foca monaca

Torna la foca monaca al largo dell’isola di Capraia, non si vedeva da decenni

Toh, chi si rivede: la foca monaca. Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ha certificato il ritorno del mammifero, a rischio estinzione, nelle acque del Tirreno intorno all’isola di Capraia (Livorno). Non lo si vedeva da decenni in questo specchio di mare.

Da oltre un anno, da quando è stato avvistato l’esemplare – hanno spiegato gli scienziati del’Ispra -, è in atto il monitoraggio della grotta dell’isola di Capraia (arcipelago toscano) scelto come dimora da una foca monaca. L’attività di verifica e monitoraggio ha coinvolto il Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, l’Ispra, il Comune di Capraia e la Capitaneria di Porto. La foca monaca mancava dalle acque del Tirreno centrale dagli anni Sessanta e il suo ritorno ha un enorme valore per quanto riguarda la tutela della biodiversità marina. Sino ad oggi della foca monaca esistevano immagini solo di pochi secondi effettuate con riprese occasionali a filo d’acqua. Per la prima volta si riesce a vedere l’animale all’interno della sua ‘tana’ in fase di riposo nonché nei movimenti di entrata e uscita dall’acqua. Secondo una prima stima dovrebbe trattarsi di un esemplare adulto“.

La foca monaca è una specie classificata dalla Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) come specie minacciata di estinzione, ha nuclei riproduttivi accertati nel Mar Mediterraneo orientale principalmente in Grecia e Turchia e recentemente anche lungo le coste dell’isola di Cipro. La specie è rigorosamente protetta ai sensi della Direttiva europea Habitat ed è inclusa anche nelle principali convenzioni internazionali per la tutela della fauna e dell’ambiente (firmate e ratificate in Italia e nella maggior parte dei paesi del bacino Mediterraneo) e rappresenta il più raro mammifero marino in Europa. La foca è considerata una delle specie più minacciate del pianeta, con un contingente complessivo attuale stimato in circa settecento esemplari ripartiti tra il bacino Mediterraneo e le vicine coste dell’oceano Atlantico.

L’ultimo avvistamento di foca monaca validato da Ispra nell’Arcipelago Toscano, prima di quello di Capraia del 2020, era stato nel 2009 a Giglio Campese. Il 24 maggio 2020 un pescatore locale ha segnalato l’avvistamento di un esemplare osservato e filmato durante la sua attività di pesca. Il 9 giugno 2020 un turista, racconta di aver avvistato la foca facendo un video con il cellulare, in cui si osserva il profilo parziale di emersione dell’esemplare. A questi sono seguite altre segnalazioni di avvistamenti, privi di documentazione fotografica ma riportati dettagliatamente, avvenuti nel corso dell’estate 2020 intorno all’isola di Capraia ed un video di un esemplare osservato dai Carabinieri Forestali nell’autunno 2020 nelle acque costiere dell’isola di Pianosa.

Da subito sono stati attivati sopralluoghi e monitoraggi nell’ambito dei quali Ispra ha osservato un esemplare e raccolto evidenza di materiale biologico all’interno di una grotta dell’isola di Capraia. A partire dal 24 giugno 2020 un’ordinanza del Parco nazionale ha vietato l’accesso, in ogni forma e con ogni mezzo, nella zona, già classificata come zona B, compresa tra Punta delle Cote a nord e la Baia a sud di Punta delle Cote, nella costa occidentale dell’Isola di Capraia. Subito dopo sono state posizionate apposite telecamere di sorveglianza ed è stata allertata la Capitaneria di Porto (Direzione Marittima di Livorno) per le necessarie operazioni di presidio.

Queste immagini sono una conferma straordinaria – ha detto Giampiero Sammuri, presidente di Federparchie ripagano dell’impegno profuso negli ultimi anni. Ritengo che questo sia il risultato anche della sensibilità dei Capraiesi (con in testa l’Amministrazione comunale retta dalla sindaca Marida Bessi), della tempestività dei provvedimenti di salvaguardia adottati e dell’attivazione della vigilanza con le telecamere e con il controllo garantito dalla Capitaneria di Porto. Le immagini realizzate sono emozionanti e ringrazio le ricercatrici di Ispra per la professionalità e la passione che stanno mettendo in questo progetto che risulta essere uno dei più importanti tra i tanti condotti dal Parco Nazionale nel campo della conservazione della biodiversità. Sono certo che – anche grazie al prezioso supporto da parte di Blue Marine Foundation – avremo modo di implementare le conoscenze relative agli habitat di interesse per questa vulnerabile specie di mammifero marino e realizzare una sempre più efficace opera di sensibilizzazione sulla necessaria tutela del nostro mare“.

Le immagini ottenute in questi giorni – commentano le ricercatrici Ispra Giulia Mo e Sabrina Agnesiconfermano la valenza dell’areale del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano quale area di frequentazione della specie nonché dell’importanza delle misure spaziali di protezione e gestione offerte dal sistema dei parchi e delle aree marine protette italiane. L’allestimento di una estesa rete di monitoraggio in grado di fornire documentazione video-fotografica, come quella raccolta in questi giorni, permette di descrivere la presenza ed il grado di frequentazione di esemplari di foca monaca e di valutare l’andamento dello stato di conservazione della specie nei mari italiani nello spazio e nel tempo. Inoltre, questo sistema di raccolta dati viene condotta con protocolli e metodologie non invasive, sia in fase di installazione che di operatività, che non recano disturbo agli esemplari durante la loro permanenza in grotta. Questi primi risultati non sarebbero stati possibili senza l’efficace intervento dell’Ente Parco e delle istituzioni territoriali coinvolte per il suo tramite, che oggi partecipano a questa conferenza stampa e che ringraziamo“.

Orsa morta in Trentino, l’esperto Ispra: “Convivenza uomo-animale è possibile”

Fa discutere la morte dell’orsa F43, deceduta la scorsa notte in val di Ledro in Trentino durante la fase di cattura svolta dalla Provincia autonoma di Trento. L’animale, nato nel 2018 e già controllato da un radio collare, ha perso la vita durante la sostituzione dell’attrezzatura che serviva per monitorare i suoi spostamenti. Dai primi accertamenti dell’equipe veterinaria è emerso che l’animale è deceduto a seguito della posizione assunta nella trappola a forma di tubo nel momento in cui l’anestetico ha fatto effetto.

L’Organizzazione internazionale protezione animali (Oipa) ha già annunciato un’immediata richiesta di accesso agli atti per conoscere nel dettaglio quanto effettuato e accaduto. “Ci chiediamo ancora una volta – dichiara la delegata dell’Oipa di Trento, Ornella Dorigatti -, come sia possibile gestire così la presenza degli orsi, come sia possibile continuare a far morire animali selvatici in operazioni che richiedono competenza e accuratezza. La Provincia autonoma di Trento è ancora ben lontana dall’attuare una seria azione di prevenzione e una seria progettazione di azioni volte a una serena convivenza con la fauna selvatica. La procedura di cattura degli orsi mette a repentaglio la loro vita e ci chiediamo perché ci si ostini nel perseguitare questi meravigliosi animali“. “La necessità di monitorare in modo intensivo soggetti problematici e di cercare di modificarne il comportamentohanno invece riferito dalla Provincia di Trento – può comportare incidenti come quello occorso, dati i rischi intrinseci in operazioni delicate, condotte spesso in contesti e condizioni ambientali non facili“.

Ma la convivenza, nello stesso habitat, di uomini e animali, è possibile? Ne è convinto Piero Genovesi, responsabile del servizio coordinamento fauna dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) raggiunto da GEA. “Quello verificatosi in Trentino – spiega – è un tipo di criticità legato all’abituazione di questi animali. Cioè gli orsi stanno imparando sempre di più a stare vicino agli uomini, perché qui trovano fonti di cibo accessibili. Questo cambiamento delle abitudini degli animali rappresenta delle criticità per l’uomo, perché ad esempio gli orsi entrano sempre di più nei centri abitati, ma anche per gli animali stessi. Occorre quindi prevenire in loro comportamenti di confidenza e agire per modificarli“.

Per Genovesi è dunque importante “evitare che gli animali abbiano accesso a fonti di cibo umano realizzando ad esempio cassonetti a prova di orso o regolamentando il compost. Inoltre bisogna evitare assolutamente di dare loro da mangiare e intervenire per mettere in sicurezza gli apiari con recinzioni elettriche, dal momento che gli orsi sono ghiotti di miele. Nonostante gli sforzi fatti finora, gli animali nel tempo hanno manifestato sempre più vicinanza all’uomo, quindi bisogna proseguire con l’impegno a modificare i loro comportamenti“. È per questo infatti che nei territori in cui vivono, gli orsi più ‘affezionati’ all’uomo vengono catturati e dotati di radio collare. In questo modo si registrano i loro movimenti e si può intervenire tempestivamente per prendere provvedimenti.

Nel caso di F43, prosegue Genovesi, si tratta di “una femmina nata nel 2018, parente di altri orsi che avevano un comportamento di confidenza con l’uomo. Per questo nel 2021 le è stato applicato un radio collare. La corretta gestione di questi animali infatti richiede un radio marcaggio e un’anestesia. Come ogni anestesia, si pensi ad esempio all’uomo, questa rappresenta sempre un margine di rischio in animali selvatici. I protocolli sono sempre più consolidati, ma la morte in anestesia è un evento che si può verificare. È comunque anomalo e per questo andrà indagato“.

Infine un piccolo vademecum nel caso in cui ci si dovesse imbattere in un orso durante una passeggiata in montagna. “Mi è capitato un paio di settimane fa in Abruzzo – conclude Genovesi -, è un evento fortunato e bellissimo; l’importante è non farsi prendere dal panico e non cercare di avvicinare l’animale. Bisogna tenersi a debita distanza e se l’orso è vicino, allontanarsi con calma non dandogli mai le spalle, parlando a voce alta per fargli avvertire la nostra presenza. Ma in generale sono animali pacifici e inoffensivi che possono benissimo condividere gli stessi spazi vissuti dall’uomo“.

legine

In Patagonia la pesca del pregiato austromerluzzo avrà nuove regole

Gli armatori storici autorizzati a pescare l’austromerluzzo, un pesce molto ambito nell’Oceano Meridionale, dovranno accogliere tra i loro ranghi un nuovo armatore, che aveva intrapreso una lunga procedura davanti al tribunale amministrativo per ottenere questo privilegio. “In seguito alla decisione del tribunale amministrativo di La Réunion di annullare parzialmente l’ordinanza che approvava il piano di gestione 2019-2025 per la pesca dell’austromerluzzo in Patagonia, le Terre australi e antartiche francesi hanno lanciato un nuovo bando per il periodo 2022-2025. Nove navi si sono candidate e sono state selezionate“, ha dichiarato la prefettura.

La pesca dell’austromerluzzo della Patagonia a Crozet e Kerguelen è gestita dal prefetto, l’amministratore senior della Taaf, con sede a Réunion. Questo pesce gourmet, dalla carne delicata e dal retrogusto di nocciola, viene pescato a 3.000 chilometri a sud della Riunion, nella zona economica delle isole Kerguelen e Crozet. Nel luglio 2019 il prefetto ha adottato un piano di gestione delle risorse 2019-2025 ed è stato organizzato un primo bando per selezionare le coppie armatore/nave autorizzate ad accedere alla pesca. Delle nove candidature, ne sono state selezionate sette. Un candidato non selezionato, l’armatore RPA (Réunion pêche australe), ha quindi presentato un ricorso per annullare l’ordinanza di approvazione del piano di gestione. Il tribunale amministrativo di Saint-Denis de la Réunion ha annullato parzialmente questa ordinanza con una decisione del 14 marzo 2022. Il prefetto ha quindi adottato un’ordinanza che modifica il piano di gestione e ha lanciato un nuovo bando per l’accesso alla pesca dell’austromerluzzo in Patagonia (2022-2025), pubblicato nel giugno 2022.

squalo bianco

Blogger cinese mangia uno squalo e posta video, la polizia apre indagine

La polizia cinese ha avviato un’indagine dopo che una blogger ha postato un video controverso in cui mangia un grande squalo bianco, che appartiene a una specie protetta. Il filmato della giovane donna, nota come Tizi, la mostra mentre griglia, bolle e poi mangia la carne del grande predatore. La polizia della città di Nanchong, nella provincia sudoccidentale del Sichuan, ha confermato che si trattava effettivamente di un grande squalo bianco, secondo quanto riportato dal media cinese Fengmian. “La carne è molto tenera“, ha dichiarato Tizi in un video pubblicato su Internet a metà luglio, mentre gustava grandi pezzi di carne alla griglia.

Nel filmato, che è stato ampiamente ripubblicato dai media cinesi e dagli utenti di Internet, si vede la giovane donna che scarta il pesce lungo due metri e si sdraia accanto ad esso per sottolinearne le grandi dimensioni. Lo squalo viene poi tagliato a metà, marinato e cotto alla brace, mentre la testa viene cucinata in un brodo speziato: metodi classici di preparazione del pesce in Cina. La polizia di “pubblica sicurezza” sta conducendo un'”indagine” sul caso, come ha rivelato l’Ufficio municipale dell’agricoltura di Nanchong.

Gli squali bianchi sono classificati come “vulnerabili” dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, appena al di sotto di “in pericolo“. Le popolazioni di squali a livello mondiale sono state decimate negli ultimi decenni, soprattutto a causa della pesca. In Cina, gli squali sono elencati come specie protetta. Il loro possesso è illegale e può essere punito con una pena fino a 10 anni di carcere. “È semplicemente incredibile che una star del web possa mangiare un animale protetto davanti a milioni di persone in pieno giorno“, ha scritto un utente sul social network Weibo, facendo eco alla maggior parte dei commenti. “Queste persone non istruite sono disposte a fare il peggio solo per attirare l’attenzione“, ha lamentato un altro.

Non è stato immediatamente chiarito se Tizi sia personalmente indagata o se stia rischiando una punizione.

iguana

Le iguane terrestri tornano alle Galapagos dopo più di un secolo

A volte ritornano… E così un’iguana terrestre scomparsa più di un secolo fa da una delle isole Galapagos si sta riproducendo naturalmente dopo la sua reintroduzione: lo ha annunciato il ministero dell’Ambiente ecuadoriano. La scomparsa all’inizio del XX secolo sull’isola di Santiago del rettile della specie Conolophus subcristatus, una delle tre iguane terrestri che vivono nell’arcipelago, era stata notata da una spedizione dell’Accademia delle Scienze della California nel 1903-06. Nel 2019, l’autorità del Parco Nazionale delle Galapagos (Pnl) ha reintrodotto più di 3.000 iguane da un’isola vicina per ripristinare l’ecosistema naturale di Santiago, che si trova al centro dell’arcipelago del Pacifico.

Questa remota catena di isole è stata resa famosa dalle osservazioni del geologo e naturalista britannico Charles Darwin, che nel 1835 ha registrato un gran numero di iguane di tutte le età a Santiago. Secondo il direttore dell’Ngp, Danny Rueda, “187 anni dopo, siamo tornati a vedere una popolazione sana di iguane terrestri, con adulti, giovani e neonati. Questo è un grande risultato per la conservazione e rafforza le nostre speranze di reintroduzione”.

Situate a quasi 1.000 chilometri al largo delle coste dell’Ecuador, le isole Galapagos ospitano una flora e una fauna uniche e sono Patrimonio Naturale dell’Umanità.

(Photo credits: CARL DE SOUZA / AFP)

pesce

I (pericolosi) pesci alieni del Mediterraneo

‘Attenti a quei 4!’ è il titolo di una campagna, lanciata dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) e Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irbim), per imparare a riconoscere e monitorare la presenza di pesce palla maculato, pesce scorpione, pesce coniglio scuro e pesce coniglio striato in Mediterraneo. Si tratta di quattro pesci arrivati in Mediterraneo attraverso il canale di Suez, cosiddette ‘specie aliene’, potenzialmente molto pericolose se trattate senza cautele.

La presenza di specie aliene nel Mediterraneo (pesci, molluschi, alghe ecc…) sono da anni oggetto di studio dei ricercatori. L’oceano globale, quello che noi più familiarmente chiamiamo mare, è un unico grande insieme interamente collegato, che ricopre oltre il 70 per cento della superficie terrestre. Ogni specie può quindi potenzialmente viaggiare da un capo all’altro del globo. La navigazione (con il prelievo e rilascio di acqua che serve come zavorra per bilanciare le navi) e il cambiamento climatico, come in questo caso, favoriscono queste diffusioni in ambienti diversi da quello storicamente caratteristico.

Questi spostamenti rapidi possono avere conseguenze importanti rispetto alle specie autoctone, creando vari problemi al bacino interessato dall’arrivo di specie aliene: particolarmente grave la minaccia ecologica, con importante perdita di biodiversità, perché ad esempio specie tropicali possono adattarsi rapidamente alla temperatura dell’acqua in crescita in questi anni e quindi soppiantare specie locali già in difficoltà.

pesci

In questo caso, la campagna mira ad evitare un altro tipo di conseguenza: i 4 pesci oggetto della campagna sono potenzialmente pericolosi per l’uomo e richiedono alcune importanti cautele. Vediamo quali. Del pesce palla qualcuno avrà sentito parlare nei film, nei documentari o in qualche libro. Sappiamo che nella cucina giapponese solo alcuni cuochi, con una speciale abilitazione, sono autorizzati a trattarlo e cucinarlo per il pericolo che comporta. Nella fattispecie, il pesce palla maculato è una delle specie più invasive dell’intero Mediterraneo ed è stato segnalato per la prima volta in Italia nel 2013: ha la pelle molto liscia, senza squame, quattro grandi denti, macchie scure sul dorso e sui lati. Possiede una potentissima neurotossina che lo rende altamente tossico al consumo, anche dopo cottura, e potenzialmente mortale. Non va mangiato assolutamente. Inoltre, può infliggere morsi potenti.

Il bellissimo pesce scorpione, tra le specie più invasive al mondo, tanto da avere occupato gran parte delle acque costiere dell’Atlantico occidentale con impatti ecologici devastanti, è stato segnalato nel nostro Paese per la prima volta nel 2016. Questo pesce è commestibile, ma richiede una enorme cautela: il suo corpo è circondato da 18 grandi spine che costituiscono una protezione esterna naturale straordinaria e possono procurare punture estremamente dolorose anche due giorni dopo la morte dell’animale.

Due specie erbivore, da cui il nome pesce coniglio, richiedono altrettanta attenzione per le spine: pesce coniglio scuro, segnalato in Italia fin dal 2003, e pesce coniglio striato, la cui presenza nelle acque italiane è stata documentata per la prima volta nel 2015, sono commestibili ma richiedono grande attenzione per evitare dolorosissime conseguenze.

tigri

Il Nepal ha raggiunto obiettivo contro estinzione tigri: triplicate in 12 anni

Il Nepal ha quasi triplicato la sua popolazione di tigri selvatiche in 12 anni, grazie agli sforzi del Paese himalayano per salvare i felini dall’estinzione. La deforestazione, l’invasione degli habitat da parte dell’uomo e il bracconaggio minacciano di cancellare le tigri in tutta l’Asia, ma nel 2010 il Nepal e altri 12 Paesi hanno sottoscritto un impegno per raddoppiarne la popolazione entro il 2022.

La repubblica himalayana è l’unico Paese ad aver raggiunto e superato questo obiettivo. L’ultima indagine condotta quest’anno ha contato 355 esemplari, rispetto ai circa 121 del 2009. “Siamo riusciti a raggiungere un obiettivo ambizioso, tutti coloro che sono coinvolti nella conservazione delle tigri devono essere ringraziati“, gioisce il primo ministro Sher Bahadur Deuba alla presentazione dei dati a Kathmandu.

Gli attivisti hanno contato gli esemplari utilizzando migliaia di telecamere sensibili al movimento installate in una vasta area delle pianure meridionali del Nepal, dove si aggirano i maestosi predatori e scrupolosamente esaminato moltissime immagini.

All’inizio del XX secolo c’erano più di 100mila tigri nel mondo, ma nel 2010 ne rimanevano solo 3.200, un record negativo storico. Il piano di conservazione del 2010, firmato tra gli altri dal Nepal, è sostenuto anche da alcune celebrità, tra cui l’attore statunitense Leonardo DiCaprio.

L’iniziativa ha iniziato a dare i suoi frutti rapidamente e nel 2016 il World Wildlife Fund e il Global Tiger Forum hanno annunciato che la popolazione di tigri selvatiche è aumentata per la prima volta in oltre un secolo. Gli sforzi di conservazione del Nepal, acclamati a livello internazionale, hanno però avuto un impatto negativo su alcune comunità che vivono in queste pianure. Secondo i dati del governo, nell’ultimo anno sono morte circa 16 persone in attacchi di tigri. Ghana Gurung, rappresentante nazionale del Wwf, considera i risultati ottenuti dal Nepal un punto di riferimento per la conservazione delle tigri nel mondo, ma non nasconde le preoccupazioni: “La sfida ora – confessa all’Afp – è quella di gestire il rapporto tigre-uomo, dobbiamo adottare un approccio integrato per ridurre al minimo i problemi“.

infografica

(Photo credits: Prakash MATHEMA / AFP)

squalo bianco

Sempre più squali a largo degli Usa: colpa del surriscaldamento

Una storia di successo per la protezione degli animali, con però alcune ripercussioni negative: negli ultimi anni gli squali bianchi sono aumentati di numero al largo della costa orientale degli Stati Uniti, aumentando però anche la probabilità di sfortunati incontri con i nuotatori. Ogni anno, durante i mesi estivi, questi predatori risalgono la costa atlantica degli Stati Uniti verso il New England. Il picco della stagione si verifica tra agosto e ottobre. A Cape Cod, nel Massachusetts, il personaggio principale del film ‘Lo squalo’ è diventato un’attrazione turistica, adornando cappellini e magliette. Ma quest’anno le spiagge sono già state temporaneamente chiuse a causa della presenza dell’animale.

Quasi 300 squali bianchi sono stati marcati nel corso degli anni e una dozzina si trovano già nella zona, secondo il biologo degli squali del Massachusetts Gregory Skomal. Secondo le sue stime, ogni anno più di 100 squali bianchi passano per queste acque. Dagli anni Novanta, nell’Atlantico sono in vigore norme per proteggere queste specie dalla pesca. “C’è un aumento generale della popolazione, che pensiamo sia una ripresa da livelli molto elevati di sovrasfruttamento“, ha dichiarato all’AFP, anche se è difficile fornire una stima precisa del loro numero.

Inoltre, gli squali bianchi tendono a nuotare sempre più vicino alla costa per cacciare una delle loro specie preferite: le foche. Anche loro sono state protette e il loro numero sta crescendo. Il risultato è un maggior numero di squali che si avvicinano alle zone di balneazione. “Gli attacchi di squali sono molto rari, ma negli ultimi dieci anni sono aumentati“, afferma Gregory Skomal.

ATTACCHI

Nello Stato di New York, il governatore ha appena annunciato ulteriori pattuglie di sorveglianza, anche con droni o elicotteri. Sulle spiagge turistiche di Long Island sono già stati segnalati dalla stampa diversi morsi di squalo. Gli squali bianchi non sono necessariamente responsabili, in quanto nella zona sono presenti diverse altre specie, tra cui squali toro e tigre. Si tratta di un numero insolito di attacchi dopo tre anni di assenza. Secondo Gavin Naylor, direttore di un programma di ricerca sugli squali presso l’Università della Florida, ciò è legato alla maggiore presenza quest’anno di alcuni pesci che attirano i predatori, forse a causa delle correnti calde. Ma mentre i numeri locali possono variare notevolmente da un anno all’altro, a livello globale si registrano ancora circa 75 attacchi di squali all’anno, dopo essere scesi a circa 60 durante i due anni di pandemia. Il numero di morti è di circa cinque. Negli ultimi 20 anni, negli Stati Uniti ci sono stati solo due decessi a nord del Delaware, a Cape Cod nel 2018 e nel Maine nel 2020. Ma in futuro è ragionevole pensare che il numero di vittime aumenterà. “Ci sono più squali bianchi, quindi la probabilità aumenterà. Ci saranno più morsi“, ha riassunto Gavin Naylor. Per il momento, le variazioni generali osservate non sono statisticamente significative. I surfisti, che si avventurano più al largo, hanno rappresentato la metà delle vittime degli attacchi nel 2021. Più a sud, la Florida, con le sue numerose spiagge turistiche e il clima tropicale, rappresenta ancora il 60% degli attacchi statunitensi e quasi il 40% di quelli globali.

squalo bianco

LIMITARE I RISCHI

Gli squali sono ben lontani dalle bestie assetate di sangue che a volte vengono ritratte nei film. Gli studi hanno dimostrato che possono scambiare i surfisti e i nuotatori per le loro prede abituali, in particolare gli squali bianchi, che hanno una vista scarsa. “Con così tante persone in acqua in tutto il mondo, se gli squali preferissero nutrirsi di prede umane, avremmo decine di migliaia di attacchi ogni anno“, afferma Gregory Skomal. Con il cambiamento climatico, l’esperto prevede che l’aumento delle temperature oceaniche allungherà gradualmente la stagione in cui gli squali sono presenti negli Stati Uniti settentrionali. Cosa si può fare per limitare i rischi? Esiste un’app che consente a chiunque di segnalare l’avvistamento di uno squalo. In acqua, “guardatevi intorno“, consiglia Nick Whitney, scienziato del New England Aquarium. Se un gran numero di uccelli insegue i pesci, “probabilmente significa che anche gli squali se ne nutrono. Se si viene morsi, il pericolo reale è quello di morire dissanguati, quindi è importante raggiungere la riva e controllare l’emorragia fino all’arrivo dei soccorsi.

Orso polare

Il futuro degli orsi polari dell’Artico dipende da noi

Il cambiamento climatico sta mettendo in serio pericolo gli orsi polari dell’Artico. Negli ultimi 50 anni, infatti, il ghiaccio marino in Artico, ovvero quella parte di mare ghiacciato su cui l’animale abitualmente vive e caccia, “nel periodo estivo è diminuito del 40%. Inoltre è aumentata la frequenza di episodi estremi di aumenti di temperatura come avvenuto questo maggio, in cui si è passati da -20°C a + 13°C in un mese“. A lanciare l’allarme è Marco Casula, tecnico dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) di Venezia e station leader della base artica Dirigibile Italia del Cnr, attualmente a Ny-Alesund, centro internazionale di ricerca nelle Isole Svalbard a circa 1000 km dal Polo Nord.

In quest’area al momento si contano circa 3000 orsi e di questi almeno 800 vivono sulle isole. “L’orso polare – dice Casula – è un animale attivo tutto l’anno, molto intelligente, silenzioso ed astuto, estremamente adattato all’ambiente in cui vive: ad esempio la sua pelliccia è formata da singoli peli trasparenti e vuoti, che nel loro insieme risultano bianchi perché al loro interno disperdono e riflettono la luce visibile“.

Nonostante riesca a cacciare e a nutrirsi di renne, uova e tutto ciò che riesce a trovare, l’orso fa sempre più fatica a reperire le foche, ovvero l’alimento base della sua dieta caratterizzata da una carne grassa, in grado di fornirgli le giuste energie per sopravvivere in salute nelle varie stagioni. “Il timore – spiega Casula – è che questa difficoltà possa mettere a rischio questo animale maestoso, all’apice della rete alimentare, un tempo il padrone indiscusso dell’Artico“.

La causa di questa fragilità, che rende l’orso polare così vulnerabile, è stata nei decenni passati una caccia sconsiderata da parte dell’uomo ma oggi è soprattutto il cambiamento climatico a metterlo in serio pericolo.

Proprio a Ny-Alesund, grazie a diversi strumenti e sensori montati su una torre alta 35 metri, i ricercatori del Cnr hanno registrato un aumento della temperatura media annua in Artico di circa 3 gradi centigradi in soli 10 anni. L’Artico, spiega Casula,è vittima di quello che stiamo facendo a livello globale, e quello che succede in Artico a sua volta ha un impatto anche sul clima di tutto il pianeta“. Già, perché “le correnti atmosferiche e oceaniche connettono questa regione polare con altre zone della terra, con un potenziale effetto sulle stagioni come le abbiamo conosciute finora“.

Per tutti questi motivi, spiega il ricercatore, “dobbiamo impegnarci tutti per ridurre le nostre emissioni di gas climalteranti. Con le nostre scelte possiamo fare molto, perché la transizione verso un sistema più sostenibile sia il più veloce possibile. Ricordarcelo è ancora più importante in questi giorni in cui i giovani dei Fridays for future si stanno riunendo a Torino, è soprattutto da loro, dalle nuove generazioni, che attendiamo l’impegno e l’energia per guardare con fiducia al nostro futuro“.

E proprio di clima di parlerà a Torino il 26 luglio nel corso della conferenza ‘8 anni per fermare la crisi climatica’, che vede coinvolti, tra gli altri, il direttore dell’Istituto di geoscienze e georisorse (Cnr-Igg) Antonello Provenzale ed Elisa Palazzi, ricercatrice associata dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima (Cnr-Isac). L’evento, in programma dalle 17.30 presso l’aula magna del Campus Einaudi, è moderato dal fondatore di Torino Respira Roberto Mezzalama: partecipano attivisti, esperti, e ha lo scopo di aumentare la sensibilizzazione verso l’intera cittadinanza sul fronte del contrasto all’emergenza climatica.

(Photo credits: Ekaterina ANISIMOVA / AFP)

rinoceronte

Un santuario in Sudafrica per i baby rinoceronti orfani

Il trasloco è sempre un po’ una seccatura. Anche per i rinoceronti. Un team di veterinari specializzati ha impiegato sei settimane per trasferire più di 30 giovani rinoceronti orfani in un nuovo santuario. Sperano che lì, in una località sconosciuta sperduta nella lussureggiante vegetazione della provincia settentrionale del Limpopo, in Sudafrica, gli animali siano al sicuro dai bracconieri che hanno ucciso le loro madri. “Non possiamo trasferirli tutti in una volta e dire ‘forza, questa è la vostra casa’. Bisogna essere molto delicati, sono molto sensibili“, spiega Yolande van der Merwe, direttrice dell’Orfanotrofio dei Rinoceronti.

La sua missione con questi bambini dal pelo folto e dalla bocca rettangolare è triplice: “Salvare, riqualificare e liberare“. Alla nascita, questi rinoceronti bianchi pesano circa 40 chili. “Sono molto piccoli, non più alti del mio ginocchio“, dice Yolande. In seguito, mangiano molto e ingrassano più di un chilo al giorno. A un anno di età, questi bellissimi bambini si avvicinano alla mezza tonnellata.

A luglio l’organizzazione si è trasferita in uno spazio più grande che le è stato generosamente donato dopo la scadenza del precedente contratto di locazione. Il piccolo Benji, un rinoceronte di pochi mesi, è stato l’ultimo a muoversi. Orfano da poco, il team temeva che potesse “dare di matto” durante il trasferimento, per il quale è stato anestetizzato e caricato sul retro di un 4×4. “La maggior parte delle volte le loro madri sono state cacciate di frodo“, dice Pierre Bester, un veterinario di 55 anni che lavora con l’orfanotrofio da quando è stato fondato, una decina di anni fa.

Il Sudafrica ospita quasi l’80% dei rinoceronti del mondo. Ma è anche un focolaio di bracconaggio. Negli ultimi dieci anni, migliaia di rinoceronti sono stati uccisi per i loro corni, che sono molto ricercati in Asia, in particolare in Vietnam, per ogni sorta di beneficio non dimostrato. Il corno è composto principalmente da cheratina, come le unghie umane. Il corno di rinoceronte è così ricercato che può essere venduto a più di 90.000 euro al chilo, attraverso le reti mafiose che controllano questo commercio illegale.

Per i primi cinque mesi, i volontari dormono con i piccoli rinoceronti ogni notte, “diventiamo le loro mamme“, spiega Yolande Van Der Merwe. “Si attaccano a noi durante la notte, per avere contatto e calore” in una sorta di stalla aperta. “Se vogliamo mangiare un boccone o andare in bagno, dobbiamo essere sostituiti. Altrimenti il bambino si stressa, urla e piange. Un suono acuto che evoca il delfino“.

(Photo credits: GUILLEM SARTORIO / AFP)