pesci

Il Mediterraneo è il più invaso al mondo: 200 nuovi pesci

Con centinaia di specie esotiche, il Mar Mediterraneo viene oggi riconosciuto come la regione marina più invasa al mondo. Una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Global Change Biology e coordinata dall’Istituto per le risorse biologiche e biotecnologie marine (Cnr-Irbim) di Ancona, ricostruisce questa storia per le specie ittiche introdotte a partire dal 1896. E la causa è – anche – il cambiamento climatico.

Lo studio dimostra come il fenomeno abbia avuto un’importante accelerazione a partire dagli anni ’90 e come le invasioni più recenti siano capaci delle più rapide e spettacolari espansioni geografiche”, spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim e coordinatore della ricerca. “Da oltre un secolo, ricercatori e ricercatrici di tutti i paesi mediterranei hanno documentato nella letteratura scientifica questo fenomeno, identificando oltre 200 nuove specie ittiche e segnalando le loro catture e la loro progressiva espansione. Grazie alla revisione di centinaia di questi articoli e alla georeferenziazione di migliaia di osservazioni, abbiamo potuto ricostruire la progressiva invasione nel Mediterraneo”. Questo processo ha cambiato per sempre la storia del nostro mare.

Sono due le porte di ingresso di questa colonizzazione: “Le specie del Mar Rosso, entrate dal canale di Suez (inaugurato nel 1869), sono le più rappresentate e problematiche. Ci sono, tuttavia, altri importanti vettori come il trasporto navale ed il rilascio da acquari. I ricercatori hanno considerato anche la provenienza atlantica tramite lo stretto di Gibilterra”, continua Azzurro.

Ma quali sono gli effetti ambientali e socio-economici di queste ‘migrazioni ittiche? “Alcune di queste specie costituiscono nuove risorse per la pesca, ben adattate a climi tropicali e già utilizzate nei settori più orientali del Mediterraneo”, spiega il ricercatore Cnr-Irbim. “Allo stesso tempo, molti ‘invasori’ provocano il deterioramento degli habitat naturali, riducendo drasticamente la biodiversità locale ed entrando in competizione con specie native, endemiche e più vulnerabili. Il ritmo della colonizzazione è così rapido da aver già cambiato l’identità faunistica del nostro mare; pertanto ricostruire la storia del fenomeno permette di capire meglio la trasformazione in atto e fornisce un esempio emblematico di globalizzazione biotica negli ambienti marini dell’intero pianeta”.

Squalo di tre metri intrappolato in Liguria. Predatore in aumento in Italia causa surriscaldamento

Uno squalo di circa tre metri è rimasto intrappolato nelle reti di un peschereccio a largo di Capo Nero, tra Sanremo e Ospedaletti. L’animale è stato poi ributtato in mare. Non è la prima volta che uno squalo di queste dimensioni viene avvistato o catturato nei nostri mari e, soprattutto in Liguria. Una delle cause dell’aumento della loro presenza intorno alla penisola potrebbe essere legata al riscaldamento dei mari.

mare liguria

Allarme mari italiani: tra i più caldi al mondo, 29-30 gradi come Caraibi

Il sole picchia duro, anche sull’acqua. L’ondata di calore dell’estate 2022, infatti, consegna alle cronache nuovi record negativi: secondo l’analisi della redazione di ilmeteo.it, la temperatura dell’acqua dei mari italiani ha raggiunto i 29-30 gradi centigradi, come quella del clima dei Caraibi, con 10 gradi in più rispetto alle coste californiane. Il clima fuori controllo, con la continua estrema espansione dell’anticiclone nordafricano verso il Mediterraneo, ha causato un aumento della temperatura dell’acqua fino a valori bollenti, eccezionali. L’acqua è così calda che difficilmente troviamo refrigerio anche al largo, neppure immergendosi di qualche metro l’acqua sembra quella di qualche anno fa. E se quest’anno il periodo è eccezionale, con valori fino a 5-6 gradi oltre la norma, l’Agenzia europea dell’Ambiente certifica che stiamo assistendo ad un aumento della temperatura dei mari da più di un secolo: in particolare il Mar Mediterraneo, solo negli ultimi 20 anni, ha fatto registrare un aumento medio di oltre 0,5 gradi, un valore molto alto a dispetto di quello che sembra.

In questo scenario, quale posizione occupa l’Italia tra i mari più caldi del mondo? Acque tropicali leggermente più calde delle ‘nostre’, oltre i 30 gradi centigradi e fino a 32-33 gradi, attualmente si registrano nel Mar Rosso, nel Golfo Persico, nel Golfo del Bengala e nel Mar Cinese Meridionale. Altrove, in particolare sulle coste del Pacifico orientale i valori sono più bassi anche di 10 gradi rispetto ai mari italiani, anche a causa del fenomeno de La Niña. In buona sostanza l’Italia ha uno dei mari più caldi al mondo, in questo momento.

Lorenzo Tedici, meteorologo del sito www.iLmeteo.it, conferma che questa situazione anomala è legata alla ‘Pazza Calda Estate 2022’, iniziata in anticipo il 10 maggio e proseguita con valori termici eccezionali per quasi 3 mesi senza interruzione. Il calore del sole, l’assenza di perturbazioni o di temporali forti sul mare e l’assenza di venti freschi da Nord hanno bloccato il rimescolamento dell’acqua, non hanno permesso il raffreddamento superficiale del mare e, giorno dopo giorno, hanno fatto accumulare tanto calore: al momento, i bacini più caldi sono il Mar Ligure, il Mar Tirreno e il Canale di Sicilia con temperatura dell’acqua di 30 gradi. Tutto questo si traduce in un enorme stress per il mondo ittico, in stravolgimenti di cui non conosciamo le conseguenze, ma soprattutto di un pericolo reale: avremo temporali marittimi più forti appena arriverà una perturbazione. Il calore del mare infatti si trasformerà in energia per lo sviluppo di nubifragi e/o altri fenomeni violenti: ad essere pessimisti o catastrofisti (non ci piace esserlo, ma questa ricerca è pubblicata in vari articoli scientifici) con acque marine ad oltre 26,5 gradi è più probabile la formazione di Tlc, ovvero Tropical Like Cyclones, piccoli uragani anche sul Mar Mediterraneo.

Negli ultimi anni infatti, con l’aumento della temperatura dell’acqua del Mar Mediterraneo, si sono avuti a ripetizione Tlc, anche definiti Uragani Mediterranei o Medicane: 28 ottobre 2021, Apollo; 17 settembre 2020, Ianos (sulla Grecia), 11 novembre 2019, Detlef ad ovest della Sardegna, 28 settembre 2018, Zorbas a sud della Sicilia e così via con una frequenza che è aumentata sensibilmente a causa dei mari sempre più caldi. In sintesi, prendendola a ridere, è possibile fare una vacanza ai Caraibi senza prendere l’aereo: stesso mare ‘bollente’, simile probabilità (minore, ma in aumento) di trovare un uragano alla fine dell’estate.

pesce

I (pericolosi) pesci alieni del Mediterraneo

‘Attenti a quei 4!’ è il titolo di una campagna, lanciata dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) e Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irbim), per imparare a riconoscere e monitorare la presenza di pesce palla maculato, pesce scorpione, pesce coniglio scuro e pesce coniglio striato in Mediterraneo. Si tratta di quattro pesci arrivati in Mediterraneo attraverso il canale di Suez, cosiddette ‘specie aliene’, potenzialmente molto pericolose se trattate senza cautele.

La presenza di specie aliene nel Mediterraneo (pesci, molluschi, alghe ecc…) sono da anni oggetto di studio dei ricercatori. L’oceano globale, quello che noi più familiarmente chiamiamo mare, è un unico grande insieme interamente collegato, che ricopre oltre il 70 per cento della superficie terrestre. Ogni specie può quindi potenzialmente viaggiare da un capo all’altro del globo. La navigazione (con il prelievo e rilascio di acqua che serve come zavorra per bilanciare le navi) e il cambiamento climatico, come in questo caso, favoriscono queste diffusioni in ambienti diversi da quello storicamente caratteristico.

Questi spostamenti rapidi possono avere conseguenze importanti rispetto alle specie autoctone, creando vari problemi al bacino interessato dall’arrivo di specie aliene: particolarmente grave la minaccia ecologica, con importante perdita di biodiversità, perché ad esempio specie tropicali possono adattarsi rapidamente alla temperatura dell’acqua in crescita in questi anni e quindi soppiantare specie locali già in difficoltà.

pesci

In questo caso, la campagna mira ad evitare un altro tipo di conseguenza: i 4 pesci oggetto della campagna sono potenzialmente pericolosi per l’uomo e richiedono alcune importanti cautele. Vediamo quali. Del pesce palla qualcuno avrà sentito parlare nei film, nei documentari o in qualche libro. Sappiamo che nella cucina giapponese solo alcuni cuochi, con una speciale abilitazione, sono autorizzati a trattarlo e cucinarlo per il pericolo che comporta. Nella fattispecie, il pesce palla maculato è una delle specie più invasive dell’intero Mediterraneo ed è stato segnalato per la prima volta in Italia nel 2013: ha la pelle molto liscia, senza squame, quattro grandi denti, macchie scure sul dorso e sui lati. Possiede una potentissima neurotossina che lo rende altamente tossico al consumo, anche dopo cottura, e potenzialmente mortale. Non va mangiato assolutamente. Inoltre, può infliggere morsi potenti.

Il bellissimo pesce scorpione, tra le specie più invasive al mondo, tanto da avere occupato gran parte delle acque costiere dell’Atlantico occidentale con impatti ecologici devastanti, è stato segnalato nel nostro Paese per la prima volta nel 2016. Questo pesce è commestibile, ma richiede una enorme cautela: il suo corpo è circondato da 18 grandi spine che costituiscono una protezione esterna naturale straordinaria e possono procurare punture estremamente dolorose anche due giorni dopo la morte dell’animale.

Due specie erbivore, da cui il nome pesce coniglio, richiedono altrettanta attenzione per le spine: pesce coniglio scuro, segnalato in Italia fin dal 2003, e pesce coniglio striato, la cui presenza nelle acque italiane è stata documentata per la prima volta nel 2015, sono commestibili ma richiedono grande attenzione per evitare dolorosissime conseguenze.

app rifiuti mare

In Francia l’app per mappare in real-time i rifiuti galleggianti

Si chiama ‘The Collector’ ed è un catamarano che ogni giorno perlustra la costa di Biarritz alla ricerca di rifiuti di plastica causati dai turisti. L’imbarcazione – le cui attività sono finanziate dal Comune – è collegata a un’app (I clean my sea), che consente agli utenti di segnalare la presenza dei rifiuti. Si tratta, principalmente, di diportisti, surfisti, nuotatori o semplici cittadini che passeggiano sulla spiaggia. I due marinai a bordo della barca ricevono una notifica, con la foto scattata dall’utente e la posizione GPS, come spiega Aymeric Jouon, ricercatore in oceanografia e ideatore della società che gestisce la barca, omonima dell’applicazione. L’augurio è che con l’aiuto degli utenti, si riesca a creare “una mappa dei rifiuti galleggianti in tempo reale“.

La raccolta, a cui la città di Biarritz ha assegnato 60mila euro, è stagionale e segue il picco di affluenza turistica sulla costa, spiega Mathieu Kayser, assessore all’ambiente. “Se potessimo, useremmo la barca tutto l’anno, ma avrebbe un costo“, troppo elevato. Sulle spiagge di Biarritz, ogni mattina, i dipendenti comunali raccolgono anche i rifiuti arenati, riportati dalle correnti. Ogni anno, spiega Kayeser, i rifiuti aumentano a causa del problema del “consumo globale“, ma “noi cerchiamo di trovare tutte le soluzioni per affrontare la questione. ‘The collector’ terminerà la sua missione a settembre.

I rifiuti raccolti in mare vengono smistati a mano dal personale che si trova a bordo. Come Valetin Ledée, 22 anni. “L’80% dei rifiuti – racconta – è costituito da plastica molto fine o microplastica, a volte intrappolata in un mucchio di alghe“. I venti e le maree hanno un grande impatto sulla raccolta. “Il vento leggero da ovest spinge la plastica indietro, verso la costa, e quando il livello dell’acqua si alza, raccoglie tutto ciò che è sulle sponde o ciò che si è depositato sulle spiagge“, afferma Aymeric Jouon. Così, assicura Mathieu Kayser, “l’80% dei rifiuti raccolti in mare arriva da terra“.

Oltre la fascia costiera di 300 metri, in cui opera The Collector, un’altra barca attraversa le acque tra la foce dell’Adour, a Bayonne, e il confine spagnolo, a Hendaye. Sostenuta dal dipartimento dei Pirenei atlantici, nel 2021 ha raccolto diverse tonnellate di rifiuti di plastica.

(Photo credits: GAIZKA IROZ / AFP)

spiaggia

Allarme Legambiente: Italia poche spiagge libere, pesa l’inquinamento

Estate 2022, tempo di spiagge e mare. Ma nel Belpaese è sempre più difficile trovare una spiaggia libera dove prendere il sole. A pesare un mix di fattori: la crescita in questi anni delle concessioni balneari che toccano quota 12.166, l’aumento dell’erosione costiera che riguarda circa il 46% delle coste sabbiose, con i tratti di litorale soggetti ad erosione triplicati dal 1970, e il problema dell’inquinamento delle acque che riguarda il 7,2% della costa sabbiosa interdetto alla balneazione per ragioni di inquinamento. A fare il punto della situazione e dei cambiamenti in corso lungo le aree costiere è il nuovo rapporto di Legambiente ‘Spiagge 2022’, diffuso oggi a pochi giorni dall’approvazione del Ddl concorrenza che pone fine alla proroga alle concessioni balneari fissando l’obbligo di messa a gara dal primo gennaio 2024, così come deciso dalla sentenza del Consiglio di Stato.

Rimangono alcuni nodi da risolvere subito come quello della scarsa trasparenza sulle concessioni balneari, i canoni per buona parte ancora irrisori, la non completezza dei dati sulle aree demaniali e soprattutto l’assenza di un regolare e affidabile censimento delle concessioni balneari ed in generale di quelle sul Demanio marittimo. Quest’ultimo punto emerge chiaramente dal rapporto: il dato sui canoni di concessioni è fermo al 2021. Si parla di 12.166 concessioni per stabilimenti balneari, secondo i dati del monitoraggio del Sistema informativo demanio marittimo (S.I.D.), effettuato a maggio 2021. In alcune Regioni ci sono dei veri e propri record a livello europeo, come in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, dove quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari. Nel Comune di Gatteo, in Provincia di Forlì e Cesena, tutte le spiagge sono in concessione, ma anche a Pietrasanta (LU), Camaiore (LU), Montignoso (MS), Laigueglia (SV) e Diano Marina (IM) siamo sopra il 90% e rimangono liberi solo pochi metri spesso in prossimità degli scoli di torrenti in aree degradate.

Seppur l’approvazione del Ddl concorrenza abbia portato un’importante novità, per l’associazione ambientalista sono ancora molti gli ostacoli da superare per garantire una gestione delle coste attenta alle questioni ambientali. Per questo Legambiente lancia un pacchetto di cinque proposte affinché nella prossima legislatura si arrivi ad avere una legge nazionale per garantire il diritto alla libera e gratuita fruizione delle spiagge e allo stesso tempo un quadro di regole e un quadro di regole certe che premino sostenibilità ambientale, innovazione e qualità. Cinque i pilastri su cui si dovrà concentrare il lavoro: garantire il diritto alla libera e gratuita fruizione delle spiagge, premiare la qualità dell’offerta nelle spiagge in concessione, ristabilire la legalità e fermare il cemento sulle spiagge, definire una strategia nazionale contro erosione e inquinamento e un’altra per l’adattamento dei litorali al cambiamento climatico.

coste legambiente

In Italia – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – non esiste una norma nazionale che stabilisca una percentuale massima di spiagge che si possono dare in concessione. Un’anomalia tutta italiana a cui occorre porre rimedio. L’errore della discussione politica di questi anni sta nel fatto che si è concentrata tutta l’attenzione intorno alla Direttiva Bolkestein finendo per coprire tutte le questioni, senza distinguere tra bravi imprenditori e non, e senza guardare a come innovare e riqualificare. È un peccato che non si sia riusciti a definire le nuove regole in questa legislatura, in modo da togliere il tema dalla campagna elettorale. Occorre, infatti, dare seguito alle innumerevoli sentenze nazionali ed europee, altrimenti si arriverà presto a multe per il nostro Paese per violazione delle direttive comunitarie e, a questo punto, anche di una legge nazionale che stabilisce di affidarle tramite procedure ad evidenza pubblica a partire dal primo gennaio 2024”.

riviera romagnola

In Romagna si torna a fare il bagno. Boom di batteri causato da caldo e siccità

Contrordine sulle spiagge romagnole: i villeggianti possono tornare a fare il bagno in mare in piena sicurezza. Lo hanno comunicato ieri mattina gli assessori regionali all’Ambiente e al Turismo, Irene Priolo e Andrea Corsini durante una conferenza stampa dopo che ieri l’Arpa (agenzia per l’ambiente) aveva imposto lo stop a causa di valori anomali di batteri Escherichia coli nell’acqua di 28 tratti costieri (sei erano tornati già a norma nella giornata di giovedì).

Per tutta la giornata di giovedì era aleggiato il dubbio: perché questi valori erano fuori norma? Non piove da settimane, non ci sono stati sversamenti in mare, i fiumi non possono essere i responsabili dal momento che sono praticamente a secco. Allora perché una così alta concentrazione di batteri? Secondo gli esperti è colpa proprio del caldo e della siccità.

I risultati dei campioni aggiuntivi effettuati giovedì sulle acque della provincia di Rimini interessate dal divieto di balneazione hanno evidenziato valori di Escherichia coli nella norma in tutti i 21 tratti di spiaggia. I sindaci potranno pertanto emanare l’ordinanza di revoca del divieto di balneazione“, ha informato la Regione. “Domani arriveranno i risultati anche per il tratto di mare Spiaggina di Goro (Ferrara). La soglia limite del batterio – hanno detto i due assessori –, che è di 5000 cfu (unità formante colonia) per 100 ml di acqua, raggiunge oggi al massimo 135, ma nella maggior parte degli ultimi prelievi effettuati da Arpa non supera i 20-30 o anche meno“.

In Emilia-Romagna, hanno sottolineato Priolo e Corsini, la qualità dell’offerta turistica e ricettiva va di pari passo con la qualità del sistema dei controlli, che vengono eseguiti per la sicurezza delle persone, in particolare anziani e bambini. Qualità delle strutture ricettive e degli stabilimenti balneari, dunque, ma anche dell’acqua del mare, con i controlli che si mantengono costanti e la prossima rilevazione, come da programma, il prossimo 22 agosto.

L’assessora all’Ambiente Priolo si è quindi soffermata sulle cause dei dati anomali di martedì scorso, quando i controlli effettuati come di consueto da Arpae per garantire sicurezza e qualità della stagione balneare hanno evidenziato valori al di sopra della soglia. E ciò si è verificato verosimilmente per la compresenza di una serie di fattori che hanno favorito la proliferazione batterica: per la prima volta da decenni, Arpa ha registrato, attraverso 12 stazioni dislocate sul territorio, temperature superiori ai 40 °C per più giorni. Questo ha influito su un innalzamento della temperatura del mare, che ha visto da mercoledì improvvise mareggiate dopo un lungo periodo di calma. A ciò si è aggiunta la scarsa ventilazione e la siccità, con un apporto idrico dei fiumi al mare estremamente ridotto.

batterio

Diversi studi di Ispra, Legambiente ed Eea (Agenzia europea dell’ambiente) spiegano infatti che la siccità porta con sé il rischio di aumentare la concentrazione di sostanze inquinanti nei corpi idrici. È una questione chimica: la concentrazione di una sostanza è maggiore se è diluita in meno acqua. Per quanto riguarda le sostanze presenti di origine antropica, gli ultimi dati dell’annuario dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) per il periodo 2018-2019 dicono che l’82% delle circa 3.800 stazioni di monitoraggio analizzate non presenta superamenti delle soglie di concentrazione delle sostanze inquinanti, tuttavia circa il 18% supera i valori in uno o più casi. La situazione non è delle migliori neanche per quanto riguarda le condizioni quantitative delle riserve idriche sotterranee. Sempre secondo il rapporto dell’Eea, in Italia quasi il 10% dei corpi idrici sotterranei analizzati si trova in situazione di scarsità.

La situazione più grave si concentra nelle Regioni del Sud, dove l’abbassamento del livello delle falde porta a fenomeni di intrusione salina con conseguente perdita della risorsa di acqua potabile. In particolare in Puglia il 45% delle riserve si trova in condizioni di quantità critiche. Ma nelle ultime settimane anche la zona della foce del Po ha registrato criticità con una forte risalita del cuneo salineo (si parla di una trentina di km).

Ma perché ci sono questi batteri in mare? La presenza di Escherichia coli e di enterococchi, spiegano le agenzie regionali per l’ambiente, è legata all’esistenza di scarichi diretti di fognature non depurate oppure scarichi mal depurati o mal disinfettati. Per la balneazione la norma nazionale di riferimento è il Decreto Legislativo 116/08, che recepisce la Direttiva 2006/7/CE. La norma tecnica applicativa è il D.M. 30/03/2010, che sancisce che la valutazione sia effettuata sulla base dei soli parametri batteriologici Escherichia coli ed enterococchi intestinali, indicatori di contaminazione fecale, che i controlli abbiano frequenza mensile, da aprile a settembre, in base ad un calendario prestabilito, che la valutazione venga effettuata secondo un calcolo statistico e le acque siano classificate sulla base dei dati delle ultime 3-4 stagioni balneari. Il divieto di balneazione per un sito e la sua revoca avvengono a seguito di esito sfavorevole di una sola analisi.

squalo bianco

Sempre più squali a largo degli Usa: colpa del surriscaldamento

Una storia di successo per la protezione degli animali, con però alcune ripercussioni negative: negli ultimi anni gli squali bianchi sono aumentati di numero al largo della costa orientale degli Stati Uniti, aumentando però anche la probabilità di sfortunati incontri con i nuotatori. Ogni anno, durante i mesi estivi, questi predatori risalgono la costa atlantica degli Stati Uniti verso il New England. Il picco della stagione si verifica tra agosto e ottobre. A Cape Cod, nel Massachusetts, il personaggio principale del film ‘Lo squalo’ è diventato un’attrazione turistica, adornando cappellini e magliette. Ma quest’anno le spiagge sono già state temporaneamente chiuse a causa della presenza dell’animale.

Quasi 300 squali bianchi sono stati marcati nel corso degli anni e una dozzina si trovano già nella zona, secondo il biologo degli squali del Massachusetts Gregory Skomal. Secondo le sue stime, ogni anno più di 100 squali bianchi passano per queste acque. Dagli anni Novanta, nell’Atlantico sono in vigore norme per proteggere queste specie dalla pesca. “C’è un aumento generale della popolazione, che pensiamo sia una ripresa da livelli molto elevati di sovrasfruttamento“, ha dichiarato all’AFP, anche se è difficile fornire una stima precisa del loro numero.

Inoltre, gli squali bianchi tendono a nuotare sempre più vicino alla costa per cacciare una delle loro specie preferite: le foche. Anche loro sono state protette e il loro numero sta crescendo. Il risultato è un maggior numero di squali che si avvicinano alle zone di balneazione. “Gli attacchi di squali sono molto rari, ma negli ultimi dieci anni sono aumentati“, afferma Gregory Skomal.

ATTACCHI

Nello Stato di New York, il governatore ha appena annunciato ulteriori pattuglie di sorveglianza, anche con droni o elicotteri. Sulle spiagge turistiche di Long Island sono già stati segnalati dalla stampa diversi morsi di squalo. Gli squali bianchi non sono necessariamente responsabili, in quanto nella zona sono presenti diverse altre specie, tra cui squali toro e tigre. Si tratta di un numero insolito di attacchi dopo tre anni di assenza. Secondo Gavin Naylor, direttore di un programma di ricerca sugli squali presso l’Università della Florida, ciò è legato alla maggiore presenza quest’anno di alcuni pesci che attirano i predatori, forse a causa delle correnti calde. Ma mentre i numeri locali possono variare notevolmente da un anno all’altro, a livello globale si registrano ancora circa 75 attacchi di squali all’anno, dopo essere scesi a circa 60 durante i due anni di pandemia. Il numero di morti è di circa cinque. Negli ultimi 20 anni, negli Stati Uniti ci sono stati solo due decessi a nord del Delaware, a Cape Cod nel 2018 e nel Maine nel 2020. Ma in futuro è ragionevole pensare che il numero di vittime aumenterà. “Ci sono più squali bianchi, quindi la probabilità aumenterà. Ci saranno più morsi“, ha riassunto Gavin Naylor. Per il momento, le variazioni generali osservate non sono statisticamente significative. I surfisti, che si avventurano più al largo, hanno rappresentato la metà delle vittime degli attacchi nel 2021. Più a sud, la Florida, con le sue numerose spiagge turistiche e il clima tropicale, rappresenta ancora il 60% degli attacchi statunitensi e quasi il 40% di quelli globali.

squalo bianco

LIMITARE I RISCHI

Gli squali sono ben lontani dalle bestie assetate di sangue che a volte vengono ritratte nei film. Gli studi hanno dimostrato che possono scambiare i surfisti e i nuotatori per le loro prede abituali, in particolare gli squali bianchi, che hanno una vista scarsa. “Con così tante persone in acqua in tutto il mondo, se gli squali preferissero nutrirsi di prede umane, avremmo decine di migliaia di attacchi ogni anno“, afferma Gregory Skomal. Con il cambiamento climatico, l’esperto prevede che l’aumento delle temperature oceaniche allungherà gradualmente la stagione in cui gli squali sono presenti negli Stati Uniti settentrionali. Cosa si può fare per limitare i rischi? Esiste un’app che consente a chiunque di segnalare l’avvistamento di uno squalo. In acqua, “guardatevi intorno“, consiglia Nick Whitney, scienziato del New England Aquarium. Se un gran numero di uccelli insegue i pesci, “probabilmente significa che anche gli squali se ne nutrono. Se si viene morsi, il pericolo reale è quello di morire dissanguati, quindi è importante raggiungere la riva e controllare l’emorragia fino all’arrivo dei soccorsi.

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Le spiagge di Rimini sposano il green: Ma i turisti si adattano poco

La spiaggia di Rimini, dal boom degli anni Sessanta ad oggi, ne ha fatta di strada in tema di sensibilità ambientale. Anche perché il mare e la sabbia e la loro tutela danno da ‘mangiare’ a migliaia di famiglie, tra gestori di stabilimenti balneari e ristoratori. GEA ne ha parlato con Mauro Vanni, presidente della cooperativa bagnini di Rimini, presidente nazionale di Confartigianato imprese demaniali e gestore del Bagno 62. Innanzitutto serve un quadro d’insieme: sui 15 km di costa riminese si trovano 240 stabilimenti balneari, 160 a sud del porto, che fa da spartiacque, e 80 a nord. E praticamente tutti i gestori, da 20 anni a questa parte, hanno mostrato interesse alle tematiche ambientali e della sostenibilità.

Tutto è partito nel 2003 con Agenda 21 – spiega Vanni -, in quell’occasione la Provincia di Rimini fece promozione e investimenti per rendere le spiagge più ecologiche. Si cominciò con la raccolta differenziata dei rifiuti, con un progetto di Hera (multiservizi dell’Emilia Romagna, ndr): pratica che dura ancora oggi ed è seguita da tutti gli affiliati. Vennero quindi distribuiti a tutti i Bagni i raccoglitori per recuperare vetro, carta e plastica e da allora non si è più smesso. Poi il Comune di Rimini propose di rendere accessibili tutti gli stabilimenti, eliminando le barriere architettoniche“. In questo caso furono costruite passerelle fino alla battigia e realizzati ingressi e bagni per le persone diversamente abili. Poi sempre nei primi anni 2000 iniziò a diffondersi la pratica dell’installazione di pannelli fotovoltaici, grazie ai finanziamenti della Provincia di Rimini, per sfruttare energia pulita e risparmiare sulla bolletta.

Più recentemente invece – prosegue Vanni – alcuni di noi hanno anche applicato riduttori di flusso nei rubinetti per risparmiare acqua. E sempre in tema idrico diversi stabilimenti fanno la raccolta delle acque reflue grigie, cioè quelle di docce e lavandini, per riutilizzarle per irrigare il verde o come acqua per gli scarichi del bagno“. Infine, come ulteriore servizio al cliente, sono state realizzate cabine e tabelle informative per non vedenti.

Tutte queste iniziative, a distanza di quasi 20 anni dalla loro prima applicazione, hanno poi portato benefici anche dal punto di vista economico? Una domanda che si porta dietro una risposta immediata: “I pannelli fotovoltaici, l’illuminazione con lampade a led e la raccolta delle acque reflue hanno portato a un risparmio notevole – spiega Vanni -. E pure la raccolta differenziata portò i suoi benefici anche perché all’inizio della sperimentazione il Comune di Rimini fece uno sconto del 5% sulla tassa per la raccolta rifiuti a tutti quelli che si adeguavano. Insomma, gli investimenti fatti sono stati ampiamenti ripagati“.

C’è sensibilità sull’uso di particolari materiali per sedie, sdraio o ombrelloni anche se, spiega Vanni, “alcuni esperimenti non hanno avuto successo, penso ad esempio agli ombrelloni in paglia. In questo particolare settore servono infatti materiali resistenti, che reggano l’usura; ma so che alcuni bagnini hanno invece posizionato pedane amovibili realizzate in materiali vegetali come l’ulivo. Ma più in generale quasi tutti gli stabilimenti hanno arredi in legno, materiale ecologico per eccellenza; certo questo richiede una maggiore cura“.

Vanni spiega che gli stabilimenti che seguono tutte le linee di Agenda 21 sono circa 5 o 6, mentre sono una cinquantina (quindi poco meno di un quinto) quelli che hanno installato pannelli fotovoltaici. Sono invece una decina quelli che riutilizzano le acque grigie, mentre sul fronte della differenziata e della piena accessibilità alla spiaggia, tutti si sono adeguati.
Ma i villeggianti dimostrano una sensibilità green? “Il cliente in generale è distratto – annota Vanni – soprattutto quello italiano; apparentemente gradisce iniziative di questo genere, ma poi si adatta poco. Alcuni sono più attenti, penso ad esempio agli stranieri, ma molti in vacanza non vogliono limitazioni, non vogliono pensieri. Pensi ad esempio che ad ogni ombrellone è applicato un posacenere, ma non sa quanti mozziconi di sigaretta troviamo sotto i lettini…“.

Infine, la nota dolente: la ‘Bolkestein’, vale a dire la direttiva europea del 2006, recepita dall’Italia nel 2010, ma mai applicata. Ma ora il governo ha deciso che le spiagge (demanio pubblico) dal 2024 dovranno essere date in concessione solo attraverso bandi pubblici. Questo potrebbe frenare i gestori di stabilimenti dal fare investimenti green: “Noi viviamo in questo limbo da decenni – conclude Vanni – nonostante tutto nel tempo abbiamo migliorato sempre di più i servizi, ma ancora adesso il settore non esprime tutto il suo potenziale. Chi ha ristrutturato, ha mostrato attenzione al green, ma servono politiche a sostegno del comparto. Quando abbiamo acquistato i primi pannelli solari, costavano l’ira di dio e non duravano tantissimo, ora invece sono più performanti. La sostenibilità ambientale ha anche un costo economico, quindi in futuro, da parte di chi ci amministra, serviranno certezze e sostegni per continuare sulla strada tracciata e dalla quale non si può tornare indietro“.

Posidonia oceanica

Posidonia oceanica, il polmone blu del Mediterraneo

Un vero e proprio polmone blu all’interno del mare, oltre che un alleato fondamentale per contrastare l’erosione delle spiagge. È la Posidonia oceanica, pianta fanerogama sottomarina endemica nel Mediterraneo che svolge un ruolo centrale nel preservare la biodiversità dell’ecosistema marino. Si stima che le praterie di posidonia oggi occupino circa 20.000 miglia quadrate di superficie (il 3% del Mediterraneo), a una profondità massima che arriva generalmente fino a 35 metri. Un mondo che oggi è messo fortemente in pericolo da diversi fattori quali la pesca a strascico e il raschiamento delle ancore delle imbarcazioni, l’inquinamento dovuto agli sversamenti di sostanze nocive in mare, la crescente cementificazione delle coste, i cambiamenti climatici che modificano le correnti marine. Nonostante la Posidonia sia tutelata dalla Comunità Europea fin dal 1992 con una direttiva relativa alla “conservazione degli habitat naturali e semi-naturali e della flora e della fauna selvatiche” (recepita nell’ordinamento italiano nel 1997), Medsea stima che negli ultimi 50 anni quasi la metà delle praterie presenti nel Mediterraneo abbiano subito una riduzione di estensione.

RUOLO FONDAMENTALE

Tra le proprietà che rendono fondamentale la presenza della Posidonia oceanica c’è la capacità di produrre ossigeno: ogni metro quadro di superficie in buona salute può liberarne fino a 15 litri al giorno tramite il processo di fotosintesi. La stessa area riesce anche a catturare circa 65 grammi di carbonio l’anno, fornendo un contributo alla lotta contro l’effetto serra. Notevole è anche l’apporto in termini di biodiversità: circa un quinto delle specie del Mediterraneo hanno il loro habitat nei posidonieti. E un metro quadro di prateria può ospitare fino a 350 specie animali differenti.

Alla Posidonia sono legate anche le cosiddette banquettes, cioè gli accumuli sulle spiagge del materiale organico rilasciato in gran quantità dalle piante che vanno a formare vere e proprie dune alte anche diversi metri. Queste strutture vengono percepite come un fastidio dai bagnanti e dagli operatori turistici ma hanno una funzione chiave nel contrastare l’erosione dei litorali sabbiosi, visto che riescono a attenuare la forza del moto ondoso. Secondo quanto afferma Sea Forest Life, progetto comunitario per la conservazione delle praterie di Posidonia oceanica, ogni metro quadro di prateria che regredisce causa l’erosione di circa 15 metri di litorale sabbioso.

In generale, sempre Sea Forest Life ha calcolato che la scomparsa di un metro quadrato di posidonieto comporta una perdita economica che va da 39mila a 89mila euro l’anno, a causa della minor produzione di ossigeno e dell’erosione e ripascimento dei litorali.

RIFORESTAZIONE

Contrastare la scomparsa delle praterie di Posidonia oceanica è l’obiettivo di numerosi progetti di riforestazione marina avviati nell’ultimo periodo. Il già citato progetto europeo Sea Forest si propone di ripristinare gli habitat delle praterie di Posidonia nelle aree protette del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni (provincia di Salerno), del Parco Nazionale dell’Asinara e del Parco Nazionale dell’arcipelago di La Maddalena (provincia di Sassari). Parallelamente il progetto Life SEPOSSO (Supporting Environmental governance for the POSidonia oceanica Sustainable transplanting Operations), realizzato con il contributo della Commissione Europea, mira a migliorare la governance italiana dei trapianti di Posidonia oceanica. Tra le iniziative messe in campo c’è anche una campagna di sensibilizzazione nelle scuole attraverso incontri, lezioni, giochi e la pubblicazione di un kit didattico realizzato ad hoc.

Di recente a Golfo Aranci, nel nordest della Sardegna, sono state messe a dimora 2.500 piante acquatiche ripristinando circa 100 metri quadri di fondale verde grazie a un’iniziativa del Comune realizzata attraverso la startup italo-guatemalteca ‘zeroCO’ e la onlus Worldrise. L’associazione ambientalista Marevivo ha invece lanciato la campagna nazionale Replant, mirata a mettere in pratica sperimentazioni di piantumazione della Cymodocea nodosa, un’altra pianta fanerogama che svolge un’azione decisiva nel mantenimento dell’ecosistema marino nel Mediterraneo.

PNRR

La mappatura delle praterie di Posidonia e degli habitat di interesse comunitario rientra poi tra gli obiettivi del protocollo d’intesa tra il ministero della Transizione ecologica e l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per l’attuazione dell’investimento M2C4-3.5 del Pnrr ‘Ripristino e tutela dei fondali e degli habitat marini’. Un progetto che vale circa 400 milioni di euro e che rientra nella Missione 2, ‘Rivoluzione verde e transizione ecologica’. Fondi che dovranno servire a tutelare i fondali e gli habitat marini del Mediterraneo sempre più esposti al degrado.