Trump show all’Onu: “Cambiamento climatico più grande bufala mai raccontata”

Il cambiamento climatico? “Una truffa, la più grande bufala mai raccontata”. Le politiche green? “Una follia”. L’impronta di CO2? “Non esiste”. In quasi un’ora di discorso senza contradditorio – a fronte dei 15 minuti concessi agli altri capi di Stato e di governo – è dal Palazzo di Vetro dell’Onu – in occasione dell’80esima Assemblea generale delle Nazioni Unite – che l’uragano Donald Trump fa piazza pulita di decenni di ricerche, progetti, politiche internazionali e accordi. Il climate change, per il repubblicano, non esiste affatto e, anzi, agire per contrastarlo significa, soprattutto per l’Europa, “continuare ad autoinfliggersi delle ferite”. La posizione di The Donald in tema ambientale è sempre stata chiara, ma mai in un discorso pubblico aveva messo sul piatto tutto ciò che ruota intorno al clima, dalle politiche energetiche alla salute, dalla manifattura alla Cina, passando per l’Accordo di Parigi al petrolio e al carbone “buono e pulito”.

L’assunto di base è evidente: “Il cambiamento climatico è la più grande truffa mai perpetrata al mondo” da un gruppo di “stupidi”, nel quale rientrano anche le “Nazioni Unite”. Il riscaldamento del pianeta, insomma, è “una bufala”, ed è per questo che “mi sono ritirato dal falso accordo di Parigi sul clima, dove tra l’altro l’America stava pagando molto più di ogni altro paese”. Mettere in campo azioni per non superare +1,5°C è, per Trump, troppo. Il presidente Usa fa un esempio legato all’attualità. Recenti ricerche hanno stimato che il caldo abbia causato almeno 175mila vittime solo in Europa. Negli Usa, invece, si registrano “circa 1.300 decessi all’anno” per la stessa ragione. “Ma dato che il costo” dell’energia “è così elevato” nel Vecchio Continente, “non si può accendere l’aria condizionata. Tutto in nome della finzione di fermare la bufala del riscaldamento globale”. In sostanza per il repubblicano, “l’intero concetto globalista di chiedere alle nazioni industrializzate di successo di infliggersi dolore e sconvolgere radicalmente le loro intere società deve essere respinto totalmente”.

Gli sforzi messi in campo dall’Europa, dalle organizzazioni internazionali, dal mondo delle imprese, dalle Cop sono “una follia”. L’effetto principale di queste “brutali politiche energetiche verdi non è stato quello di aiutare l’ambiente, ma di ridistribuire l’attività manifatturiera e industriale dai paesi sviluppati che seguono le folli regole imposte ai paesi inquinanti che le infrangono e stanno facendo fortuna”. Favorire, quindi, in primis, la Cina, che ora produce “più CO2 di tutte le altre nazioni sviluppate del mondo”.

Quindi, sulla scia dell’ormai celebre ‘Drill, baby drill’, il presidente Usa stronca ogni apertura verso le rinnovabili perché “sono costose da gestire. Sono un grandissimo scherzo”. Per l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie), invece, il 96% delle nuove energie rinnovabili ha un costo di produzione inferiore rispetto ai combustibili fossili. Meglio ripiegare sul “carbone pulito”, che “ci permette di fare qualsiasi cosa”, sul “gas” e sul “petrolio”, dal momento “che ne abbiamo più di ogni altro Paese al mondo”. E poco importa se poco prima il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva parlato di una crisi climatica che “sta accelerando”, sottolineando che “il futuro dell’energia pulita non è più una promessa lontana. È già qui. Nessun governo, industria o interesse particolare può fermarlo. Ma alcuni ci stanno provando”. Appunto.

Dal palco, di fronte a centinaia di delegazioni internazionali, Trump fa la sua predica: “Se non usciamo da questo scherzo che io chiamo il green, non avremo scampo. I vostri paesi non ce la faranno”. Gli Stati Uniti, ne è certo, sono invece “in una nuova età dell’oro”.

“Alcuni passaggi” del lunghissimo discorso del leader Usa convincono la premier Giorgia Meloni, il cui intervento all’Onu è previsto per domani alle 20 (orario di New York). “Sono d’accordo sul fatto che un certo approccio ideologico al Green Deal abbia finito per non rendersi conto che stava minando la competitività dei nostri sistemi e quindi ci sono dei passaggi di Trump che ho assolutamente condiviso”, dice in un punto stampa a margine dell’Assemblea.

Città parco e housing sociale: le proposte del Wwf per città a prova di clima estremo

Le città sono uno snodo chiave per comprendere e affrontare il cambiamento climatico. Non solo sono tra le principali responsabili della crisi climatica, ma ne subiscono anche gli effetti più gravi: ondate di calore, siccità prolungate, alluvioni improvvise. E, per le città costiere, anche l’innalzamento del livello del mare. Tra città metropolitane e comuni, le aree urbane sono responsabili in Italia del 75% delle emissioni globali di carbonio, a fronte di una occupazione della superficie terrestre pari al 3% (ANCI).

Dai dati statistici europei rappresentati dall’Ispra su danni economici e perdite umane, nel periodo che va dal 1980 al 2022, l’Italia si posiziona al terzo posto della classifica europea in termini di pericolosità degli eventi climatici estremi che hanno colpito le nostre città e le persone che ci vivono. La crisi climatica provoca anche notevoli pericoli dal punto di vista della salute, dagli effetti diretti delle ondate di calore a un aumento delle zoonosi e delle malattie trasmesse dai diversi vettori.

Nelle 4 città più popolose d’Italia (Roma, Milano, Napoli e Torino) le tabelle grafiche del Cmcc (Centro Euromediterraneo cambiamenti climatici) mostrano “chiaramente l’intensificarsi del riscaldamento globale nel corso del tempo”. In occasione di Urban Nature, il festival della natura in città giunto alla sua nona edizione, il Wwf lancia un report dal titolo ‘Adattamento alla crisi climatica in ambito urbano: ripensare le città come sistemi viventi di natura e persone’, grazie alla collaborazione di esperte ed esperti di impatto della crisi climatica e gestione urbanistica, sanitaria, ambientale, sociale e di governance dell’adattamento.

Nel documento si ribadisce come il benessere, ma anche la salute e la sicurezza delle persone nei prossimi anni dipenderanno da come si deciderà di gestire negli spazi urbani la convivenza con la natura. Si tratta di una raccolta di contributi di professionisti del mondo scientifico e accademico, che hanno costruito un’analisi su come favorire anche nelle città italiane una transizione verde urbana.

“Adattare le città al rischio climatico – si legge nel report – non è più un’opzione, ma una necessità. Dobbiamo ammorbidire gli impatti, creare zone cuscinetto, rendere i nostri insediamenti più resilienti, capaci di rispondere con una ‘logica vegetale’. È il principio delle nature-based solutions: alla forza della natura si risponde con la natura stessa”.

Tra le proposte emerse dal report spicca la creazione, anche in Italia, di Città Parco Nazionali, aree urbane dove gli spazi verdi e le aree naturali fanno parte di scelte consolidate e si favorisce la diffusione di azioni sostenibili anche in funzione di una crescita della biodiversità. La prima città del mondo ad istituirsi come National Park City è stata Londra nel luglio 2019, seguita da Adelaide nel 2021, Breda nel 2022 e Chattanooga nel 2023. Attualmente sono decine le realtà urbane che intendono seguire il loro percorso, tra le quali Southampton, Glasgow e Rotterdam.

Un altro obiettivo è la creazione di un Housing sociale climaticamente adattivo. Si propone cioè di integrare criteri di adattamento climatico e coesione sociale nelle politiche abitative, progettando alloggi e quartieri che favoriscano resilienza e relazioni sociali, attraverso standard obbligatori per l’efficienza energetica, con una attenzione particolare ad un percorso partecipativo dal basso. “Viviamo in una grande contraddizione: – afferma Mariagrazia Midulla, Responsabile Clima ed Energia Wwf Italiamentre di clima si parla sempre meno nel dibattito pubblico, la crisi climatica desta sempre maggiori preoccupazioni sia tra gli scienziati, sia tra i cittadini. Gli impatti colpiscono i territori sempre più frequentemente e intensamente ma non sono uguali per tutti: purtroppo chi ha meno ed è più vulnerabile, di solito vive in aree già svantaggiate e ha anche meno mezzi per affrontare situazioni che possono cambiare radicalmente in poco tempo. Gli studiosi concordano sulla centralità della salute degli ecosistemi e della natura per affrontare l’adattamento, a cominciare dalle soluzioni innovative come quella delle città parco. Ma oggi il Piano nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico, approvato alla fine del 2023, è chiuso in un cassetto. Da quel cassetto deve uscire al più presto perché il lavoro da fare è tanto e non è certo ‘limitato’ al dissesto idrogeologico”.

Il dossier indica anche un tema raramente affrontato, quello che l’Ipcc, il Panel scientifico delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, definisce ‘Maladaptation’ (cattivo adattamento): la situazione che si verifica quando le azioni intraprese per aiutare le comunità ad adattarsi al cambiamento climatico, determinano, al contrario, un aumento della vulnerabilità stessa. Da tutti i contributi del report emergono almeno due indicazioni: l’adattamento non può essere un ghetto, ma deve pervadere tutte le politiche pubbliche e private, fino ad arrivare a un nuovo modello di città, adeguando risorse, organizzazione e strumenti; i meccanismi partecipativi, il coinvolgimento di popolazione e stakeholders sono essenziali per questo processo.

In Europa 15mila morti per il caldo questa estate. Italia al top con Milano e Roma

Alla fine dell’estate nelle principali città europee potrebbero essere attribuiti al cambiamento climatico oltre 15.000 decessi. Lo rivela uno studio preliminare. “Concentrandosi su 854 città europee, la ricerca conclude che il cambiamento climatico è all’origine del 68% dei 24.400 decessi che sarebbero legati al caldo di quest’estate”, sottolinea la nota dei due istituti britannici a cui appartengono gli autori, l’Imperial College London e la London School of Hygiene & Tropical Medicine.

Gli esperti concludono quindi che tra 15.013 e 17.864 decessi legati al caldo quest’estate non si sarebbero verificati senza il riscaldamento globale, in queste città che rappresentano solo un terzo della popolazione europea. Si tratta della prima stima su così vasta scala degli impatti sulla salute di un’estate caratterizzata da temperature particolarmente elevate in Europa. Sono state osservate diverse ondate di caldo e l’estate si è rivelata la più calda mai registrata in diversi paesi, come Spagna, Portogallo e Regno Unito.

L’Italia è la nazione più colpita. Secondo la ricerca da giugno ad agosto, a Milano sono decedute 1156 persone, 835 a Roma, 579 a Napoli e 230 a Torino proprio a causa dell’impatto del cambiamento climatico sulle temperature. Si tratta rispettivamente della prima, della seconda, della quinta e della decima città nella classifica delle 854 città europee analizzate.

Gli effetti del caldo sulla salute sono ben noti: aggravamento dei disturbi cardiovascolari, disidratazione, disturbi del sonno… E gli anziani sono di gran lunga i più a rischio di morire. I dati, però, devono essere considerati con cautela. Questo tipo di studio, sempre più comune da diversi anni, mira a fornire una stima rapida della mortalità legata al riscaldamento globale, senza attendere una pubblicazione su una rivista scientifica con una metodologia più solida. Per giungere alle loro conclusioni, i ricercatori hanno prima modellizzato in che misura il riscaldamento globale abbia contribuito alle elevate temperature di quest’estate.

Alla fine, stimano che senza il cambiamento climatico, le temperature medie sarebbero state inferiori di 2,2 °C nelle città interessate. Gli autori hanno poi incrociato questa osservazione con i dati storici sulla mortalità legata al calore nelle diverse città. Sono così giunti alla conclusione che il riscaldamento globale ha contribuito a più di 800 morti a Roma, più di 600 ad Atene, più di 400 a Parigi… In generale, oltre l’85% di questi decessi avrebbe colpito persone di età superiore ai 65 anni.

“Basta che le ondate di calore siano più calde di 2-4 °C perché migliaia di persone perdano la vita”, ha sottolineato Garyfallos Konstantinoudis, coautore dello studio, durante una conferenza stampa, definendo i picchi di calore “assassini silenziosi”. Ma queste cifre non tengono conto dell’eccesso di mortalità effettivamente osservato. È sulla base di tali dati che i ricercatori finiscono per fornire una stima attendibile della mortalità legata al calore: secondo uno studio pubblicato da Nature Medicine un anno dopo il periodo in questione, nel 2023 il calore avrebbe causato circa 47.000 morti in Europa. “Al momento è impossibile ottenere statistiche in tempo reale”, ha ammesso Friederike Otto, coautrice dello studio. Ma le stime “sono corrette”, ha assicurato.

Infatti, molti ricercatori esterni allo studio hanno accolto con favore i dati, sottolineando addirittura che potrebbe essere al di sotto della realtà. “I metodi utilizzati in questi studi di attribuzione sono scientificamente validi ma prudenti”, ha spiegato Akshay Deoras, specialista in scienze atmosferiche presso l’università britannica, al Science Media Centre. “Il numero reale di morti potrebbe essere anche più alto”. 

eolico

Così le tecnologie cinesi per l’energia pulita salveranno il mondo: -1% CO2 in un solo anno

Chi poteva sospettare, fino a qualche anno fa, che l’impegno sulle rinnovabili in Cina fosse in grado di ridurre le emissioni globali e contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico? Ebbene, forte di una leadership nella produzione di tecnologie per l’energia pulita e di installazioni da record, il Paese del Dragone incide come pochi altri. Si prevede infatti che i pannelli solari, le batterie, i veicoli elettrici e le turbine eoliche esportati dalla Cina nel 2024 ridurranno le emissioni annuali di CO2 nel resto del mondo dell’1%, ovvero di circa 220 milioni di tonnellate (MtCO2). Non solo. Secondo un’analisi del Crea, Centro internazionale per l’Energia e l’aria pulita, pubblicata da Carbon Brief, la produzione cinese di tecnologie per le rinnovabili ha generato circa 110 milioni di tonnellate di CO2, il che significa che le emissioni iniziali “vengono compensate in molto meno di un anno di attività”. Nel corso del ciclo di vita (tra gli 8 e i 25 anni a seconda della tecnologia), i gas serra derivanti dalla produzione saranno compensati di quasi 40 volte, con un risparmio cumulativo di CO2 pari a 4 GtCO2.

Gli analisti del Crea spiegano che la rapida espansione della Cina nella produzione e nelle esportazioni di energia pulita “sta già rimodellando le traiettorie delle emissioni in diverse regioni chiave”. L’impatto delle tecnologie esportate si estende praticamente a tutto il mondo, con esportazioni verso 191 dei 192 stati membri delle Nazioni Unite, nonché investimenti nella produzione e nel finanziamento di progetti in 27 Paesi. Solo nel 2024, le esportazioni di energia pulita dalla Cina, insieme ai suoi investimenti all’estero del 2023 e del 2024, dovrebbero ridurre le emissioni nell’Africa subsahariana di circa il 3% all’anno una volta completate e del 4,5% nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa.

Un business, quello delle tecnologie per l’energia green, da capogiro: l’anno scorso l’export cinese di apparecchiature ha raggiunto un valore complessivo di 177 miliardi di dollari ma soprattutto, per la prima volta, le industrie del settore hanno contribuito per oltre il 10% al Pil nazionale, generando una produzione economica totale stimata di 1,9 trilioni di dollari. Dal 2023, inoltre, le aziende della Repubblica Popolare hanno annunciato progetti di produzione all’estero per un valore di 58 miliardi, nonché accordi di produzione e stoccaggio di energia per altri 24 miliardi. Il valore a valle dei prodotti e dei progetti di energia pulita all’estero che si basano su componenti cinesi è stimato in 720 miliardi di dollari all’anno. Ovvero quattro volte il valore delle materie prime esportate.

Una volta operativi, gli impianti costruiti dal 2024 con tecnologie cinesi eviteranno circa 220 Mt di CO2 all’anno. Questo considerando anche l’impatto delle esportazioni di veicoli elettrici, aumentate del 33% annuale nei primi cinque mesi del 2025. Le esportazioni di pannelli solari sono rimaste invece stabili (e nonostante un forte aumento della domanda interna), ma sono destinate a crescere nei prossimi anni, in linea con le proiezioni sulle installazioni globali. Oltre alle esportazioni dirette di attrezzature, lo studio rileva che gli investimenti in energia pulita all’estero annunciati dalle aziende cinesi nel 2023-24 (a partire dal segmento greenfield, come la costruzione di impianti per la produzione di moduli fotovoltaici) faranno risparmiare altre 90 Mt di emissioni di CO2 all’anno. In termini di tecnologie, le maggiori emissioni evitate derivano dal solare, con -280 MtCO2, seguito da batterie e veicoli elettrici con -50 MtCO2, mentre le esportazioni di turbine eoliche sono relativamente ridotte, consentendo di evitare ulteriori 20 MtCO2.

Caldo record

Il riscaldamento globale potrebbe aumentare il rischio di cancro nelle donne

Gli scienziati hanno scoperto che il riscaldamento globale in Medio Oriente e Nord Africa sta rendendo più comuni e più letali i tumori al seno, alle ovaie, all’utero e alla cervice. L’aumento dei tassi è modesto ma statisticamente significativo, il che suggerisce un notevole aumento del rischio di cancro e dei decessi nel tempo. “Con l’aumento delle temperature, aumenta anche la mortalità per cancro tra le donne, in particolare per i tumori alle ovaie e al seno”, spiega Wafa Abuelkheir Mataria dell’Università Americana del Cairo, prima autrice dell’articolo pubblicato su Frontiers in Public Health. “Sebbene gli aumenti per ogni grado di aumento della temperatura siano modesti, il loro impatto cumulativo sulla salute pubblica è notevole”.

Il cambiamento climatico non fa bene alla salute e questo è un dato ormai accertato. L’aumento delle temperature, la compromissione della sicurezza alimentare e idrica e la scarsa qualità dell’aria aumentano il carico di malattie e decessi in tutto il mondo. I disastri naturali e lo stress causato da condizioni meteorologiche impreviste compromettono anche le infrastrutture, compresi i sistemi sanitari. Quando si tratta di cancro, questo può significare che le persone sono più esposte a fattori di rischio come le tossine ambientali e hanno meno possibilità di ricevere una diagnosi e un trattamento tempestivi. Questa combinazione di fattori potrebbe portare a un aumento significativo dell’incidenza di tumori gravi, ma è difficile quantificarlo.

Per studiare gli effetti dei cambiamenti climatici sul rischio di cancro nelle donne, i ricercatori hanno selezionato un campione di 17 paesi del Medio Oriente e del Nord Africa: Algeria, Bahrein, Egitto, Iran, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Tunisia, Emirati Arabi Uniti e Palestina. Questi paesi sono gravemente vulnerabili ai cambiamenti climatici e stanno già registrando un aumento significativo delle temperature. I ricercatori hanno raccolto dati sulla prevalenza e la mortalità per cancro al seno, alle ovaie, alla cervice uterina e all’utero, e hanno confrontato queste informazioni con le variazioni di temperatura registrate tra il 1998 e il 2019.

“Le donne sono fisiologicamente più vulnerabili ai rischi per la salute legati al clima, in particolare durante la gravidanza”, afferma il coautore Sungsoo Chun dell’Università Americana del Cairo. “A questo si aggiungono le disuguaglianze che limitano l’accesso all’assistenza sanitaria. Le donne emarginate sono esposte a un rischio maggiore perché sono più esposte ai rischi ambientali e hanno meno possibilità di accedere ai servizi di screening e trattamento precoce”.

La prevalenza dei diversi tipi di cancro è aumentata da 173 a 280 casi ogni 100.000 persone per ogni grado Celsius in più: i casi di cancro alle ovaie hanno registrato l’aumento maggiore, mentre quelli di cancro al seno l’aumento minore. La mortalità è aumentata da 171 a 332 decessi ogni 100.000 persone per ogni grado di aumento della temperatura, con l’aumento maggiore nel cancro alle ovaie e quello minore nel cancro alla cervice uterina.

Quando i ricercatori hanno suddiviso i dati per paese, hanno scoperto che la prevalenza del cancro e i decessi sono aumentati solo in sei regioni: Qatar, Bahrein, Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Siria. Questo potrebbe essere dovuto alle temperature estive particolarmente estreme o ad altri fattori che il modello non è riuscito a cogliere. L’aumento non è stato uniforme tra le varie zone: ad esempio, la prevalenza del cancro al seno è aumentata di 560 casi ogni 100.000 persone per ogni grado Celsius in Qatar, ma solo di 330 in Bahrein. Sebbene questo dimostri che l’aumento della temperatura è un probabile fattore di rischio per questi tumori, suggerisce anche che il surriscaldamento ha un effetto diverso nei vari paesi, quindi è probabile che esistano altri fattori che modificano il rischio. Ad esempio, l’aumento del calore potrebbe essere associato a livelli più elevati di inquinamento atmosferico cancerogeno in alcuni luoghi.

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Effetti cronici sulla salute dei bambini con il cambiamento climatico

I cambiamenti climatici causati dalle attività antropiche influenzano la frequenza e l’intensità di eventi estremi. Fenomeni come ondate di calore, siccità, inondazioni ed incendi hanno potenziali conseguenze sulla salute delle persone e sono collegati ad un rischio più elevato di mortalità, lesioni acute e ricoveri ospedalieri nei giorni e anche nelle settimane successive al loro verificarsi.

I risultati dello studio ‘Exposure to climate change-related extreme events in the first year of life and occurrence of infant wheezing’, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Enviroment International e condotto da un team di ricerca dell’Epidemiologia della Città della Salute e dell’Università di Torino, suggeriscono che il cambiamento climatico abbia un impatto sulla salute sin dalle primissime fasi della crescita, mettendo in evidenza la necessità di misure di mitigazione e adattamento al clima per proteggere non solo le future generazioni, ma anche per tutelare la salute delle attuali fasce di popolazione più fragili, come i bambini e le bambine nei primi anni di vita.

Condotta nell’ambito del progetto Ninfea, la più grande coorte italiana arruolata tramite Internet che raccoglie dal 2005 dati su più di 7000 coppie di mamme e bambini sull’intero territorio italiano, la ricerca ha riscontrato un aumento del rischio di fischi e sibili al torace associato all’esposizione a siccità estrema e ondate di calore durante il primo anno di vita. A differenza di studi precedenti, focalizzati sugli effetti acuti degli eventi estremi, questo lavoro mette in rilievo gli effetti cronici che si manifestano già nelle prime fasi dello sviluppo e sono associati all’esposizione ripetuta durante il primo anno di vita.

Il campione della ricerca è composto da circa 6000 bambini per i quali si dispone di informazioni sull’insorgenza di fischi e sibili al torace tra 6 e 18 mesi. La comparsa di questi episodi durante l’infanzia è considerata un indicatore di alterata salute respiratoria in età successive. Combinando gli indirizzi di residenza geocodificati dei partecipanti allo studio con i dati climatici, sono state ricavate informazioni sulla loro esposizione, durante il primo anno di vita, a diversi tipi di eventi estremi. L’esposizione agli eventi estremi è stata messa in relazione alla salute respiratoria tenendo conto di multipli fattori (socioeconomici, ambientali ecc.).

“I risultati di questo studio – spiega Silvia Maritano, prima autrice dell’articolo e ricercatrice presso l’ Epidemiologia della Città della Salute e dell’Università di Torino – sottolineano l’importanza di considerare le conseguenze del cambiamento climatico come potenziali determinanti di patologie croniche in ottica longitudinale. Questo lavoro apre la strada a nuove ricerche sui rischi a lungo termine del cambiamento climatico, mettendo in luce l’urgente necessità di politiche congiunte di mitigazione e prevenzione volte a ridurre l’esposizione ai fenomeni meteorologici estremi fin dalle prime fasi di vita delle persone”.

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Il cambiamento climatico fa abbandonare le terre: in Africa sono 6,3 milioni i migranti interni

Negli ultimi 15 anni è triplicato il numero di migranti interni all’Africa, a causa di conflitti, violenze e catastrofi naturali. Alla fine del 2023 erano 35 milioni gli sfollati. Lo rivela l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC) in un rapporto pubblicato oggi, nel quale si sottolinea che lo sfollamento altera i mezzi di sussistenza, l’identità culturale e i legami sociali di intere comunità, rendendole più vulnerabili. “Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito a una triplicazione del numero di sfollati interni nel continente africano”, sottolinea Alexandra Bilak, direttrice IDMC, aggiungendo che “la maggior parte di questi spostamenti interni sono causati da conflitti e violenze, ma sono anche sempre più spesso provocati da disastri naturali”.

Lo sfollamento può anche interrompere i programmi di sviluppo di un Paese, impedendo agli sfollati di generare reddito o di pagare affitti o tasse, mentre allo stesso tempo le autorità locali o nazionali devono fornire ulteriori alloggi, assistenza sanitaria, istruzione e protezione. Tutte cose che generano costi aggiuntivi.

Il documento evidenzia che i crescenti livelli di conflitto e violenza sono responsabili dello sfollamento interno di 32,5 milioni di persone in Africa. L’80% è fuggito da Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Nigeria, Somalia e Sudan.

Anche i migranti interni a causa di disastri naturali, in particolare le inondazioni, sono in aumento in Africa, poiché il cambiamento climatico si fa sentire sempre di più. Secondo l’IDMC, tra il 2009 e il 2023 il numero di persone costrette a fuggire dai disastri è sestuplicato, passando da 1,1 milioni di sfollati all’anno a 6,3 milioni. Secondo il rapporto, le inondazioni hanno provocato più di tre quarti di questi spostamenti, mentre la siccità ha rappresentato un ulteriore 11%.

Inoltre, conflitti, violenze e disastri naturali spesso si sovrappongono, causando crisi complesse in cui un gran numero di persone è sfollato ripetutamente o per periodi prolungati. L’organizzazione sottolinea che la Convenzione di Kampala dell’Unione africana sulla protezione e l’assistenza agli sfollati interni è uno strumento importante per risolvere il problema. Adottata nel 2009 ed entrata in vigore nel dicembre 2012, ha stabilito uno standard internazionale in quanto primo, e tuttora unico, accordo regionale giuridicamente vincolante che si occupa di sfollamento interno.

Da allora, 34 Paesi africani hanno ratificato il trattato e molti hanno messo in atto quadri giuridici e fatto investimenti significativi per affrontare il problema. Ma i governi stanno lottando per far fronte al problema. Per Bilak, “la chiave del problema” è “fare molto di più in termini di costruzione della pace, diplomazia e trasformazione dei conflitti”.

Il cambiamento climatico può aumentare anche del 200% le infezioni da dengue

Il cambiamento climatico potrebbe essere responsabile del 19% dell’attuale carico globale di infezioni da dengue. Una percentuale che, se non venissero adottate misure efficaci per limitare l’aumento delle temperature, potrebbe salire fino al 60% entro il 2050, arrivando in alcune aree al 200%. Lo rivela un nuovo studio condotto dalle Università di Stanford e Harvard. La dengue è una malattia infettiva trasmessa dalle zanzare, che può manifestarsi con sintomi di intensità variabile, che includono, nei casi più gravi, dolori articolari lancinanti, emorragie e shock. Non esistono, ad oggi, farmaci efficaci per il suo trattamento, e sebbene siano disponibili due vaccini autorizzati, alcuni esperti ritengono che non possano essere usati su larga scala. Solo nelle Americhe sono stati registrati, nel 2024, quasi 12 milioni di casi, rispetto ai 4,6 milioni del 2023, con infezioni segnalate anche in California e in Florida.

Il nuovo studio è stato ispirato da alcuni test di laboratorio che hanno evidenziato come la trasmissione del virus sia favorita dall’aumento delle temperature in un intervallo compreso tra 20°C e 29°C. “Abbiamo esaminato i dati sull’incidenza della dengue e le variazioni climatiche in 21 Paesi dell’Asia e delle Americhe e abbiamo scoperto che esiste una relazione chiara e diretta tra l’aumento delle temperature e l’aumento delle infezioni”, ha dichiarato Erin Mordecai, del Woods Institute for the Environment di Stanford. I ricercatori hanno quindi esaminato i dati relativi alle infezioni registrate in 21 Paesi in cui la dengue è endemica, tra cui Brasile, Perù, Messico, Colombia, Vietnam e Cambogia. Per valutare l’effettivo impatto della temperatura sui tassi d’infezione, il team ha preso in considerazione anche altri fattori che possono influenzarne l’incidenza, tra cui le precipitazioni, i cambiamenti stagionali, i tipi di virus, gli shock economici e la densità della popolazione. Dai risultati è emerso che le aree che stanno entrando ora nella fascia di temperatura ottimale per la diffusione del virus, come alcune regioni di Perù, Messico, Bolivia e Brasile, potrebbero subire, nei prossimi decenni, un aumento delle infezioni tra il 150% e il 200%.

Complessivamente, sarebbero almeno 257 milioni le persone che oggi vivono in luoghi in cui il riscaldamento globale potrebbe raddoppiare le infezioni di dengue nei prossimi 25 anni. Gli autori ritengono, tuttavia, che questa minaccia sia sottostimata nello studio, a causa della carenza di informazioni in alcune aree in cui la malattia è endemica, tra cui ampie zone dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale, e la difficoltà di prevedere i futuri impatti per le aree in cui la dengue ha da poco iniziato a diffondersi localmente, come le regioni meridionali degli Stati Uniti continentali.

“È la prova – spiegano gli esperti – che il cambiamento climatico è già diventato una minaccia significativa per la salute umana e, per la dengue in particolare, i nostri dati suggeriscono che l’impatto potrebbe peggiorare molto”. Contrastare il riscaldamento globale, aiuterebbe, di conseguenza, a contenere la diffusione della malattia.

Clima, Mattarella: “Serve impegno straordinario con misure rapide di salvaguardia”

Sergio Mattarella torna a Bologna a pochi giorni dalla nuova ondata di maltempo che ha messo in ginocchio l’Emilia-Romagna. Non è la prima volta che il presidente della Repubblica ribadisce il proprio monito a tenere alta l’attenzione sui cambiamenti climatici, le cui conseguenze sono anche le alluvioni che “stanno colpendo queste terre con una frequenza e una intensità che non conoscevamo“. Ragion per cui sottolinea quanto sia “necessario un impegno di carattere straordinario che coinvolga istituzioni e società civile, imprese e cittadini e che non sottovaluti la necessità di misure rapide di salvaguardia“. Del resto, ammonisce, “i drammi a cui sono costrette migliaia di famiglia sono anche conseguenza di trasformazioni intervenute da decenni nei territori“.

Il capo dello Stato, in città per partecipare inaugurazione della Biennale dell’economia cooperativa e al 70esimo anniversario della Fondazione per le Scienze religiose, al suo arrivo fa come prima tappa gli uffici della Prefettura, dove incontra i familiari di Simone Farinelli, il ventenne che ha perso la vita nei giorni scorsi a causa dell’alluvione che ha provocato una piena del Rio Caurinzano, a Botteghino di Zocca, che lo ha sorpreso mentre era in auto col fratello. Mattarella coglie l’occasione anche per ricevere la visita della presidente facente funzioni della Regione Emilia-Romagna, Irene Priolo, e del sindaco di Bologna, Matteo Lepore, ai quali chiede informazioni sulla situazione nei vari territori e aggiornamenti sui danni causati dalla furia del clima. Il primo cittadino spiega che a Bologna capoluogo la situazione è “particolarmente seria, se non altro per la popolazione coinvolta: abbiamo avuto 1.400 luoghi della città allagati, il ché significa anche case, non solo garage“. Il presidente chiede lumi anche sugli sfollati. Lepore risponde che “all’inizio erano 500 nel capoluogo e 2.500 su tutta l’area metropolitana. Abbiamo abbastanza recuperato – rassicura il sindaco -: una decina di persone nel capoluogo sono ancora in albergo e qualche centinaia dell’area metropolitana. Sono tutti seguiti, ma alcuni hanno perso la casa e dobbiamo capire come fare“.

Mattarella, sempre attento a questi temi, più volte è intervenuto per lanciare moniti su uno dei fenomeni globali più insidiosi. Cosa che fa anche nel suo intervento davanti alla platea della Lega delle Cooperative, rivolgendo in apertura del suo discorso “un pensiero di solidarietà alla città che ci ospita, ai familiari delle vittime dell’alluvione e del gravissimo incidente sul lavoro di ieri, alle famiglie che stanno soffrendo le conseguenze del maltempo“. Perché l’Emilia-Romagna piange, assieme all’Italia intera, altre due vite spezzate, questa volta allo stabilimento della Toyota Material Handling di Borgo Panigale, dove un’esplosione ha ucciso gli operai Fabio Tosi e Lorenzo Cubello e ferito altri 11, uno dei quali si trova ricoverato in gravi condizioni. “Non ci sono più parole adeguate per esprimere l’allarme e l’angoscia per gli incidenti che colpiscono chi sta lavorando, per l’insufficienza della sicurezza per chi lavora“, sottolinea il presidente della Repubblica dal palco.

Le parole di Mattarella arrivano proprio nel giorno in cui, a Roma, il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, in occasione del Consiglio Generale, sottoscrive la ‘Carta di Lorenzo‘, il documento dedicato alla memoria di Lorenzo Parelli, studente al quarto anno dell’Istituto professionale ‘Bearzi‘ di Udine, vittima nel 2022 di un incidente durante il periodo di alternanza scuola lavoro. Un impegno sottolineato anche dal messaggio inviato dal capo dello Stato per l’assemblea, riconoscendo lo sforzo “che il sistema delle imprese intende assumere nei confronti della sicurezza negli ambienti di lavoro per una maggiore tutela degli studenti impegnati in percorsi di formazione in azienda“. La vicenda di Lorenzo Parelli “ha drammaticamente richiamato l’attenzione dell’intera società italiana sui processi che accompagnano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro” e per questo che “mentre rivolgo un pensiero ai suoi genitori e a quanti lo ebbero caro” Mattarella esprime “apprezzamento per il solenne impegno che viene assunto affinché accorciare la distanza tra giovani e lavoro si accompagni al rispetto della loro dignità di persone, di lavoratori, di cittadini“.

Maltempo, Musumeci: “Serve il coraggio di una legge contro l’eccessivo consumo di suolo”

Il maltempo mette nuovamente in ginocchio un pezzo importante del territorio italiano. Le istituzioni sono in allerta ma si riaccende il dibattito su uno dei temi sempre in primo piano nell’agenda politica. Per il ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci, bisogna partire “dal principio che tutto quello che è stato fatto finora dal punto di vista dell’ingegneria idraulica non basta più, non serve più”. Anzi, “molte volte il cambiamento climatico rischia di diventare una sorta di alibi per la mancanza di prevenzione”, avverte. Ad essere precisi, il monito di Musumeci è che proprio “manca la priorità della prevenzione, in tutti gli enti locali ma anche a livello nazionale”.

Dunque, in concreto, il ministro individua “l’eccessivo consumo di suolo” tra le maggiori cause, ragion per cui “bisogna avere il coraggio di una legge che ponga un freno a questa prassi assolutamente deplorevole, perché dove arriva il cemento diventa il migliore complice dell’acqua”.

Un concetto che per una volta diventa trait d’unione tra maggioranza e opposizione. L’Italia “è un territorio fragile e serve un salto di qualità sulla prevenzione del dissesto idrogeologico. C’è bisogno di una legge per contrastare il consumo di suolo, perché si è cementificato troppo”, dice infatti la segretaria del Pd, Elly Schlein. Mentre il portavoce nazionale di Europa verde e deputato Avs, Angelo Bonelli, ‘invita’ la premier, Giorgia Meloni, a portare una norma su questo argomento in Cdm “invece di sfidare la magistratura”. I Cinquestelle, invece, si prendono qualche ‘rivincita’ su Musumeci: “Siamo contenti che dalle sue parti sia suonata una sveglia, ma è in ritardo. È da due anni che diciamo che il contrasto al dissesto idrogeologico deve essere messo in cima all’agenda politica”.

Sullo sfondo di questo nuovo capitolo del dibattito politico restano le parole del capo dello Stato al Festival delle Regioni, che si svolge a Bari. Domenica scorsa, infatti, Sergio Mattarella ha ribadito che “contrastare il cambiamento climatico e proseguire con decisione sulla via della decarbonizzazione sono obiettivi non rinunziabili”. Semmai, “le politiche ambientali vanno integrate nelle politiche per la crescita, non considerate un freno allo sviluppo. Lo sviluppo deve essere sostenibile, diversamente è vano e illusorio”.

Sono tanti i punti toccati dal presidente della Repubblica, a partire dalla necessità di “fare leva su una governance sovranazionale” per raggiungere i target delle transizione ecologica e digitale. Tenendo presente che non esiste una sola ricetta, anzi questi processi “vanno affrontati tenendo conto delle specificità culturali, economiche e sociali delle diverse aree del Pianeta”. Mattarella suggerisce di utilizzare lo sguardo dei più giovani sui temi ambientali: “A loro è chiaro come la natura non possa più essere considerata come una risorsa da utilizzare e da sfruttare”. Anche per evitare uno dei fenomeni più odiosi causati dai cambiamenti climatici: “Sovente sono all’origine delle disuguaglianze e, in ogni caso, le accrescono – ha messo in luce il capo dello Stato -. Basti pensare alla carenza di acqua potabile che interessa interi Stati o al fenomeno della desertificazione, entrambi causa di conflitti e di grandi migrazioni di massa”. Ecco perché, ha ripetuto ancora una volta Mattarella, “le politiche ambientali devono salvaguardare, quindi, le condizioni personali e sociali più deboli”.

Sperando che almeno su alcuni temi centrali per il futuro del Paese (e dell’Europa) ci possa essere, se non unità di intenti, quantomeno un fronte comune della politica.