Da Trump ‘guerra commerciale’: Cina, Canada e Messico preparano contromisure a dazi

E’ di fatto una guerra commerciale quella avviata da Donald Trump: Pechino, Ottawa e Messico hanno lanciato misure di ritorsione contro i dazi doganali punitivi imposti da Washington, descritti come una decisione “stupida” dal premier canadese Justin Trudeau. I nuovi dazi del governo degli Stati Uniti stanno facendo aumentare notevolmente i prezzi dei beni che attraversano il confine, dagli avocado alle magliette alle automobili. Le importazioni dal Canada e dal Messico sono ora tassate al 25% mentre salgono al 10% gli idrocarburi canadesi. I prodotti cinesi saranno colpiti da dazi doganali aggiuntivi del 20% rispetto alla tassazione in vigore prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Il Canada ha risposto “immediatamente” applicando tariffe mirate del 25% su alcuni prodotti americani, la cui portata verrà ampliata nel corso del mese, ha spiegato Trudeau ricordando che la misura americana avrebbe danneggiato entrambe le economie e in particolare i portafogli degli americani. “L’obiettivo di Trump è quello di far crollare l’economia canadese” e poi “parlare di annettere” il Paese, ha aggiunto Trudeau. Dal social Truth gli ha risposto Trump:  “Per favore spiegate al governatore Trudeau che se decide dazi di ritorsione contro gli Stati Uniti, le nostre tariffe reciproche aumenteranno immediatamente dello stesso ammontare”.

Risposte arrivano anche da Pechino che ha annunciato tariffe del 10 e del 15 percento su una serie di prodotti agricoli provenienti dagli Stati Uniti, che vanno dal pollo alla soia. Questa risposta, tuttavia, resta di poco inferiore all’offensiva americana, che riguarda tutti i prodotti cinesi che entrano negli Stati Uniti. Pechino ha comunque presentato un nuovo reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro gli Stati Uniti. “Le misure fiscali unilaterali degli Stati Uniti violano gravemente le norme del Wto e minano le fondamenta della cooperazione economica e commerciale tra Cina e Stati Uniti”, ha affermato il Ministero del Commercio cinese in una nota, aggiungendo di essere “fortemente insoddisfatto e fermamente contrario” ai dazi. “La Cina, in conformità con le norme del Wto, proteggerà fermamente i suoi legittimi diritti e interessi e sosterrà l’ordine economico e commerciale internazionale”, ha aggiunto la dichiarazione del Ministero del Commercio.

Dal Messico la presidente Claudia Sheinbaum ha promesso ritorsioni “doganali e non doganali” per la decisione di Donald Trump. La leader ha intenzione di chiarirne il contenuto domenica e di parlare prima con il presidente americano, “probabilmente giovedì”.

Donald Trump – che può giustificare l’imposizione di nuovi dazi doganali solo per decreto con un’emergenza legata alla sicurezza nazionale – accusa i tre Paesi di non combattere a sufficienza il traffico di fentanyl, una droga dagli effetti devastanti negli Stati Uniti. Ma “se le aziende si stabiliscono negli Stati Uniti, non avranno dazi doganali!!!”, ha affermato ancora Trump.

Dal canto suo l’Unione europea “deplora profondamente” la decisione degli Stati Uniti con dazi che “rischiano di perturbare il commercio mondiale” e “minacciano la stabilità economica su entrambe le sponde dell’Atlantico”. “L’Ue si oppone fermamente alle misure protezionistiche che minano il commercio aperto ed equo. Chiediamo agli Stati Uniti di riconsiderare il loro approccio e di lavorare per una soluzione cooperativa e basata su regole che vadano a vantaggio di tutte le parti”, ha dichiarato Olof Gill, portavoce della Commissione europea per il commercio. Questi fazi “rischiano di perturbare il commercio mondiale, danneggiare i principali partner economici e creare inutili incertezze in un momento in cui la cooperazione internazionale è più cruciale che mai”, ha risposto Olof Gill. “Il Messico e il Canada non sono solo alleati stretti dell’Ue, ma anche partner economici vitali”, ha sottolineato. “Questi Dazi minacciano le catene di approvvigionamento profondamente integrate e i flussi di investimenti”, ha aggiunto il portavoce.

Per il momento, l’inquilino della Casa Bianca non ha intenzione di fermarsi qui, nonostante i crescenti timori negli Stati Uniti circa l’impatto sulle imprese e sul potere d’acquisto delle famiglie. Sono in programma altre tasse sulle importazioni statunitensi, in particolare su acciaio e alluminio. “Poi arrivano le automobili, i farmaci, i semiconduttori, i prodotti forestali e agricoli e, più in generale, tutti i paesi esportati dall’Unione Europea… Come ha indicato il presidente durante la campagna, potrebbero esserci variazioni di prezzo nel breve termine, ma nel lungo termine saranno completamente diversi”, ha dichiarato il Segretario al Commercio americano, Howard Lutnick, sul canale CNBC. “Avremo la migliore America possibile, un bilancio in pareggio, i tassi di interesse crolleranno”, ha assicurato.

Avanza la guerra commerciale di Trump: da domani dazi a Canada, Messico e Cina

La Casa Bianca imporrà i dazi annunciati da Donald Trump sui prodotti provenienti da Canada, Messico e Cina a partire da domani, 1 febbraio.

Domani il Presidente imporrà dazi del 25% sul Messico, del 25% sul Canada e del 10% sulla Cina per il Fentanyl illegale che Pechino produce e permette di distribuire nel nostro Paese”, ha annunciato la portavoce, Karoline Leavitt.

Trump giovedì ha anche ribadito la minaccia di imporre dazi “al 100%” ai Brics se questo blocco di 10 Paesi (Brasile, Russia, India, Cina, ecc.) farà a meno del dollaro nel commercio internazionale.

Secondo Oxford Economics, se queste tariffe venissero applicate, l’economia statunitense perderebbe 1,2 punti percentuali di crescita e il Messico potrebbe precipitare in recessione. Per Wendong Zhang, professore della Cornell University, lo shock non sarebbe così forte per gli Stati Uniti, ma lo sarebbe senza dubbio per Canada e Messico. “In un simile scenario, Canada e Messico possono aspettarsi una contrazione del Pil rispettivamente del 3,6% e del 2%, e gli Stati Uniti dello 0,3%”, ha affermato. Anche Pechino “soffrirebbe di un’escalation dell’attuale guerra commerciale, ma allo stesso tempo beneficerebbe (delle tensioni tra Stati Uniti), Messico e Canada”.

Durante la campagna elettorale, il candidato repubblicano aveva dichiarato di voler imporre dazi doganali dal 10% al 20% su tutti i prodotti importati negli Stati Uniti, e addirittura dal 60% al 100% sui prodotti provenienti dalla Cina. All’epoca l’obiettivo era quello di compensare finanziariamente i tagli alle tasse che avrebbe voluto attuare durante il suo mandato. Dopo la sua elezione, il tono è cambiato. Piuttosto che uno strumento per compensare il calo delle entrate fiscali, le tariffe sono diventate, come durante il suo primo mandato, un’arma brandita per forzare i negoziati e ottenere concessioni. Trump ha spiegato che i dazi sarebbero una risposta all’incapacità del Messico di contenere il flusso di droga, in particolare di fentanyl, e di migranti verso gli Stati Uniti. Il suo candidato alla carica di Segretario al Commercio, Howard Lutnick, lo ha definito un “atto di politica interna” volto “semplicemente a far chiudere le frontiere”, durante l’udienza di conferma al Congresso di martedì.

La presidente messicana Claudia Sheinbaum è stata piuttosto ottimista mercoledì: “Non pensiamo che accadrà. Ma se dovesse accadere, abbiamo un piano”. Nonostante tutto, ci sono preoccupazioni, soprattutto per il settore agricolo, che esporta molto negli Stati Uniti. “Quasi l’80% delle nostre esportazioni è destinato a questo Paese e, in ogni caso, tutto ciò che potrebbe causare uno shock ci preoccupa”, ha ammesso martedì all’AFP Juan Cortina, capo del Consiglio nazionale dell’agricoltura. Da parte canadese, la possibilità di dazi è servita a mettere in evidenza la crisi politica che stava già logorando il governo del Primo Ministro Justin Trudeau, ora dimissionario. Il ministro canadese della Pubblica sicurezza, David McGuinty, si è recato a Washington giovedì per presentare i contorni di un piano di rafforzamento della sicurezza al confine tra Canada e Stati Uniti. Howard Lutnick è stato molto chiaro martedì: “So che si stanno muovendo rapidamente”, ha detto riferendosi ai due Paesi. “Se faranno la cosa giusta, non ci saranno tariffe”.

Trump lancia offensiva commerciale contro Cina, Canada e Messico: “Aumento dei dazi anche del 200%”

A poche settimane dalla sua rielezione e a un mese e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump lancia l’offensiva commerciale contro la Cina, il Canada e il Messico, con l’obiettivo di aumentare i dazi. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre tariffe del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti da Messico e Canada”, scrive il presidente eletto in un post sul social network Truth. “Questa tassa rimarrà in vigore fino a quando le droghe, in particolare il fentanyl, e tutti gli immigrati clandestini non fermeranno questa invasione del nostro Paese”, aggiunge.

In un altro post, annuncia un aumento del 10% delle tasse doganali, oltre a quelle già in vigore e a quelle aggiuntive che potrebbe decidere, su “tutti i numerosi prodotti che arrivano negli Stati Uniti dalla Cina”. Trump sottolinea di aver spesso sollevato il problema dell’afflusso di droga, in particolare del fentanyl – uno dei principali responsabili della crisi degli oppiacei negli Stati Uniti – con i leader cinesi, che avevano promesso di punire severamente i “trafficanti”, “fino alla pena di morte”. “Ma non hanno mai dato seguito alla promessa”, accusa il presidente eletto.

Le ragioni di sicurezza nazionale possono essere invocate per derogare alle regole stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ma i Paesi sono generalmente cauti nell’utilizzare questa eccezione come strumento regolare di politica commerciale.

L’aumento dei dazi doganali, che durante la campagna elettorale ha spesso descritto come la sua “espressione preferita”, è una delle chiavi della futura politica economica di Trump, che non teme di rilanciare le guerre commerciali, in particolare con la Cina, iniziate durante il suo primo mandato. All’epoca, aveva giustificato questa politica con il deficit commerciale tra i due Paesi e con quelle che considerava pratiche commerciali sleali, accusando Pechino di “rubare” la proprietà intellettuale. E la Cina si è vendicata con tariffe che hanno avuto conseguenze dannose soprattutto per gli agricoltori americani. L’amministrazione di Joe Biden ha mantenuto alcuni dazi sui prodotti cinesi e ne ha imposti di nuovi su altre.

E poco dopo le dichiarazioni di Trump, è arrivata la replica di Pechino. “Nessuno vincerà una guerra commerciale”, sottolinea il portavoce della diplomazia cinese Liu Pengyu. “La Cina ritiene che il commercio e la cooperazione economica tra Cina e Stati Uniti siano per natura reciprocamente vantaggiosi”.

Non è mancata nemmeno la reazione del Canada. Il governo di Justin Trudeau assicura che le relazioni tra i due Paesi sono “equilibrate e reciprocamente vantaggiose, soprattutto per i lavoratori americani”, anche se non manca un velato avvertimento: il Canada, ricorda a Trump l’esecutivo, è “essenziale per l’approvvigionamento energetico” degli Stati Uniti. Qui, dove il 75% delle esportazioni è destinato proprio agli Usa, le parole di Trump agitano gli animi. Il premier del Québec, François Legault, definisce l’annuncio “un rischio enorme” per l’economia canadese. Il suo omologo della Columbia Britannica, David Eby, ritiene che “Ottawa debba rispondere con fermezza”. Il Messico, invece, “non ha motivo di preoccuparsi”, assicura (e rassicura) la presidente Claudia Sheinbaum. I tre Paesi sono legati da trent’anni da un accordo di libero scambio, rinegoziato su pressione di Donald Trump durante il suo primo mandato.

Wendy Cutler, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute, un think tank americano, ritiene che la capacità dei due vicini degli Usa “di ignorare le minacce del presidente eletto sia limitata”, tanto sono dipendenti da lui. Ma l’analista William Reinsch sottolinea che il loro accordo sarà comunque rinegoziato nel 2026: “questa è una classica mossa di Trump, minacciare e poi negoziare”.

La nomina a Segretario al Commercio di Howard Lutnick, amministratore delegato della banca d’affari Cantor Fitzgerald e critico nei confronti della Cina, avvenuta la scorsa settimana, conferma la volontà del presidente eletto di cercare di piegare i partner commerciali per ottenere accordi migliori e delocalizzare la produzione negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la Cina, Trump ha promesso tariffe fino al 60% su alcuni prodotti e addirittura del 200% sulle importazioni di veicoli assemblati in Messico. Punta anche a reintrodurre dazi doganali del 10-20% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti e l’Unione Europea si è già detta “pronta a reagire” in caso di nuove tensioni commerciali.

L’ingegnera energetica Claudia Sheinbaum sarà la prima presidente donna del Messico

L’ex sindaca di Città del Messico, la candidata di sinistra Claudia Sheinbaum, è stata scelta come prima donna presidente nella storia del Messico. Laureata in ingegneria energetica, nata il 24 giugno 1962 a Città del Messico da genitori politicamente impegnati, ha fatto suo lo slogan del presidente uscente, “prima i poveri”, rivolto tra l’altro alle comunità indigene discriminate. Negli anni ’80, Claudia Sheinbaum era una brillante studentessa che combinava un master in ingegneria energetica all’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM) con il suo coinvolgimento nel Consiglio degli studenti universitari (CEU) per opporsi alla riforma universitaria.

Claudia Sheinbaum è entrata in politica con l’attuale presidente Andres Manuel Lopez Obrador, che è stato sindaco di Città del Messico tra il 2000 e il 2006. Le ha affidato il portafoglio dell’ambiente, che è di importanza strategica in questa megalopoli di nove milioni di abitanti. La giovane eletta ha contribuito alla costruzione della seconda fase della “circonvallazione” per decongestionare una delle autostrade urbane che attraversano Città del Messico. Sheinbaum ha anche lanciato corsie per gli autobus e piste ciclabili.

Già all’università nel 2006, la scienziata messicana ha contribuito al lavoro del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), che ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 2007. La sua area di competenza? La mitigazione dei cambiamenti climatici.

Fedele al suo mentore Lopez Obrador, la 61enne ha promesso di portare avanti il “salvataggio” della compagnia petrolifera (pubblica) Pemex, che porta con sé un debito di circa 100 miliardi di dollari. E si è impegnata a investire 13,6 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili entro il 2030. “Daremo impulso alla transizione energetica”, ha dichiarato l’ex membro del panel del Gruppo internazionale di esperti climatici (IPCC).

In Messico la crisi climatica irrompe nella campagna elettorale per le presidenziali

Cambiamento climatico, riscaldamento globale e innalzamento del livello del mare entrano di prepotenza nella campagna presidenziale del Messico. Nello stato di Tabasco, nel sud del Paese e roccaforte del presidente uscente Andres Manuel Lopez Obrador, il caso di El Bosque è stato segnalato da Greenpeace come esempio dei danni del riscaldamento globale in Messico, dove il prossimo presidente è atteso con ansia alla prova dell’ambiente. Gran parte della scuola locale è stata sepolta nella sabbia. In un’aula si possono ancora vedere un tabellone con le lettere dell’alfabeto e le quattro stagioni dell’anno. Il caso di El Bosque, che contava 700 abitanti, è stato analizzato a febbraio durante un’udienza sugli sfollati climatici organizzata dalla Corte interamericana dei diritti dell’uomo. “Più di 60 famiglie sono state sfollate e l’intera comunità rischia di scomparire”, secondo Greenpeace.

Con temperature di 40 gradi, Tabasco è stato particolarmente esposto all’ondata di caldo che attualmente colpisce il Messico e che ha causato almeno 48 morti da marzo. Otto vittime sono state registrate in questa regione, dove decine di scimmie sono morte a causa dell’ondata di caldo che sta interessando oltre l’80% del territorio. Sabato, la capitale Città del Messico ha registrato un record di calore, con 34,7 gradi Celsius. Questo record che dura da settimane, combinata con venti deboli, ha anche peggiorato l’inquinamento atmosferico nella megalopoli, nonostante l’alternanza dei piani di traffico per limitare le emissioni inquinanti dei veicoli messa in atto dall’amministrazione locale. La siccità ha causato problemi di approvvigionamento idrico. In Messico, secondo un’analisi del Mexican Competitiveness Institute, la disponibilità media di acqua pro capite è diminuita del 68% dal 1960.

Il presidente della sinistra nazionalista ha puntato sugli idrocarburi, responsabili del cambiamento climatico, in nome di quella che lui chiama “autosufficienza energetica”. A circa 80 chilometri da El Bosque, il suo governo ha investito 16,8 miliardi di dollari nella costruzione della raffineria di Dos Bocas con una capacità di 340.000 barili di greggio al giorno. Il governo ha anche acquistato una raffineria in Texas e costruito il treno Maya, lungo 1.500 chilometri attraverso gli stati della penisola dello Yucatan, compreso Tabasco. Nello specifico, il treno Maya è stato criticato dagli ambientalisti per le sue conseguenze sul territorio. Per mitigarne l’impatto, il governo ha affermato di aver lanciato il più grande piano di riforestazione del mondo, piantando alberi su un milione di ettari.

La candidata della sinistra, Claudia Sheinbaum, grande favorita alle elezioni presidenziali, è una scienziata in ingegneria energetica. Fedele al suo mentore Lopez Obrador, la 61enne ha promesso di portare avanti il ​​”salvataggio” della compagnia petrolifera (pubblica) Pemex, che porta con sé un debito di circa 100 miliardi di dollari. E si è impegnata a investire 13,6 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili entro il 2030. “Daremo impulso alla transizione energetica”, ha dichiarato l’ex membro del panel del Gruppo internazionale di esperti climatici (IPCC), vincitore del Premio Nobel per la pace nel 2007. “Si distinguerà da Lopez Obrador“, afferma Pamela Starr, professoressa di scienze politiche e specialista in Messico presso l’Università della California del Sud. “Incoraggerà molti più investimenti nell’energia pulita”. L’avversario di centrodestra, Xochitl Galvez, propone di chiudere due raffinerie nel nord del Paese e che Pemex produca energia pulita. “Dobbiamo porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili”, afferma.

Secondo Boris Graizbord, ricercatore del Colegio de Mexico, è necessario “chiudere gradualmente alcune raffinerie obsolete o iperinquinanti, oppure devono essere migliorate”. “Non esiste una politica pubblica per affrontare il grave impatto del cambiamento climatico, che è destinato a peggiorare”, si rammarica Pablo Ramirez, coordinatore del programma Clima ed Energia di Greenpeace in Messico.

Sarà abbattuto il muro ‘anti migranti’ tra Arizona e Messico: distrugge la biodiversità

Entro il 4 gennaio, il muro di container – 915, per la precisione – lungo 6,4 chilometri per arginare il flusso di migranti che attraversano illegalmente il confine tra Stati Uniti e Messico dovrà essere smantellato. È questo l’esito della battaglia legale intrapresa da diverse associazioni ambientaliste contro il progetto ideato dall’ufficio del governatore repubblicano dello Stato dell’Arizona, Doug Ducey e che è costato ai contribuenti circa 90 milioni di dollari. Enormi tessere di un domino gigante nel cuore della Coronado National Forest, un’area protetta a livello federale che fornisce l’habitat a specie in via di estinzione come gli ocelot e i giaguari. Ducey, che dovrebbe lasciare l’incarico all’inizio del prossimo anno, si trova quindi obbligato a smantellare il ‘muro’: l’accordo, concluso con le autorità federali, prevede che la sua amministrazione debba intervenire appunto entro il 4 gennaio 2023, in modo da “prevenire danni alla terra e alle risorse”. La biodiversità di questa regione è incomparabile”, spiega Russ McSpadden, del Center for Biological Diversity, un’organizzazione per la difesa dell’ambiente. La sua associazione ha intrapreso due azioni legali contro il muro di container, che si sono aggiunte al braccio di ferro tra lo Stato dell’Arizona e il potere federale.

L’Arizona condivide circa 600 km di confine con il Messico, un Paese attraverso il quale transitano ogni mese migliaia di migranti dall’America centrale e dai Caraibi in cerca di un futuro migliore negli Stati Uniti. Prima del 2017 e dell’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump – che aveva fatto dell’immigrazione clandestina uno dei suoi principali temi elettorali – il confine in questa regione non era così visibile. Consisteva in un semplice recinto di filo spinato con pali di legno, circondato da cactus.

Russ McSpadden spiega di aver posizionato delle telecamere lungo il muro. “Non ho mai registrato un passaggio di migranti”, dice, specificando, anzi, di aver avuto prove dell’esistenza di giaguari o ocelot. “Siamo in una valle selvaggia. Non ci sono aree urbane vicine. È una regione di confine molto difficile per un migrante”, continua l’attivista. “Ecco perché anche sotto Trump non hanno costruito un muro qui”. McSpadden ritiene che l’iniziativa del governatore Ducey sia un “trucco politico” per farlo apparire come un fermo funzionario nel fascicolo sull’immigrazione e che, inoltre, potrebbe rivoltarsi contro il suo successore, il democratico Katie Hobbs, che sarà criticato per “aver riaperto il confine”.