La Cop29 si appella al G20: “Leader diano segnale chiaro, senza non possiamo farcela”

In apertura della settimana che porterà alla chiusura dei lavori, si alza il grido d’aiuto della presidenza azera della Cop29 al G20 di Rio de Janeiro. I venti grandi “rappresentano l’85% del Pil globale e l’80% delle emissioni”, chiosa Mukhtav Babayev, ministro dell’Ecologia e delle risorse naturali, considerando il G20 “essenziale per compiere progressi su tutti i pilastri dell’Accordo di Parigi”, dalla finanza alla mitigazione e all’adattamento. “Non possiamo farcela senza di loro e il mondo aspetta di sentirli”, insiste, esortando il summit a inviare un segnale positivo dell’impegno ad affrontare la crisi climatica: “Vogliamo che forniscano mandati chiari per ottenere risultati alla COP29. Questa è la loro occasione per dimostrare la loro leadership”.
Il segretario esecutivo dell’United Nations Climate Change Conference, Simon Stiell, fa presente che i costi dell’adattamento al cambiamento climatico “salgono alle stelle per tutti, soprattutto per i Paesi in via di sviluppo” e i loro costi potrebbero salire a “340 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, fino a raggiungere i 565 miliardi di dollari all’anno entro il 2050″.
A Rio, anche il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres invita i Paesi del G20 a dare l’esempio e a trovare “compromessi” per salvare la conferenza sul clima. Che comunque non resta ferma. Dopo l’adozione del comma 4 dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, sulla finanza privata, oggi da Baku arriva anche l’adesione della conferenza al comma 8 dello stesso articolo, sugli “approcci non di mercato”, quindi sulla finanza pubblica.

Babayev però si dice preoccupato dalla lentezza dei negoziati: “Le parti non si stiano avvicinando l’una all’altra con sufficiente rapidità, è ora che si muovano più velocemente”, esorta, domandando un accordo “equo e ambizioso”.
L’obiettivo è quello di inserire nei documenti delle Nazioni Unite le modalità di finanziamento di circa 1.000 miliardi di dollari all’anno di aiuti al clima per i Paesi in via di sviluppo da qui al 2030. Denaro che sarà utilizzato per costruire centrali solari, investire nell’irrigazione e proteggere le città dalle inondazioni. Bisognerà capire se questa cifra dovrà essere solo pubblica o mobilitata, quanto sarà ampia la platea dei Paesi donatori e quali saranno le tempistiche indicate nel documento.

La cifra al 2030 è la stima del fabbisogno fatta dagli economisti Nicholas Stern e Amar Bhattacharya, su commissione dell’ONU. Secondo i testi delle Nazioni Unite, solo i Paesi sviluppati sarebbero obbligati a contribuire. Ma l’Europa spinge perché i Paesi emergenti, come la Cina, diano un segnale di disponibilità.
Il contesto internazionale non aiuta. Gli Stati Uniti di Joe Biden stanno cercando di guidare l’uscita dall’impasse, a due mesi dal ritorno al potere di Donald Trump. Domenica, il Presidente uscente ha fatto una visita simbolica in Amazzonia, chiedendo un’azione “per l’umanità”. Nonostante il momento geopolitico così complesso, da Baku il commissario europeo all’Ambiente, Wopke Hoekstra si mostra ottimista: “Credo davvero che possiamo e dobbiamo ottenere un buon risultato entro la fine di questa settimana”, scandisce, ricordando che la sfida da affrontare è “davvero politica”: “Quindi questa settimana, in questa sede, smorziamo il rumore di fondo e concentriamoci sui negoziati che ci attendono”.

Tre le richieste di fondo dell’Europa: il denaro vada ai Paesi realmente più bisognosi e più vulnerabili; aumentino le risorse private perché “la realtà è che non ci sarà mai abbastanza denaro pubblico da nessuna fonte” e i Paesi contribuiscano “in base alle loro emissioni e alla loro crescita economica”. Qui il riferimento chiaro, anche se non esplicito, è alla Cina. Quanto alla capacità di attrarre fondi privati, la ricetta è il carbon pricing: “A contribuire maggiormente è la determinazione del prezzo del carbonio e i mercati del carbonio. Per questo stiamo anche negoziando il completamento delle norme dell’Accordo di Parigi che regolano i mercati internazionali del carbonio”, fa sapere Hoekstra.

Da oggi, la Cop29 ospita i ministri dell’Ambiente, compreso Gilberto Pichetto Fratin, per l’Italia e che ribadisce l’importanza di essere presente al vertice: “La Cop29 è una delle tante tappe di un processo irreversibile in atto“, spiega a Gea il ministro, che torna sulla contingenza globale: “Usa e Ue stanno per cambiare governo, il governo tedesco è in crisi. L’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, se ci sarà, non cambierà le politiche americane in modo importante. Anche se alla Cop non sono presenti molti dei grandi leader, ci sono tante altre occasioni per vedersi. I Paesi Opec, che sono tra i maggiori emettitori, sono quelli che hanno i piani più ambiziosi“, ammette. Pichetto si dice convinto che sia “importante continuare anche a Baku ad agire con pazienza e determinazione per raggiungere, passo dopo passo, gli obiettivi della decarbonizzazione“.

La palla, per il momento, passa al Brasile, con un assist da Parigi, dove si discute anche della proposta di tagliare la spesa pubblica internazionale dei Paesi Ocse per progetti di combustibili fossili attraverso le agenzie di credito all’esportazione. Se approvata, la proposta prevede l’eliminazione di 40 miliardi di dollari dai nuovi investimenti in combustibili fossili.

La crescita del Pil nell’area Ocse

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, la crescita del Pil nelle economie dell’area Ocse. Nel secondo trimestre 2024 è aumentato dello 0,5% in area Ocse, allo stesso ritmo del trimestre precedente, secondo le stime provvisorie. Mentre il tasso di crescita complessivo del Pil è rimasto invariato nel secondo trimestre 2024, nel G7 il è aumentato più rapidamente nel secondo trimestre, dello 0,5% rispetto allo 0,2% del primo trimestre. In Giappone la crescita è aumentata dello 0,8% dopo una contrazione dello 0,6% nel primo trimestre. Negli Stati Uniti la crescita è accelerata dallo 0,4% del primo trimestre allo 0,7% del secondo, grazie soprattutto all’aumento dei consumi privati (0,6% rispetto allo 0,4% del 1° trimestre). È aumentato leggermente anche in Canada (dallo 0,4% allo 0,5%) ed è rimasto invariato in Francia (allo 0,3%). Anche in Italia e nel Regno Unito la crescita è leggermente rallentata nel secondo trimestre, rispettivamente allo 0,2% e allo 0,6%, rispetto allo 0,3% e allo 0,7% del primo trimestre. Su base annua è stata dell’1,8% nel secondo trimestre 2024, in leggero aumento rispetto all’1,7% del primo trimestre. Tra le economie del G7, gli Stati Uniti hanno registrato la crescita più elevata negli ultimi quattro trimestri (3,1%), mentre il Giappone ha registrato il calo maggiore (-0,8%). L’Italia ha registrato un +0,9% su base annuale, superiore alla media dell’eurozona (+0,6%) e dell’Ue (+0,8%).

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Nel 2024 cresce il reddito delle famiglie italiane. Meloni: “Aumento più forte tra Paesi G7”

Nella calura agostana arriva una notizia ‘rinfrescante’ per l’Italia. L’Ocse, infatti, certifica che nel primo trimestre del 2024 il reddito reale pro capite delle famiglie è aumentato dello 0,9% rispetto allo 0,3% del trimestre precedente, mentre il Prodotto interno lordo reale pro capite è cresciuto dello 0,3. “Tutte le economie del G7 hanno registrato un aumento del reddito reale pro capite delle famiglie nel primo trimestre del 2024. L’Italia ha registrato l’aumento più forte (3,4%), guidato da un aumento dei redditi da lavoro dipendente e dai trasferimenti sociali in natura, invertendo il calo del trimestre precedente”, ha sottolineato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

I numeri fanno esultare la premier, Giorgia Meloni, dal buen retiro pugliese. “Finalmente i redditi stanno crescendo più dell’inflazione, dopo anni di perdita di potere d’acquisto delle famiglie”, scrive sui suoi canali social. Rimarcando che si tratta dell’aumento “più forte tra tutte le economie del G7”. Un risultato, sottolinea ancora Meloni, “ben superiore alla media Ocse dello 0,9%”, frutto anche “delle politiche del governo che hanno concentrato gran parte delle risorse disponibili al rinnovo dei contratti, ad aumentare le pensioni, a sostenere i salari attraverso il taglio del cuneo contributivo e la riduzione dell’Irpef, e per rafforzare i trasferimenti sociali in natura”. La presidente del Consiglio, però, non abbassa la guardia. “C’è ancora moltissimo da fare, ma questi segnali ci dicono che siamo sulla strada giusta. Continuiamo a lavorare con determinazione per un’Italia sempre più giusta e prospera”.

La politica, anche se in pausa estiva, comunque non perde l’occasione per commentare. Entusiastici, ovviamente, i toni della maggioranza. In particolare da Fratelli d’Italia: “I dati Ocse confermano il successo delle politiche del governo Meloni in favore delle famiglie. Un aumento del reddito reale di oltre il 3 per cento a fronte di una media Ocse dello 0,9 percento. È il frutto di un approccio che ha chiuso con i bonus, gli sprechi e i sussidi concessi senza alcun controllo”, dichiara il presidente dei senatori FdI, Lucio Malan.

Toni diametralmente opposti, invece, nelle opposizioni. È il Pd, con Arturo Scotto, a intervenire sul tema. “Consiglierei alla presidente Meloni meno trionfalismi sui dati Ocse. L’incremento del primo trimestre 2024 del reddito reale delle famiglie non risolve il tema sollevato dalla stessa Ocse appena due settimana fa: l’Italia è l’unico paese dell’area Ocse che non ha visto crescere i salari reali rispetto all’inflazione dal prepandemia. Sette punti ancora sotto”. Anche ad agosto la politica non va mai (veramente) in vacanza.

INFOGRAFICA INTERATTIVA Pil, le stime di crescita Ocse

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, le previsioni Ocse sul Pil. Secondo l’ultimo Interim Economic Outlook, “la crescita globale regge, mentre il ritmo di crescita rimane disomogeneo tra paesi e regioni e l’inflazione è ancora al di sopra degli obiettivi”. Le prospettive prevedono una crescita del Pil globale del 2,9% nel 2024 e un leggero miglioramento al 3% nel 2025, sostanzialmente in linea con le precedenti proiezioni Ocse di novembre 2023. Si prevede che l’Asia continuerà a rappresentare la maggior parte della crescita globale nel 2024-25, come nel 2023. Per l’Italia, l’Ocse mantiene stabili le stime di crescita rispetto all’analisi di novembre.

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Clima e aumento della popolazione spingono verso i ‘novel food’

Nessuna mancanza di rispetto per usi e costumi, nessun attacco a diete consolidate e tipiche. L’apertura a nuovi cibi, da produrre e mettere in commercio, non trova queste spiegazioni. Se la Commissione Europea ha dato il via libera a tarme della farina essiccate, locusta migratoria e farina di grillo il motivo è una problematica reale: l’aumento della domanda di cibo a fronte di una diminuzione delle rese agro-alimentari. Di questo si parlerà il prossimo 9 marzo all’interno dell’evento ‘L’evoluzione dell’agroalimentare italiano ed europeo tra sostenibilità e benessere’, organizzato a Roma da GEA ed Eunews, testate del gruppo Withub, all’interno del panel ‘New food: insetti e carni sintetiche, la nuova frontiera della sicurezza alimentare’

La questione non è nuova, tanto che già l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha acceso i riflettori su un problema che si pone nell’immediato e che sempre di più rischia di farsi strada. Innanzitutto c’è la questione della domanda. “La popolazione mondiale è raddoppiata negli ultimi 50 anni”, arrivando a 7,5 miliardi di persone, sottolinea l’Ocse. C’è dunque più richiesta di cibo. A questo si aggiunge il miglioramento economico di tutta una serie di Paesi, la cui popolazione, avendo adesso un più forte potere d’acquisto, ha iniziato a rivedere le sue abitudini alimentari portando sulla propria tavola pietanze prima al di fuori della propria portata.

Sul fronte dell’offerta pesa però il cambiamento climatico. “Le sfide che devono affrontare i settori dell’alimentazione, dell’agricoltura e della pesca aumenteranno con il cambiamento climatico”, avverte l’Ocse. Si stanno ormai consolidando tendenze frutto dei mutamenti in atto. “Le temperature medie globali stabiliscono nuovi record quasi ogni anno, mentre la pioggia è diventata meno affidabile”. Inoltre “gli eventi meteorologici estremi che distruggono i raccolti, come inondazioni, siccità e grandi tempeste, sono diventati più comuni”. Del resto la produzione agricola dipende dalla buona qualità del suolo e dell’acqua, insieme a condizioni meteorologiche prevedibili e una stagione sufficiente per la crescita di colture e raccolti. La questione climatica non riguarda solo la terra ferma. “Il cambiamento climatico sta alterando la produttività della pesca di cattura e la distribuzione degli stock ittici, rendendo meno sicuri i prelievi futuri”, avverte ancora l’Ocse.

In questo scenario di agricoltura tradizionale sempre più sotto stress, esplorare nuove risorse appare una via quasi obbligata per scongiurare il rischio di aggravare il problema della fame nel mondo.

Investimenti green, fondi sostenibili e proiezioni future: parla Borsellino di Generali

Per raggiungere i target climatici e ambientali, da qua al 2050 servono decine di trilioni di dollari. Governi e istituzioni internazionali emettono bond e creano regolamenti per raggiungere questi obiettivi, tuttavia sarà determinante il ruolo che giocheranno la finanza e i risparmiatori.
 

Dottor Borsellino, la transizione energetica ed ecologica porta con sé rilevanti costi. Quale ruolo ha scelto Generali A&WM per accompagnare imprese e investitori verso l’obiettivo della decarbonizzazione?
Il tema della mitigazione del cambiamento climatico assume proporzioni molto importanti, globali, sia per le istituzioni finanziarie sia per i risparmiatori. A livello di investimenti, vi sono rilevanti costi e opportunità connessi a questa importante tematica. In questo senso, gli asset manager hanno innanzitutto un obbligo verso i propri clienti su tematiche finanziarie e legate alla sostenibilità. Da anni, già da prima del 2007, stiamo investendo risorse in analisi su tematiche di sostenibilità e su come inserire tali considerazioni all’interno del processo di investimento. Questo lo facciamo per i nostri clienti, sia quelli con un approccio più maturo, sia quelli meno interessati alla decarbonizzazione. Questo approccio risulta coerente con il fatto che Generali si è data target specifici legati alla mitigazione del cambiamento climatico, basati sulle indicazioni Onu. Tra questi, l’obiettivo di azzerare progressivamente gli investimenti nel settore carbonifero entro il 2030 per i Paesi Ocse ed entro il 2040 nel resto del mondo. Ma i target sono anche di breve periodo: per questo il gruppo punta a una riduzione del 25% dell’impronta carbonica dei portafogli diretti in azioni e obbligazioni societarie entro tre anni, e a un allineamento di almeno il 30% del valore del portafoglio immobiliare alla traiettoria di riscaldamento globale pari a 1,5°C.

Operativamente quali sono le vostre strutture in campo?
Al fine di soddisfare tali necessità, all’interno della nostra business unit, per esempio, Generali Insurance Asset Management (Giam), ha stabilito processi e tool per gestire gli asset dei clienti in linea con i rispettivi obiettivi di decarbonizzazione. Su tale tema, Giam ha inoltre preso un commitment a disinvestire dal carbone entro il 2040 in tutto il mondo. Un altro esempio è Generali Real Estate, il nostro pilastro nel segmento immobiliare, che ha sviluppato una strategia per l’implementazione di azioni mirate calcolando, ad esempio, le emissioni di gas serra sul proprio portafoglio. Certo, ci sono costi associati molto importanti, ma fanno parte della scelta strategica e quindi degli investimenti.

Ha un ruolo il risparmio gestito nella transizione?
Assolutamente, un primo elemento viene dai dati…

Si riferisce al fatto che i fondi cosiddetti sostenibili hanno risentito meno di un deflusso negli ultimi mesi? Come si spiega?
In una situazione critica per tutte le asset class, nel terzo trimestre c’è stata una contrazione minore per i fondi green rispetto a quelli tradizionali. Nel corso dell’anno, inoltre, i fondi ESG sono stati impattati molto meno e sono cresciuti in termini di importanza, tanto che a fine settembre, a livello globale, hanno raggiunto 2,2 trilioni di dollari.

Questo cosa significa?
Che c’è un trend molto significativo dal punto di vista della richiesta, sia retail sia istituzionali, anche per una spinta regolamentare importante. A mio avviso, questi movimenti vanno sempre inquadrati in un’ottica di medio-lungo termine, al di là della volatilità specifica del mercato. Anche gli investimenti ESG conosceranno accelerazioni e decelerazioni, ma il trend rimane sano e robusto. Oltre a far transitare l’economia da un modello brown a uno green, bisogna inoltre tener conto del fatto che questa transizione avvenga in maniera ragionevole e non crei altre disparità sociali, considerando bene gli impatti sociali che la transizione possa comportare sull’economia reale. È necessario a tal fine rafforzare l’attività di active ownership; una della maggiori sfide del futuro è quella del dialogo, soprattutto per evitare disinvestimenti.

Servirebbero incentivi fiscali per agevolare investimenti su rinnovabili ed economia circolare?
Sono importanti gli incentivi fiscali nell’ambito dei prodotti finanziari, nel senso che le storie di successo dei nuovi veicoli finanziari creati sono sempre state collegate a un elemento di incentivo fiscale. In questo caso lo sgravio dovrebbe andare anche all’aziende che investono nella transizione, non solo al retail. Nonostante l’importanza del tema verso una produzione a bassa emissione, l’imprenditore non sempre tocca con mano il valore di puntare su queste operazioni. In generale è utile favorire una fiscalità agevolata e sostenibile, incentivando i prodotti.

Forse ci dovrebbe essere una maggiore trasparenza dei prodotti, nel senso una maggiore specificazione dell’ambito concreto di investimento?
Serve un’offerta di prodotti con obiettivi di sostenibilità più trasparente e concreta. C’è interesse e una domanda ancora non chiaramente catturata verso gli investimenti in rinnovabili, che stanno crescendo rapidamente, sia da parte dei Paesi che degli investitori. Sono diversi i fattori in gioco e il tempo è un elemento chiave. L’Unione Europea sta ora lavorando in maniera utile per permettere anche al retail, lì dove appropriato e sempre attraverso un’adeguata consulenza finanziaria, di investire su progetti concreti e incentivati, attraverso gli Eltif, European long term investment funds, che insistono sul debito infrastrutturale oltre che su rinnovabili, sostenibilità e transizione.

La Bce ha fatto sapere che sosterrà maggiormente gli investimenti green. La strada sembra tracciata…la crisi energetica e la guerra hanno accelerato la svolta green?
È vero che la guerra ha evidenziato inconsistenze su come alcuni temi Esg fossero stati tradotti all’inizio di questo percorso. La guerra ci ha messo di fronte a necessità di approvvigionamento energetico di Paesi che, in maniera molto miope, si erano affidati per il 40% a un unico fornitore… Quindi come fai ora? Possiamo permetterci di non usare né investire più in combustibili fossili? Al di là della volatilità dei prezzi, la guerra ha evidenziato i limiti delle impostazioni ad escludendum dello schema della transizione pre-guerra in Ucraina. Rimane il fatto che il conflitto avrà, nel lungo termine, impatti positivi rispetto alla transizione, sempre più convinta. Sarà tuttavia necessario un investimento pubblico e l’assistenza di tutte le componenti economiche e finanziarie, risparmio gestito compreso, che possono incentivare il cambiamento. Anche la Bce, da ultimo, si è data obiettivi per operare in maniera sostenibile. Duecento anni di economia basata su fonti fossili non possono tuttavia essere sospesi in modo brusco: la transizione va accompagnata ed agevolata.

 

 

gas

Ecco come vengono calcolate le emissioni di Co2

Gli inventari nazionali dei gas serra sono utilizzati nell’ambito dell’Accordo di Parigi per garantire il rispetto degli impegni assunti dai firmatari. Ma come si misurano queste emissioni?

I gas serra sono gas che assorbono la radiazione infrarossa (parte dei raggi solari) emessa dalla superficie terrestre. Contribuiscono quindi all’effetto serra, che mantiene ragionevole la temperatura della superficie terrestre. Per gli inventari nazionali vengono prese in considerazione le cosiddette emissioni antropogeniche, derivanti dalle attività umane. Le sostanze in questione stanno aumentando nell’atmosfera e sono responsabili del riscaldamento globale.

Gli inventari nazionali delle emissioni di gas serra si basano su stime, utilizzando una semplice formula matematica. Le emissioni sono calcolate moltiplicando la quantità di attività per un “fattore di emissione” per la sostanza in esame. Per i Paesi che non sono in grado di determinare i valori nazionali per i loro fattori di emissione, gli esperti climatici delle Nazioni Unite propongono dati predefiniti.

Il fattore di emissione viene utilizzato per convertire i livelli di consumo delle diverse energie in quantità di gas serra. I Paesi seguono le linee guida dell’IPCC nella preparazione dei loro rapporti. Questi includono raccomandazioni sui metodi di raccolta dei dati, sui settori da monitorare e sul potere di riscaldamento globale di ciascun gas. Si tratta di un indice che permette di confrontare l’impatto relativo dei gas serra sul cambiamento climatico, convertendo le emissioni dirette in “CO2 equivalente” (eqCO2). Si tratta del “potere di riscaldamento globale (GWP) che rappresenta l’impatto di un gas serra sul clima“.

Non tutti i Paesi hanno le stesse responsabilità nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). I cosiddetti Paesi dell’Allegato 1, che comprendono tutti i membri dell’OCSE e la Russia, si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni e a fornire un rapporto di inventario disponibile due anni dopo l’anno osservato. Per il resto del mondo, che “oggi emette il 70% delle emissioni di gas serra del pianeta, non c’è altro obbligo che cercare di fare comunicazioni nazionali a intervalli regolari, che sono meno precise e per nulla in un formato armonizzato“, spiega Philippe Ciais, direttore di ricerca presso il Laboratorio di Scienze Climatiche e Ambientali (LSCE) e autore dell’IPCC.

La Cina, il maggior emettitore di gas serra, e gli Stati del Golfo rientrano in questa categoria. I principali settori che vengono esaminati sono:

  • Energia, con tutte le attività di combustione di combustibili nell’industria, nei trasporti e nell’edilizia;
  • Processi industriali, ad esempio la produzione di cemento o vetro, l’industria chimica, elettronica e metallurgica, ma anche l’uso di prodotti in sostituzione delle sostanze che riducono lo strato di ozono;
  • Agricoltura, silvicoltura e altri usi del suolo;
  • Trattamento dei rifiuti.

 

I principali gas serra identificati dall’IPCC sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFC) utilizzati in particolare nei propellenti spray, i perfluorocarburi (PFC) presenti nei condizionatori d’aria, l’esafluoruro di zolfo (SF6) utilizzato come isolante termico e il trifluoruro di azoto (NF3) utilizzato nella microelettronica. Gli inventari nazionali comunicati all’UNFCCC includono anche le emissioni di quattro gas serra indiretti: monossido di carbonio (CO), composti organici volatili non metanici (COVNM), ossidi di azoto (NOx) e ossidi di zolfo (SOx).

rigenerazione urbana

Rigenerazione urbana, Camera-Cresme: “Rivedere modello risorse, mix pubblico-privato”

La rigenerazione urbana è un concetto ormai sedimentato nella cultura di ogni comunità. Eppure “ad oggi non trova una compiuta definizione nell’ordinamento nazionale”, pur essendo presenti “numerosi riferimenti nella legislazione statale e definizioni non sempre convergenti in numerose leggi regionali”. A sottolinearlo è un’analisi che porta la firma del Servizio studi della Camera dei deputati in collaborazione con il Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio (Cresme), su richiesta della commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici di Montecitorio, che si compone di due parti e 8 capitoli tematici. I dati che emergono tracciano un quadro completo della situazione, portando a galla le criticità da risolvere per avere un risultato omogeneo e produttivo, mettendo a disposizione del legislatore gli strumenti utili a capire dove focalizzare gli interventi.

Prima, però, è utile capire la base di partenza. Perché se “in termini generali, in letteratura e nel dibattito pubblico, per rigenerazione urbana si fa riferimento ad un insieme di programmi di recupero e riqualificazione del patrimonio immobiliare e degli spazi su scala urbana volti a garantire, tra l’altro, la qualità dell’abitare sia dal punto di vista ambientale sia sociale, con particolare riferimento alle aree urbane e alle periferie più degradate”, la nozione di rigenerazione urbana diviene “un paradigma trasversale ad una pluralità di politiche pubbliche aventi ad oggetto la tutela dell’ambiente e del paesaggio, in particolare attraverso il contenimento del consumo di suolo”, con cui “compone un binomio inscindibile”.

Una delle criticità riscontrate dallo studio è quello della concorrenza tra normative centrali e quelle locali. “Dal complesso panorama normativo in materia sembra emergere una tendenza – più marcata nella legislazione regionale e affermata solo in modo incidentale e incompiuto nella legislazione statale – favorevole a considerare le pratiche della ristrutturazione e della sostituzione edilizia, attraverso la demolizione e ricostruzione di edifici, secondo criteri di maggiore sostenibilità energetica, ambientale e urbanistica, quale asse a partire dal quale innestare più estesi interventi di rigenerazione urbana”, sottolinea il documento. Senza dimenticare che ogni passaggio deve essere in compliance con le decisioni assunte in sede europea: in particolare la bussola è, e resta, l’Obiettivo 11 dell’Agenda 2030 dell’Onu, che fissa il traguardo di città e comunità urbane sostenibili, più durature, ed efficienti. In cui “tutti possano avere accesso ai servizi di base, all’energia, all’alloggio, ai trasporti e molto altro”, oltre ad ancorare il consumo di suolo alla crescita demografica.

Alla rigenerazione urbana è legato anche un altro tema, quello della crescita, ma soprattutto della produttività del sistema economico. Che lo studio condotto da Camera e Cresme individua come “il risultato dell’efficienza delle determinanti settoriali di un’economia nazionale, ma è anche il risultato di quelle che potremmo definire determinanti territoriali, insediative, che lo caratterizzano”. Argomenti trattati a più riprese dall’Ocse, ma anche dalla Banca d’Italia, che in diversi studi ha descritto il legame tra crescita aggregata e città, mettendo in evidenza sia l’importanza sia le criticità delle città italiane: “In tutte le economie avanzate, da alcuni decenni – riporta via Nazionale – le aree urbane mostrano tassi di crescita della popolazione superiori a quelli delle aree non urbane”. Dunque, secondo i dati Ocse, scrive ancora Bankitalia, “la produttività del lavoro è del 10% più elevata rispetto alla media nazionale e questo vantaggio è rimasto sostanzialmente invariato nell’ultimo quindicennio, tuttavia non è cresciuta come nei principali Paesi europei”.

Elementi che inducono a pensare nuove soluzioni, sfruttando anche le best practices delle comunità occidentali. Ad esempio come quella che si è sviluppata in Francia negli ultimi anni, la ‘Città dei 15 minuti’, che ha trovato uno slancio definitivo durante il periodo della pandemia. In poche parole, si tratta di valutare “il tempo di spostamento a piedi” per raggiungere i luoghi utili alla quotidianità “come parametro fondamentale alla base della pianificazione urbana”. In Italia il tema è stato introdotto anche dal neo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, durante la campagna elettorale dello scorso anno.

La seconda parte dello studio Camera-Cresme, poi, muove dalla constatazione del radicale cambio di paradigma della sfida urbana tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, fino ad arrivare alle riflessioni sulla possibilità di considerare gli incentivi fiscali per il recupero e la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio o quali elementi di un più integrato sistema di interventi di trasformazione delle aree urbane. Dunque, “la sfida della rigenerazione urbana si qualifica come obiettivo sistemico al cui raggiungimento sono chiamate a concorrere numerose politiche pubbliche settoriali da coordinare in un quadro coerente e strategico di interventi”. Soprattutto sfruttando tutte le risorse messe a disposizione, di cui il Pnrr è una parte consistente ma non l’unica. Secondo l’analisi, nel prossimo lustro “è da tenere in considerazione il complesso quadro degli investimenti in opere pubbliche avviati con la programmazione nazionale ordinaria e, per rimanere nel quadro europeo, i fondi strutturali e i fondi di coesione sociale, oltre agli incentivi fiscali per il recupero edilizio”. Secondo un recente documento redatto dal Cresme, infatti, la stima è di “circa 310 miliardi di euro le risorse disponibili tra il 2021 e il 2027 considerando il Pnrr, il Fondo complementare al Pnrr, React-Eu e i fondi Fsre e Fse”.

Un altro elemento di fondamentale importanza, evidenziato dallo studio Camera-Cresme è l’interazione proattiva di investimenti pubblici e privati. “Se si lavorasse per innescare un virtuoso ciclo di investimenti privati, le potenzialità dell’impatto economico crescerebbero significativamente, così come la possibilità di far fare un salto competitivo al sistema economico del nostro Paese”, sottolinea il documento. Facendo notare che “le esperienze europee di rigenerazione urbana insegnano che nelle città gli investimenti privati in partnership con quelli pubblici possono avere un effetto moltiplicativo di grande rilievo, e con molti meno rischi di quelli dimostrati nei progetti riguardanti le grandi infrastrutture a rete”. Perché “le città sono per loro natura un mix di beni pubblici e beni privati, di infrastrutture pubbliche e private, di investimenti pubblici e privati, di interessi pubblici e privati che possono essere portati a sistema e valorizzati all’interno di nuovi strumenti di intervento”.

Tirando le somme dell’analisi, l’obiettivo è sviluppare una proposta riguardante i temi della rigenerazione urbana che tenga conto delle dinamiche in atto, delle risorse in gioco e degli obiettivi che l’Unione europea e l’Italia si sono date in termini di sviluppo sostenibile”. Il tutto in una prospettiva di “possibile revisione degli incentivi vigenti”, utilizzando la leva fiscale, attualmente adoperata in modo diffuso, “mirandola agli interventi di rigenerazione urbana”, tenendo presente le indicazioni europee e i programmi avviati con il Pnrr per le aree metropolitane, per “ricondurre queste risorse a sistema” con quelle del Piano nazionale di ripresa e resilienza e gli altri fondi Ue, integrandole con possibili investimenti privati, nel quadro di una strategia complessiva.

Dunque, si legge nella parte relativa alle proposte, “se, prudenzialmente, nel periodo 2022-2027, continuassero gli incentivi con le modalità pre-2020 e i livelli rimanessero quelli sperimentati dal 2013 al 2019, sostenuti dagli incentivi del 50% e del 65%, verrebbero destinati al recupero edilizio e alla riqualificazione energetica mediamente 28 miliardi di euro all’anno”. Tutto questo considerando “la stagione del Superbonus 110% come temporanea”. Ecco perché non solo è possibile considerare il quadro generale delle risorse come parte della quota di cofinanziamento che l’Italia deve mettere in gioco per attivare i fondi strutturali e di coesione europei, ma “si dovrebbe sviluppare un nuovo modello di intervento in grado di mettere insieme risorse pubbliche, investimenti privati di dimensione significativa e investimenti privati diffusi che, mantenendo e anzi moltiplicando l’impatto degli interventi in termini economici e occupazionali”, nel solco dei principi dello sviluppo sostenibile, riduzione e resilienza all’impatto climatico, transizione digitale, territorializzazione dei servizi e qualità dell’abitare.

rigenerazione urbana

(Photo credits: STR/AFP)

Clima, Ocse lancia nuovo Forum. Franco: Accelerare rinnovabili

Energia, crisi alimentare e tutela dell’ambiente: sono i temi, oltre al Fisco e alla crescita, al centro della riunione del Consiglio ministeriale dell’Ocse che si è conclusa ieri. La Presidenza di turno tocca all’Italia, infatti è il ministro dell’Economia, Daniele Franco, a presentarsi alla conferenza finale assieme al segretario generale, Mathias Cormann. Entrambi sottolineano l’unità di intenti e vedute dei Paesi membri nella condanna all’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, esprimendo massima solidarietà alla popolazione e l’impegno per la ricostruzione una volta che le armi avranno taciuto. Nell’attesa bisogna continuare, anzi migliorare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico, che rischia di avere ricadute rovinose sulla crescita.

Ecco perché l’Ocse ha dato il via libera al nuovo Forum inclusivo sulle politiche per la mitigazione degli effetti dell’uso del carbone. “Nel corso di questa ministeriale è stato fatto un grande passo avanti negli sforzi per garantire azioni più ambiziose sul climate change“, annuncia Cormann. Sottolineando che la discussione è stata animata dalla “necessità di condividere le migliori pratiche per raggiungere le emissioni zero, sperando che siano prese decisioni migliori a livello mondiale“. Del resto “il mondo ha bisogno di azioni più efficaci” per “ridurre le emissioni globali e non fare semplicemente un passaggio delle attività da una parte all’altra del mondo“. In poche parole una delocalizzazione delle produzioni più inquinanti da un emisfero all’altro: tanto il prodotto finale non cambierebbe.

Un monito ribadito anche da Franco: “E’ importante che la liberalizzazione del commercio vada di pari passo con la tutela dell’ambiente“. Sottolineando l’importanza della cooperazione internazionale “per coinvolgere il maggior numero di Paesi possibile, anche al di là dei membri dell’Ocse, che sono numerosi e importanti“, visto che “la maggior parte delle emissioni inquinanti avvengono in altre nazioni“. Dunque, resta centrale la transizione ecologica: “C’è stato uno scambio molto proficuo sulle possibili modalità per nuove prospettive – ammette il ministro italiano -. La guerra in Ucraina ha imposto di utilizzare ancora di più il carbone nel breve termine, invece bisogna accelerare lo sviluppo di fonti rinnovabili, perché dobbiamo compensare le missioni extra che siamo producendo“.

Il responsabile del Mef ha battuto molto anche sul tasto dolente delle tonnellate di grano ferme nei porti ucraini a causa della guerra scatenata da Mosca: “Dobbiamo poterle sbloccare“, perché “le conseguenze provocate dalla guerra hanno ulteriormente esacerbato le difficoltà che già esistevano a causa dell’inflazione” e “questo ha contribuito a produrre un rallentamento della crescita, oltre alle interruzioni nella catena dei rifornimenti“. Ragion per cui nella ministeriale Ocse “si è deciso di offrire un ampio sostegno, soprattutto verso quei cittadini più vulnerabili delle nostre società e i Paesi più vulnerabili: si tratta di un elemento molto importante, visto che riguardava appunto il rifornimento di cibo e di materie prime, che mette a repentaglio la vita delle persone“.

Tra i continenti più a rischio in questo scenario c’è sicuramente l’Africa. Ma non solo con la chiave di lettura della crisi alimentare: “E’ importante sostenere le soluzioni per le priorità africane” come quella di “avere accesso ai servizi dell’energia e infrastrutture energetiche” oltre a “garantire una fornitura energetica affidabile” alle popolazioni. Se non ci sarà un cambio di rotta potrebbero sorgere altre “difficoltà” e “nuove guerre civili“.

All’Ocse c’è spazio anche per parlare di inflazione, con l’auspicio del ministro dell’Economia che si “eviti di introdurre in questo contesto delle tensioni non necessarie“, affidando un messaggio alle banche centrali: “Devono cercare di scegliere una traiettoria che tenga in considerazione i fattori alla base dell’aumento del tasso di inflazione“. Considerando anche il contestuale rialzo dei tassi di interessi della Bce, anche se “pienamente è atteso, un po’ un ritorno alla normalità“, a patto che “la proiezione di questo aumento, e la tempistica, avvenga senza tensioni, senza shock“. Perché “quando l’inflazione dipende molto dagli shock, per quanto concerne l’offerta, l’aumento dei tassi di interesse sono meno importanti“. La guardia, comunque, vista l’incertezza della fase storica deve rimanere alta.

Draghi

Draghi: “Con price cap inflazione meno pericolosa”

Non abbiamo scuse per tradire i nostri obiettivi climatici. L’emergenza energetica in atto deve essere un motivo per raddoppiare i nostri sforzi. Con questo avvertimento il presidente del Consiglio, Mario Draghi, intende diffondere un messaggio forte e chiaro: “Dobbiamo continuare a facilitare l’espansione delle energie rinnovabili – sia nei Paesi ad alto che a basso reddito – e promuovere ulteriormente la ricerca e lo sviluppo di nuove soluzioni energetiche pulite”. Ciò significa, ad esempio, rafforzare l’architettura verde dell’idrogeno e sviluppare reti intelligenti e resilienti.

All’apertura del meeting ministeriale dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), il premier ha ripercorso le tappe degli ultimi sviluppi riguardanti il tema dell’energia e della sempre più ‘imminente’ crisi alimentare. Innanzitutto, “accelerare la transizione energetica è essenziale per passare a un modello di crescita più sostenibile e, allo stesso tempo, ridurre la nostra dipendenza dalla Russia“, ha detto Draghi.

Per sciogliere il legame con Mosca una delle vie d’uscita più concrete, al momento, è l’imposizione del tetto ai prezzi delle importazioni del gas. Secondo il presidente del Consiglio, infatti, limiterebbe l’aumento del tasso di inflazione, sosterrebbe i redditi disponibili e ridurrebbe i nostri flussi finanziari verso la Russia“. Esiste anche un’ipotesi molto valida per l’impiego di trasferimenti statali diretti, mirati ai più poveri, mantenendo la sostenibilità delle finanze pubbliche. “Responsabilità e solidarietà devono andare di pari passo, a livello nazionale ed europeo”, ha raccomandato Draghi.

In merito alla crisi alimentare, soggetta a numerosi dibattiti nel corso dei giorni scorsi, il premier ha ribadito che dobbiamo affiancare la stessa determinazione nell’aiutare i nostri cittadini e quelli delle zone più povere del mondo, in particolare l’Africa. “I nostri sforzi per prevenire una crisi alimentare devono partire dai porti ucraini del Mar Nero. Dobbiamo sbloccare i milioni di tonnellate di cereali che sono bloccati lì a causa del conflitto“, la sottolineatura. “L’interruzione delle catene di approvvigionamento alimentare – in particolare del grano – ha fatto lievitare i prezzi e rischia di provocare una catastrofe umanitaria“, ha avvertito Draghi, consapevole che la collaborazione internazionale possa essere l’unico strumento per sollevarsi da questa emergenza globale.