Fonderie e crisi energetica. Assofond: Senza misure strutturali punto di non ritorno

Oltre 1.000 imprese, 30.000 addetti, 7 miliardi di fatturato. Sono i numeri del settore delle fonderie italiane che sta affrontando una crisi energetica senza precedenti. E chi più delle imprese così altamente energivore può soffrire la situazione economica e geopolitica attuale? Il tema è infatti il focus del 36esimo Congresso Nazionale di Fonderia, in corso a Torino fino a domenica e organizzato da Assofond, associazione di Confindustria. Il primo a lanciare l’allarme è Fabio Zanardi, presidente di Assofond, spiegando che “senza misure strutturali, in tempi brevi arriveremo al punto di non ritorno: il mercato, che già è in fase di rallentamento, potrebbe sgonfiarsi repentinamente e portare di conseguenza anche nel nostro settore fermi produttivi”. Il titolo del Congresso, ‘Al timone con l’inflazione: come mantenere la rotta?’, evidenzia il contesto in cui si sta muovendo l’industria di fonderia italiana, la cui sostenibilità è messa in discussione proprio dai costi insostenibili di energia elettrica e gas.

Sostenibilità sotto tutti i punti di vista: economico, sociale e ambientale. Dell’aspetto economico-finanziario parla Claudio Teodori, docente di economia aziendale al Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Brescia, secondo cui, in un contesto di rallentamento dell’economia e inflazione, con costi elevati di materie prime ed energia, “l’unica arma a disposizione delle imprese è fare tutto il possibile per difendere la redditività che tende a contrarsi, anche grazie a investimenti in digitalizzazione e innovazione, che permettano l’incremento del valore aggiunto”. Per quanto riguarda la sostenibilità sociale, Maria Raffaella Caprioglio, presidente di Umana S.p.a., spiega come “oggi trovare personale in linea con le esigenze delle imprese è sempre più difficile”, soprattutto per i settori industriali che i giovani neolaureati sentono distanti dalle loro aspettative.

Infine, ma non per ordine di importanza, il tema della sostenibilità ambientale, che nell’attuale contesto è fortemente influenzata dalla crisi energetica. Secondo il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, l’Europa dovrà intraprendere un percorso difficile: “La realtà è che siamo in un’economia di guerra, ma in Europa si discute per lo più di soluzioni tampone, che forse possono migliorare la situazione, ma che non sono adatte a risolvere il problema. La politica ha impiegato troppo tempo per rendersi conto della crisi. Ora bisogna tornare ai fondamentali, che sono quelli che contano: i prezzi sono esplosi non per la speculazione, ma perché manca il 40% di offerta di un bene, il gas, che è essenziale, e che è impossibile sostituire con qualcos’altro in pochi mesi”. Secondo Tabarelli “il prezzo non è alto, perché la domanda non crolla, sta cominciando a farlo solo in questi giorni. Per questo fra le possibili soluzioni c’è quella di fare pressione ai governi per dare segnali dal lato della domanda, essendo pronti anche a fare razionamento. Perché questo riduce la domanda. E’ inutile che l’Europa si scanni su tetto, extra profitti, disaccoppiamento prezzi. Quello che conta veramente è dare un segnale sulla domanda, dire che siamo pronti a fare razionamento”.

Energia, Zanardi (Assofond): Piano Germania crea squilibri devastanti

Le fonderie sono fra le aziende energivore per eccellenza, e dunque fra quelle più in difficoltà per la crisi energetica in corso. Ma sono anche fra i motori della sostenibilità, dell’economia circolare e della transizione ecologica. Parola di Fabio Zanardi, presidente di Assofond, associazione di Confindustria, che in un’intervista a GEA, a margine del 36esimo Congresso Nazionale Fonderia in corso a Torino, racconta la situazione attuale del comparto e le prospettive future.

Presidente, quale è il focus di questo Congresso?

“In questo momento è fondamentale farci forza e fare sistema sulle condizioni avverse che stiamo affrontando. I lavori sono legati alle poche e non piacevoli sicurezze che abbiamo che si chiamano soprattutto inflazione e incertezza. Cercheremo di inquadrare questi temi in modo da riuscire a fare impresa in modo più virtuoso, partendo dagli scenari dei tre pilastri della sostenibilità: People, Planet e Profit”.

Le aziende del vostro settore sono fra le più colpite dai rincari dell’energia. Cosa succederà nei prossimi mesi?

“Il problema lo stiamo vivendo da un anno ormai, oggi il problema delle alte bollette si sta riversando su settori non energivori mentre noi energivori abbiamo già lanciato l’allarme tempo fa. Ormai siamo quasi assuefatti a questa situazione. Per una fonderia media l’energia incideva il 10% del fatturato. Il prezzo ora è quintuplicato, quindi si fa presto a fare i conti. Inevitabilmente per riuscire a sopravvivere abbiamo dovuto aumentare i prezzi. L’inverno che sta arrivando ha il problema non solo dei prezzi e dell’alta volatilità, ma anche quello della disponibilità del gas e quindi si affaccia l’ulteriore incognita di potenziali fermate imposte per mancanza di disponibilità. Oltre alle grandissime incognite sulla tenuta del mercato che ci chiediamo fino a che livello possa reggere”.

Per voi si apre anche il tema della competitività, soprattutto se in altri Stati le imprese riceveranno maggiori aiuti dai Governi…

“Se nel breve termine siamo riusciti a sopravvivere e miracolosamente il mercato è riuscito a reggere nonostante gli aumenti dei costi, è chiaro che nel medio e lungo termine abbiamo una perdita di competitività rispetto al resto del mondo che ci metterà inevitabilmente fuori mercato. La cosa vale per l’Europa verso gli altri continenti, ma in questi giorni vediamo il grossissimo pericolo che si verifichi Europa su Europa. Il piano da 200 miliardi della Germania, anziché una soluzione condivisa europea, rischia di creare degli squilibri anche all’interno del continente che avrebbero effetti devastanti per la tenuta dell’industria e dell’Europa”.

Cosa chiedete all’Europa e al Governo italiano che sta per insediarsi?

“Le industrie hanno già chiesto moltissimo, ci sono già state proposte attraverso il gruppo tecnico energia di Confindustria: maggior impiego di gas nazionale, dare alle aziende una quota di energia rinnovabile a prezzo di produzione e non di mercato… Queste misure ancora non hanno visto attuazione e adesso sembra che l’electricity release vedrà la luce a gennaio. Credo che le aziende abbiano già detto in modo molto efficace quali sono i problemi e spiegato quanto sono strategiche. E devo dire che dalla politica c’è un ascolto e un recepimento del problema. Purtroppo non stiamo verificando nei fatti, soprattutto a livello europeo, una adeguata azione volta a risolvere un problema che potrebbe scoppiarci in mano”.

Un eventuale stop delle fonderie sarebbe un danno anche per la transizione ecologica?

“Le fonderie sono fondamentali per realizzare la transizione ecologica. Un generatore eolico è composto all’80% da fusioni. Le fusioni di ghisa, acciaio, alluminio sono dei manufatti resistenti che mettono il materiale solo dove serve. Costituiscono la massima efficienza dal punto di vista della manifattura e la massima potenzialità di alleggerimento, per esempio nel mercato dei veicoli. Per la fonderia c’è sicuramente un futuro in un mondo che vuole decarbonizzarsi”.

Che ruolo avete, invece, nell’economia circolare?

“La fonderia è con orgoglio, in particolare quella italiana, campionessa di riciclo. Il 95% di ciò che utilizziamo viene o convertito in altri utilizzi come sottoprodotto o utilizzato nella stessa fonderia come materiale di produzione. Un getto di ghisa, alluminio o acciaio può essere riciclato semplicemente prendendo il componente dismesso e ributtandolo in forno per essere fuso e riutilizzato per un numero infinito di volte”.

La situazione attuale, quindi, rischia di frenare anche la corsa verso la sostenibilità?

“Credo che in questi momenti di forte incertezza non dobbiamo comunque perdere di vista l’obiettivo a lungo termine che, pur con tutte le difficoltà, deve essere un mondo con meno emissioni ed ecologicamente più sostenibile. In questa direzione noi dobbiamo andare e continuare a pensare per la nostra evoluzione. Sicuramente la situazione che stiamo affrontando non aiuta e si rischia di perdere la via maestra. L’importante è distinguere tra strategia di lungo termine e tattica”.

Ma è ancora possibile, in questo momento, investire in sostenibilità per le vostre aziende?

“Sicuramente oggi per investire in sostenibilità e risparmio energetico siamo fortemente penalizzati non solo dai prezzi alti, ma anche da questa estrema volatilità. Se volessi investire in una infrastruttura che mi permette di risparmiare costi energetici, se calcolassi con il prezzo che l’energia aveva ad agosto avrei un ritorno dell’investimento in meno di un anno, se invece calcolassi con il costo di questi giorni potrei avere un ritorno in tre anni. In queste condizioni, purtroppo, con gli investimenti ingessati, questo non fa bene a nessuno”.

Venezia fabbrica lenta di moda etica: torna la fw della laguna

Non solo Milano. In Italia anche Venezia prova a farsi strada nella moda e annuncia una Fashion Week (19-29 ottobre) nel segno del lusso, dell’artigianato – il vero marchio della Serenissima- e della sostenibilità. Sette giorni di sfilate, mostre e conferenze tra calli, gallerie d’arte e spazi pubblici per la decima edizione.

Obiettivo numero uno: sostenere i giovani talenti creativi. Tra gli appuntamenti spicca il weekend dello shopping sostenibile (22 e 23 ottobre) e ‘Ornamenti’, il salone degli accessori di design e artigianali, dal 26 al 28 ottobre a Palazzo Sagredo, novità del 2022.

Un ciclo di conferenze e workshop mette a confronto i protagonisti della moda green alle prese con tante sfide: dall’educazione del consumatore al turismo sostenibile, dalla formazione dei nuovi artigiani all’upcyling. Venezia è da sempre una fabbrica lenta di moda etica: tessuti preziosi e durevoli, magnifici e di qualità.

La kermesse fa parte di “un lavoro di riposizionamento comunicativo della città“, spiega l’assessore allo Sviluppo economico, Simone Venturini. La moda è un modo per valorizzare le eccellenze territoriali ma anche un nuovo richiamo per “un turismo ricercato in cerca di creazioni auteniche, eclusive e uniche, come quelle dei nostri artigiani dei settori moda, legno, gioielleria, vetro e così via“, afferma. In che modo si propone anche come capitale della moda sostenibile? “Torniamo ai capi esclusivi, che durano, creati con passione, con materie prime pregiate. Questa edizione della Venice Fashion Week permetterà di scoprire le bellezze artigiane di Venezia insieme a una serie di eventi collaterali“, promette.

L’artigianato di qualità, sostenibile ed esclusivo “fa parte del dna della città” gli fa eco l’assessore Mar. “A Venezia da sempre si produce arte, moda e artigianato di lusso. Qui dall’anno 1000 si realizzano grandi tessiture, ricordiamo ad esempio la lavorazione della seta, ma si producono anche fantastici gioielli. Venezia luogo sostenibile, fucina di un artigianato altrettanto sostenibile: in città infatti non si è mai prodotto su larga scala. La Venice Fahion Week è il risultato di un lavoro di squadra, in sinergia con l’Amministrazione comunale, ma anche con Vela Spa e gli organizzatori, che ringrazio: in tutti questi anni si è lavorato molto, anche nel periodo Covid. All’inizio non è stato facile, ma con tenacia ed entusiasmo è stato possibile dar vita a una manifestazione di grande richiamo“.

Iulia Barton: Inclusiva e sostenibile. Penso a linea kids

Inclusiva e sostenibile. E’ la prima collezione nata espressamente per persone con disabilità, lanciata il 23 settembre al terzo giorno della Fashion Week di Milano e pronta a valicare i confini, molto proiettata al mercato asiatico.

La maison, Iulia Barton, è fondata da Giulia Bartoccioni che muove il suo lavoro da un’esperienza tragica personale: “Mi sono avvicinata a questo settore quando mio fratello ha perso l’uso delle gambe in un incidente, restando in carrozzina“, racconta a GEA.

All’inizio, il progetto era concepito come un’agenzia di moda per includere persone disabili da tutto il mondo e portarle in passerella con modelli professionisti. “Coinvolgevamo designer di alta moda“, spiega. Tutta l’esperienza raccolta negli anni è stata una palestra: “Nel dietro le quinte mi sono accorta ancora di più delle diverse esigenze, quegli abiti erano adattati, ma non creati appositamente per le persone disabili, non nascevano come collezioni adattive“.

La linea è unica e tutti i capi possono essere indossati da chi ha amputazioni e da chi è in carrozzina, ma “non è un prodotto di nicchia, assicura. “Siamo riusciti a mantenere una tendenza universale“.

Con l’inclusione, la maison insegue anche l’obiettivo della sostenibilità: “E’ difficile ottenerla al 100%, ma abbiamo già raggiunto un buon risultato. C’è grande attenzione ai materiali, che provengono da stock e rimanenze. Abbiamo fatto questa scelta per evitare nuove produzioni“.

Tessuti Made in Italy, fibre riciclate, ripristino della materia da altri settori. Tutto è documentato, anche per il ‘water saving’, che certifica il ridotto spreco di acqua in fase di produzione.

La collezione, dieci look in 20 pezzi (che possono essere però adattati uno con l’altro) è leather-fur free, non utilizza quindi pellicce o pelli, il cotone è 100% monofibra, “questo permette al tessuto di essere rimesso in economia circolare“, racconta la Ceo.

La caratteristica è che parti di tessuto sono removibili, i pantaloni cambiano lunghezza per facilitare chi ha le protesi, i colori sono neutri e facili da accostare. Genderless e no-season, i capi vanno bene per tutti, 365 giorni all’anno, “abbiamo cercato fin dall’inizio di rendere il tutto più fluido possibile“. La produzione si divide tra Rimini e Ferrara, i materiali provengono da stabilimenti vicini, la filiera è tutta italiana. E anche a livello aziendale, assicura Batoccioni, Iulia Barton cercherà di raggiungere una sostenibilità sulle strutture.
Un progetto futuro? “E’ un’esclusiva – confessa – ci piacerebbe moltissimo produrre la linea kids, per bimbi con disabilità“.

Iulia Barton, prima collezione ‘Adaptive’ a Mfw: avanguardia sociale e ambientale

La Milano Fashion Week è in arrivo dal 20 settembre e promette attenzione particolare alla sostenibilità.

Iulia Barton (fondata nel 2016 da Giulia Bartoccioni) regala alla settimana della moda italiana quella che definisce la “prima Collezione Adaptive al mondo“: vestibilità universale dei capi, che “permette a chiunque di essere sé stesso“, in ogni momento dell’anno. Per la presentazione l’appuntamento è al 23 settembre, grazie al supporto di Ferrovie dello Stato Italiane come Official Sponsor.

Il fil rouge è l’inclusività: la collaborazione per il lancio è stata promossa con un video nel quale ‘l’influencer di positività’ Laura Miola racconta l’universo di Fs in un viaggio in Frecciarossa da Roma a Milano, proprio in occasione della Fashion Week. L’idea di base è valorizzare l’unicità di ogni persona e la capacità di muoversi nei propri abiti, grazie a un mezzo di trasporto sostenibile e inclusivo.

Una collezione lanciata in 20 pezzi, che spiega la Ceo Bartoccioni, “rappresenta un momento storico, in cui raccogliamo i frutti degli anni di impegno nella moda inclusiva del brand Iulia Barton“. L’obiettivo, osserva, è “guardare al presente e al futuro con una prospettiva diversa, che promuova al tempo stesso i concetti di avanguardia sociale ed esclusività, adaptive e no gender“.

Tutti i prodotti adottano materiali innovativi, tessuti eco-sostenibili e animal free, “in linea con la filosofia della sostenibilità che è alla base della nostra identità”, garantisce la Ceo e direttrice creativa.

Un modello di fare impresa che, per il Gruppo FS, “coniuga sostenibilità sociale, ambientale e inclusività, linee che costituiscono il solco già tracciato dal Gruppo FS per le proprie strategie di Corporate Social Responsibility, e in generale per il nostro piano di Diversity,Equity&Inclusion“, assicura la Responsabile People Care,  Paola Longobardo.

Comprendere, riconoscere e valorizzare le caratteristiche uniche (genere, età, abilità, orientamento sessuale e affettivo, identità di genere, nazionalità, etc.) di ognuno, facilitare la loro espressione nel contesto lavorativo e favorire la creazione di una rete di supporto che sostenga la persona dentro e fuori l’azienda, sono gli obiettivi che perseguiamo in tutte le nostre azioni e che hanno contribuito all’inserimento del Gruppo FS nella classifica dei 20 brand nazionali più inclusivi del Diversity Brand Award”, rivela.

Fw alle porte, in Italia smaltimento rifiuti tessili in Ecomafie

Riparte la stagione delle Fashion Week. Il 9 settembre è iniziata una delle più attese, la settimana di New York, poi arriveranno Londra, Milano e Parigi.

Intanto, in Italia, per la prima volta il Parlamento si occupa di smaltimento dei rifiuti del settore, che è uno dei più inquinanti al mondo.

Il tessile, con i suoi 2,1 miliardi di tonnellate annuali di CO2, rappresenta il 4% delle emissioni globali di gas serra. A causa del lavaggio dei vestiti, vengono rilasciate ogni anno nei mari mezzo milione di tonnellate di microfibre.

Analogo discorso può essere mosso per la tintura dei tessuti, al secondo posto fra le maggiori cause di inquinamento delle acque sul pianeta. L’industria della moda produce circa il 20% delle acque reflue globali e circa il 10% delle emissioni globali di carbonio.

A livello globale, l’85% degli abiti dismessi, circa 21 miliardi di tonnellate all’anno, finisce in discarica. Ad aggravare il problema è l’attuale modello di consumo dell’abbigliamento, ormai da tempo dominato dal cosiddetto fast fashion (il ‘pronto moda’): una proposta di mercato che rasenta l’’usa e getta’ e che è basata su una rapidissima obsolescenza dei prodotti. Il numero di volte che un indumento viene indossato è diminuito del 36% in 15 anni. Un consumatore medio acquista il 60% di capi in più rispetto a 15 anni fa ma li conserva per un minor tempo. Oggi, nel mondo, si acquistano in media 5 chili di vestiti all’anno pro capite. In Europa e negli Stati Uniti il consumo è tre volte più elevato, arrivando a circa 16 chili a testa. Se il trend attuale rimanesse immutato il consumo di abbigliamento continuerebbe a crescere, passando da 62 milioni di tonnellate nel 2015 a 102 milioni nel 2030. Di conseguenza, a meno che non intervengano con forza dei fattori tendenziali di segno inverso, l’inquinamento e gli impatti ambientali sono destinati ad aumentare.

In Italia, però, le discariche sono quasi tutte irregolari. Le garanzie finanziarie dovrebbero essere uno strumento a tutela delle regioni da eventuali inadempienze dei gestori, ma vengono trascurate.

Ogni discarica autorizzata deve, per legge, avere due tipologie di garanzie da presentare entro la messa in esercizio dell’impianto: una per la fase operativa e l’altra per la post gestione, e questo quasi mai avviene.

La Commissione Ecomafie fa il quadro dello stato delle discariche presenti sul territorio: “E’ stato un lavoro faticoso perché le Regioni stesse avevano un quadro spesso frammentario e superficiale”, spiega il presidente, Stefano Vignaroli. Il sistema bancario e quello assicurativo, per loro stessa ammissione, non avevano mai compiuto un’analisi specifica sulle fideiussioni delle discariche.

Un’occasione per il Sistema Moda Italia (SMI) e per tutto il mondo tessile per cambiare il modo di gestire gli abiti usati e il modo di produrre gli abiti.

transizione verde

Promesse, illusioni e quel compromesso (obbligato) sull’energia

Non di sole promesse vive l’uomo e nemmeno di troppe illusioni. Nell’ingorgo parolaio di queste settimane che conducono alle elezioni del 25 settembre tante promesse vengono fatte e tante illusioni vengono costruite intorno a ciò che può essere tracciato come transizione ecologica e sostenibilità. Ma cosa potrà essere fatto nei prossimi cinque anni di legislatura si scontra con ciò che deve essere fatto subito per far fronte alla crisi energetica, magari sacrificando o posticipando il processo di decarbonizzazione fissato dall’Unione europea.

Diventa sempre più frequente ascoltare leader politici che antepongono la salvaguardia delle imprese e delle famiglie alla salvaguardia del pianeta in nome e per conto di un compromesso dettato dal buonsenso. Bene ma non benissimo, però…. Però se la Germania torna a spingere sulle centrali a carbone per tappare la falla del Nord Stream 1; però se l’Europa finge di non sentire preoccupata della congiuntura economica; però se si trivella a destra e a manca sempre per surrogare il gas mancato in arrivo dalla Russia; però se tutto questo sta accadendo allora quel compromesso sembra obbligato. Ma deve restare circoscritto a un arco temporale ridotto.

La tutela del pianeta riempie la bocca e gonfia i cuori, la tutela delle famiglie e delle aziende è dirimente in una fase congiunturale italiana e mondiale da mettere i brividi. L’appello da rivolgere ai leader di tutti i Paesi è quello di tutelare l’economia senza violentare l’ambiente, di mettere in sicurezza le finanze senza venire meno agli accordi di Parigi, al Fit for 55. Non facile da fare ma indispensabile da realizzare.

Sostenibile, naturale, ecobio: chi decide se un cosmetico è green?

Si fa presto a dire bio. E altrettanto in fretta a discutere di sostenibilità. Ma quando si parla di cosmetici, come facciamo a essere sicuri che un prodotto sia davvero rispettoso dell’ambiente e del pianeta? Semplice, non lo sappiamo. O meglio, dobbiamo fidarci: della lista degli ingredienti, degli esperti della materia, dell’azienda che lo produce e della giungla di certificazioni che – ahinoi – non seguono standard univoci.

Ma facciamo un passo indietro. Ipotizziamo di voler lanciare sul mercato la nostra nuova linea di cosmetici. Abbiamo tutto ciò che ci serve, autorizzazioni comprese. La filiera dei nostri prodotti è, secondo gli standard che abbiamo a disposizione, sostenibile. Poche emissioni di CO2, packaging riciclato, materie prime provenienti da agricoltura biologica. La lista degli ingredienti – il cosiddetto Inci (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients) – ha superato la prova dell’EcoBiocontrol, cioè la ‘bibbia’ per gli appassionati della cosmesi bio e magari abbiamo scelto fornitori locali a km0. Siamo persino diventati soci di Cosmetica Italia, l’associazione di categoria appartenente a Confindustria, che riunisce le aziende cosmetiche. Insomma, siamo pronti a dire al mondo che ci siamo e che siamo sostenibili e naturali. E ora?

Nessun ente governativo, nazionale o europeo, potrà mettere un ‘bollino’ green ai nostri prodotti, perché il Regolamento Ue 1223 del 2009 – che rappresenta lo strumento giuridico in materia di cosmetici a cui devono attenersi tutte le aziende del settore – non prevede una classificazione in questo senso. Il testo norma la sicurezza d’uso dei prodotti e delle materie prime, ma non distingue tra cosmetici naturali e cosmetici che non lo sono. “Una nostra commissione interna – dice a GEA Gian Andrea Positano, responsabile del Centro Studi di Cosmetica Italiaha definito un perimetro di classificazione di questi prodotti, distinguendo tra cosmetici a connotazione naturale e cosmetici sostenibili, che spesso si sovrappongono, ma questa distinzione serve a contestualizzare i dati (di produzione e di mercato) in termini comunicazionali e di marketing, ovviando a qualsiasi forma di definizione cogente a livello normativo”.

All’interno di questo perimetro i cosmetici a connotazione naturale sono caratterizzati da elementi grafici o testuali (claim) che comunicano la presenza di un alto numero di ingredienti biologici o di origine naturale. Quelli definiti sostenibili, invece, comunicano la loro connotazione di sostenibilità ambientale/green in ambiti che possono riguardare tutto il suo ciclo di vita o le politiche corporate dell’impresa verso la sostenibilità (ambientale, sociale, economica).

E allora come facciamo a raccontare al mondo che i nostri prodotti sono green? La prima strada è quella di comunicarlo attraverso azioni di marketing – spiegando chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo – provando a conquistare la fiducia dei consumatori grazie alla nostra promessa. Sarà poi il mercato a dirci se abbiamo raggiunto lo scopo.

La seconda strada è quella delle certificazioni che, però, come detto, vengono fornite solo da organismi privati specializzati. Ad esempio, possiamo comunicare la conformità allo standard internazionale ISO 16128 – cioè la validazione del calcolo degli indici di naturalità e biologicità di cosmetici e dei loro ingredienti in base – attribuita da CCPB, che la Commissione Europea ha riconosciuto come organismo di certificazione equivalente in numerosi Paesi nel mondo, ma in Italia no.

Oppure, possiamo affidarci a una delle principali certificazioni private di bio cosmesi europee ed italiane. Intanto, però, è necessario chiarire un aspetto fondamentale: “non potrà mai essere messo sul mercato – dice Positano – un prodotto che non ha la garanzia di essere sicuro per i consumatori. Per esserlo potrebbe contenere sostanze chimiche di sintesi, come ad esempio conservanti”. Chimico, però, non significa ‘non naturale’, anche se nella narrazione, soprattutto online, spesso si fa confusione. Una sostanza di sintesi, inoltre, può risultare innocua per la salute e per l’ambiente, indipendentemente dalla sua origine. Così, ad esempio, in una crema possiamo trovare l’alcool cetilstearilico, che dal nome pare tutto fuorché naturale, invece è di origine vegetale e magari deriva anche da agricoltura biologica.

Il fatto stesso che ci siano molti enti di certificazione e molti metodi per farlo, perché ciascuno usa parametri diversi – spiega Positano – è la dimostrazione che non esiste un cosmetico naturale tout court, altrimenti ci sarebbe un regolamento in materia. Si tratta di classificazioni di marketing”. Che, però, considerando che il mercato dei cosmetici naturali o sostenibili ha raggiunto i 2,6 miliardi di euro nel 2021, evidentemente funzionano.

E se volessimo certificare la sostenibilità dei nostri prodotti, cosa dovremmo fare? Potremmo, ad esempio, provare a ottenere il bollino del Sistema Gestione Ambientale, che indica l’impegno dell’impresa nella salvaguardia dell’ambiente, nell’utilizzo consapevole delle risorse naturali e nella prevenzione dell’inquinamento, in modo coerente con le necessità del contesto socio-economico di riferimento, nel pieno rispetto delle normative ambientali cogenti e volontarie applicabili.

Ma le certificazioni davvero garantiscono la sostenibilità di tutta la filiera? “No, non riescono a farlo, magari riuscissero”, spiega il chimico Fabrizio Zago, creatore dell’EcoBiocontrol. “Ci sono degli enti di certificazione più o meno seri – spiega – che la vedono in maniera olistica. Il migliore si chiama Eu-Ecolabel. È l’unico sistema di certificazione che guarda a 360 gradi la provenienza e dà un giudizio di sostenibilità complessivo”.

Ovviamente far certificare i prodotti costa e molte aziende, racconta il responsabile del Centro studi di Cosmetica Italia “scelgono di non farlo, non solo per ragioni economiche, ma anche per una propria strategia di marketing”: come si diceva, preferiscono ‘raccontare’ i loro prodotti, senza la necessità di avere un ente terzo che dica quanto siano buoni e giusti.

Un capitolo a parte merita la questione della sperimentazione sugli animali. “In Europa i test animali sono assolutamente vietati sia sui prodotti cosmetici sia sui loro ingredienti””, dice Positano. Ma – e qui nasce l’ennesima incongruenza – per esportare in alcuni Paesi extra Ue (come la Cina) i cosmetici prodotti in Europa è necessario dimostrare che siano stati testati sugli animali.

cosmetici

Agli italiani piace green: nel 2021 hanno speso 2,6 mld in cosmetici naturali

Oltre 10 miliardi di euro. È quanto hanno speso nel 2021 gli italiani per acquistare prodotti cosmetici, circa l’8,8% in più rispetto all’anno precedente, facendo salire l’Italia al terzo posto del podio europeo, dopo Germania e Francia. Ma crescono anche la produzione (+10%), che supera gli 11,8 miliardi di euro, l’export (+14%) e la bilancia commerciale, che scavalca i 2,7 miliardi euro. I dati sono contenuti nel rapporto annuale del centro studi di Cosmetica Italia, la ‘voce’ dell’industria cosmetica nazionale. Dalle multinazionali alle piccole e medie realtà produttive e distributive collocate sull’intero territorio nazionale, l’associazione conta oggi tra le sue fila oltre 630 aziende. I dati “confermano la salute di un comparto che ha ribadito la sua capacità non solo di resilienza alla crisi economica, ma soprattutto di reattività e di adeguamento alle nuove prospettive di acquisto da parte dei consumatori sia italiani che esteri”.

In questo quadro di crescita, una spinta forte arriva anche dal mondo dei cosmetici ‘green’, anche se la definizione corretta, come ricorda Cosmetica Italia, è quella di cosmetici a connotazione naturale/biologici e cosmetici sostenibili. Nel primo gruppo rientrano i prodotti che indicano la presenza di un alto numero di ingredienti biologici o di origine naturale; nel secondo, invece, quelli che comunicano la loro connotazione di sostenibilità ambientale/green in ambiti che possono riguardare tutto il suo ciclo di vita o le politiche corporate dell’impresa verso la sostenibilità. Complessivamente queste due categorie insieme nel 2021 hanno generato un mercato pari a 2,6 miliardi di euro, facendo registrare un aumento del 12,6% rispetto al 2019, anche se i consumatori italiani hanno preferito quelli sostenibili (1,49 miliardi di euro, +16,4% sul 2019) a quelli a connotazione naturale/biologici (1,15 miliardi di euro, +8,1% sul 2019). “Sicuramente – spiega Cosmetica Italia – la curva matura della naturalità ha saturato il mercato, mentre il tema legato alla sostenibilità ha ancora ampi margini di crescita in termini di narrazione e coinvolgimento attivo dei consumatori”.

Come ricorda a GEA Gian Andrea Positano, responsabile del Centro studi Cosmetica Italia, inoltre, “nel 2021 nel mondo sono stati lanciati circa 94.000 nuovi cosmetici. Di questi, il 44% è rappresentato da quelli a connotazione naturale e il 56% da quelli a connotazione sostenibile”. In Italia i nuovi lanci sono stati 1800: il 42% riguarda prodotti naturali, il 58% quelli sostenibili.

Preinvel, il filtro che con l’aria abbatte micropolveri industriali

Un filtro in grado di risolvere uno dei più grossi problemi legati all’inquinamento ambientale: l’eliminazione delle micro e nano polveri da combustioni e lavorazioni industriali. La tecnologia è brevettata a livello internazionale dalla start-up Preinvel, dopo anni di studio e ricerca.

Volevamo fare qualcosa di concreto, era giusto dare un nostro contributo perché nessuno potesse più essere vittima dell’inquinamento industriale, le cui prime vittime sono, purtroppo, le fasce più deboli della popolazione“, spiegano gli sviluppatori. Un’intuizione che ha un obiettivo ambizioso, puntare a una transizione industriale pulita e scardinare il mito dell’incompatibilità tra diritto alla salute e quello al lavoro: “Nell’immaginario collettivo di ogni cittadino che vive in contesti urbani in cui è presente un sito produttivo, sono molto chiare le immagini terribili dell’inquinamento e il suo impatto devastante sull’ambiente circostante e sulla salute pubblica“, racconta il fondatore dalla start up pugliese, Angelo Di Noi.

Così, scandisce, ha trasformato una crisi in opportunità: “Le condizioni sfavorevoli e le problematiche fortemente impattanti sul contesto sociale possono trasformarsi in un incredibile motore propulsivo per trovare soluzioni innovative“.

Il sistema di filtraggio fluidodinamico risolve in “maniera efficiente, efficace e totalmente ecocompatibile“, assicura Preinvel, il problema delle emissioni industriali inquinanti. Il team di lavoro è composto da professionisti con competenze eterogenee (ingegneri, sociologi, giuristi, economisti, comunicatori) che hanno favorito un approccio “non ortodosso” e innovativo alle tematiche legate allo sviluppo di tecnologie ecosostenibili.

L’osservazione della natura e delle sue leggi ha permesso alla tecnologia di sfruttare il più efficiente, economico ed eco-compatibile dei sistemi filtranti: l’aria. Il ragionamento seguito è semplice e rivoluzionario: se si adopera un filtro fisico per “intrappolare” le polveri, non si sta risolvendo il problema, lo si sta solo spostando su un altro livello, perché qualsiasi mezzo fisico utilizzato per questo scopo, sarà per sua stessa natura destinato a saturarsi e diventare nel tempo sempre più inefficiente. Utilizzando il principio di Bernoulli, il filtro Preinvel crea gradienti di pressione e definisce aree di alta depressione capaci di catturare in maniera definitiva tutte le micropolveri inferiori a 0.5 micron prodotte nelle lavorazioni industriali. In questo modo si annullano le emissioni nocive garantendo efficienze filtranti altissime, costanti nel tempo e assicurando costi di manutenzione vicini allo zero, data l’assenza di componenti che necessiterebbero di periodiche manutenzioni o sostituzioni per usura o saturazione.

L’invenzione ha ricevuto il primo premio dell’Apulian Sustainable Innovation Award 2021 ed è stata selezionata da Zero, l’Acceleratore di startup Cleantech della Rete Nazionale Acceleratori di Cdp, che promuove la crescita del Paese ha come Partner Eni, la holding LVenture Group e la cooperativa sociale Elis e come Sponsor la multiutility Acea, Vodafone, la multinazionale dei computer Microsoft e Maire Tecnimont, leader del comparto di impiantistica.