Levi’s: l’intramontabile guarda al futuro, il 501 diventa circolare

1985. Nick Kamen entra in una lavanderia a gettoni di una New York degli anni ’50, sfila t-shirt nera e jeans sulle note di ‘I Heard It Through the Grapevine’, infila tutto in lavatrice e resta in boxer, leggendo un quotidiano, in attesa di poterli re-indossare. ‘Levi’s 501 or nothing’, recitava lo slogan.

Se il jeans è il capo “circolare” per eccellenza – indossato fino al cedimento, accorciato, trasformato in borse, toppe, accessori d’ogni tipo -, il 501 è probabilmente il modello più conosciuto della storia. Intramontabile, fedele a se stesso per 149 anni (tanti ne ha compiuti a maggio) eppure capace di stare al passo con i tempi.

Era necessario, perché l’industria dei jeans è tra le più insostenibili del mondo della moda.

Per crearne un paio tradizionali occorrono circa 7.500 litri di acqua, tra la produzione del cotone e le lavorazioni di finissaggio. Il ‘mea culpa’ pubblico di Levi’s è una delle operazioni di comunicazione aziendale più riuscite: “Lo confessiamo – ammette l’azienda – Non siamo sempre andati nella direzione giusta. Essere un marchio di abbigliamento estremamente sostenibile è un obiettivo che ci sta a cuore, e ci stiamo ancora lavorando. Abbiamo fatto passi da gigante in diversi ambiti e ci sforziamo di migliorare in altri, ma la strada è ancora lunga”.

Nasce così, quest’anno, il 501 Designed for Circularity, un modello realizzato con cotone organico riciclato al 100%. Nei processi di lavorazione del capo vengono eliminati tutti gli elementi inquinanti, per evitare di interrompere il processo di riciclo del cotone.

Anche lo slogan ora sposta il focus dalla creazione del mito alla consapevolezza del cliente: ‘Buy better, wear longer’ (‘Compra meglio, indossa più a lungo’).

L’azienda fa ricerca su innovazioni che allunghino la vita dei prodotti: canapa cotonizzata, Levi’s WellThread, Water<Less, con cui si riducono il consumo di acqua e gli sprechi in generale. “La nostra concezione di durevolezza va ben oltre il semplice uso quotidiano. I prodotti sono concepiti per essere vissuti e per diventare ancora più belli con gli anni”, spiegano.

Dall’introduzione del progetto Water<Less, lanciato nel 2011, il risparmio di acqua è stato di oltre 4,2 miliardi di litri. Sono stati riutilizzati e riciclati 9,6 miliardi di litri d’acqua. Il 75% del cotone usato al momento proviene da fonti più sostenibili (l’obiettivo del 100% è stato fissato per il 2025, anno in cui si prevede di alimentare con il 100% di energia rinnovabile gli impianti di proprietà), e circa l’80% dei prodotti è confezionato in stabilimenti che applicano programmi Worker Well-Being, a tutela dei lavoratori. La strada da fare è ancora lunga, ma il sentiero è quello giusto.

Slow fashion

Cavagnero: “La moda, il ‘green nudging’ e la parentela col food”

In principio furono la diffusione della BSE per la carne bovina, seguite da una serie di altri scandali, tra cui le frodi equine e le mozzarelle blu tedesche. Stiamo parlando degli anni ‘70, e proprio da allora si è cominciato a discutere di sicurezza alimentare – intesa come sicurezza igienico sanitaria ma anche sicurezza informativa – in ambito food. Così, alcuni ingredienti hanno cominciato a essere rimossi e sono nate numerose nuove norme, tra cui la regolamentazione delle produzioni biologiche e l’etichettatura obbligatoria, nonché certificazioni di prodotto, che hanno permesso ai consumatori di essere informati su cosa si trovavano nel piatto.

Sostenibilità e food, come dicevamo, vanno di pari passo da quasi 50 anni: si pensi che la prima certificazione in ambito alimentare è del 1978 ed è una vera pietra miliare, a ricordarci quanto siamo attenti a ciò che ingeriamo. “Per quanto riguarda invece il comparto moda“, racconta a GEA Sara Cavagnero, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e dottoranda di ricerca in moda sostenibile e proprietà intellettuale, “non c’è stata la stessa attenzione“. Ma se andiamo a vedere gli sviluppi in questo secondo ambito, “ritroviamo pattern similari a quelli del food: anche in questo caso si parla di elementi che entrano a contatto con il corpo, di sostanze chimiche utilizzate, di coloranti, di modalità di produzione, di tracciabilità della filiera, di interazione sociale e dinamiche culturali. E, come per il mondo food, anche in questo caso abbiamo alcuni “ingredienti” che entrano in gioco“. E che fanno la differenza. Non solo: anche le risorse – ambientali e umane – utilizzate nei due sistemi, a ben guardare, sono le stesse. “Quando parliamo di fibre naturali, quali il cotone o la viscosa (che costituiscono circa il 27% delle fibre presenti sul mercato), facciamo riferimento a materie prime che hanno un’origine agricola e che richiedono lunghe ore di lavoro nei campi. Per l’agricoltura, come per la moda, servono ingenti risorse idriche, legate ai processi di produzione e lavorazione. Ancora, come per le ricette di prodotti alimentari, anche nella moda le tecniche di lavorazione, rammendo e manutenzione variano da luogo a luogo e vengono trasmesse di generazione in generazione“. Pure nel mondo della moda è sorta, molto più recentemente, l’esigenza di ottenere informazioni sui capi e sulle relative modalità di produzione, molto spesso fornite tramite certificazioni nate proprio nel settore alimentare. “Anche i vocaboli utilizzati nel marketing ricordano quelli propri del settore food: ‘moda naturale’, ‘moda vegana’, ‘moda bio’ ricalcano gli stessi termini utilizzati per il settore alimentare“.

ANNO 2008, SVOLTA SOSTENIBILE NEL MONDO FASHION

Nell’ambito fashion, l’anno da tenere presente è il 2008: in quel momento, grazie a Kate Fletcher – professoressa di Sostenibilità, Design e Moda presso il Centre for Sustainable Fashion della University of the Arts di Londra – si è cominciato a parlare di fashion sostenibile con varie accezioni – moda slow, moda etica, moda green o eco.

DA SLOW FOOD A SLOW FASHION

Proprio le molteplici correlazioni con il mondo alimentare hanno portato la Professoressa Fletcher all’elaborazione, ispirata dal concetto di “slow food” coniato e fondato da Carlo Petrini, al termine “slow fashion”, che stabilisce nuovi principi per un approccio più consapevole e responsabile al mondo della moda. Lo slow fashion si basa su alcuni principi fondamentali: la qualità dei materiali (di prima scelta, riciclati, naturali o ecologici), l’estetica (i capi devono essere belli e durare ben oltre una sola stagione), la filiera (dove ogni figura deve poter essere rintracciabile ed eticamente ineccepibile). “Una teoria completamente in antitesi rispetto al fast fashion, dove ormai le collezioni non sono 4, come le stagioni, ma 52, ovvero una per settimana“, ha spiegato, “oppure addirittura 365, per i brand di ultra-fast fashion: escono nuovi prodotti ogni giorno“.

SOSTENIBILE SI’, MA NON PER OGNI ASPETTO

Sviluppo sostenibile è un concetto complesso, che racchiude tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica.
Sebbene oggi i brand tendano a richiamare soprattutto la componente ambientale e molto meno quella sociale, per dichiararsi sostenibile, occorrerebbe soddisfare le tre aree: non basta quindi utilizzare tessuti e tecniche produttive considerate meno impattanti sull’ambiente. “A prescindere da un utilizzo dei tessuti rispettoso, bisogna considerare anche tutto il resto“, puntualizza Cavagnero. “Come la questione della giustizia, dell’etica, del rispetto dei lavoratori, della giusta paga… Ma queste sono questioni decisamente meno esplorate“. Come anche la diversità dei corpi che vengono mostrati – e che oggi porta verso un concetto di “inclusivity“, ma nel 2008 erano temi ancora impopolari. Come il concetto della moda legata alla disabilità, di cui è cominciato a parlare solo recentemente, e che finalmente inizia a coinvolgere sfere di popolazione che erano state, finora, “dimenticate”.

IL GREEN MARKETING

Se si leggono i report delle aziende, la parte ambientale risulta sempre enfatizzata, mentre la parte sociale viene spesso ‘tralasciata’. Anche i colori utilizzati nei marketing sono sempre gli stessi: il verde, associato alla natura, il blu al mare. La comunicazione è usata a scopo pubblicitario ma la componente sociale, con il suo poco appeal, non è mai sviluppata“. Dagli anni ‘80 si è, infatti, diffuso un filone definito “green marketing”, che ha esplorato l’impatto sul consumatore di colori associati alla natura e parole come bio, eco, etc. Il risultato: “Sono stati osservati effetti positivi sul consumatore, che portavano a una maggiore propensione all’acquisto“. Il termine associato a queste strategie di marketing è “nudging” (in particolare “green nudging”), che si traduce come “spingere dolcemente”, ovvero far compiere azioni senza imporle ma creando al contrario le condizioni adatte per influenzare le persone.

LA TRACCIABILITÀ

Il discorso sulla tracciabilità nel mondo della moda “è molto complesso, soprattutto per grandi brand che hanno produzioni dislocate in ogni angolo del Pianeta“, spiega Cavagnero. “Pensiamo a quanto è lunga la filiera di una t-shirt di cotone, che parte dal campo, generalmente in Eurasia, poi porta la fase del trattamento e trasformazione in filato in Cina, che ha il know-how e i macchinari per farlo, per poi passare alla realizzazione del capo che avviene nel sud est asiatico, Bangladesh e India, fino alla vendita, in Europa o negli Stati Uniti… E abbiamo già fatto il giro del mondo!”.
Diverse ricerche hanno dimostrato “che la visibilità della filiera si riduce al primo tassello, ovvero il fornitore diretto. Spesso il fornitore di primo livello, scelto per ragioni di convenienza economica, è l’unico elemento noto, mentre si ignora tutto ciò che sta dietro“, e queste logiche erano le uniche a guidare il settore fino a poco tempo fa.
Oggi siamo agli albori di un cambiamento, ma la scelta di un fornitore rispetto a un altro solo perché sostenibile è pura utopia: “spesso gli Audit sono falsificati, oppure solo “aggiustati”, come dimostra una ricerca della Columbia University“. Da un po’ di anni, però, “le cose stanno cambiando: all’interno delle Nazioni Unite dal 2018 è nato un gruppo di lavoro che si occupa della tracciabilità nella filiera moda e calzature, a cui partecipo come esperta. Essendo un progetto intergovernativo e sovranazionale, si pone come strumento neutrale di ricerca e valutazione“. Ma non basterà se non sarà adeguato sulle diverse tipologie di aziende, anche sulle micro e medio-piccole, vera spina dorsale della filiera.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Ma come sarà lo scenario nei prossimi 10 anni? “Per capire il futuro del settore moda si può guardare quello che è successo al food“, spiega Cavagnero, “ci sarà una maggiore attenzione a tutto ciò che è local, alla produzione più vicina, a una maggior sinergia tra designer e acquirente. Non avverrà dall’oggi al domani, ma sarà un cambiamento lento. Anche se, ammetto, sarebbe meglio che fosse velocissimo“.

Gruppi di acquisto solidale per una spesa sostenibile e a Km0

Da diversi anni ormai hanno preso piede in tutta in Italia i Gas, gruppi di acquisto solidale, una fitta rete di cittadini che si unisce per acquistare prodotti (per lo più alimentari) in maniera etica ed economica. La filosofia che sta alla base di queste iniziative è, infatti, la cultura etica, il rispetto dell’ambiente, la produzione senza pesticidi e la tutela della dignità dei lavoratori.

UNA CULTURA ‘SOLIDALE’ CHE PARTE DAI PRIMI ANNI ’90

Secondo E-circles i Gas in Italia sono quasi 600, per migliaia di affiliati. I gruppi più numerosi sono al Nord: 153 nel Nord Ovest, 101 nel Nord Est e 161 tra Emilia e Toscana. Sebbene forme di azione simili ai Gas fossero presenti già prima degli anni Novanta, si fa risalire la nascita di questi gruppi a un incontro dal titolo ‘Quando l’economia uccide…bisogna cambiare’, tenutosi all’Arena di Verona nel 1993. Poco dopo, nel 1994, nasce il primo gruppo: alcune famiglie di Fidenza (Parma) decidono di impiegare il loro tempo libero per conoscere sul campo i produttori di cibi sani e biologici, per poi acquistarli e distribuirli all’interno del gruppo. L’idea diventa esemplare: il passaparola porta alla nascita di esperienze simili, una a Reggio Emilia e una a Piacenza. La pratica si diffonde molto velocemente, ogni gruppo nascente prende spunto da quelli pre-esistenti, ma ognuno è diverso dall’altro per la propria storia. Un boom di ‘nascite’ si registra nel 2001, anno in cui si verifica un forte incremento delle persone interessate a queste iniziative, e prosegue in maniera significativa per tutto il decennio successivo, forse anche grazie alla rapida diffusione di internet.

IL CASO DI ‘LO-LA’ UNO DEI PIU ANTICHI GAS DI MILANO

Anche a Milano si contano decine di Gas per centinaia di ‘affiliati’. Uno dei più ‘antichi’ è il Lola, nato nel settembre 2008 per iniziativa di un nucleo di abitanti dei quartieri di zona 3 di Milano, Loreto e Lambrate (da qui l’acronimo LoLa); il coordinatore è Maurizio Lauro. “Attualmente – racconta a GEA – il nostro Gas è composto da 72 iscritti, di quasi tutte le fasce d’età. Nei giorni scorsi abbiamo distribuito un questionario per conoscere esattamente ‘chi siamo’ e stasera faremo una riunione. Abbiamo notato che manca nel nostro gruppo la fascia di età che va dai 18 ai 30 anni. Per questo stiamo pensando di farci conoscere anche nelle università, visto che gravitiamo intorno al quartiere di Città Studi“.

In generale LoLa è costituito da persone appartenenti a un ampio arco di età – da famiglie con figli in età scolare a pensionati – e di professioni, residenti anche in zone limitrofe. Il gruppo, facendo proprie le pratiche della solidarietà sociale dei gruppi di acquisto solidale, persegue diverse finalità come il consumo critico e sostenibile, la diffusione di prodotti biologici, naturali, eco-compatibili e del commercio equo e solidale, per valorizzazione la natura e l’ambiente. Un altro obiettivo è poi il sostegno ai piccoli produttori, possibilmente biologici, e alle cooperative sociali di produzione (costituite ad esempio da detenuti o da soggetti diversamente abili), per stabilire con loro rapporti diretti che garantiscano una equa remunerazione. Il gas punta poi alla promozione della cultura agro-alimentare dei prodotti genuini e tradizionali, rispettosa dell’uomo, dell’ambiente e della biodiversità e si impegna a cercare produttori in un’area geografica vicina a Milano proprio per perseguire i principi di eco-sostenibilità della ‘filiera corta e dei prodotti a km zero.

IL RISPARMIO ECONOMICO

“Acquistiamo tutti i tipi di alimenti – prosegue Lauro – frutta, verdura, olio, vino, marmellate, ma anche carta da cucina e carta igienica. In ogni caso ci informiamo sempre sui nostri produttori e sul loro impegno nel rispetto dell’ambiente”. Oltre all’aspetto etico c’è anche quello economico. “Saltando l’intermediazione della grande distribuzione – spiega Lauro – si riesce a risparmiare. Inoltre, se con gli ordini superiamo un determinato importo, a volte non ci fanno pagare le spese di trasporto degli alimenti nella nostra sede“. Attenzione poi viene prestata anche a realtà che si distinguono per il proprio impegno per la bio diversità. “Ad esempio – dice – ci riforniamo da aziende che si sono impegnate a recuperare varietà di riso che si ritenevano perdute“.

ORDINI VIA MAIL E RITIRO IN SEDE

Ma come funziona, in concreto, il Gas? “Esistono referenti per ogni prodotto – prosegue Lauro -. Ad esempio io mi occupo del riso, ma ci sono quelli dell’olio, del vino, del pane. Ad ogni ‘gasista’ viene poi mandato via mail un foglio excel su quel prodotto sul quale l’associato deve segnare la quantità richiesta. Il responsabile poi chiude l’ordine e lo invia al produttore. Quando i prodotti sono pronti, le aziende ci portano gli alimenti in sede e noi comunichiamo gli orari in cui i ‘gasisti’ possono venirli a ritirare e a pagare. Sul tavolo vengono fatti ‘mucchietti’ di prodotti con il nome dell’associato e poi questo passa a ritirarli. Prima del Covid la sede, nei giorni di ritiro, si trasformava in un vero e proprio mercato, con chiacchiere e grandi saluti. Adesso purtroppo, per ragioni legati alle prescrizioni anti contagio, siamo più scrupolosi e anche i pagamenti avvengono solo attraverso Satispay o sistemi elettronici“.

Daddi (Scuola Superiore S.Anna): Il progetto Tackle per un calcio green

Il calcio inquina. E se ne stanno accorgendo anche i protagonisti. Dalle società alle istituzioni – sempre più coinvolte in iniziative dedicate alla sostenibilità – fino ai tifosi. Uno dei progetti europei più interessanti degli ultimi anni in Italia è stato ‘Tackle‘, coordinato dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e cofinanziato dal programma ‘Life’ dell’Unione europea: tra il 2018 e il 2021 ha raccolto le migliori pratiche sulla gestione ambientale nel mondo del calcio con l’obiettivo di migliorarne quella delle partite, innalzando il livello generale di consapevolezza e attenzione sul tema. Il progetto è stato finalizzato lo scorso marzo, in una conferenza intitolata ‘Environmental Sustainability through Professional Football’, presso uno degli stadi coinvolti nel progetto, l’Olimpico di Roma, alla quale hanno partecipato anche rappresentanti dell’Uefa e di diverse società italiane ed europee. Sono stati illustrati i risultati raggiunti nel corso di questi quattro anni, nei quali sono state redatte linee guida poi applicate in una serie di prove pilota nei 12 stadi europei coinvolti nel progetto: dalla mobilità dei tifosi alla gestione dell’energia, dell’acqua e dei rifiuti, fino ai criteri ecologici per la selezione di alimenti, bevande e merci e alla governance. Lo scopo ultimo è stato fornire a istituzioni e società più strumenti possibile per produrre benefici ambientali con le loro azioni. Il professor Tiberio Daddi – project manager del progetto e docente della Scuola Superiore Sant’Anna – ha parlato a GEA di Tackle e dei margini di crescita del calcio in ambito sostenibilità.

Come ha trovato il mondo del calcio rispetto al tema della sostenibilità? Sono stati compiuti dei passi avanti?
“Quattro anni fa il calcio era più indietro rispetto ad altri settori. In questo ambito la questione della sostenibilità ambientale è stata declinata più in ottica sociale, assorbita da una prospettiva che comprendeva anche altre tematiche quali razzismo, solidarietà, inclusione, che spesso si ritrovavano nei bilanci di sostenibilità delle società, lasciando in secondo piano il focus sull’ambiente. Ora è invece altrettanto evidente che il calcio sta correndo velocemente, come dimostrano le numerose iniziative, la comunicazione adottata e i documenti programmatici di società e istituzioni, che includono terminologia e rimandi che prima mancavano. Un esempio è la strategia sulla sostenibilità adottata dalla Uefa recentemente. Insomma, il calcio sta recuperando terreno”.

Qual è stato il ruolo di Tackle in questa crescita?
“Non voglio attribuirmi troppi meriti, sono stati tanti gli attori protagonisti. Tackle ha giocato di sponda con numerosi club e istituzioni, che hanno trovato in noi un interlocutore preparato con cui discutere e fare networking. Questo è stato possibile grazie alla collaborazione con i nostri partner (tra cui Uefa, Figc e diverse federazioni calcistiche europee, ndr). Anche molte società che all’inizio non erano parte del progetto si sono interessate a noi, avevano le risorse e hanno voluto collaborare. Tackle ha dato loro strumenti e linee guida e ha avuto la sua importanza. Siamo stati citati, ad esempio, nel recente “Climate Report” pubblicato da Juventus. Abbiamo lavorato con il Porto sul calcolo del carbon footprint e anche la Uefa ha fatto riferimento alle nostre linee guida affinché venissero replicate all’interno degli stadi”.

L’impegno della Scuola Superiore Sant’Anna non si esaurisce con Tackle: ci sono nuovi progetti in cantiere?
“Sì e interesseranno anche altri sport. Siamo partner di “Green Coach”, progetto che si concentra sulla sostenibilità nel calcio amatoriale e vede la partecipazione di diverse federazioni europee. C’è poi “Goals”, di cui siamo capofila, il cui obiettivo è migliorare la governance ambientale nelle organizzazioni calcistiche, con particolare focus sul calcolo dell’impatto ambientale di una partita di calcio. Nell’ambito di Goals stiamo lavorando al lancio di un tool intuitivo per supportare i club, che potranno calcolare la loro impronta ambientale, così da stabilire le priorità e poterle calibrare. Consentirà loro di costruire una strategia e un piano di azione. Presto sarà disponibile e inviteremo le società a testarlo per calcolare la loro footprint”.

Come funzionerà nel dettaglio questo tool?
“Si baserà su un metodo di valutazione di Life Cycle Assessment (Lca), raccomandato nel dicembre 2021 dalla Commissione europea. Al momento è considerato il più efficace per valutare le prestazioni ambientali di un’organizzazione, ma anche di un prodotto o di un servizio: vengono valutate 16 diverse categorie, tra cui la carbon footprint e la water footprint. Per essere applicato ha bisogno di competenze e strumenti adeguati. Per questo nel progetto “Goals” abbiamo calcolato l’impronta ambientale di un match di una società partner, il Real Betis, che ci ha fornito i dati. Sulla base di tale attività, stiamo costruendo una piattaforma online che faciliterà i club nel calcolo. Ci saranno delle interfacce grafiche che permetteranno l’inserimento di dati ambientali: poi sarà la piattaforma stessa a calcolare automaticamente la footprint”.

Parlava anche di altri progetti non legati al calcio.

“Uno è “Games”, un’estensione delle nostre attività ad altri sport. In questo caso biathlon, atletica e floorball – una versione indoor dell’hockey su ghiaccio, ndr – che si praticano in contesti diversi: il primo è invernale, il secondo necessita di grandi spazi e il terzo si gioca in palazzetto. Anche a loro applicheremo un approccio sostenibile, con particolare attenzione al tema della decarbonizzazione. Infine, “Access”, una sinergia tra calcio e rugby che vuole studiare l’impatto delle grandi manifestazioni sportive sulle città, nonché le interazioni che si vengono a creare tra organizzatori di eventi, istituzioni e utenti, per facilitarne la cooperazione”.

Trasporti, Giovannini: “Progettare sistemi di mobilità sostenibili”

Durante il Consiglio dell’Ocse, tenutosi oggi a Parigi, Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili (Mims), ha presentato la strategia del Mims in linea con gli impegni che l’Italia ha assunto a livello internazionale ed europeo sulla giusta transizione ecologica e digitale e sull’urgente necessità di ridurre le disuguaglianze, anche territoriali. L’obiettivo è quello di creare migliori connessioni ferroviarie e stradali tra i territori riducendo il gap infrastrutturale tra il Nord e il Sud del Paese e con le aree interne, riqualificare l’edilizia pubblica, rinnovare i sistemi di mobilità urbana in senso ecologico con l’acquisto di mezzi non inquinanti, migliorare le connessioni ferroviarie con porti e aeroporti, accelerare e incentivare la decarbonizzazione dei trasporti.

L’Unione europea indica la strada e mai come ora è importante perseguire i programmi di decarbonizzazione, puntando a una maggiore diversificazione energetica e a una rapida transizione orientata alle fonti rinnovabili”, ha affermato il Ministro sottolineando l’importanza di impiegare tutte le energie per sfruttare al meglio le risorse disponibili. Il Ministro ha però chiarito che per riuscire in questa missione è necessario “programmare gli investimenti seguendo una logica sinergica e integrata”.

La transizione verde – ha proseguito Giovannini – è un’opportunità per ripensare il modo di realizzare le infrastrutture e di progettare sistemi di mobilità sostenibili”. Infatti, grazie ai nuovi criteri sviluppati dal ministero lo scorso anno, gli investimenti futuri saranno basati su nuove regole che puntano a migliorare “ la qualità della vita delle persone, il benessere sociale e la qualità dell’ambiente” perché, ora più che mai, “lo sviluppo sostenibile è l’unico modello perseguibile“, così Giovannini ha concluso il suo intervento.

Zoppas

Zoppas sposa la sostenibilità: “Saremo protagonisti della rivoluzione green”

“Il mondo sta vivendo una vera e propria rivoluzione sostenibile e noi vogliamo esserne protagonisti”. A raccontarlo a GEA è Gianfranco Zoppas, presidente dell’omonimo Gruppo. Due controllate, Irca Spa e Sipa Spa, presenza in 70 Paesi nel mondo, con un fatturato aggregato di oltre 800 milioni e 9.100 addetti nel 2021: questa la fisionomia del gruppo industriale di Treviso, fornitore globale per la progettazione, produzione e vendita sul mercato internazionale di resistenze e sistemi riscaldanti destinati al segmento domestico e a quello industriale. “La pandemia prima e l’attuale congiuntura economica dopo – spiega Zoppas – ci ha insegnato che l’essere globali è sicuramente un punto di forza, anche rispetto alla solidità della catena di fornitura. L’altro fattore chiave è l’innovazione, leitmotiv costante per tutte le aziende del Gruppo, che oggi interpretiamo sempre più all’insegna della sostenibilità, che per noi significa impegno ambientale, sociale, creativo, di responsabilità ed etica”.

EMISSIONI DI CO2: -30% ENTRO IL 2025. Tanti gli impegni presi in linea con gli obiettivi europei: arrivare al -30% di emissioni di C02 entro il 2025 con la svolta della carbon neutrality entro il 2050. “Abbiamo iniziato da un’analisi della Carbon Footprint (l’impronta di carbonio, l’indicatore utilizzato per misurare la quantità di CO2 emessa, ndr) – spiega Zoppas – e proseguito con la valutazione EcoVadis e l’adesione al CDP (Carbon Disclosure Project). A essere prima ridotte e poi azzerate saranno le emissioni derivanti da fonti di proprietà o controllate direttamente e le emissioni connesse con l’energia acquistata”. Non solo. Il Gruppo ha già avviato progetti con partner e fornitori “affinché condividano e applichino gli stessi principi di sostenibilità così da intervenire in modo deciso anche sulle emissioni connesse all’attività dell’azienda”.

Gianfranco Zoppas

OBIETTIVO TRANSIZIONE ECOLOGICA. Le direttrici strategiche dei prossimi anni danno la misura dell’approccio innovativo della realtà industriale di Vittorio Veneto. In primis, la transizione ecologica e su questo versante molto è già stato fatto anche per quanto riguarda il profilo delle controllate. Le aree Ricerca e Sviluppo e Sviluppo Nuovi Prodotti, spiega Zoppas, “hanno intrapreso un’attività di innovazione andando sempre più verso prodotti che permettono minori sprechi e maggiore riciclo e riuso. Vogliamo aiutare le persone a consumare meno e meglio, introducendo nuove soluzioni assolutamente non inquinanti finalizzate al risparmio di energia e acqua”. Sipa è impegnata a progettare e realizzare sistemi per la produzione di contenitori che utilizzano PET riciclato al 100% da scaglie di bottiglie lavate in un unico impianto. “Un sistema di economia circolare bottle-to-bottle – dice a GEA il presidente del Gruppo – che offre importanti vantaggi: utilizza meno materie prime (-10%), risparmia più energia (-30%), riduce (-79%) le emissioni di CO2 rispetto alla produzione di contenitori con materiale vergine, ha un basso TCO – Total Cost of Ownership (-15%) e riduce i costi di logistica (-20%) rispetto ad altre tecnologie tradizionali”.

IL FUTURO È NELLO SPAZIO. I piani di sviluppo di Zoppas nei prossimi 5 anni guardano in alto. “Siamo molto concentrati – spiega Zoppas – sulle opportunità della cosiddetta Space Economy. Zoppas Industries (IRCA) è da trent’anni fornitore qualificato e certificato dell’European Space Agency (ESA). Lo sviluppo futuro si giocherà sempre più sulle applicazioni industriali a maggior valore aggiunto. Molti satelliti (europei e non solo) sono equipaggiati con sistemi di controllo termico progettati e prodotti da IRCA. Tanta ricerca, dunque, e una grande attenzione per i mercati nuovi come quello per i sistemi di riscaldamento di seconda generazione per il settore ferroviario e per le auto”.

Un progetto per far diventare la pausa caffè sostenibile

Secondo uno studio dell’Iri, società esperta in ricerche di mercato, nell’anno del lockdown, il 2020, la vendita delle cialde per il caffè ha registrato un vero boom: +18% a valore rispetto all’anno precedente. Nel dettaglio, capsule e caffè macinato insieme hanno rappresentato l’85% delle vendite di caffè nella Gdo (grande distribuzione organizzata).

Chiaramente negli anni anche le macchinette per il caffè in casa hanno registrato un’impennata. Secondo una ricerca Euromonitor le vendite sono passate da 1,8 milioni di unità nel 2008 a 20,7 milioni nel 2018 negli Stati Uniti. Ora, quasi il 40% delle famiglie negli Stati Uniti ha una macchina per il caffè a cialde e quasi i due terzi delle famiglie nel Regno Unito. La conseguenza è che ogni anno nel mondo vengono prodotte circa 20 miliardi di capsule per il consumo in queste macchinette, vale a dire 39mila al secondo.

DIFFERENZA TRA CIALDE E CAPSULE

Va, innanzitutto, chiarita la differenza tra cialda e capsula. La prima è una sorta di filtro in cui è contenuto il caffè in polvere; le capsule, invece, sono piccoli contenitori in alluminio o plastica con all’interno il caffè. Il problema maggiore lo danno le capsule, perché le cialde stanno diventando sempre più compostabili. Le capsule restano invece legate a materiali che vanno riciclati.

L’IMPATTO AMBIENTALE DI CIALDE E CAPSULE

Il problema che si pone, dunque, è quello dell’impatto ambientale. Il produttore britannico di cialde di caffè compostabili Halo, lo scorso anno ha pubblicato una ricerca nella quale si spiega che tre quarti di capsule e cialde finiscono in discarica. Ecco dunque la corsa dei maggiori produttori di caffè in capsule verso una transizione verde. Nestlé, che produce 14 miliardi dei 20 miliardi di capsule consumate a livello globale ogni anno attraverso il suo marchio Nespresso, si sta concentrando su cialde di caffè in alluminio che possono essere riciclate in strutture specializzate.

LA SPERIMENTAZIONE DI NESTLÈ

Nonostante il crescente utilizzo delle capsule da caffè – riferisce Nestlé nel suo ‘Sustainable packaging commitment: road to 2025’ -, ad oggi in Italia non esiste un sistema strutturato per la raccolta e il riciclo, pertanto, insieme a Illycaffè e alle 3 aziende che gestiscono il riciclo dei rifiuti nella Regione Friuli Venezia Giulia, Nestlé e Nescafé Dolce Gusto hanno firmato l’avvio del primo progetto pilota in Italia per lo smaltimento delle capsule esauste di caffè in plastica. Il progetto, operativo a partire da luglio 2021, prevede la raccolta differenziata delle capsule, il loro trattamento presso un apposito impianto sperimentale di separazione di queste ultime dal loro contenuto, e il successivo avvio al recupero dei materiali separati. Insieme a Illycaffè, Nestlé sosterrà i costi di progettazione, realizzazione, e gestione dell’impianto sperimentale di separazione delle capsule, e quelli connessi alla gestione dei rifiuti. A novembre 2021 è inoltre partita una seconda fase che vede protagonisti i comuni di Trieste, Udine, Campoformido e Pasian di Prato“.

SEPARARE L’ALLUMINIO DAL CAFFE’ MACINATO

Secondo un servizio de Il Salvagente, le cialde però sono da preferire alle capsule perché hanno un minor impatto ambientale. “Al contrario di quanto avviene con le capsule, il materiale delle cialde – spiega Il Salvagente – è interamente compostabile, la carta filtro, una volta utilizzata può essere tranquillamente gettata nel cestino dell’umido e così avviata al compostaggio, proprio come i filtri di tisane e tè. E non serve neppure estrarre i fondi del caffè. Non solo, sempre sul versante ambientale, le cialde hanno dalla loro un volume decisamente minore di quello occupato dalle capsule il che equivale a un risparmio sensibile in fase di trasporto dell’alimento e di uso del packaging“. Per recuperare le capsule infatti, l’utente dovrebbe separare in casa l’alluminio del contenitore dal caffè. Ma non tutti lo fanno. Ancora più difficile invece separare la capsula di plastica dal suo contenuto: come riferiva lo studio di Halo in questo caso i 3/4 di queste capsule finiscono infatti nell’indifferenziato.

Andrea Orlando

Orlando: “Putin non cancella Greta, transizione verde continua”

Vladimir Putin non ha cancellato Greta Thunberg”, ovvero, la crisi energetica non può essere un alibi per frenare sulla transizione ecologica. È incisivo il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, dal palco della quarta Conferenza Nazionale dell’economia circolare. Confessa di vedere il rischio di una “interpretazione dei fatti che porti a una risposta reazionaria, l’idea che la transizione sia un lusso per i tempi di pace”. Il momento, invece, è convinto, deve essere uno “stimolo” per accelerare sul processo di transizione, “abbiamo dalla nostra il Pnrr”.

La transizione green è un passo importante per l’Italia, ma perché venga compresa a pieno, spiega Orlando, “occorre cambiare la narrazione”, far capire alla popolazione che “il processo non sarà un bagno di sangue”. A patto che viaggi parallela a un potenziamento della circolarità nell’economia, perché “Non c’è solo un problema di cambiare il mix energetico, ma c’è un problema di produrre in modo diverso e di avere necessità di produrre meno”. Nell’analisi della transizione non bisogna dimenticare il tema della coesione sociale e della questione salariale: “Siamo un paese che ha i salari bloccati da 30 anni e se non c’è una ripresa della dinamica salariale avremo una reazione sociale a qualunque cambiamento molto pericolosa“, avverte.

Secondo l’ultimo Rapporto del Circular Economy Network, infatti, tra il 2018 e il 2020 il tasso di circolarità nel mondo è sceso dal 9,1% all’8,6%. Negli ultimi cinque anni i consumi sono cresciuti di oltre l’8% (superando i 100 miliardi di tonnellate di materia prima utilizzata in un anno), a fronte di un incremento del riutilizzo di appena il 3% (da 8,4 a 8,65 miliardi di tonnellate): sprechiamo quindi ancora una gran parte dei materiali estratti dagli ecosistemi. In più, in Italia, la crescita dei consumi è più veloce di quella della popolazione. “È evidente che questo crea un problema di prezzi e di accesso ai materiali, di qui la necessità di cambiare economia, aumentare la circolarità”, commenta il presidente del Cen, Edo Ronchi. Nel nostro Paese c’è un “perfetto accoppiamento tra Pil e import di materiali”, un modello, segnala Ronchi “Vulnerabile, altamente esposto alla volatilità dei prezzi e all’approvvigionamento. Dovremmo fare una riflessione specifica per avere più consapevolezza dell’importanza di aumentare la circolarità dell’economia”.

Molte materie prime mancano e, quando si trovano, i prezzi vanno alle stelle. Le responsabilità sono diverse: l’aumento della domanda, che è crescente; la crisi climatica, che diminuisce la capacità degli ecosistemi di offrire risorse; la pandemia, che ha imposto una lunga battuta d’arresto all’economia globale; il conflitto in Ucraina, che ha esasperato la fragilità energetica dell’Europa. La soluzione si chiama economia circolare. E anche se in Europa ancora non decolla, l’Italia è uno dei Paesi che “tiene”: nel quadro delle prime cinque economie europee si posiziona al primo posto per gli indicatori più importanti di circolarità, assieme alla Francia.

Buone notizie per l’Italia anche in tema di rifiuti: la percentuale di riciclo ha raggiunto quasi il 68%, è il dato più elevato dell’Unione europea. Al 2018 ha avviato a riciclo la quota maggiore di rifiuti speciali (quelli provenienti da industrie e aziende): circa il 75%. Per quanto riguarda i rifiuti urbani (il 10% dei rifiuti totali generati nell’Unione europea) l’obiettivo di riciclaggio è del 55% al 2025, del 60% al 2030 e del 65% al 2035. Nel 2020 nell’Ue 27 è stato riciclato il 47,8% dei rifiuti urbani; in Italia il 54,4%. Sempre nel 2020 i rifiuti urbani avviati in discarica in tutta l’Ue sono stati il 22,8%. Dopo la Germania, le migliori prestazioni sono quelle di Francia (18%) e Italia (20,1%).

Una transizione circolare, a ogni modo, è necessaria, in particolare nel nostro Paese, “vista la dipendenza totale dall’import delle materie prime critiche per il nostro sistema”, insiste Roberto Morabito, direttore del dipartimento sostenibilità sistemi produttivi e territoriali dell’Enea, che propone di puntare sull’eco-innovazione come motore principale dello sviluppo e chiede di sviluppare un programma nazionale di simbiosi industriale: “La Commissione europea – spiega – ci dice che un euro di investimento a supporto di Pmi produce 12 euro di vantaggi per le imprese in tema di risparmi, ma anche un notevole vantaggio per l’ambiente”.