Industria, a luglio produzione -3,3% annuale: crolla tessile (-18,3%)

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, la produzione industriale in Italia per settori. Secondo Istat, a luglio l’indice complessivo diminuisce in termini tendenziali del 3,3%: i settori di attività economica che registrano gli incrementi tendenziali maggiori sono la fabbricazione di prodotti chimici (+3,9%), le industrie alimentari, bevande e tabacco (+2,5%) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+1,9%). Le flessioni più ampie si registrano nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3%), nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-11,4%) e nell’attività estrattiva (-5,9%).

spreco alimentare

Stretta dell’Ue contro gli sprechi alimentari: -30% entro 2030

Sprechi di beni, sprechi di risorse, sprechi di soldi. La Commissione Europea ha deciso di dare una stretta agli sprechi alimentari e del settore tessile, di fronte all’evidenza di un problema ancora non risolto dalla legislazione comunitaria e dei 27 Paesi membri. Due proposte all’interno dello stesso quadro di revisione della Direttiva quadro sui rifiuti del 2008, che lasciano molto spazio ai Ventisette per definire le strategie e le modalità operative, ma con obiettivi che devono trovare un riscontro entro la fine del decennio.

Sul piano della lotta agli sprechi alimentari l’obiettivo fissato dal gabinetto von der Leyen è quello di un taglio entro il 2030 del 10% nella trasformazione e nella produzione e del 30% (pro capite) nella vendita al dettaglio e nel consumo, tra ristoranti, servizi alimentari e famiglie. La legislazione comunitaria prevede già che gli Stati membri attuino programmi nazionali di prevenzione e riduzione dei rifiuti alimentari in ogni fase della catena di approvvigionamento, ma finora la quantità di rifiuti “non è diminuita abbastanza”. Per questo Bruxelles spinge i Ventisette a “intraprendere azioni ambiziose e a sostenere i cambiamenti comportamentali”, ma anche a rafforzare la collaborazione tra gli attori dell’intera catena del valore alimentare. Tra le migliori pratiche identificate compare anche l’agevolazione della donazione di cibo “attraverso misure legislative e incentivi fiscali” alla ridistribuzione delle eccedenze alimentari. Prevista una revisione formale dei progressi dei Ventisette “entro la fine del 2027”.

La Commissione Ue vuole anche un’azione decisa contro gli sprechi del settore tessile. Il cuore della nuova proposta è la responsabilità dei produttori per l’intero ciclo di vita dei prodotti. Si tratta in particolare di introdurre schemi obbligatori e armonizzati di responsabilità estesa del produttore per i prodotti tessili in tutti gli Stati membri, sulla base dei risultati positivi nella gestione di imballaggi, batterie e apparecchiature elettriche ed elettroniche. vale a dire che i produttori copriranno i costi di gestione dei rifiuti tessili, “incentivandoli a ridurre i rifiuti e ad aumentare la circolarità dei prodotti tessili, progettando prodotti migliori fin dall’inizio”. L’importo da pagare sarà regolato in base alle prestazioni ambientali dei prodotti tessili, un principio noto come “eco-modulazione”.

Il risultato previsto dal gabinetto von der Leyen è quello di rendere più facile per i 27 Paesi membri Ue attuare l’obbligo di raccolta differenziata dei prodotti tessili a partire dal 2025, in linea con la legislazione attualmente in vigore. I contributi dei produttori finanzieranno gli investimenti nelle capacità di raccolta differenziata, selezione, riutilizzo e riciclaggio: “Le imprese sociali attive nella raccolta e nel trattamento dei tessili beneficeranno di maggiori opportunità commerciali e di un mercato più ampio per i tessili di seconda mano”, è quanto mette in chiaro la Commissione. Parallelamente sarà affrontata anche alla pratica dell’esportazione di rifiuti mascherata da riutilizzo verso Paesi non attrezzati per la gestione, chiarendo “cosa si intende per rifiuti e cosa per prodotti tessili riutilizzabili”. In questo modo le spedizioni potranno avvenire solo se ci sono “garanzie che i rifiuti siano gestiti in modo ecologicamente corretto”.

Cimiteri tossici e crimini contro umanità: il lato oscuro ‘ultra fast’

Migliaia di morti, centinaia di migliaia di schiavi, maxi-discariche, microplastiche negli oceani, emissioni di gas serra, spreco di acqua e abuso di petrolio. Il prezzo della moda a basso costo è altissimo. E il crollo della fabbrica Rana Plaza in Bangladesh, che ha fatto 1.138 vittime, è solo la punta dell’iceberg del lato oscuro dell’industria tessile.

Il numero di discariche di abiti e scarpe usati cresce nel Sud del mondo in modo direttamente proporzionale alla produzione sempre più frenetica di moda a basso costo. Centinaia di migliaia di stivali da pioggia e doposci finiscono nel bel mezzo del deserto di Atacama, in Cile. Secondo la Changing Markets Foundation, la discarica di Dandora, alle porte di Nairobi, riceve ogni giorno 4mila tonnellate di rifiuti, in gran parte tessili provenienti dai Paesi occidentali.

I marchi di “ultra fast fashion” (come Boohoo, Emmiol, SheIn) con t-shirt da 5 euro e vestiti da 8 euro stanno superando ogni limite del low cost, producendo ancora di più dei giganti del fast fashion come H&M o Zara. Gli “articoli a basso costo terminano la loro breve vita, gettati via e bruciati in enormi discariche a cielo aperto, lungo i fiumi o il mare, con conseguenze gravissime per la popolazione locale e l’ambiente“, denuncia Greenpeace. Secondo il rapporto 2020 della ONG Climate Chance, l’industria tessile è responsabile di un terzo degli scarichi di microplastica negli oceani e del 4% delle emissioni globali di gas serra. La moda è il terzo settore a più alto consumo idrico e il 70% delle fibre sintetiche prodotte nel mondo proviene dal petrolio.

Altrettanto grave è la totale mancanza di sostenibilità sociale del fast fashion. I rapporti delle ONG e dei think tank continuano a denunciare lo sfruttamento dei membri della minoranza musulmana uigura nei campi dello Xinjiang, nelle officine e nelle fabbriche che forniscono materie prime o prodotti finiti. Le autorità cinesi sono accusate dai Paesi occidentali di aver rinchiuso massicciamente gli uiguri nei campi di rieducazione, dopo i sanguinosi attacchi subiti in questa regione. Le Nazioni Unite sollevano l’ipotesi di “crimini contro l’umanità“, accuse fermamente respinte da Pechino.

I grandi nomi dell’industria tessile (Adidas, Lacoste, Gap, Nike, Puma, H&M, ecc.) sono stati accusati di trarre profitto da questo “lavoro forzato“. Da allora, alcuni marchi si sono impegnati a non utilizzare il cotone proveniente dallo Xinjiang (un quinto della produzione mondiale). Quattro multinazionali dell’abbigliamento, tra cui Uniqlo France e Inditex (Zara, Bershka, Massimo Duti), sono sotto inchiesta in Francia dal 2021 per “occultamento di crimini contro l’umanità“.

I salari dei lavoratori del settore in India sono regolarmente oggetto di critiche. Ma non serve andare così lontano. Anche nel Regno Unito, nel 2020, l’ONG ‘Labour behind the label’ ha rivelato che i laboratori che riforniscono la fast fashion hanno fatto ricorso a pratiche di semi-schiavitù. Secondo testimonianze confermate da diversi media britannici, i salari oscillavano tra le 2 e le 3 sterline all’ora, ben al di sotto del salario minimo di 8,72 sterline (9,66 euro). Da Haiti alla Cambogia, passando per la Birmania, i lavoratori del settore tessile chiedono regolarmente salari più alti, anche con scioperi e proteste, alcuni dei quali vengono repressi nella violenza.

tessuti

Nasce a Biella l’hub per la sostenibilità del tessile: 4,9 milioni dal Pnrr

Elaborare soluzioni innovative per il settore tessile in ottica di economia circolare. E’ l’obiettivo di MagnoLab, nuova rete di imprese tessili del biellese – tutte con ruoli diversi e complementari nella filiera – la cui mission primaria è quella di collaborare in modo strutturato per sviluppare innovazione, ricerca e progetti legati alla sostenibilità e all’economia circolare. Il progetto è stato presentato nella sede dell’Unione industriale biellese. MagnoLab ha raggiunto il primo posto nella graduatoria definitiva delle proposte ammesse al finanziamento previsto dal bando del Pnrr per il riciclo tessile. Il bando, dedicato ai progetti faro di economia circolare, finanzia quelli giudicati altamente innovativi per il trattamento e il riciclo dei rifiuti provenienti dalle filiere strategiche individuate nel Piano d’azione per l’Economia circolare varato dall’Ue. Nel complesso sono 600 milioni di euro i contributi stanziati con risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza e 192 progetti relativi agli investimenti faro di economia circolare a cui il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica ha dato il via libera.

Su un investimento di circa 11 milioni, ammonta a 4,9 milioni il contributo massimo erogabile per il progetto di MagnoLab, che è stata ammesso al finanziamento sulla base del massimo punteggio attribuito dall’apposita Commissione su 23 progetti ammessi a livello nazionale. “E’ particolarmente importante – ha detto il ministro Gilberto Pichetto in un messaggio di saluto inviato all’Unione Industriale Biellese – che sia proprio il tessile, il comparto che è l’anima storica e prestigiosa del tessuto produttivo biellese, a guardare avanti, ad affidarsi all’innovazione tecnologica per costruire, sul recupero e riciclo dei tessuti, nuovi spazi di mercato”.

L’iniziativa di MagnoLab prevede che entro quest’anno sia completata la realizzazione della rete fisica di impianti pilota, installati in un’unica sede a Cerrione, in frazione Magnonevolo, dove sarà possibile sviluppare in modo collaborativo prodotti e processi innovativi con cicli di sperimentazione rapidi e snelli. L’obiettivo del progetto, dunque, è realizzare un luogo, non solo fisico, dedicato all’innovazione nel settore tessile, condividendo obiettivi, intraprendenza e lungimiranza. Partendo da questi presupposti, la rete di MagnoLab è aperta a nuove realtà che vogliano partecipare. Attualmente sono otto le aziende partner del progetto: De Martini Bayart e Textifibra, De Martini, Marchi & Fildi, Filidea, Di.Vé, Pinter Caipo, Maglificio Maggia, Tintoria Finissaggio 200.

Fw alle porte, in Italia smaltimento rifiuti tessili in Ecomafie

Riparte la stagione delle Fashion Week. Il 9 settembre è iniziata una delle più attese, la settimana di New York, poi arriveranno Londra, Milano e Parigi.

Intanto, in Italia, per la prima volta il Parlamento si occupa di smaltimento dei rifiuti del settore, che è uno dei più inquinanti al mondo.

Il tessile, con i suoi 2,1 miliardi di tonnellate annuali di CO2, rappresenta il 4% delle emissioni globali di gas serra. A causa del lavaggio dei vestiti, vengono rilasciate ogni anno nei mari mezzo milione di tonnellate di microfibre.

Analogo discorso può essere mosso per la tintura dei tessuti, al secondo posto fra le maggiori cause di inquinamento delle acque sul pianeta. L’industria della moda produce circa il 20% delle acque reflue globali e circa il 10% delle emissioni globali di carbonio.

A livello globale, l’85% degli abiti dismessi, circa 21 miliardi di tonnellate all’anno, finisce in discarica. Ad aggravare il problema è l’attuale modello di consumo dell’abbigliamento, ormai da tempo dominato dal cosiddetto fast fashion (il ‘pronto moda’): una proposta di mercato che rasenta l’’usa e getta’ e che è basata su una rapidissima obsolescenza dei prodotti. Il numero di volte che un indumento viene indossato è diminuito del 36% in 15 anni. Un consumatore medio acquista il 60% di capi in più rispetto a 15 anni fa ma li conserva per un minor tempo. Oggi, nel mondo, si acquistano in media 5 chili di vestiti all’anno pro capite. In Europa e negli Stati Uniti il consumo è tre volte più elevato, arrivando a circa 16 chili a testa. Se il trend attuale rimanesse immutato il consumo di abbigliamento continuerebbe a crescere, passando da 62 milioni di tonnellate nel 2015 a 102 milioni nel 2030. Di conseguenza, a meno che non intervengano con forza dei fattori tendenziali di segno inverso, l’inquinamento e gli impatti ambientali sono destinati ad aumentare.

In Italia, però, le discariche sono quasi tutte irregolari. Le garanzie finanziarie dovrebbero essere uno strumento a tutela delle regioni da eventuali inadempienze dei gestori, ma vengono trascurate.

Ogni discarica autorizzata deve, per legge, avere due tipologie di garanzie da presentare entro la messa in esercizio dell’impianto: una per la fase operativa e l’altra per la post gestione, e questo quasi mai avviene.

La Commissione Ecomafie fa il quadro dello stato delle discariche presenti sul territorio: “E’ stato un lavoro faticoso perché le Regioni stesse avevano un quadro spesso frammentario e superficiale”, spiega il presidente, Stefano Vignaroli. Il sistema bancario e quello assicurativo, per loro stessa ammissione, non avevano mai compiuto un’analisi specifica sulle fideiussioni delle discariche.

Un’occasione per il Sistema Moda Italia (SMI) e per tutto il mondo tessile per cambiare il modo di gestire gli abiti usati e il modo di produrre gli abiti.

luxury fashion

La sostenibilità nella moda tra luxury, fast fashion e riciclo

In Cina c’è un detto popolare: “Se vuoi conoscere i colori e le tendenze della prossima stagione, guarda il colore dei fiumi“. E no, purtroppo non è solo un modo di dire: nel quadrante asiatico non sempre esiste e viene applicata una vera e propria regolamentazione nei confronti del materiale di scarico delle industrie, e quelle tessili – con le oltre 200 sostanze chimiche utilizzate, tra cui coloranti, sali e metalli pesanti – sono davvero le dirette responsabili del cambio di colore delle acque di fiumi e torrenti.

IL TESSILE, SECONDA INDUSTRIA PIÙ INQUINANTE AL MONDO

Il settore tessile, infatti, rappresenta la seconda industria più inquinante al mondo, preceduta – com’è immaginabile – solo da quella petrolifera. E se vi pare assurdo, pensate che ogni anno vengono venduti oltre ottanta miliardi di abiti, ovvero il 400% in più rispetto a 20 anni fa. Per avere un quadro generale sulla situazione e immaginarne gli scenari futuri, GEA ha intervistato il professor Luca Andriola, docente universitario ed esperto in sostenibilità nel settore della moda, il quale ci ha raccontato che, finalmente, nel mondo del fashion qualcosa sta cambiando.
Fortunatamente anche in questo settore c’è una maggior attenzione nei confronti dell’ambiente e della sostenibilità dei prodotti e dei processi industriali“, ha spiegato Andriola, “in particolare l’attenzione è massima nel settore di alta gamma, ovvero i marchi del lusso, in cui le catene di fornitura si stanno muovendo tutte in ottiche green“.

IL SISTEMA DI TRACCIABILITÀ NELLA MODA

Il sistema di tracciabilità della catena produttiva in ambito luxury infatti “è rigidissimo“, e questo anche “per un concetto di brand reputation: ora che il consumatore è più consapevole, disinteressarsi a queste tematiche potrebbe comportare perdite di quote importanti di mercato“. In particolare, “il settore lifestyle del luxury è ormai orientato alla sostenibilità, e rispecchia un altro concetto importante, ovvero quello del wellness: chi ha anche un minimo potere di spesa ricerca oggi il benessere e la sostenibilità. Essere green, essere smart ed essere luxury oggi sono diventati concetti quasi sovrapponibili“. Anche i grandi marchi dello sportswear sono già molto attenti al green lifestyle, che “pervade le nuove generazioni che sono acquirenti della moda: i giovani sono molto attenti alla cura del corpo e al benessere. E il concetto stesso dello sport, che è fatto principalmente all’aria aperta, si sposa in automatico con il concetto di sostenibilità e di rispetto per l’ambiente“.

IL ‘MADE GREEN IN ITALY’

L’Italia è molto innovativa attenta su questo tema, “e il cliente finale ricerca anche il “made green in Italy”, ovvero l’unica certificazione in grado di coniugare la dimensione delle performance ambientali dei prodotti con la dimensione del made in Italy, legata alle eccellenze del sistema produttivo nazionale“.

IL FAST FASHION

Discorso totalmente diverso in caso di fast fashion, “che risulterebbe a maggior impatto di più anche per i numeri e le numerose collezioni che vengono prodotte ogni anno. E qui la problematica ambientale si intreccia con quella etica, ovvero le condizioni di vita e di lavoro, spesso precarie e non regolamentate, di chi lavora in questo settore nei Paesi extra Ue”.

LE CERTIFICAZIONI AMBIENTALI DI PROCESSO E DI PRODOTTO

Le certificazioni, specifica il professor Andriola, “sono ancora su base volontaria. Il sistema di registrazione EMAS, ma anche quello di certificazione ISO, forniscono garanzie al consumatore finale, in quanto schemi riconosciuti sia a livello europeo che a livello globale. Ne consegue che «sia una registrazione Emas che una certificazione ISO 14001 del processo produttivo possono fornire credibilità ed affidabilità“. Sulla certificazione di prodotto, “al momento le garanzie maggiori per il consumatore finale sono date dall’Ecolabel, un regolamento comunitario su prodotti e servizi“. Per quanto riguarda le sostanze pericolose, “in Europa abbiamo già un sistema molto protettivo per i consumatori, ma extra UE è evidente che non è la stessa cosa, anche per un evidente problema di tracciabilità, che diventa talvolta molto complessa“.

LA WATER FOOTPRINT

Un altro tema fondamentale da trattare necessariamente quando si parla di sostenibilità “è la water footprint, ovvero – come si legge sul sito del Governo – l’impronta idrica di un singolo, una comunità o di un’azienda, definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi, misurata in termini di volumi d’acqua consumati e inquinati per unità di tempo“. Oggi, nel settore della moda, “si è finalmente affacciato anche il concetto dell’impronta ecologica dell’acqua“, spiega Andriola. “Non basterà più parlare del proprio contributo alla diminuzione della Co2, ma lo scenario sarà soprattutto focalizzato sull’acqua e sul suo utilizzo nel processo produttivo“.

UNO SGUARDO AL FUTURO

Il professor Andriola, immaginando il mondo da qui ai prossimi dieci anni, è positivo, ma serve che le associazioni appartenenti al settore della moda “continuino a fare cultura di sostenibilità: sono loro che devono diffondere criteri di sostenibilità, policy ambientali e dichiarazioni di impegno. Un secondo passaggio è quello di introdurre indicatori di performance ambientale, ovvero: quanta acqua si utilizza per metro quadrato tessuto, quanta energia, etc., arrivando a creare un benchmark ambientale tra le imprese da pubblicare ogni anno in un report sostenibilità dell’associazione“. E il futuro? “Arriveremo a un punto in cui la moda sarà al 100% di materiale riciclato. Ed è un obiettivo reale, per tutti i settori. Ne sono sicuro”.

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In Italia si producono 140mila tonnellate di rifiuti tessili all’anno

Ogni anno in Italia si producono rifiuti tessili che oscillano tra le 130 e 150mila tonnellate, con una fisiologica flessione registrata nell’anno della pandemia (143.300 tonnellate nel 2020). Fino a quel momento, come spiega l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), la produzione è stata in continuo aumento: dalle 133.300 tonnellate del 2016 alle 157.700 del 2019.

IL 60% DEI RIFIUTI TESSILI VIENE RIUTILIZZATO, IL 30% RICICLATO

Attualmente, come riferisce l’Unirau, (Unione imprese raccolta riuso e riciclo abbigliamento usato), i rifiuti tessili provenienti dalla raccolta differenziata, dopo le lavorazioni di selezione, sono avviati al riutilizzo (circa il 60%) per indumenti, scarpe e accessori di abbigliamento utilizzabili direttamente in cicli di consumo; al riciclo (circa il 30%) per ottenere pezzame industriale (10%) o materie prime seconde per l’industria tessile, imbottiture, materiali fonoassorbenti (20%); oppure allo smaltimento (stimato in circa il 10%). Nell’insieme il settore impiega oggi circa 6.000 addetti. I tessuti, compreso l’abbigliamento, sono stati individuati come una categoria di prodotti prioritari nel Piano d’azione Ue per l’Economia circolare che prevede la proposta di una strategia per il tessile sostenibile e circolare, in vista della quale, nonché del possibile futuro schema di decreto ministeriale che conterrà l’introduzione della responsabilità estesa del produttore (Epr) dei prodotti tessili, Unirau alla fine di marzo ha predisposto e inviato al Ministero della Transizione ecologica (Mite) e ai principali rappresentanti della filiera un position paper sull’implementazione di un sistema Epr per il settore in Italia.

L’IMPEGNO DELL’ASSOCIAZIONE UNIRAU

Obiettivo dell’associazione in questa fase delicata per il mercato che ha visto da pochi mesi l’entrata in vigore dell’obbligo di raccolta da parte dei Comuni – ha spiegato alla Rivista Regioni e Ambiente Andrea Fluttero, presidente di Unirau – è mettere a disposizione della politica e degli stakeholder l’esperienza maturata dagli attori della filiera in questi decenni in vista del cambiamento che attende il settore del tessile post consumo alla luce della ‘Strategia europea per il tessile’, che punterà a promuovere la circolarità e la sostenibilità dei prodotti tessili, sostenendo altresì la selezione dei relativi rifiuti, il riutilizzo ed il riciclaggio”.

rifiuti tessili

CHIARIRE BENE IL SISTEMA EPR

Il documento dell’Unirau tocca diversi aspetti: dal campo di applicazione alla responsabilità dei produttori e ai costi di gestione; dal contributo ambientale ai sistemi di compliance fino alla raccolta e selezione, al ruolo della distribuzione e alla vigilanza e politiche per lo sviluppo del settore. Il position paper sottolinea anche la necessità di una definizione precisa del perimetro dei prodotti che diventano rifiuti tessili rientranti nel campo di applicazione dell’Epr, sia come tipologia sia come provenienza, al fine di definire quali rifiuti rientrano negli obblighi di raccolta e gestione previsti dal decreto, compreso l’assoggettamento al contributo ambientale applicato sul prezzo del prodotto. Fluttero spiega infatti “che non tutto l’abbigliamento usato è rifiuto tessile e non tutto il rifiuto tessile è abbigliamento usato”.

LE PRIME MOSSE DEL CONSORZIO RETEX-GREEN

L’Italia, nel recepire il Pacchetto economia circolare rifiuti che prevede la raccolta differenziata dei tessili entro il 2025, ha anticipato tale data al 1° gennaio 2022. E Sistema moda Italia ha già creato il consorzio Retex-Green che si occupa di raccolta e riciclo. “Ma la strada da fare è tanta”, aveva spiegato qualche giorno fa Alberto Paccanelli, leader di Euratex, in una intervista a Il Sole 24 Ore. Per passare dalla teoria alla pratica – si legge – Euratex ha iniziato a lavorare alla fine del 2020 alla ReHubs iniziative, che porterà entro l’anno alla creazione di cinque poli per la raccolta e il riciclo di rifiuti tessili e uno sarà in Italia.

Eco-progettazione e tessili sostenibili: le nuove sfide Ue

Efficienza energetica, durabilità e circolarità. La Commissione Europea punta a rafforzare i requisiti di sostenibilità per immettere i prodotti sul mercato europeo e a questo scopo ha adottato mercoledì un nuovo regolamento sulla “progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili”, uno dei pilastri centrali del più ampio pacchetto legislativo sull’economia circolare. Il pacchetto conta quattro iniziative oltre alle norme sull’eco-progettazione: un piano di lavoro per la progettazione ecocompatibile e l’etichettatura energetica 2022-2024; la strategia Ue per i tessili sostenibili e circolari e una proposta di revisione del regolamento sui prodotti da costruzione. Ma è solo una parte delle iniziative europee nel campo dell’economia circolare, di cui l’altra metà sarà presentata il prossimo 20 luglio.

La proposta di un nuovo regolamento segue le orme dell’attuale direttiva per l’eco-progettazione, con l’idea di ampliarne il campo di applicazione (quindi includere una gamma più ampia di prodotti, oggi limitata al settore energia) e anche nuovi requisiti prodotti più durevoli e riparabili sul mercato, dagli smartphone ai vestiti ai mobili. L’Ue stima che solo nel 2021 i requisiti di progettazione esistenti hanno consentito ai consumatori dell’Ue di risparmiare 120 miliardi di euro in bollette energetiche e vuole proseguire in questa direzione. Il come e il quando sarà però stabilito in un secondo momento: il documento lascia la maggior parte dei dettagli a una serie di atti delegati su cui la Commissione Ue dovrà lavorare nei prossimi anni, a partire dalla gamma di prodotti da fare rientrare nel regolamento ai requisiti di sostenibilità che dovranno essere stabiliti prodotto per prodotto, in consultazione con l’industria e le parti interessate. La proposta di regolamento stabilisce in sostanza un nuovo quadro che andrà ‘riempito’ con una serie di regole prodotto per prodotto o in gruppi di prodotti in una seconda fase, attraverso delegati.

L’esecutivo mette in evidenza nella comunicazione che alcuni prodotti – tra cui i tessili, i mobili, materassi, i pneumatici, le vernici, detersivi, lubrificanti ma anche ferro, acciaio e alluminio – hanno un elevato impatto ambientale e anche un ampio margine di miglioramento. Potrebbero quindi essere i primi ad essere ‘presi di mira’ dall’Ue. Tra le proposte più significative c’è anche quella di introdurre l’obbligo di un passaporto digitale per tutti i prodotti che saranno regolamentati da questo quadro normativo, con le informazioni sulla composizione dei prodotti così da renderli più facili da riciclare, riparare o garantire che siano tracciate le sostanze pericolose al loro interno lungo la catena di approvvigionamento. Anche in questo caso il ‘come’ le informazioni saranno veicolate sarà stabilito in seguito: la Commissione apre alla possibilità di introdurre delle ‘classi di prestazione’ come si trovano nelle etichette energetiche di alcuni elettrodomestici, a cui aggiungere anche un indice per il quoziente di riparabilità di quel prodotto.

Le nuove norme non saranno in vigore prima del 2024 e per riempire questo spazio di transizione, la Commissione ha presentato sempre mercoledì un piano di lavoro per la progettazione eco-compatibile e l’etichettatura energetica per il 2022-2024 per includere già ora nuovi prodotti legati all’energia e aggiornare quelli già regolamentati.