Iran, Khamenei: “Se Usa entrano in guerra danni irreparabili”. Da Trump ultimatum finale

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Khamenei parla in tv agli iraniani e sfida Trump. “Non ci arrenderemo mai”, dice la Guida Suprema, che definisce “inaccettabile” l’ultimatum del presidente americano, minacciando le basi Usa nella regione. E aggiunge: “Non avremo pietà per i leader di Israele”. Al tempo stesso l’ayatollah teme per la sua vita e prepara anche il figlio Mojtaba per la successione.

Dal canto suo, Donald Trump resta indeciso: di certo, fa sapere, non lo dirà pubblicamente se deciderà di attaccare. Al momento, tutte le opzioni sono sul tavolo della Casa Bianca che valuta i dubbi sul cambio di regime a Teheran e il rischio di uno scenario libico. Per cui, lancia un ultimatum definitivo: “Hanno chiesto di venire a negoziare, ma è tardi: ho perso la pazienza con l’Iran, deve arrendersi senza condizioni”. La risposta è altrettanto chiara: la nazione iraniana “non si arrenderà mai” sotto pressione, dichiara Khamenei in televisione. Per Teheran il tycoon è un “guerrafondaio” e l’ayatollah avverte: “Le conseguenze di un attacco americano saranno irreparabili”.

Parole a cui il mondo risponde correndo ai ripari: il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato il gabinetto di sicurezza e anche il britannico Keir Starmer e il francese Emmanuel Macron  convocano riunioni di emergenza. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, esorta alla de-escalation, ricordando che “ogni intervento militare aggiuntivo avrebbe conseguenze enormi per l’intera regione”. Ma Trump non sembra intenzionato a cedere, e valuta possibili attacchi: “Forse lo farò, forse no”, dice da Washington, aggiungendo che Teheran aveva contattato gli Stati Uniti per negoziare, ma che la sua pazienza stava “già esaurendosi”. Gli Stati Uniti possiedono una potente bomba anti-bunker in grado di distruggere i siti nucleari iraniani profondamente interrati.

Sul fronte di guerra, il Ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha annunciato che l’Aeronautica Militare ha distrutto il “Quartier Generale della Sicurezza Interna” a Teheran, che ha descritto come “il principale organo repressivo del dittatore iraniano”. L’esercito israeliano aveva già annunciato attacchi contro “obiettivi militari” a Teheran. Potenti esplosioni sono state udite più volte dai giornalisti sul posto e diverse colonne di fumo erano visibili in diversi quartieri della capitale. Anche la Mezzaluna Rossa iraniana ha annunciato un attacco israeliano nei pressi del suo edificio. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Israele ha distrutto due impianti di produzione di centrifughe vicino a Teheran. In risposta, le Guardie Rivoluzionarie della Repubblica Islamica hanno dichiarato di aver lanciato missili balistici ipersonici a raggio intermedio Fattah-1. In serata, l’Iran ha annunciato un inasprimento delle restrizioni a internet, sostenendo che Israele aveva dirottato la rete per scopi militari, nel sesto giorno di guerra tra i due Paesi.

Al momento, i bombardamenti israeliani hanno causato almeno 224 morti e oltre mille feriti in Iran, secondo l’ultimo rapporto ufficiale iraniano pubblicato domenica. I colpi di missili e droni iraniani, che hanno colpito i centri urbani, hanno causato almeno 24 morti e 592 feriti, secondo le autorità israeliane. Intanto, gli Stati Uniti stanno preparando l’evacuazione volontaria dei propri cittadini da Israele, secondo l’ambasciatore statunitense a Gerusalemme Mike Huckabee. Diversi paesi europei, tra cui Germania e Italia, hanno rimpatriato centinaia di loro connazionali. La Cina ha già evacuato quasi 800 suoi cittadini dall’Iran e altri mille sono in fase di evacuazione. Il Ministro degli Esteri, Wang Yi, ha espresso “profonda preoccupazione” per una guerra che “potrebbe sfuggire di mano”. L’ambasciata russa a Tel Aviv ha annunciato la partenza delle famiglie dei diplomatici da Israele. Al contrario, il primo aereo con a bordo israeliani bloccati all’estero a causa della chiusura dello spazio aereo del loro Paese è atterrato mercoledì vicino a Tel Aviv, proveniente da Cipro.

Corsa mondiale al nucleare: prezzo uranio registra +80% annuale a massimi da fine 2007

Il petrolio Wti ha perso il 3% rispetto allo stesso periodo del 2022, il gas europeo è sotto del 61%, mentre l’uranio ha guadagnato quasi l’80% negli ultimi 12 mesi. La corsa al nucleare ha riacceso la domanda su uno degli ingredienti essenziali per lo sviluppo nucleare, che è diventato centrale dopo lo choc delle materie prime dello scorso anno tra guerra e inflazione e soprattutto dopo la Cop28 perché l’energia atomica è stata benedetta nella strada verso il Net zero.

I prezzi dell’uranio hanno messo a segno un balzo di circa il 5% tornando oltre 86 dollari per libbra, livello visto l’ultima volta ben prima del disastro di Fukushima ovvero nel novembre 2007. L’impennata deriva dal fatto che la domanda è elevata mentre l’offerta non tiene il passo. Anzi, il governo degli Stati Uniti sta per varare un divieto all’import di uranio dalla Russia, il principale fornitore mondiale di combustibile nucleare arricchito, amplificando i rischi di carenza poiché i produttori occidentali i quali già affrontano una crisi di capacità a causa proprio del parziale e volontario rifiuto da parte dell’Europa di comprare da Mosca.

Nel dettaglio la Camera dei Rappresentanti americana è decisa a varare un provvedimento che vieti le importazioni di uranio arricchito di origine russa, che attualmente rappresenta quasi il 25% del mercato statunitense. Mosca è il più grande arricchitore di uranio a livello globale, possiede il 46% del totale delle infrastrutture mondiali di conversione dell’uranio, mentre tre quarti del fabbisogno di combustibile nucleare degli Stati Uniti sono soddisfatti da combustibile di uranio importato. Se il testo dovesse essere approvato, il costo del combustibile nucleare potrebbe crescere del 13% per i reattori negli Stati Uniti, affermano alcuni analisi ad Oilprice.com. Comunque il divieto russo di importazione di uranio prevede una deroga temporanea fino a gennaio 2028, previa approvazione normativa da parte del Segretario dell’Energia degli Stati Uniti, anche se è improbabile che venga utilizzato frequentemente.

Sempre dal lato dell’offerta rimangono rischi di approvvigionamento dopo il colpo di stato militare del Niger e per la minore produzione della canadese Cameco. In generale dal 2019 in poi, il mercato dell’uranio ha registrato una carenza di offerta, esaurendo le eccedenze accumulate dall’incidente di Fukushima nel 2011. Questa scarsità ha fatto dunque salire i prezzi.

Dal lato della domanda, nel mondo 437 centrali nucleari sono già operative in 33 paesi e insieme forniscono circa il 10% del fabbisogno elettrico globale. Inoltre sono previsti un totale di 99 reattori nucleari, con oltre 300 altri reattori in fase di proposta. Solo la Cina punta a costruire altri 32 reattori nucleari entro la fine del decennio. Gli operatori energetici hanno acquistato più di 150 milioni di libbre di uranio nel 2023, un livello record dal 2012. L’Agenzia internazionale per l’energia sottolinea infine la necessità di raddoppiare le dimensioni dell’industria nucleare entro i prossimi due decenni per raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette. Il prezzo dell’uranio era intorno ai 25 dollari per libbra a fine 2019. Il rialzo in 4 anni è più o meno del 250%.

Pichetto apre a mini reattori nucleari. Prezzo uranio a record da 12 anni

L’apporto del nucleare potrebbe supportare la transizione dei sistemi energetici, il nostro obiettivo è facilitare il raggiungimento dei target comunitari. L’integrazione del nucleare nel nostro sistema industriale potrebbe rafforzare la filiera industriale. Non si tratta di proporre il ricorso in Italia alle vecchie centrali nucleari di grande taglia ma di valutare le nuove tecnologie più sicure, quali gli small e micro modular reactor, i reattori nucleari di quarta generazione allo studio“. Ad annunciarlo è stato stamattina il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, in un videomessaggio inviato all’Italian Energy Summit del Sole 24 Ore. Accanto al progressivo aumento percentuale delle fonti di energie rinnovabili, “si prevede l’introduzione di nuove tecnologie, di combustibili verdi, alternativi che accompagneranno il graduale phase out del carbone. S’inquadra in questa attenzione a tutte le tecnologie green e alle esigenze di sicurezza e indipendenza energetica nazionale l’avvio della piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile“, ha spiegato il ministro secondo cui “l’iniziativa ha l’obiettivo di definire in tempi certi un percorso finalizzato alla possibile ripresa dell’utilizzo dell’energia nucleare nel nostro paese attraverso nuove tecnologie sostenibili in corso di studio“.

Oggi il nucleare nel mondo “conta il due per cento, non è la soluzione a breve ma lo sarà forse tra ma a 10-15-20 anni. Vale la pena studiare tutti gli scenari possibili ma la priorità è nostra vulnerabilità“, ha indirettamente risposto al ministro Luca Dal Fabbro, presidente di Iren. “La dipendenza energetica dell’Italia verso alcune direttrici è ancora molto grande e molto grave – ha spiegato – la guerra non è finita, potrebbe evolvere in senso negativo e dobbiamo pensare al peggio se vogliamo essere un paese leader. Dobbiamo quindi investire nella diversificazione, nella rigassificazione aumentando numero di fonti, e in questo il rinnovabile e l’idroelettrico devono avere un nuovo impulso. E’ il momento di pensare a diversificazione più di prima perché la crisi potrebbe essere alle porte“.

Proprio per evitare un’altra crisi del gas come nel 2022, magari sul petrolio visti i prezzi di corsa verso i 100 dollari al barile, è il mondo intero, che ha impresso una decisa accelerazione sulle centrali nucleare. Una spinta che ha messo le ali al prezzo dell’uranio, salito a 70 dollari per libbra, il livello più alto prima del disastro di Fukushima a 73 dollari nel 2011, poiché la forte domanda coincide con scorte basse e minacce all’offerta. Si prevede che la Cina costruirà altri 32 reattori entro la fine del decennio e il Giappone ha dato il via libera a piani per riavviare più impianti e costruire nuove strutture, in linea con la revisione al rialzo della World Nuclear Association per la produzione globale, la quale ipotizza una domanda di 130.000 tonnellate nel 2040 di uranio, mentre la stessa è fissata a 65.650 tonnellate per il 2023. In generale ci sono circa 60 reattori in costruzione in tutto il mondo e altri 300 sono in fase di progettazione.

Questi sviluppi si scontrano però appunto con le rinnovate preoccupazioni circa l’approvvigionamento da parte della canadese Cameco, la seconda più grande miniera di uranio al mondo, che ha ridotto le sue previsioni di produzione per l’anno in corso. Nel 2022, l’azienda ha firmato un numero record di contratti di fornitura e servizi di conversione a lungo termine, che ne hanno accelerato la crescita. In particolare si è assicurata un contratto di 12 anni con Energoatom, la società statale ucraina per l’energia nucleare, e un accordo di 10 anni con la Bulgaria nel 2023. Tutti business che hanno praticamente raddoppiato il valore del titolo in Borsa.

Anche la Russia è leader nell’export di uranio. Infatti Usa e Ue hanno importato grandi quantità di combustibile nucleare e composti da Mosca per un valore che si aggira attorno agli 1,7 miliardi. Secondo la Us Energy Information Administration, lo scorso anno la Russia ha fornito all’industria nucleare statunitense circa il 12% del suo uranio. L’Europa ha riferito di ricevere circa il 17% del suo uranio nel 2022 da Mosca. La dipendenza dai prodotti nucleari russi lascia così gli Stati Uniti e l’Europa esposta a carenze energetiche se Vladimir Putin dovesse tagliare le forniture. E si prevede che la dipendenza dall’energia nucleare aumenterà man mano che le nazioni adotteranno alternative ai combustibili fossili.

Caos Niger non preoccupa l’Ue per l’uranio. La Cina sta a guardare

Democrazia, diritti, e poi l’uranio. Le instabilità in Niger possono mettere in difficoltà il mercato dell’energia nucleare dell’Unione europea, che proprio dal Niger acquista uranio grezzo per i propri reattori. Per ora si rassicura, e si escludono impatti negativi dal colpo di Stato nel Paese dell’Africa occidentale. “Non c’è alcun rischio di approvvigionamento”, sostiene il portavoce della Commissione europea, Adalbert Jahnz. “Le imprese hanno sufficienti scorte di uranio naturale per mitigare qualsiasi rischio di approvvigionamento a breve termine e per il medio e lungo termine ci sono abbastanza depositi sul mercato mondiale per coprire il fabbisogno dell’Ue”.

C’è però una questione geo-politica in ballo. Perché fin qui il Niger è stato il forniture numero uno dell’uranio nella sua forma grezza. La relazione della Commissione europea sul mercato di uranio, con dati aggiornati al 2021, afferma che “analogamente agli anni precedenti, Niger, Kazakistan e Russia sono stati i primi tre paesi a fornire uranio naturale all’U e nel 2021, fornendo il 66,94% del totale”. Il Niger da solo, è arrivato a rappresentare un quarto dell’import complessivo a dodici stelle (24,26%). Non un fornitore margine, dunque. Alla luce delle relazioni sempre più delicate e complesse con la Russia quale risultato dell’aggressione all’Ucraina, l’Ue ha bisogno di ridurre le dipendenze con la federazione russa e un deterioramento ulteriore della situazione in Niger potrebbe indurre a rivedere la domanda di uranio.

La Commissione Ue per ora intendere rimanere presente nel Paese. Evacuazione del personale e chiusura delle sedi di rappresentanza non sono prese in considerazione, perché andare via vorrebbe dire lasciare mano libera ad altri attori, a cominciare da quello cinese. Dopo la Francia, la Repubblica popolare è il secondo più grande investitore straniero. Pechino è presente in Niger dal 1974, e ha dato nuovi impulsi alle relazioni bilaterali dagli inizi degli anni Duemila. Ha iniziato ad investire in infrastrutture (strade, ospedali, telecomunicazioni), scambi culturali (borse di studio per nigerini in Cina), a garantire sostegni umanitari contro disastri naturali. In cambio ha ottenuto diritto di esplorazione petrolifera e di uranio. Il progetto dell’oleodotto di circa 675 chilometri per la connessione Niger-Benin è possibile grazie a PetroChina, il colosso petrolifero cinese. Mentre Cnnc, la società di Stato attiva nel settore del nucleare, ha già avuto modo di lavorare col governo di Niamey per lo sviluppo del giacimento di Azelik.

A livello globale il Niger rifornisce appena il 5% circa dell’uranio mondiale, ma è un fornitore leader per l’Ue. Sottrarre quote di mercato agli europei sarebbe per la Cina, già allo stato attuale fornitore principale di tutto ciò che serve all’Ue in termini di materie prime per la transizione sostenibile, un ulteriore colpo alle ambizioni di indipendenza e potenza europea. L’instabilità politica rischia però di complicare anche i piani cinesi, e non a caso anche la Cina segue con attenzione gli sviluppi nel Paese africano invitando a una soluzione. Per quanto a Bruxelles si cerchi di minimizzare e si ostenti sicurezza, in gioco c’è molto. Perché l’Ue ha deciso che il nucleare è ‘green’, non inserendolo la tecnologia nella tassonomia, l’insieme dei criteri che servono a determinare la sostenibilità di attività e prodotti. L’Ue ha bisogno dell’uranio per il suo nucleare, e il suo principale fornitore adesso offre meno garanzie.