Cavagnero: “La moda, il ‘green nudging’ e la parentela col food”
In principio furono la diffusione della BSE per la carne bovina, seguite da una serie di altri scandali, tra cui le frodi equine e le mozzarelle blu tedesche. Stiamo parlando degli anni ‘70, e proprio da allora si è cominciato a discutere di sicurezza alimentare – intesa come sicurezza igienico sanitaria ma anche sicurezza informativa – in ambito food. Così, alcuni ingredienti hanno cominciato a essere rimossi e sono nate numerose nuove norme, tra cui la regolamentazione delle produzioni biologiche e l’etichettatura obbligatoria, nonché certificazioni di prodotto, che hanno permesso ai consumatori di essere informati su cosa si trovavano nel piatto.
Sostenibilità e food, come dicevamo, vanno di pari passo da quasi 50 anni: si pensi che la prima certificazione in ambito alimentare è del 1978 ed è una vera pietra miliare, a ricordarci quanto siamo attenti a ciò che ingeriamo. “Per quanto riguarda invece il comparto moda“, racconta a GEA Sara Cavagnero, avvocato specializzato in proprietà intellettuale e dottoranda di ricerca in moda sostenibile e proprietà intellettuale, “non c’è stata la stessa attenzione“. Ma se andiamo a vedere gli sviluppi in questo secondo ambito, “ritroviamo pattern similari a quelli del food: anche in questo caso si parla di elementi che entrano a contatto con il corpo, di sostanze chimiche utilizzate, di coloranti, di modalità di produzione, di tracciabilità della filiera, di interazione sociale e dinamiche culturali. E, come per il mondo food, anche in questo caso abbiamo alcuni “ingredienti” che entrano in gioco“. E che fanno la differenza. Non solo: anche le risorse – ambientali e umane – utilizzate nei due sistemi, a ben guardare, sono le stesse. “Quando parliamo di fibre naturali, quali il cotone o la viscosa (che costituiscono circa il 27% delle fibre presenti sul mercato), facciamo riferimento a materie prime che hanno un’origine agricola e che richiedono lunghe ore di lavoro nei campi. Per l’agricoltura, come per la moda, servono ingenti risorse idriche, legate ai processi di produzione e lavorazione. Ancora, come per le ricette di prodotti alimentari, anche nella moda le tecniche di lavorazione, rammendo e manutenzione variano da luogo a luogo e vengono trasmesse di generazione in generazione“. Pure nel mondo della moda è sorta, molto più recentemente, l’esigenza di ottenere informazioni sui capi e sulle relative modalità di produzione, molto spesso fornite tramite certificazioni nate proprio nel settore alimentare. “Anche i vocaboli utilizzati nel marketing ricordano quelli propri del settore food: ‘moda naturale’, ‘moda vegana’, ‘moda bio’ ricalcano gli stessi termini utilizzati per il settore alimentare“.
ANNO 2008, SVOLTA SOSTENIBILE NEL MONDO FASHION
Nell’ambito fashion, l’anno da tenere presente è il 2008: in quel momento, grazie a Kate Fletcher – professoressa di Sostenibilità, Design e Moda presso il Centre for Sustainable Fashion della University of the Arts di Londra – si è cominciato a parlare di fashion sostenibile con varie accezioni – moda slow, moda etica, moda green o eco.
DA SLOW FOOD A SLOW FASHION
Proprio le molteplici correlazioni con il mondo alimentare hanno portato la Professoressa Fletcher all’elaborazione, ispirata dal concetto di “slow food” coniato e fondato da Carlo Petrini, al termine “slow fashion”, che stabilisce nuovi principi per un approccio più consapevole e responsabile al mondo della moda. Lo slow fashion si basa su alcuni principi fondamentali: la qualità dei materiali (di prima scelta, riciclati, naturali o ecologici), l’estetica (i capi devono essere belli e durare ben oltre una sola stagione), la filiera (dove ogni figura deve poter essere rintracciabile ed eticamente ineccepibile). “Una teoria completamente in antitesi rispetto al fast fashion, dove ormai le collezioni non sono 4, come le stagioni, ma 52, ovvero una per settimana“, ha spiegato, “oppure addirittura 365, per i brand di ultra-fast fashion: escono nuovi prodotti ogni giorno“.
SOSTENIBILE SI’, MA NON PER OGNI ASPETTO
Sviluppo sostenibile è un concetto complesso, che racchiude tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica.
Sebbene oggi i brand tendano a richiamare soprattutto la componente ambientale e molto meno quella sociale, per dichiararsi sostenibile, occorrerebbe soddisfare le tre aree: non basta quindi utilizzare tessuti e tecniche produttive considerate meno impattanti sull’ambiente. “A prescindere da un utilizzo dei tessuti rispettoso, bisogna considerare anche tutto il resto“, puntualizza Cavagnero. “Come la questione della giustizia, dell’etica, del rispetto dei lavoratori, della giusta paga… Ma queste sono questioni decisamente meno esplorate“. Come anche la diversità dei corpi che vengono mostrati – e che oggi porta verso un concetto di “inclusivity“, ma nel 2008 erano temi ancora impopolari. Come il concetto della moda legata alla disabilità, di cui è cominciato a parlare solo recentemente, e che finalmente inizia a coinvolgere sfere di popolazione che erano state, finora, “dimenticate”.
IL GREEN MARKETING
“Se si leggono i report delle aziende, la parte ambientale risulta sempre enfatizzata, mentre la parte sociale viene spesso ‘tralasciata’. Anche i colori utilizzati nei marketing sono sempre gli stessi: il verde, associato alla natura, il blu al mare. La comunicazione è usata a scopo pubblicitario ma la componente sociale, con il suo poco appeal, non è mai sviluppata“. Dagli anni ‘80 si è, infatti, diffuso un filone definito “green marketing”, che ha esplorato l’impatto sul consumatore di colori associati alla natura e parole come bio, eco, etc. Il risultato: “Sono stati osservati effetti positivi sul consumatore, che portavano a una maggiore propensione all’acquisto“. Il termine associato a queste strategie di marketing è “nudging” (in particolare “green nudging”), che si traduce come “spingere dolcemente”, ovvero far compiere azioni senza imporle ma creando al contrario le condizioni adatte per influenzare le persone.
LA TRACCIABILITÀ
Il discorso sulla tracciabilità nel mondo della moda “è molto complesso, soprattutto per grandi brand che hanno produzioni dislocate in ogni angolo del Pianeta“, spiega Cavagnero. “Pensiamo a quanto è lunga la filiera di una t-shirt di cotone, che parte dal campo, generalmente in Eurasia, poi porta la fase del trattamento e trasformazione in filato in Cina, che ha il know-how e i macchinari per farlo, per poi passare alla realizzazione del capo che avviene nel sud est asiatico, Bangladesh e India, fino alla vendita, in Europa o negli Stati Uniti… E abbiamo già fatto il giro del mondo!”.
Diverse ricerche hanno dimostrato “che la visibilità della filiera si riduce al primo tassello, ovvero il fornitore diretto. Spesso il fornitore di primo livello, scelto per ragioni di convenienza economica, è l’unico elemento noto, mentre si ignora tutto ciò che sta dietro“, e queste logiche erano le uniche a guidare il settore fino a poco tempo fa.
Oggi siamo agli albori di un cambiamento, ma la scelta di un fornitore rispetto a un altro solo perché sostenibile è pura utopia: “spesso gli Audit sono falsificati, oppure solo “aggiustati”, come dimostra una ricerca della Columbia University“. Da un po’ di anni, però, “le cose stanno cambiando: all’interno delle Nazioni Unite dal 2018 è nato un gruppo di lavoro che si occupa della tracciabilità nella filiera moda e calzature, a cui partecipo come esperta. Essendo un progetto intergovernativo e sovranazionale, si pone come strumento neutrale di ricerca e valutazione“. Ma non basterà se non sarà adeguato sulle diverse tipologie di aziende, anche sulle micro e medio-piccole, vera spina dorsale della filiera.
UNO SGUARDO AL FUTURO
Ma come sarà lo scenario nei prossimi 10 anni? “Per capire il futuro del settore moda si può guardare quello che è successo al food“, spiega Cavagnero, “ci sarà una maggiore attenzione a tutto ciò che è local, alla produzione più vicina, a una maggior sinergia tra designer e acquirente. Non avverrà dall’oggi al domani, ma sarà un cambiamento lento. Anche se, ammetto, sarebbe meglio che fosse velocissimo“.