I ‘reni di Calcutta’: le zone umide dell’India minacciate dall’espansione urbana

Photo credit: AFP

L’India è ogni giorno più minacciata dall’espansione urbana. A farne maggiormente le spese sono i ‘reni di Calcutta’: così vengono chiamate le zone umide a est della megalopoli indiana.”Stiamo gradualmente distruggendo l’ambiente“, dice all’AFP l’ex pescatore 71enne Tapan Kumar Mondal, che ha trascorso tutta la vita in quest’area, “la pressione esercitata dalla popolazione, oggi più numerosa che mai, sta danneggiando l’ambiente naturale“.

Per più di un secolo queste zone umide, che si estendono per 125 km2, sono servite come “stazione di depurazione biologica” per la metropoli indiana di 14 milioni di abitanti, grazie all’allevamento ittico. “Questo è un caso unico, perché le acque reflue della città vengono trattate in modo naturale“, dichiara all’AFP K. Balamurugan, capo del Dipartimento dell’Ambiente dello Stato orientale del Bengala Occidentale. “Per questo sono chiamati ‘i reni di Calcutta’“, aggiunge.

Ogni giorno, un ingegnoso sistema di canali trasporta circa il 60% delle acque reflue prodotte dalla capitale del Bengala Occidentale, ovvero 910 milioni di litri, negli stagni delle zone umide. “Poiché il livello dell’acqua non supera 1,50 m, la luce del sole combinata con le acque reflue provoca un’esplosione di plancton in quindici o venti giorni“, spiega Balamurugan. Questo plancton ricco e abbondante alimenta gli stagni gestiti dagli allevamenti ittici, che allevano in particolare carpe e tilapia. Gli effluenti di questi stagni, che sono ricoperti di giacinto d’acqua, vengono utilizzati per irrigare le risaie, mentre i rifiuti organici sono usati come fertilizzante per gli orti.

In questo modo, la piscicoltura non solo tratta gratuitamente le acque reflue della città, ma le fornisce anche circa 150 tonnellate di verdure al giorno e 10.500 tonnellate di pesce all’anno a costi inferiori. In questa regione del delta del Gange, delimitata dall’Oceano Indiano e minacciata dall’innalzamento del livello delle acque, le zone umide svolgono un ruolo cruciale nel controllo delle inondazioni. “Calcutta non ha mai avuto problemi di inondazioni, perché le zone umide agiscono come una spugna, assorbendo l’acqua piovana in eccesso” durante i monsoni, aggiunge Balamurugan.

Queste zone umide sono elencate dalla Convenzione intergovernativa di Ramsar, che teme che la “espansione urbana” stia minacciando la mini-biosfera. Secondo Dhruba Das Gupta, ricercatore di SCOPE, un’organizzazione non governativa di ricerca sugli ecosistemi, queste zone umide sono “molto più che la spina dorsale di Calcutta (…) sono la sua linea vitale“. Esse contribuiscono a regolare le condizioni climatiche locali, in particolare le precipitazioni e la temperatura, con effetti benefici per l’agricoltura e la conservazione degli ecosistemi naturali, comprese le zone umide stesse. “Le zone umide devono essere conservate a causa del refrigerio fornito dagli specchi d’acqua che contengono“, ha dichiarato Das Gupta all’AFP. “È un elemento fondamentale per stabilizzare il clima della città e prevenire il riscaldamento globale“.

In questo caso è in atto un circolo virtuoso e, secondo l’esperta che lavora su questo tema da 25 anni, gli allevatori di pesci sono i principali garanti. Das Gupta sta cercando di finanziare uno studio per determinare la superficie esatta delle peschiere ancora “pienamente attive“, il numero di persone che vi lavorano tutto l’anno e la resa della produzione ittica. Grazie alla piscicoltura, la municipalità di Calcutta (KMC) risparmia l’equivalente di 64,4 milioni di dollari all’anno sui costi di trattamento delle acque reflue, secondo uno studio dell’Università di Calcutta pubblicato nel 2017. Ciò rende Calcutta, secondo le parole del principale difensore delle zone umide Dhrubajyoti Ghosh, una “città ecologicamente sovvenzionata“. “Le zone umide si sono ridotte“, aggiunge lo specialista, “ma più importante è il numero totale di ettari di corpi idrici rimasti“. I livelli di produzione sono cambiati, la popolazione è cresciuta, gli edifici invadono le aree di produzione e i prezzi dei terreni sono saliti alle stelle. “La terra viene sottratta alla gente“, lamenta Sujit Mondal, un pescatore di 41 anni.

Meloni in India e poi negli Emirati Arabi: “Momento chiave per transizione energetica”

E’ iniziata la missione della premier Giorgia Meloni in India e negli Emirati Arabi. La presidente del Consiglio ha incontrato il primo ministro Narendra Modi, già visto a Bali per il G20. “India e Italia celebrano il 75esimo anniversario delle loro relazioni bilaterali e noi abbiamo deciso di dare un nuovo impulso alla partnership Dobbiamo lavorare per aumentare le relazioni economiche, le nostre campagne aprono tante possibilità per investimenti”, ha detto Modi in conferenza stampa sottolineando il desiderio di “aumentare la cooperazione su rinnovabili, idrogeno, telecomunicazioni e spazio”. Meloni non è stata da meno nel parlare di possibile cooperazione tra i due Paesi: “Penso al tema della sicurezza energetica, l’india si pone grandi obiettivi sotto questo profilo. Da sempre sappiamo che l’India sta lavorando sulla produzione di energia da fonti rinnovabili  e insieme dobbiamo lavorare sui temi della transizione digitale, sulle tecnologie emergenti, sullo spazio”. Poi ha aggiunto: “Affrontano i grandi shock di questo tempo, la crisi pandemica, la crisi internazionale dettata dalla guerra in Ucraina e le sue ripercussioni sull’ordine internazionale, sulla sicurezza alimentare ed energetica. E diventa importante quando un paese come l’India assume la presidenza g20 perché rappresenta con grande forza i bisogni e gli interessi dei Paesi del sud globale”.

La premier è stata ospite d’onore del Raisina Dialogue, la principale conferenza indiana sulla geopolitica e la geo-economia, sulle questioni più impegnative sullo scacchiere globale. Secondo Meloni il Nord Africa è una regione vasta che possiede risorse, a partire dall’energia, determinante per l’Europa ma che prima di tutto deve andare a loro vantaggio. Stiamo costruendo una collaborazione su basi paritarie, senza ambizioni predatorie, senza interessi economici. L’Italia sta lavorando per essere ponte del Mediterraneo“, tra Africa ed Europa. “L’energia verde, l’idrogeno, l’elettricità saranno prodotti sempre più localmente“. Ma, adesso, “siamo in un momento chiave per la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico. Tutti dobbiamo contribuirvi, abbiamo responsabilità per le generazioni future. In modo equilibrato, ciascun paese svolgere il suo ruolo, se non lo faremo ci sarà un impatto profondo sul mondo, con carestie, siccità, eventi metereologici estremi e altri disastri. La nostra abilità di lavorare insieme su rinnovabili, energia verde, idrogeno, circolarità e transizione determinerà il nostro successo“, ha aggiunto.

Intanto, a margine della visita di Meloni, Enel, tramite la sua consociata Gridspertise, ha firmato due memorandum d’intesa con Tata Power Delhi Distribution Limited (Tata Power-DDL) per favorire l’accelerazione della trasformazione digitale delle reti di distribuzione elettrica in India. La firma dei memorandum è stata annunciata da Antonio Cammisecra, direttore di Enel Grids, in occasione della Business Roundtable tra India e Italia che si è tenuta a Nuova Delhi ed è stata presieduta da Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, e da Piyush Goyal, ministro del Commercio e dell’Industria indiano.

Il 3 e 4 marzo, la leader di Fdi sarà poi negli Emirati arabi. Una visita che consolida le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, ma fa pensare a un ‘Piano Mattei’ anche per il Medio Oriente. Qui l’Italia è partner strategico in diversi progetti energetici. L’ultimo viaggio di un premier negli Emirati risale al 2021, con Giuseppe Conte.

A settembre 2022 il ministro dell’Industria emiratino e Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni, si sono incontrati ad Abu Dhabi per discutere delle attività della società nell’Emirato, di progetti futuri e delle aree di interesse comune. L’obiettivo è accelerare i progetti di sviluppo esistenti, le nuove scoperte esplorative così come le attività internazionali, in linea con una strategia di decarbonizzazione e per contribuire a più forniture di gas a livello mondiale. In particolare, il progetto multimiliardario di Ghasha contiene volumi di gas recuperabile “significativi”, fa sapere Eni, e potrebbe arrivare a produrre oltre 42,5 milioni di metri cubi giorno, in aggiunta a oltre 120mila barili di olio e condensati di alto valore al giorno. Di settembre 2021 è il memorandum Eni-Mubadala Petroleum che mira a identificare opportunità di cooperazione nel settore della transizione energetica, inclusi l’idrogeno e la cattura, utilizzo e stoccaggio della CO2, in linea con i rispettivi obiettivi di decarbonizzazione.

“Con la visita del presidente del consiglio Giorgia Meloni negli Emirati, l’Italia conquista la scena di leader energetico. Usciamo vincenti da questa crisi”, commenta il presidente di FederPetroli Italia, Michele Marsiglia. “Attendevamo questa visita nei paesi arabi, è un rafforzamento della nostra industria e un consolidamento fondamentale in questo momento storico per la nostra Eni”, sostiene. Gli Emirati sono uno dei più importanti partner dell’Italia nell’area del Medio Oriente e Nord Africa con rapporti basati sul piano economico, industriale e culturale e sulle tematiche bilaterali.

Fare in modo che la Cop28 non diventi un’altra conferenza inutile

Domanda pleonastica: com’è andata a Sharm eh Sheikh? Bene non benissimo, per usare un giro di parole. Del resto, fin dall’inizio la Cop27 si è portata appresso un carico di scetticismo, per non dire di negatività, che lasciava intravvedere poche speranze per il raggiungimento di intese di largo respiro. Non a caso, a parte il documento sul ‘Loss and damage’, poco si è cavato da due settimane di incontri e scontri, là dove le grandi potenze – che sono anche grandi inquinatrici – hanno continuato a difendere i propri interessi e là dove i più deboli hanno continuato a recitare la parte dei più deboli. Come dicevamo, nulla che non fosse stato messo in preventivo, anche perché nazioni super inquinate e super inquinanti (vedi alla voce India) non si sono nemmeno presentate alla convention egiziana che, in assoluto, si è rivelato un palco sfiatato per gli annunci roboanti. Forse solo Lula, che da gennaio tornerà ad occupare la carica di presidente della repubblica federativa del Brasile, ha dato un po’ di slancio alle illusioni con il suo piano per arrivare alla deforestazione zero. Ma tra preservare l’Amazzonia nelle chiacchiere e poi farlo davvero c’è ancora un bel pezzo di strada da fare. L’altra domanda, meno pleonastica, rischia di suonare un po’ sorda: ma ne vale davvero la pena organizzare eventi come questi? Cioè, dopo il fiasco della Cop26 e quello della Cop27, ha ancora un senso mobilitare mezzo mondo per ritrovarsi con briciole tra le mani? A breve comincerà la Cop15, in Canada, sulla biodiversità: lì forse qualcosa di più si potrà raggiungere, ma la sensazione che uno sforzo enorme partorisca qualcosa di impercettibile sta prendendo il sopravvento. Forse andrebbe cambiata la formula, l’impostazione della Cop28. Ma come? Dando priorità alla scienza e allo studio degli scienziati non per due settimane – ovvero la durata dell’evento organizzato dalle nazioni unite- ma durante un anno, coinvolgendo non solo i leader mondiali ma anche i grandi gruppi che gestiscono la finanza e i grandi gruppi industriali. Insomma, non si tratta di allargare il campo, che è già largo a sufficienza, ma di selezionare meglio gli attori protagonisti con il supporto della scienza. E, soprattutto, senza generare illusioni.

Tags:
, ,

Siamo 8 miliardi sulla Terra. L’Onu: “Dobbiamo prenderci cura del nostro Pianeta”

Da oggi la popolazione mondiale ha ufficialmente superato gli 8 miliardi. La stima ufficiale è dell’Onu che richiama alla “nostra responsabilità condivisa di prenderci cura del nostro Pianeta”. Per le Nazioni Unite, “questa crescita senza precedenti” – nel 1950 si contavano 2,5 miliardi di abitanti – è il risultato “di un progressivo aumento della durata della vita grazie ai progressi compiuti in termini di salute, alimentazione, igiene personale e medicina”.

Ma la crescita della popolazione ci pone di fronte a enormi sfide, soprattutto nei Paesi più poveri, in cui esiste un problema di sovrappopolazione. La soglia degli 8 miliardi viene superata nel bel mezzo della conferenza mondiale sul clima, Cop27, a Sharm el-Sheikh, dove è stata ribadita più volte la necessità che i Paesi ricchi – i maggiori responsabili del riscaldamento globale – supportino i Paesi più poveri nella strada verso la transizione ecologica. Infatti, ricorda l’Onu, “se la crescita demografica amplifica l’impatto ambientale dello sviluppo economico”, “i Paesi dove il consumo di risorse materiali e le emissioni di gas serra per abitante sono più elevati, sono in genere quelli dove il reddito pro capite è il più alto e non quelli in cui la popolazione sta crescendo rapidamente”.

“Il nostro impatto sul pianeta è determinato molto più dal nostro comportamento che dai nostri numeri”, riassume Jennifer Sciubba, ricercatrice presso il think tank del Wilson Center. Ma è proprio nei Paesi più poveri che la crescita della popolazione pone sfide importanti. “La persistenza di alti livelli di fertilità, che guidano una rapida crescita della popolazione, è sia un sintomo sia una causa del lento progresso dello sviluppo”, scrive l’Onu.

Così l’India, che conta 1,4 miliardi di abitanti e che diventerà il Paese più popoloso del mondo nel 2023, superando la Cina, andrà incontro a un sovraffollamento urbano e alla scarsità di risorse. A Bombay, circa il 40% della popolazione vive in baraccopoli, la maggior parte delle quali prive di acqua corrente, elettricità e servizi igienici. I numeri forniti dall’Onu evidenziano un’immensa diversità demografica. Pertanto, più della metà della crescita della popolazione entro il 2050 proverrà da soli 8 Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania. Ed entro la fine del secolo, le tre città più popolose del mondo saranno africane: Lagos in Nigeria, Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo e Dar Es Salaam in Tanzania.

Tags:
, ,
cina

Decarbonizzazione, tante promesse ‘facili’ e i casi di India e Cina

Secondo un’analisi gli Stati, le autorità locali e le aziende stanno moltiplicando gli impegni per la “neutralità delle emissioni di carbonio, ma molti di essi presentano “gravi difetti“. Tra i grandi inquinatori, la maggior parte dei Paesi sviluppati ha assunto l’impegno di essere neutrale dal punto di vista delle emissioni di carbonio entro il 2050. Cina e India puntano rispettivamente al 2060 e al 2070. “L’uso di questo concetto è esploso“, afferma Frederic Hans, esperto di politica climatica presso l’ONG NewClimate Institute e autore principale di questa analisi per il Net Zero Tracker. “Ma se si fissa un obiettivo senza comunicare le riduzioni di emissioni che esso comporta, non si può essere ritenuti responsabili delle proprie azioni“, afferma.

Lo studio analizza i dati relativi a 4.000 governi, città, regioni e grandi aziende, concentrandosi sulla qualità degli obiettivi e sul fatto che siano accompagnati da una chiara tabella di marcia. Gli impegni degli Stati coprono circa il 90% del Pil globale, sei volte di più rispetto a tre anni fa. E 235 grandi città hanno ora il loro. Anche un terzo delle maggiori società quotate in Borsa nel mondo ha assunto impegni di carbon neutrality (702 rispetto a 417 nel dicembre 2020). “Siamo in un momento decisivo in cui la pressione dei pari a prendere impegni rapidamente, in particolare nel mondo degli affari, potrebbe portare o a un greenwashing di massa o a un cambiamento fondamentale verso la decarbonizzazione” dell’economia, analizza un altro autore dello studio, Takeshi Kuramochi, anch’egli del NewClimate Institute.

Per quanto riguarda i governi, il 65% degli impegni nazionali è ora oggetto di una legislazione o di documenti ufficiali, rispetto a solo il 10% alla fine del 2020. Ma delle 702 aziende intervistate, solo la metà ha obiettivi intermedi, un livello “inaccettabilmente basso“, secondo lo studio. E solo il 38% delle aziende include tutte le emissioni, sia dirette (produzione) che indirette (fornitori e utilizzo), nei propri impegni di neutralità. Il rapporto osserva anche che i maggiori inquinatori privati, in particolare nel settore dei combustibili fossili, sono tra quelli che hanno più probabilità di avere obiettivi: “Questo riflette senza dubbio la pressione sociale su questi settori, ma è forse più simbolico, o addirittura puro greenwashing, che una vera leadership sulle questioni climatiche“.

Ma l’effetto potrebbe anche essere virtuoso, incoraggiando “le aziende ad aumentare le proprie ambizioni e anche i regolatori“, sostiene Frederic Hans. A marzo, l’Onu ha investito un gruppo di esperti per sviluppare standard e una valutazione degli impegni di carbon neutrality degli attori non statali, in particolare delle aziende. Secondo gli esperti climatici delle Nazioni Unite, le emissioni devono raggiungere il picco entro il 2025 e dimezzarsi entro il 2030 rispetto al 2010 per avere una possibilità di raggiungere l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi.

Petrolio cina

Schizza il prezzo del carbone, Ue schiacciata da Cina e India

Può sembrare un paradosso, invece non lo è. Nella stagione in cui si spinge il più possibile per trovare (e sfruttare) fonti energetiche alternative, in particolare quelle ‘pulitissime’ generate dal vento e dal sole, il rischio che il processo di decarbonizzazione si fermi è molto alto. I fossili sono tornati di moda, prova ne sia che negli ultimi mesi il prezzo del carbone è in costante ascesa. C’è chi ha calcolato un rialzo del 600% rispetto a gennaio del 2020, parecchio di più degli idrocarburi e del gas, il nostro incubo quotidiano da quando è scoppiata la guerra in Ucraina e ci si sta sforzando per stoppare le erogazioni da Mosca.

Pare che la ‘colpa’ sia di Cina e India, bisognose di compensare il disavanzo della produzione interna insufficiente per soddisfare i propri bisogni. Pare, anche, che a questi due giganti mondiali – ma non sono i soli, sia chiaro – interessi poco di arrivare alla Carbon neutrality nei prossimi anni. L’esatto contrario di ciò che sta accadendo in Europa, fermamente convinta di dover portare a termine la mission stabilita nell’Accordo di Parigi. Nel 2050, in teoria, i gas serra dovrebbero essere azzerati ma, se la situazione continua a essere questa, diventa un esercizio quasi utopistico immaginare il raggiungimento di un obiettivo tanto importante per la vita del nostro pianeta e, più concretamente, di noi e dei nostri figli.

Il percorso virtuoso intrapreso dalla Ue incide appena per il 7% sulle emissioni globali di CO2. Detto male: l’Europa può sforzarsi si essere virtuosa e green il più possibile però si tratterà sempre di una goccia d’acqua nell’oceano dell’inquinamento mondiale. Di sicuro, il conflitto ucraino non aiuta, come testimonia il ritorno prepotente degli idrocarburi sulla scena internazionale. Se il gas manca, ci si aggrappa a tutto pur di far funzionare – banalizzando – i condizionatori d’estate e i termosifoni d’inverno. E la salute nostra e della Terra può aspettare…