climatica può essere la leva giusta“. In altri termini, “va portato avanti un Green Deal che sia sostenibile da un punto di vista economico, quello che si chiama l’effective cost, cioè ottenere un risultato bilanciato rispetto al costo, con l’obiettivo determinato di fare politiche pro ambiente“. L’esempio è la Direttiva sulle Case Green: “L’Ue ha votato – noi siamo stati l’unico partito di opposizione a esprimerci contro – un provvedimento rispetto al quale l’Italia è impegnata a ridurre del 16% il consumo energetico degli edifici. Questo significa, conti alla mano, che dobbiamo diminuire da qua al 2030 di 75 terawattora il consumo energetico degli edifici” e “il Superbonus, al 2022, aveva fatto una riduzione di 9 Terawattora. Facciamo pure che siamo molto più bravi, ma dobbiamo immaginare un potenziale costo di quattro volte superiore a quello del Superbonus“. Ma questi soldi, sia a livello pubblico che a livello privato, “non ci sono“, ergo “l’esito di questa Direttiva è che non si farà nulla, non cambieremo lo stato di consumo energetico degli edifici“.

Ragion per cui “ci immaginiamo un Green Deal che abbia la capacità di fissare obiettivi ambiziosi, ma raggiungibili a cui si affianchi il foglio del come raggiungerli. Se da un punto di vista energetico vogliamo ridurre le emissioni si investe sul nucleare – entra nel dettaglio -. Se si deve fare una riduzione dei costi energetici, deve esserci, per esempio, un investimento europeo che metta in campo una fiscalità agevolata per degli obiettivi di sostenibilità raggiungibile“. Altro tema emblematico: “Se continuiamo a investire solo sulle auto elettriche, ma non aggiorniamo l’industria dell’automotive europea in modo adeguato, rimanendo totalmente dipendenti dalla Cina per i componenti, non sono per le batterie, significa che l’Europa viene impoverita nella sua parte produttiva, scaricando i costi della transizione sulle imprese o sulle fasce sociali più deboli, aumentando le disuguaglianze sociali“, avvisa Bonetti.

Sull’energia, poi, la posizione è netta, ma da tempo ormai: “Il nucleare di nuova generazione ha dei livelli certificati di sicurezza molto più alti, tra l’altro, dei possibili incidenti che ci sono stati con altre forme di energia“.

Inoltre, Bonetti vede la necessità di avere una difesa comune europea e anche un esercito. “Il punto chiave è questo – dice -. Il passaggio che deve fare l’Europa al prossimo giro, dopo le elezioni di giugno, è decidere, almeno con i Paesi che ci stanno, di diventare un soggetto politico decidente. Per avere, ad esempio, l’ambizione di sedersi al tavolo delle Nazioni Unite e nel Consiglio di sicurezza anche come Unione europea“. In questo modo, dividendo anche le spese, “saremmo molto più efficaci muovendoci con la massa critica, con l’effetto scala europeo e non come singoli Paesi isolati, e avremmo minor costo e più beneficio“.

Impossibile non parlare del giudizio sul governo italiano e sulla premier Giorgia Meloni. “Sulla politica estera, almeno nella prima fase, è stata totalmente in continuità con la politica di Draghi. Pensiamo al sostegno all’Ucraina“. Poi, però, c’è il tema della “non credibilità dei suoi alleati interni, come Salvini“. Inoltre, secondo Bonetti, la presidente del Consiglio “ha fatto degli errori, penso gravi, come quello di non aver ratificato il Mes, oltre a non aver preso quello sanitario“. Perché l’Italia “col diritto di veto, ha impedito di ratificare uno strumento di tenuta finanziaria a livello europeo. Ed è chiaro che questo poi lo abbiamo pagato nella trattativa sul Patto di stabilità, dove evidentemente siamo arrivati più deboli“.

Green Deal, Bonetti: “Investimento Ue con fiscalità agevolata per obiettivi raggiungibili”

Ci immaginiamo un Green Deal che abbia la capacità di fissare obiettivi ambiziosi, ma raggiungibili a cui affianchi il foglio del come raggiungerli“. Lo dice la vicepresidente di Azione, Elena Bonetti, candidata alle prossime elezioni europee, ai microfoni del #GeaTalk. “Se da un punto di vista energetico vogliamo ridurre le emissioni si investe sul nucleare – aggiunge -. Se si deve fare una riduzione dei costi energetici, deve esserci, per esempio, un investimento europeo che metta in campo una fiscalità agevolata per degli obiettivi di sostenibilità raggiungibile“. Inoltre, “il nucleare di nuova generazione ha dei livelli certificati di sicurezza molto più alti, tra l’altro, dei possibili incidenti che ci sono stati con altre forme di energia“.

Piano Mattei, missione di Urso in Libia. E Meloni torna mettere nel mirino il Green Deal

C’è un ponte che unisce l’Africa a Bruxelles. No, non è il Ponte sullo Stretto ma il Mediterraneo. E, soprattutto, lo strumento: quel Piano Mattei che il governo italiano porta avanti da quasi due anni e ora vorrebbe accelerare i tempi per arrivare a dama con la nuova composizione di Parlamento e Commissione Ue.

In quest’ottica va letto il viaggio diplomatico del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, in Libia. Il responsabile del Mimit sarà infatti a Tripoli il 20 e 21 maggio per una visita ufficiale nel quadro del piano che ha come obiettivo quello di rafforzare la cooperazione con il Nord Africa in settori strategici, tra i quali l’energia e lo sviluppo di fonti rinnovabili per fare dell’Italia l’hub europeo degli approvvigionamenti.

Nell’agenda di Urso ci sono incontri bilaterali con il ministro dell’Economia e del Commercio, Mohamed Huej, ma anche con il responsabile dell’Industria e dei Minerali, Ahmed Abuhissa, infine con il ministro per le Comunicazioni e gli Affari Politici, Walid Al Lafi. Nel corso della sua missione, poi, avrà anche l’occasione di intervenire come oratore principale alla Conferenza Internazionale sull’industria e la tecnologia in Libia e partecipare alla 50esima edizione della Fiera internazionale di Tripoli, in cui sono presenti oltre 100 aziende italiane.

La missione di Urso in Libia è in linea con il programma di iniziative diplomatiche avviata nello scorso mese di aprile, con il viaggio in Egitto e che proseguirà lunedì 27 maggio in Tunisia. Inoltre, arriva solo pochi giorni dopo la visita della premier, Giorgia Meloni, che era stata a Tripoli lo scorso 7 maggio per incontrare il primo ministro del governo di unità nazionale, Abdul Hamid Mohammed Dabaiba, e il presidente del Consiglio presidenziale libico, Mohammed Yunis Ahmed Al-Menfi, per poi chiudere a Bengasi con il generale dell’Esercito nazionale arabo di Libia, Khalifa Belqasim Haftar.

A proposito della presidente del Consiglio, intervenendo a ‘Mattino 5‘, su Canale 5, Meloni è tornata a parlare di Transizione ecologica, facendo capire quali saranno i principi dell’azione che muoveranno l’azione del suo movimento politico nazionale, FdI, all’interno del gruppo europeo dei Conservatori. “Con la scusa della difesa dell’ambiente, abbiamo visto l’Ue che attaccava le nostre libertà. Ha preteso di dirci cosa mangiare, cosa guidare, se dovevamo efficientare le case e come lo dovevamo fare senza dire chi pagava, quali tecnologie le aziende potevano utilizzare“. Secondo Meloni c’è stata una “limitazione alla libertà delle persone su cui tornare indietro“. Perché, questo è il punto politico della premier, “l’Unione europea può dare gli obiettivi, ma i Paesi giudicano come conseguirli“.

commissione ue

Verso le Europee: modifiche al Green Deal nei programmi elettorali di tutti i partiti Ue

Giusto, sbagliato, ideologico, poco sociale. Il Green Deal è il filo rosso, anzi, verde, di una campagna elettorale europea che fa dell’agenda di sostenibilità della Commissione europea uscente l’oggetto principale di qualunque partito politico. Ppe, Pse, Verdi, Re, Ecr, Sinistra: tutti hanno qualcosa da dire su un insieme di provvedimenti che si vorrebbe riconsiderare. Le elezioni europee di inizio giugno si identificano dunque in un vero e proprio referendum sulla transizione.

PPE: NO A IDEOLOGIA FUORVIANTE. L’ingrediente principale della ricetta economica dei popolari europei (Ppe) è la rimodulazione del Green Deal. Nel suo Manifesto per le elezioni europee 2024, il Ppe pone l’accento sul “bisogno di una politica che non sia offuscata da un’ideologia fuorviante, ma che fondi piuttosto su solide basi motivi di fatto e responsabilità sociale”. In altri termini, “dobbiamo bilanciare i diversi interessi nella nostra economia, società e ambiente, riconoscendo le sfide dell’economia globale, del cambiamento climatico e delle mutevoli realtà demografiche del nostro continente”. Il partito che in questi cinque anni ha sostenuto la Ursula von der Leyen nella veste di presidente della Commissione Ue è lo stesso che fa campagna elettorale contro di lei in versione candidata al secondo mandato.

Il programma economico di quello che sembra essere destinato a confermarsi primo partito nell’Ue prevede politica di tassazione amica delle imprese, tuttavia non specificata. “L’Europa a sostegno delle imprese e fiscalmente equa” potrebbe prendere diverse forme, lasciate al post-voto di inizio giugno. C’è poi la promessa a migliorare e rilanciare il mercato unico europeo, visto che “il rendimento economico dell’Europa dipende dal suo successo”. Centrali nell’impegno del Ppe, la strategia di competitività per l’Europa e il piano di investimenti per lavori di qualità. La prima intende ridare slancio allo spirito imprenditoriale a dodici stelle, la seconda investire nel settore ricerca e sviluppo. Per la prima si intende stabilire un sistema di verifica delle proposte legislative prima della loro presentazione, per la seconda convincere i governi a combinare investimenti pubblico-privati per un importo pari al 4 per cento del Pil. Il vero nodo centrale è però la riorganizzazione del collegio dei commissari, con un commissario specifico per le Pmi e la riduzione della burocrazia.

PSE: POLITICHE SOCIALI INSIEME A QUELLE EOCLOGICHE. I socialisti (Pse) sono chiari e concisi nel loro Manifesto programmatico. “Diciamo no all’austerità”, recita il documento. “Diciamo sì alla protezione dei lavoratori dalle crisi, alla regolamentazione dei mercati finanziari, alla lotta alla speculazione”. Tutto questo si declina nella proposta di un meccanismo permanente europeo di sostegno alla disoccupazione, sulla scia del programma anti-pandemico Sure che i suoi risultati li ha ottenuti. Un impegno che marca il solco con il Ppe di Ursula von der Leyen presidente della Commissione Ue e candidata, che al varo di un simile meccanismo ‘salva posti di lavoro’ ha detto ‘no’ in tempi non sospetti. Il Green Deal non è in discussione, ma l’agenda verde intende essere tinta di rosso allineando le politiche sociali a quelle ecologiche. Il che vuol dire principalmente contrasto alla povertà energetica e al caro-bollette, approvvigionamento ai più vulnerabili, e impegno per la riforma del mercato energetico per garantire la stabilità dei prezzi e l’accessibilità economica.

Infine, i socialisti intendono interpretare il ruolo di contemporaneo Robin Hood tassando i ricchi proteggendo così i meni abbienti per una giustizia fiscale funzionale all’equità sociale. Da programma, “le grandi aziende, i grandi inquinatori e gli ultra-ricchi devono pagare la loro giusta quota in Europa e nel mondo, attraverso tasse efficaci sulle società, sui profitti straordinari, sui capitali, sulle transazioni finanziarie e sugli individui più ricchi”.

RENEW EUROPA PUNTA SUGLI INVESTIMENTI. Quando si parla di economia e agenda economica i liberali europei (Re, Renew Europe) costruiscono la propria campagna elettorale sugli investimenti per rilanciare il motore economico a dodici stelle. “La prossima Commissione deve essere ‘la Commissione degli investimenti”, il passaggio e l’impegno chiave del programma di partito. Vuol dire attenzione a spesa in ricerca, sviluppo, innovazione e formazione del capitale umani, ma vuol dire anche creazione delle giuste condizioni per attrarre investimenti privati. La chiave per una rinnovata competitività passa per attrazione dei talenti e posti di lavoro di qualità.

Guardando al settore primario, i liberali strizzano l’occhiolino agli agricoltori promettendo loro una revisione del Green Deal in senso più a misura di esigenze di operatori del comparto. Tra queste, la riduzione delle accise sui combustibili rinnovabili, come il biogas, e aumentare la soglia ‘de minimis’ per gli aiuti di Stato all’agricoltura. Per il medio-lungo periodo, invece, votare Renew alle prossime elezioni vorrebbe dire avere chi spingerà per fare in modo che la prossima Commissione presenti un’analisi dei costi e dei benefici dei requisiti cumulativi per il settore agricolo dell’UE derivanti dalla legislazione ambientale e sanitaria, oltre a elaborare “un importante piano finanziario” per la transizione verso un sistema agricolo e alimentare sostenibile e competitivo, individuando le lacune di finanziamento e mobilitando i necessari finanziamenti pubblici e privati.

VERDI: PIU’ GREEN BOND EUROPEI. Verde, perché comunque il Green Deal non si tocca. Ma anche rosso, perché i riferimenti di base delle regole comuni di bilancio sono obsolete e vanno cambiate. I Verdi europei presentano ai cittadini-elettori un Manifesto che spinge anche più esplicitamente a sinistra dei socialisti. “Rivedremo i limiti dei Criteri di Maastricht e del Patto di Stabilità e Crescita”, si legge. Un impegno con cui tentare una spallata al Ppe, che su quei criteri ha costruito la riforma del Patto, e al Pse che non ha saputo modificare il tutto. I criteri di Maastricht fissano i limiti di spesa pubblica, che non può eccedere la soglia del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil e la soglia del 60 per cento nel rapporto debito/Pil. La promessa dei Greens è di quelle che possono acchiappare consensi, ma allo stesso tempo di quelle difficili da realizzare, poiché i parametri in questioni sono incardinati nei trattati sul funzionamento dell’Ue, la cui modifica richiede l’unanimità degli Stati membri e un percorso lungo e tortuoso.

I Verdi propongono una nuova governance macroeconomica “che dia priorità agli investimenti di qualità nei beni pubblici e alla transizione verde rispetto all’obsoleto paradigma della crescita ad ogni costo per evitare ulteriori crisi e le loro conseguenze sociali”. Spazio poi alla green-economy. Qui si intende spingere per un Fondo per la transizione verde e sociale equivalente ad almeno l’1 per cento annuo del PIL dell’Ue, finanziato principalmente da prestiti congiunti a livello dell’Unione. Spazio ai Green bond europei, ma pure al completamento dell’unione bancaria. I verdi spingono per il varo di uno schema di garanzia dei depositi, in stallo da anni.

ECR: FOCUS SU POLITICA INDUSTRIALE. I conservatori europei (Ecr) non si nascondono: “Rimaniamo fermi nella nostra convinzione che il motore a combustione interna, testimonianza della potenza della creatività e dell’ingegno europeo, possa rimanere commercialmente sostenibile negli anni a venire adottando tecnologie all’avanguardia e investendo nella ricerca innovativa su carburanti alternativi a basse emissioni”. Un estratto del Manifesto del partito che è una chiara presa di distanza da un Green Deal che si vuole rivedere in nome quanto meno di un determinato settore industriale. Si cerca un patto europeo con l’industria, a cui si promette che l’Ecr “sosterrà la ricerca e l’innovazione tecnologica e proporrà strategie in accordo con le imprese e non contro di esse”.

Più in generale l’obiettivo primario dell’Ecr nella sfera economica è “rivitalizzare la politica industriale” attraverso maggiore centralità alle piccole e medie imprese e più attenzione ai settori tecnologici (intelligenza artificiale) e di telecomunicazioni (reti 5G e 6G). Il tutto attraverso “libertà d’impresa per ogni cittadino, preservando nel contempo l’autonomia fiscale degli Stati membri e la non interferenza nelle questioni relative alla tassazione”. Non da ultimo, il modello nazionale non può non difende il ‘made in’. Recita il Manifesto Ecr: “Vogliamo anche salvaguardare e promuovere la nostra identità unica in un mondo globalizzato preservando e promuovendo abilità e metodi artigianali tradizionali”.

LA SINISTRA PER UN RECOVERY PERMANENTE.  Il programma economico del partito de La Sinistra propone il ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (Mes, o Esm) per finanziare la ristrutturazione delle abitazioni e misure di efficienza energetica nel rispetto degli obiettivi del Green Deal, così da scaricare i costi dalle famiglie. A proposito di oneri, ecco la proposta di abolizione del patto di stabilità con il suo rigore, per un nuovo ‘patto di ristrutturazione sociale e ambientale’. Altro punto centrale: il Recovery Fund dovrebbe essere trasformato in meccanismo permanente per stimolare crescita e investimenti.

Nel Manifesto del partito c’è un programma fiscale molto chiaro, e molto a sinistra. Si propone l’introduzione di una ritenuta alla fonte sugli utili di multinazionali e banche, e di riprendere il lavoro per una tassa sulle transazioni finanziarie. Prevista inoltra una doppia azione contemporanea contro i giganti del web e la politica, con la proposta di una ‘tassa cloud’ progressiva sui ricavi delle piattaforme digitali, che copra la spesa delle aziende e dei partiti politici sui social media. Non finisce qui. Perché il programma spinge per una direttiva che un introduca obbligatoriamente un reddito minimo che “copra i bisogni fondamentali per una vita dignitosa” quali cibo, alloggio, energia, previdenza, accesso alla cultura, fondi per le emergenze. Sempre in ambito di politiche del lavoro, si chiede una riduzione delle ore lavorative e l’inclusione degli immigrati “a pari condizioni” salariali e di lavoro. Mentre in materia di spesa, si intende destinare il 7 per cento del Pil per istruzione e un 2 per cento di Pil in cultura.

Tridico: “In Europa serve politica industriale, tassa unica e reddito di cittadinanza”

Dice Pasquale Tridico, capolista per il Movimento 5 Stelle alle elezioni europee nella circoscrizione Sud, ex presidente dell’Inps ed economista, che qualora dovesse venire eletto al Parlamento si “trasferirà a Bruxelles”. E, aggiunge, “la famiglia sarà con me. L’impegno deve essere nelle istituzioni europee, come fanno altri parlamentari francesi o tedeschi. Invece, molti nostri parlamentari considerano il Parlamento europeo un taxi con cui tornare più forti, per creare un partito o per affari che poco c’entrano con la posizione con cui si è eletti. Questo ha allontano i cittadini italiani dal voto europeo”.

Nel pieno della campagna elettorale, Tridico espone durante un #GeaTalk quali sono gli obiettivi che si dà come uomo di punta del Movimento nella corsa al seggio europeo. Racconta, ad esempio, che “dovremmo migliorare il mercato unico europeo, perché non si regge con questo dumping. Per cui l’Unione dovrebbe iniziare a pensare a una tassa unica sul capitale”. Ma non basta: “Poi iniziamo a fare un welfare dell’Unione europea”, spiega. E, tra le altre cose, cita un reddito di cittadinanza europeo che farà drizzare le antenne all’attuale esecutivo che quello italiano, di reddito di cittadinanza, lo ha appena cancellato: “E’ quello che vogliamo portare in Europa, un reddito minimo universale che sia un dividendo sociale per tutti i cittadini europei che stanno al di sotto della soglia di povertà relativa in tutti i Paesi membri. E questo verrebbe finanziato con una nuova fiscalità, che non è nuova, ma avremmo un bilancio comune più vicino al 5 per cento in modo che gli shock dei Paesi possano essere gestiti in modo comune. Quello che manca è la gestione comune della crisi, che abbiamo visto col Covid e non con le crisi finanziarie”.

Ad ascoltare ancora Tridico, “negli ultimi decenni nel nostro Paese vedo una follia, una tendenza a fare investimenti a scarso contenuto tecnologico. Si aprono bar e ristoranti a ogni angolo di città, che non portano produttività ma sfruttano il lavoro. Potrei fare esempi di altri tipi di investimento che non hanno una responsabilità sociale, ma che al contrario sfruttano il costo del lavoro e la flessibilità per galleggiare, per fare competizione”. Non basta, l’ex presidente dell’Inps va oltre: “Noi abbiamo bisogno di investire in automotive, nella frontiera delle tecnologie, per quello c’è l’esigenza di un grande piano industriale. Stiamo facendo morire le industrie, Melfi chiude, Mirafiori chiude, Stellantis delocalizza. Negli anni ’90 producevamo 1,8 milioni di veicoli all’anno, oggi ne produciamo 900mila, e questo rappresenta il declino industriale del Paese. Se questo è sostituito da bar e ristoranti non cresceremo mai”.

Garbato ma severo, Tridico. Sul Superbonus ‘sgrida’ il ministro Giorgetti: “Il Superbonus nasce nel luglio del 2020, nel febbraio 2021 il governo Conte cade, arriva il governo Draghi col ministro Giorgetti che fa i decreti attuativi al ministero dello Sviluppo economico. Abbiamo il governo Draghi dunque e dopo il governo Meloni, con ancora il ministro Giorgetti. Cioè, il Superbonus è gestito da tre anni e mezzo dai governi Draghi e Meloni con Giorgetti ministro. Possiamo dirne bene o male, ma con certezza possiamo dire che è stato gestito da Giorgetti, che si lamenta senza mai modificarlo”. Meno garbato, ma ugualmente severo in merito al Ponte sullo Stretto considerato “non sostenibile, non economicamente efficiente , non prioritario, inutile”. Perché spiega “dal Nord della Calabria al Sud della Calabria ci vogliono cinque ore e mezzo. Non c’è Alta Velocità, non ci sono strade adeguate. Se arrivo e passo il ponte in venti minuti, cinque minuti, un minuto, cosa me ne faccio? Qual è la priorità per noi calabresi? Passare il ponte in un minuto o avere strade che ad esempio collegano Reggio Calabria con Bari?”.

Rimandata Ursula von der Leyen (“Sulla pandemia ha fatto bene, dopo mi ha deluso”), non promosso Mario Draghi (“Ha contribuito a quella governance del passato, dalla Bce e poi da premier. Sono certo che alcune cose che ha scritto si possano e si debbano fare ma non si possono fare con le stesse persone che hanno contribuito a creare quella governance”), l’euro-ricetta sta nel libro che Tridico ha scritto con un titolo emblematico ‘Governare l’economia per non essere governati dai mercati’. Sostiene l’ex numero uno dell’Inps: “Noi non siamo un Paese in via di sviluppo, non possiamo fare competizione sul lavoro, ma sull’innovazione e la tecnologia. Il lavoro deve essere ben retribuito, ben qualificato, dignitoso. Questo vuol dire governare i mercati”. Il lavoro, sottolinea, “non va considerato un mercato come il carciofo, come il pesce, ma governare i mercati vuol dire governare l’economia, attraverso regole che partono dal mercato del lavoro: il salario minimo, il reddito minimo, i tempi di lavoro, la tecnologia, lo smart working e la produttività che deriva anche dalle competenze acquisite”.

L’ultimo passaggio è sul Green Deal. Che non ha funzionato, perché “ha bisogno di essere sostenuto dagli Stati. Se pensiamo che il costo debba essere supportato da agricoltori, cittadini e aziende, vuol dire che questa transizione non solo non avverrà mai, ma creerà dei ‘perdenti’. Fondi pubblici, perché siamo a un bivio”. In fondo, il ragionamento finisce sempre lì: “In Europa abbiamo avuto una legislazione che ha vincolato, con il divieto agli aiuti di stato le politiche pubbliche. Per questo abbiamo accumulato ritardi nella transizione. Dobbiamo capire che questa transizione deve essere guidata da grandi investimenti pubblici”.

L’Europa che sarà: sempre più verde, sempre meno ideologizzata

Nell’approssimarsi delle elezioni europee – è iniziato il count down dell’ultimo mese – con i nostri GeaTalk stiamo sondando programmi e intenzioni dei candidati dei vari partiti per coglierne gli aspetti meno esposti e più nascosti. Ora: da destra e da sinistra (e ovviamente dal centro) sta emergendo la necessità di ridisegnare l’Europa. Non che ‘questa’ sia stata completamente un flop, tenuto conto della pandemia e di due guerre, ma ‘quella che verrà’ dovrà essere innestata su presupposti diversi, in linea con gli avvenimenti e con i cambiamenti degli ultimi anni. In tutto e su tutto, è dirimente un approccio differente al Green Deal, che Forza Italia – e per estensione del concetto il Ppe – intende riformulare in Good Deal.

La ricetta? Pressoché la stessa. Partendo dalla premessa che il processo di decarbonizzazione non può arrestarsi e che il futuro deve essere necessariamente più green, la grande sfida che tutti si pongono è quella di una transizione per gradi, non a tappe forzate, ovvero di una politica verde che sappia mettere insieme la cura del Pianeta e la cura dei conti. La sostenibilità, in fondo, deve avere tre accezioni: ambientale, economica e sociale. Trovare il mondo di armonizzare queste tre esigenze è quanto mai complicato, rifuggere dalle ideologie e dagli estremismi un esercizio di tale buonsenso da risultare quasi banale. Eppure è ciò che emerge dai nostri confronti, il punto di caduta di ragionamenti che si basano sulle esperienze passate (da non ripetere) e target futuri da raggiungere.

Avanti con le rinnovabili, stop alle fonti fossili, si alla riduzioni delle plastiche, si ad un’agricoltura più sana, stop all’uso indiscriminato di fitofarmaci, poi il nucleare che torna a fare capolino, poi l’esigenza di avere il supporto dei capitali privati per finanziare la transizione… Da destra e da sinistra, e ovviamente dal centro, la linea è tracciata. La sfida delle sfide e capire se, a elezioni concluse, a Parlamento nominato, a Commissioni composte, tutto quanto è stato detto e promesso verrà messo a terra.

Tra luci e ombre l’ultimo atto del Parlamento Ue è sul Green Deal

Il Parlamento europeo il 25 aprile saluta baracca e burattini dopo cinque anni di lavoro non proprio facili. Al netto degli errori che sono stati commessi, va dato atto a Ursula von der Leyen a Roberta Metsola (e prima di lei al compianto David Sassoli) e a Charles Michel di essere incappati nel periodo peggiore degli ultimi decenni: una pandemia, due guerre e mezza non sono poca roba da gestire e, soprattutto, sono ostacoli lungo la via di una ricostruzione dell’Europa.

Si poteva fare meglio? Sì. Si poteva fare peggio? Anche. L’accusa che viene rivolta con maggiore insistenza a Commissione e Parlamento è di aver radicalizzato la lotta al cambiamento climatico e il contrasto al riscaldamento del pianeta. Il Green Deal, partito da presupposti nobilissimi, è andato in crisi quando è diventato la summa di provvedimenti estremi, poco in linea con la realtà di un’economia in crisi. Fatto salvo il concetto che la transizione ecologica è ineludibile, accettata la conseguenza che abbia costi molto alti da sostenere, il tutto si è inceppato quando da Frans Timmermans in giù è diventata una questione ideologica. E si è acceso lo scontro con governi e aziende: l’auto elettrica, le case green, il packaging, fino alla nuova Pac sono diventati motivi di scontro e non più di confronto. La marcia dei trattori su Bruxelles è un po’ il simbolo di un disagio latente, che ha finito per coinvolgere la pancia del popolo.

Uno studio di Copernicus racconta che l’Europa si è ‘inquinata’ più degli altri continenti. Persino più di Cina e India, che non sono proprio sensibilissime sull’argomento: e le varie Cop di questi anni ne sono la prova provata. Sarà per questo che gli ultimi atti dell’attuale Parlamento Ue saranno dedicati alla votazioni di quattro provvedimenti legati al Green Deal, per fare in modo che chi subentrerà ( o continuerà) dopo le elezioni dell’8-9 giugno abbia una base dalla quale partire. Si tratta del regolamento Ecodesign (Espr) e delle direttive Corporate social due diligence (Csddd), Ambient air quality and cleaner air for Europe e Packaging and packaging waste. Vedremo cosa ne uscirà, nella speranza che a vincere sia sempre il buonsenso.

Antonio Gozzi: “L’Unione Europea in testacoda sul green deal”

Il gruppo parlamentare dei Verdi al Parlamento Europeo ha commissionato a un famoso think tank francese, il Rousseau Institute, uno studio sui costi della transizione energetica. I risultati dello studio, il cui committente certamente non può essere tacciato di essere contro la transizione energetica, sono impressionanti.

I costi della transizione energetica, secondo lo studio citato, ammonterebbero da qui al 2050 a 40.000 miliardi di euro solo per l’Unione Europea, e cioè 1520 miliardi l’anno, pari al 10% del PIL europeo.

Lo studio del Rousseau Institute afferma che questi costi non sono sostenibili senza un ricorso molto importante a fondi pubblici.

Ma qui, come è stato giustamente rilevato (Sergio Giraldo, StartMagazine, 10 febbraio 2024) scatta la contraddizione e il testa coda. Infatti l’intervento così importante degli Stati è reso impossibile dalle regole fiscali europee, anche di quelle stabilite nel nuovo Patto di stabilità. Infatti, nonostante la richiesta dell’Italia e di altri Stati membri di non conteggiare nel deficit le spese sostenute per favorire la transizione energetica, questa proposta non è passata. Risultato: il Green Deal fortemente voluto dalla Commissione Europea è a rischio per le regole di austerità imposte all’Europa dalla stessa Commissione.

Nel suo studio il centro di ricerca francese ipotizza che quasi tre quarti degli investimenti per la neutralità climatica provengano dai governi. Per questo motivo il messaggio chiave è che se non si allentano i parametri del patto di stabilità, o non si ridimensionano più realisticamente gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050, il Green Deal concepito nell’attuale dimensione è del tutto irrealistico e non realizzabile.

Le risorse pubbliche sono indispensabili perché moltissimi degli investimenti richiesti sono privi di redditività e quindi il settore privato non riesce a finanziarli da solo specie nei settori della ristrutturazione edilizia e dell’industria pesante.

Si possono portare molti esempi.

C’è il tema dell’idrogeno, e in particolare dell’idrogeno verde: sarebbe fondamentale per la decarbonizzazione dei trasporti e dei processi industriali più energivori, i così detti hard to abate, ma non ha ancora trovato una sua plausibilità e sostenibilità economica, veleggiando attualmente a un costo/prezzo che è circa tre volte quello del gas naturale, anche tenuto conto dell’impatto delle CO2.

Gli interventi ipotizzati sulle abitazioni, particolarmente costosi per patrimoni immobiliari non moderni come sono la maggior parte delle case italiane, sono stati ridimensionati per le proteste di molti Stati membri.

Non esiste un fondo europeo per accompagnare i costosissimi processi di decarbonizzazione delle industrie di base (acciaio, chimica, cemento, carta, vetro, ceramica ecc.) e vi è il concreto rischio di una forte deindustrializzazione in questi settori con gravi ripercussioni per le filiere a valle.

Le recenti proteste degli agricoltori in tutt’Europa testimoniano di un malessere diffuso per politiche dell’Unione che non sono state capaci di valutare le conseguenze di provvedimenti spesso dettati più da ideologismo ambientalista che da pragmatismo e razionalità.

In generale tutta la legislazione europea sul climate change ha evitato di prendere in considerazione normali analisi e studi costi/benefici relativi alle azioni intraprese, generando appunto una situazione che sta diventando ingovernabile.

Esiste un grave deficit europeo di comprensione della situazione in cui siamo.

Abbiamo inseguito per molto tempo l’idea di un’Europa protagonista della globalizzazione sottovalutando il potenziale di concorrenza sleale che sarebbe venuto da paesi come la Cina che non rispettano le nostre regole del gioco. L’industria europea, pur trovandosi in difficoltà, inizialmente ha retto la sfida. Poi però abbiamo fatto un ulteriore passo dotandoci di politiche ambientali sempre più ambiziose e sempre più assertive e unilaterali, ignorando quello che accadeva nel resto del mondo. Tali politiche hanno scaricato enormi costi sull’industria europea. E qui è esplosa la contraddizione: può un continente aperto in modo indiscriminato al commercio internazionale dotarsi internamente di obblighi e di costi asimmetrici?

Questi due modelli sono antitetici: si può scegliere di perseguire il massimo di competitività, ma allora non bisogna gravare le imprese di costi insostenibili, oppure si può decidere di costruire un modello di economia sostenibile ma allora bisogna riequilibrare la concorrenza internazionale.

Il rischio di deindustrializzazione dell’Europa è figlio di questa contraddizione. A cui si è aggiunto negli ultimi anni un terzo elemento: abbiamo scoperto la fragilità delle catene internazionali del valore. La ricerca spasmodica dell’efficienza ci ha indotti a sottovalutare, se non proprio ignorare, la sicurezza. E l’illusione che l’Europa fosse al centro del mondo ci ha spinto a trasformare i nostri disegni astratti in obblighi concreti con l’illusione che il mondo ci avrebbe seguito; il mondo, purtroppo, non ci ha seguito e noi ci siamo spiazzati da soli.

Di queste gravi contraddizioni incomincia a farsi strada la consapevolezza. L’Italia Paese fondatore dell’Unione e secondo paese manifatturiero d’Europa deve fare sentire la sua voce. L’Europa ha bisogno di più industria non di meno industria.

Von der Leyen rivendica Green Deal e arruola Draghi per competitività

La Commissione europea ha portato a termine oltre il 90 per cento degli obiettivi ce si era proposta nel 2019. Nel suo discorso sullo ‘stato dell’Unione’. La presidente Ursula von der Leyen  fa il punto sui dodici mesi appena trascorsi e su quelli a venire. E lo fa rivendicando il lavoro svolto e confermando alcuni dei capisaldi della sua Commissione, a partire dal Green Deal, “la risposta europea all’appello della storia”. E poi le sfide future: lavoro, inflazione, imprese. In questo quadro Von der Leyen annuncia un ‘collaboratore’ d’eccezione: Mario Draghi. Al quale la presidente della Commissione ha chiesto un’analisi sulla competitività dell’Ue. “Ho chiesto a Mario Draghi – una delle più grandi menti economiche europee – di preparare un rapporto sull’argomento il futuro della competitività europea. Perchè l’Europa farà ‘what ever it take’ per mantenere il suo vantaggio competitivo”.

GREEN DEAL – “Quattro anni fa, la Commissione europea ha presentato “il Green Deal europeo come la nostra risposta all’appello della storia. E quest’estate, la più calda mai registrata in Europa, ce lo ha ricordato con forza. La Grecia e la Spagna sono state colpite da devastanti incendi, e solo poche settimane dopo sono state nuovamente colpite da devastanti inondazioni”, ha sottolineato Von der Leyen. “Questa è la realtà di un pianeta in ebollizione”, ha puntualizzato, ricordando che il Green Deal europeo “è nato da questa necessità di proteggere il nostra pianeta ma è stato anche concepito come un’opportunità per preservare la nostra prosperità futura”.

INDAGINE AUTO ELETTRICHE DA CINA – Von der Leyen annuncia inoltre che la Commissione europea “sta avviando un’indagine antisovvenzioni sui veicoli elettrici provenienti dalla Cina. L’Europa è aperta alla concorrenza, non per una corsa al ribasso”. I mercati globali sono ora invasi da auto elettriche cinesi più economiche e “il loro prezzo è tenuto artificialmente basso da enormi sussidi statali e questo distorce il nostro mercato. E poiché non lo accettiamo dall’interno, non lo accettiamo nemmeno dall’esterno”, spiega la presidente . “Dobbiamo difenderci dalle pratiche sleali, ma è altrettanto fondamentale mantenere aperte le linee di comunicazione e di dialogo con la Cina”, dal momento che “ci sono anche argomenti in cui possiamo e dobbiamo collaborare”. L’approccio europeo con la leadership cinese al Vertice Ue-Cina sarà dunque quello del de-risking, non il decoupling.

CRISI ENERGETICA – “Un anno fa il prezzo del gas in Europa era di oltre 300 euro per MWh. Ora è di circa 35 euro”, rivendica Von der Leyen ricordando il ruolo fondamentale degli acquisti congiunti di gas per abbassare il prezzo dell’energia. “Siamo rimasti uniti, unendo la nostra domanda e acquistando energia insieme e dobbiamo quindi pensare a come replicare questo modello di successo in altri settori, come le materie prime critiche o l’idrogeno pulito”.

SFIDE ECONOMICHE – Esistono “tre grandi sfide economiche per il nostro settore nel prossimo anno: la carenza di manodopera e di competenze, l’inflazione e la semplificazione degli affari per le nostre aziende”. L’Unione non ha dimenticato i primi tempi della pandemia globale, ricorda von der Leyen “quando tutti prevedevano una nuova ondata di disoccupazione di massa stile 1930, ma noi abbiamo sfidato questa previsione”. A partire da Sure – “la prima iniziativa europea di lavoro a tempo ridotto – abbiamo salvato 40 milioni di posti di lavoro” e poi con Next Generation Eu “abbiamo poi riavviato immediatamente il nostro motore economico, e oggi ne vediamo i risultati”.

DIGITALE – “Quando si tratta di semplificare gli affari e la vita, abbiamo visto quanto sia importante la tecnologia digitale. È significativo che abbiamo superato di gran lunga l’obiettivo del 20% di investimenti in progetti digitali della Next Generation Eu”, spiega la presidente. “Gli Stati membri hanno utilizzato questi investimenti per digitalizzare l’assistenza sanitaria, il sistema giudiziario o la rete dei trasporti”.

Manovra, per il governo tanti nodi da sciogliere ma poche risorse

Capire fin dove è possibile spingersi nella prossima legge di Bilancio. E’ questo l’obiettivo principale del vertice maggioranza-governo, nel quale sia la premier, Giorgia Meloni, che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ribadiranno che lo spazio di manovra è ristretto, che non tutto ciò che è stato promesso in campagna elettorale potrà essere realizzato (almeno con questa manovra) e le “poche risorse” vanno investite in progetti che possano portare un ritorno fruttuoso. Il tutto, però, partendo dal presupposto che prima vengono le emergenze, come i rincari dovuti all’inflazione, o il campanello d’allarme sugli aumenti delle bollette. L’ipotesi allo studio da mesi è di conservare una parte di aiuti per le famiglie meno abbienti e le imprese in crisi di liquidità, ma la formula è ancora allo studio del Mef.

C’è poi il nodo dei crediti incagliati ereditati dalla fine della misura sul Superbonus 110% da sciogliere. I dati suggeriscono di intervenire, prima di poter archiviare la fase di incentivi per la riqualificazione energetica degli edifici. Magari lasciando il disco verde solo ai condomini che hanno portato a termine il 60% dei lavori e coinvolgendo le partecipate, ma anche in questo caso la soluzione arriverà nelle prossime settimane. Un’indicazione dovrà comunque essere data entro il 27 settembre, quando alla Camere sarà presentata la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza. Meloni, già dal primo Consiglio dei ministri post ferragostano, aveva chiesto ai ministri di “far arrivare al Mef le proposte” sui disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica “quanto più dettagliate possibili, in modo da avere un quadro completo“.

Altro tema che sarà quasi sicuramente sul tavolo, almeno per volontà di Forza Italia, è quello degli extraprofitti delle banche. Il partito fondato da Silvio Berlusconi sin dalle prime battute dopo l’approvazione del decreto, agli inizi di agosto, si era espresso in maniera molto negativa, avvertendo che così com’è studiato potrebbe creare problemi alla crescita. In manovra, ancora, si dovranno trovare margini per gli interventi sulle infrastrutture strategiche. E non sarà facile, visti i dati sull’andamento del Prodotto interno lordo, che nel secondo trimestre frena più del previsto.

La legge di Bilancio 2024 “avrà sicuramente un’attenzione particolare per le imprese perché vi sia competitività, per le famiglie e per i lavoratori grazie al taglio del cuneo fiscale“, anticipa il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti. Indicando chiaramente quali sono le cause, secondo la maggioranza, dei problemi con cui si trova oggi il governo a fare i conti: “Il buco di bilancio causato da alcuni bonus edilizi, come Superbonus e bonus facciate, lasciano traccia sul bilancio dello Stato“. Ma in questa partita conta anche il negoziato europeo sulla governance. Se non sarà scongiurato il ritorno alle regole pre-Covid del Patto di stabilità e crescita (soprattutto il rapporto deficit/Pil al 3%), le cose potrebbero complicarsi molto per l’Italia. Che si trova alle prese con i danni di siccità e alluvioni e una transizione ecologica da portare avanti: se almeno gli investimenti per il Green Deal fossero stralciati, per Roma sarebbe una grande vittoria. Non è impossibile ma c’è molto da lavorare. Ragion per cui nessuno se la sente di azzardare con la manovra. E Meloni, questo, lo ribadirà ancora una volta al vertice. Chiaro e forte.