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Il lato oscuro della decarbonizzazione: i costi nascosti del net zero in Cina

Espropri, conversione dei terreni agricoli, compromessi ecologici e sociali, cambiamento degli ecosistemi. L’annuncio della Cina di voler raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060 potrebbe comportare costi nascosti e scelte ambientali difficili.

Il Paese emette il 27% dell’anidride carbonica globale e un terzo dei gas serra del mondo, ma sembra lanciato verso la decarbonizzazione. In un articolo pubblicato su Communications Earth & Environment, Stefano Galelli, professore associato presso la Cornell University’s School of Civil and Environmental Engineering, e colleghi hanno cercato di quantificare come la decarbonizzazione della China Southern Power Grid, che fornisce elettricità a più di 300 milioni di persone, avrà un impatto negativo sui bacini fluviali, la maggior parte dei quali scorre dalla Cina verso i Paesi a valle, e ridurrà la quantità di terreni coltivati. “Se pensiamo a qualsiasi grande cambiamento tecnologico, ha sempre dei costi e delle conseguenze indesiderate”, dice Galelli. “Prima ce ne rendiamo conto e le affrontiamo, più sostenibile ed equa sarà la transizione energetica. Dobbiamo farlo bene”.

La decarbonizzazione della rete entro il 2060 potrebbe essere tecnicamente fattibile, ma richiederebbe la costruzione di numerose dighe per la produzione di energia idroelettrica (circa 32 GW) e la conversione di circa 40.000 chilometri quadrati di terreni coltivati per sostenere la crescita del solare e dell’eolico La maggior parte delle dighe verrebbe collocata su fiumi transfrontalieri, cioè condivisi da due o più Paesi, con potenziali impatti ecologici negativi sia in Cina che nei Paesi a valle.

Due dei principali bacini fluviali transfrontalieri che subiranno un impatto sono il Salween e il Mekong, entrambi importanti hotspot di biodiversità. Il Salween è condiviso dalla Cina (a monte) e dal Myanmar; il Mekong dalla Cina (a monte), dal Myanmar, dalla Thailandia, dal Laos, dalla Cambogia e dal Vietnam. Le dighe bloccano il trasporto di sedimenti e nutrienti dal corso superiore alla foce del fiume, riducendo la produttività degli ecosistemi e della pesca. E se i sedimenti non raggiungono il delta, l’intrusione salina diventa un problema maggiore. Le dighe, poi, possono anche avere un impatto sulle specie ittiche migratorie.

La decarbonizzazione porterebbe anche a compromessi ecologici e sociologici in termini di utilizzo del territorio, spiega Galelli. “Escludendo i siti protetti – città e parchi nazionali, per esempio, ciò che rimane sono i terreni coltivati su cui costruire l’energia solare ed eolica”, osserva.

Le centrali a carbone sono state storicamente la fonte dominante di elettricità per la China Southern Power Grid, ma la costruzione di un numero sufficiente di impianti eolici e solari per sostituirle richiederà molto spazio. Che rischia di non essere equamente suddiviso. La ricerca mostra che il 43% del fabbisogno totale di terreni si concentrerebbe probabilmente nella provincia di Guangxi, dove le coltivazioni e i pascoli costituiscono la stragrande maggioranza delle attività sul territorio. Questo potrebbe essere un pesante fardello per la provincia e comportare costi ecologici, sociali e finanziari significativi per le comunità locali.

Xi Jinping incontra Blinken a Pechino: “Usa e Cina dovrebbero essere partner, non rivali”

Photo credit: Afp

 

Un confronto “approfondito e costruttivo“. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, definisce così il faccia a faccia avuto a Pechino con il presidente cinese, Xi Jinping. Il capo della diplomazia di Washington vede il suo omologo, Wang Yi, col quale si trattiene per circa cinque ore e mezza.

Secondo quanto riferiscono i media statali Xi ha detto a Blinken che di sperare che “anche gli Stati Uniti possano avere una visione positiva dello sviluppo della Cina”, aggiungendo che “quando questo problema fondamentale sarà risolto le relazioni potranno veramente stabilizzarsi, migliorare e progredire”. Ma è anche un altro il punto focale del colloquio, che dovrebbe suonare quasi come un campanello d’allarme per l’Europa. Perché il presidente cinese ha detto all’esponente dell’Amministrazione Usa che Pechino e Washingtondovrebbero essere partner, non rivali“. Precisando, però, che “molti problemi devono ancora essere risolti e ulteriori sforzi sono ancora possibili“.

Se così fosse, soprattutto sul mercato delle materie prime critiche e dei semiconduttori, le aziende del Vecchio continente potrebbero avere notevoli problemi di competitività, in una fase storica in cui la rivalità Usa-Cina sta già creando diversi problemi.

Ho proposto tre principi fondamentali: il rispetto reciproco, la coesistenza pacifica e la cooperazione win-win”, ha aggiunto Xi Jinping. Ribadendo che “la Terra è abbastanza grande perché sia la Cina che gli Stati Uniti possano svilupparsi e prosperare“.

Da parte sua, il segretario di Stato americano ha dichiarato di aver espresso le sue preoccupazioni alla Cina per il suo sostegno alla Russia, affermando che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata “più difficile” senza l’appoggio di Pechino. Blinken ha inoltre messo in guardia la Cina dalle sue “azioni pericolose” nel Mar Cinese Meridionale: “Ho chiarito che i nostri impegni per la difesa delle Filippine rimangono incrollabili”.

Per quanto riguarda il Medio Oriente, invece, “le relazioni della Cina possono essere positive nel cercare di allentare le tensioni, prevenire l’escalation ed evitare la diffusione del conflitto”, ha detto il capo della diplomazia Usa, riferendosi all’influenza di Pechino sull’Iran. L’incontro è stato anche l’occasione per programmare “discussioni bilaterali iniziali nelle prossime settimane” sul tema dell’intelligenza artificiale e per chiedere ancora una volta a Pechino “misure aggiuntive” per contenere il traffico di fentanyl, una droga che sta creando scompiglio negli Stati Uniti.

Durante l’incontro con il suo omologo, poi, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha avvertito Blinken che le molteplici pressioni americane sulla Cina potrebbero portare a un “deterioramento” dei legami tra i due Paesi. Sottolineando, inoltre, che la questione di Taiwan, isola di 23 milioni di abitanti rivendicata da Pechino e sostenuta militarmente da Washington, è la “prima linea rossa da non oltrepassare nelle relazioni sino-americane.

La Cina critica gli Stati Uniti anche per le molteplici pressioni sul Mar Cinese Meridionale, su Taiwan, sul commercio e sulle relazioni con la Russia, intensificatesi dopo l’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. Pechino è in collera pure per le restrizioni statunitensi alle esportazioni in Cina di tecnologie avanzate, tra cui i semiconduttori. Un’altra fonte di attrito – più recente, però – è legata al social network TikTok, che rischia di essere bandito negli Stati Uniti se non taglia i suoi legami con la società madre cinese ByteDance. Washington sospetta che l’applicazione venga utilizzata per spiare gli americani, raccogliere informazioni personali e servire la propaganda cinese, mentre TikTok nega categoricamente e respinge le accuse.

Nonostante le tensioni, le relazioni tra le due potenze hanno comunque “iniziato a stabilizzarsi” dopo il vertice Xi-Biden di novembre, ha spiegato Wang Yi, mettendo in guardia sulla persistenza di “elementi negativi”. Perché “i legittimi diritti di sviluppo della Cina sono stati indebitamente oppressi e i nostri interessi fondamentali sono stati messi in discussione”, ha sottolineato riferendosi alle restrizioni statunitensi nel settore tecnologico. Da parte sua, Blinken, come riferisce il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha comunicato al ministro cinese le sue preoccupazioni per il presunto sostegno della Cina “alla base industriale russa della difesa”. Sebbene le aziende cinesi non forniscano armi direttamente alla Russia, Washington le accusa di fornire alla Russia attrezzature e tecnologie a doppio uso che facilitano i suoi sforzi di riarmo.

Gli Stati Uniti e la Cina devono essere il più possibile “chiari nelle aree in cui abbiamo delle differenze, almeno per evitare malintesi e errori di calcolo”, ha dichiarato il segretario di Stato Usa. Il viaggio di Blinken in Cina è, però, il segno di una relativa diminuzione degli attriti tra Pechino e Washington, che si erano acuiti durante gli anni dell’Amministrazione Trump. Biden promette ancora una volta di adottare una linea dura nei confronti della Cina se vincerà le elezioni presidenziali di novembre. Pur cercando una maggiore stabilità tra le due maggiori economie del mondo, il presidente degli Stati Uniti vuole comunque mantenere alta la pressione sul gigante asiatico.

auto elettriche

Un’auto su cinque in Europa sarà elettrica entro il 2030. Ma si teme boom cinese

La flotta di auto elettriche nel mondo continua a crescere fortemente e nel 2024 le vendite raggiungeranno i 17 milioni di unità. E’ quanto emerge dalla nuova edizione dell’annuale Global Electric Vehicle Outlook dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), secondo il quale nonostante le sfide a breve termine in alcuni mercati, sulla base delle politiche attuali, quasi un’auto su tre in circolazione in Cina entro il 2030 sarà elettrica e quasi una su cinque negli Stati Uniti e nell’Unione Europea.

Il 2023 “è stato un anno record”. L’anno scorso, le vendite globali di auto elettriche sono aumentate del 35%, raggiungendo quasi 14 milioni di unità. Mentre la domanda è rimasta in gran parte concentrata in Cina, Europa e Stati Uniti, la crescita è aumentata anche in alcuni mercati emergenti come il Vietnam e la Thailandia, dove le elettriche hanno rappresentato rispettivamente il 15% e il 10% di tutte le auto vendute.

Nei primi tre mesi di quest’anno, rileva l’Aie, il numero di auto elettriche vendute a livello globale è all’incirca equivalente a quello di tutto il 2020. Nel 2024, si prevede che in Cina raggiungeranno circa 10 milioni, pari a circa il 45% di tutte le vendite di auto nel Paese. Negli Stati Uniti, si prevede che circa un’auto su nove sarà elettrica, mentre in Europa, nonostante le prospettive generalmente deboli per le vendite di autovetture e la graduale eliminazione dei sussidi in alcuni Paesi, rappresenteranno ancora circa un’auto su quattro.

Secondo l’Agenzia, si prevede che “i sostanziali investimenti nella catena di fornitura dei veicoli elettrici (EV), il continuo sostegno politico e il calo dei prezzi dei veicoli elettrici e delle loro batterie produrranno cambiamenti ancora più significativi negli anni a venire”. In questo scenario, la rapida diffusione dei veicoli elettrici – dalle auto ai furgoni, ai camion, agli autobus alle moto – “eviterà il fabbisogno di circa 12 milioni di barili di petrolio al giorno, pari all’attuale domanda di trasporto su strada in Cina e in Europa messe insieme”.

“I nostri dati evidenziano il continuo slancio delle auto elettriche, anche se in alcuni mercati è più forte che in altri”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Aie, Faith Birol. “L’ondata di investimenti nella produzione di batterie – ha aggiunto – indica che la catena di fornitura dei veicoli elettrici sta avanzando per soddisfare gli ambiziosi piani di espansione delle case automobilistiche. Di conseguenza, si prevede che la quota di veicoli elettrici sulle strade continuerà a crescere rapidamente”.

L’Agenzia, però, avverte che in Cina, oltre il 60% delle elettriche vendute nel 2023 è già meno costosa delle loro equivalenti convenzionali. In Europa e negli Stati Uniti, invece, i prezzi di acquisto dei veicoli con motore a combustione interna sono rimasti mediamente più bassi, anche se l’intensificarsi della concorrenza sul mercato e il miglioramento delle tecnologie delle batterie dovrebbero ridurre i prezzi nei prossimi anni. “Ma anche quando i prezzi iniziali sono elevati – spiega l’Agenzia – i minori costi operativi dei veicoli elettrici fanno sì che l’investimento iniziale si ripaghi nel tempo”.

Dal rapporto emerge che le crescenti esportazioni di auto elettriche da parte delle case automobilistiche cinesi, che rappresentano più della metà di tutte le vendite nel 2023, potrebbero aumentare la pressione al ribasso sui prezzi di acquisto. Le aziende cinesi, che stanno creando impianti di produzione anche all’estero, hanno già registrato forti vendite di modelli più accessibili lanciati nel 2022 e 2023 nei mercati esteri. Ciò evidenzia, dice l’Aie, “che la composizione delle principali economie produttrici di veicoli elettrici si sta discostando notevolmente dall’industria automobilistica tradizionale”.

Innovativo e attento all’ambiente, è ‘griffato’ Italia il nuovo palazzo della City di Shanghai

Un palazzo di 16 piani caratterizzato da una lunga rampa da 1 chilometro in corten posizionata nella facciata ovest che costituisce un percorso di accesso ai vari piani, mentre due rampe a ovest e sud-est conducono ai garage sotterranei. Con queste caratteristiche è stata inaugurata a Shanghai la nuova sede dell’East China Electronic Power Design Institute, progettato dallo studio fiorentino di Archea Associati guidato dall’achistar Marco Casamonti, autore tra le altre cose del Viola Park, della cantina Antinori nel Chianti Fiorentino recentemente considerata la più bella del mondo, del nuovo stadio nazionale e della torre di Tirana, e che sta ultimando il Kiss bridge in Vietnam.

Il progetto mira a integrare le varie funzioni all’interno di un unico blocco in cui tutte le esigenze funzionali sono centralizzate, rendendo il progetto più economico ed efficiente. L’intervento ha voluto rispettare la scena esistente e rispondere alle caratteristiche del sito, tenendo conto del paesaggio urbano e dei requisiti di pianificazione generale. L’immobile si affaccia su due strade principali della città di Shanghai: Wuning Road a est e Zhongshan North Road (Inner Ring Elevated) a sud, posizione che gli conferisce il potenziale per diventare un punto di riferimento cittadino.

Il progetto mantiene due ingressi su Wuning Road utilizzati uno come accesso principale e l’altro come entrata secondaria per il traffico veicolare e pedonale. Elemento caratterizzante dell’intero edificio è una lunga rampa (1 km) in corten posizionata nella facciata ovest che costituisce un percorso di accesso ai vari piani, mentre due rampe a ovest e sud-est conducono ai garage sotterranei. L’edificio si sviluppa su sedici livelli fuori terra per una superficie di 50mila metri quadrati e due piani interrati di 25mila metri quadrati, per un totale di 75mila mq.

I primi piani ospitano molteplici funzioni: reception, sale riunioni, area espositiva, palestra, sala conferenze, archivio. I piani intermedi sono open space destinati ad aree di lavoro, mentre gli ultimi piani sono adibiti a uffici direzionali e sale riunioni. Il tetto, invece, ha funzione più ricreativa grazie alla presenza di un piccolo bar e di un giardino.

 

Photo credit: Jump comunicazione

Acciaio cinese invade America Latina, persi migliaia di posti di lavoro. Chiesto aumento dazi

L’industria siderurgica dell’America Latina sta affrontando il dumping cinese che sta inondando il suo mercato mettendo a rischio molti posti di lavoro. In risposta, le acciaierie, talvolta sull’orlo del fallimento, chiedono tasse sulle importazioni. L’anno scorso, dieci milioni di tonnellate di acciaio cinese hanno invaso l’America Latina, con un aumento del 44% rispetto all’anno precedente. Vent’anni fa, la Cina ne esportava qui solo 85.000 tonnellate.

Negli ultimi due decenni, la Cina ha aumentato la sua quota del mercato mondiale dell’acciaio dal 15% al 54%, secondo l’Associazione latinoamericana dell’acciaio (Alacero). Le preoccupazioni per la sovraccapacità dell’industria siderurgica cinese sono aumentate anche in seguito al forte rallentamento del settore edilizio, che ha liberato prodotti per l’esportazione. “La Cina è troppo presente in America Latina”, lamenta Alejandro Wagner, direttore esecutivo di Alacero. “Nessuno è contrario al commercio tra Paesi, ma a patto che si parli di commercio equo”, ha dichiarato all’AFP.

Durante una recente visita in Cina, il Segretario del Tesoro statunitense Janet Yellen ha espresso preoccupazione per la “sovrapproduzione” cinese e ha affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno” che il mondo sia inondato di prodotti cinesi venduti in perdita. Nel 2018, gli Stati Uniti hanno imposto dazi doganali aggiuntivi del 25% sull’acciaio cinese. Le industrie cilene e brasiliane vorrebbero seguire l’esempio.

La principale acciaieria cilena, Huachipato, con 2.700 dipendenti diretti e 20.000 subappaltatori, ha presentato una richiesta formale alla Commissione cilena anti-distorsione. Situata a Talcahuano, 500 chilometri a sud di Santiago, ha annunciato la graduale sospensione delle sue attività, sopraffatte dall’acciaio cinese venduto in Cile al 40% in meno rispetto a quello locale. La commissione ha trovato “prove sufficienti a sostegno dell’esistenza di dumping” da parte della Cina e ha raccomandato un prelievo del 15%, che Huachipato ha considerato “insufficiente”.

“Non stiamo chiedendo sussidi o salvataggi. Huachipato ha la capacità di essere redditizia in un ambiente competitivo”, ha dichiarato il suo direttore, Jean Paul Sauré. La decisione di imporre misure di protezione non è facile. Il Cile ha firmato un accordo di libero scambio con la Cina nel 2006, che lo espone a possibili ritorsioni commerciali.

Anche in Brasile, il maggior produttore di acciaio della regione, la situazione è preoccupante. Secondo l’Istituto Aco, l’anno scorso le importazioni dalla Cina sono aumentate del 50% e la produzione è diminuita del 6,5%. Gerdau, uno dei maggiori datori di lavoro di acciaio del gigante sudamericano, ha già licenziato 700 lavoratori. L’ultimo di questi, a febbraio, ha lasciato l’impianto di Pindamonhangaba a San Paolo, a causa del “difficile scenario che il mercato brasiliano deve affrontare a causa delle condizioni predatorie delle importazioni di acciaio cinesi”, ha dichiarato l’azienda. I produttori di acciaio brasiliani chiedono anche tariffe del 25%, come quelle imposte dal Messico su 205 tipi di prodotti siderurgici, per allinearle a quelle degli Stati Uniti, il loro principale partner commerciale.

L’acciaio rappresenta l’1,4% del Pil messicano e genera 700.000 posti di lavoro. Secondo i dati ufficiali, il 77,5% delle esportazioni è destinato agli Stati Uniti.

In America Latina, l’acciaio genera 1,4 milioni di posti di lavoro, altamente specializzati e difficili da riqualificare. L’impatto a breve termine sulla regione dipenderà dall’adozione da parte della Cina di misure per ridurre il suo “surplus” di produzione e, a livello locale, da iniziative per ridurre le importazioni di acciaio, ha dichiarato all’AFP José Manuel Salazar-Xirinachs, segretario esecutivo della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (ECLAC).

Forti acquisti sulle materie prime industriali: il mercato punta su stimoli dalla Cina

Commodities industriali di fuoco. I prezzi salgono nella scommessa che la Cina, primo consumatore mondiale di materie prime, annunci nuovi stimoli dopo un dato deludente sulle esportazioni di marzo. Il petrolio torna sui massimi da 7 mesi, l’oro aggiorna i record storici, l’argento corre verso 30 dollari l’oncia, il rame si avvicina ai top da due anni. Ma salgono anche zinco e nichel, senza contare il rally delle materie prime agricole come caffè e cacao, iper comprate anche per motivi climatici.

Le esportazioni cinesi sono scese del 7,5% su base annua a 279,68 miliardi di dollari a marzo, invertendo nettamente la rotta rispetto al +5,6% del mese precedente. Un dato peggiore delle previsioni di mercato che vedevano un calo del 3%. Nei primi tre mesi dell’anno, le esportazioni sono cresciute invece dell’1,5% su base annua raggiungendo 807,5 miliardi di dollari. Tra i partner commerciali, le esportazioni cumulative per il primo trimestre sono state nettamente inferiori verso Unione Europea (-5,7%), Corea del Sud (-9,8%) e Australia (-8,9%) mentre si sono contratte in misura minore rispetto al Stati Uniti (-1,3%). Anche l’export è calato dell’1,9%, anche questa una percentuale sotto le stime.

Il mercato, di fronte a questi dati, scommette dunque su uno stimolo economico in Cina, che compenserebbe l’impatto di un dollaro forte visto che la Federal Reserve non è intenzionata a tagliare i tassi d’interesse dato che l’inflazione sale da 3 mesi consecutivi negli Usa. I futures del rame salgono di oltre il 2% a 4,34 dollari per libbra, testando livelli visti l’ultima volta quasi due anni prima anche a causa delle preoccupazioni sull’offerta. I prezzi dello zinco crescono di quasi il 3% a 2.840 dollari la tonnellata, segnando un rialzo superiore al 10% mensile e toccando il livello più alto in quasi un anno. E ancora forti acquisti su palladio e platino, legati all’automotive.

L’argento invece torna ai fasti d’epoca pandemica, appesantito da una forte domanda anche industriale e un’offerta che stenta a tenere il passo. L’oro fa invece un altro percorso, tocca i 2400 dollari l’oncia, per i forti acquisti delle banche centrali in attesa di un taglio dei tassi, che prima o poi dovrebbe arrivare secondo il mercato indebolendo il valore reale delle monete, e per le tensioni geopolitiche.

Oro bene rifugio, ma di questi tempi anche il petrolio è comprato complice l’aria di guerra e l’ancora forte domanda globale, I futures del Brent aumentano di quasi il 2% a oltre 91 dollari al barile con la prospettiva di un conflitto più ampio in Medio Oriente. Israele si starebbe preparando per un attacco diretto da parte dell’Iran nelle prossime 24-48 ore, poiché Teheran aveva precedentemente promesso di reagire contro un sospetto attacco israeliano alla sua ambasciata in Siria. Infine gli ultimi round di colloqui per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas non hanno prodotto risultati.

La ripresa delle materie prime potrebbe ora riaccendere l’inflazione e rovinare così i piani delle banche centrali, che ipotizzano tagli al costo del denaro da giugno in poi.

Trilaterale Italia-Francia-Germania, Urso: “Passare a un’economia Ue dei produttori”

Sostegno mirato alle imprese, soprattutto Pmi, meno burocrazia e più competitività per non perdere la sfida con Cina e Usa. Dalla nuova riunione trilaterale Italia-Francia-Germania si delinea in maniera ancora più definita l’idea di politica industriale per l’Europa post elezioni. A Parigi i tre ministri che nei rispettivi governi gestiscono la delega rinforzano la partnership e concordano sulla necessità di andare avanti con la doppia transizione, ecologica e digitale, seppur con meno vincoli rispetto al Green Deal originario, e sulla “necessità di un’azione urgente per sbloccare il potenziale tecnologico e innovativo delle imprese europee“. Noi “non vorremo che l’Europa, da continente della tecnologia e dello sviluppo diventasse un museo all’aria aperta“, spiega il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, al termine dell’incontro. Sottolineando che occorre “passare da un’economia dei consumatori a un’economia dei produttori“, perché “in questi anni abbiamo sviluppato e incentivato i consumi e questo è andato sempre più questo a beneficio dei prodotti e delle imprese di altri continenti, che non rispondono alle nostre stesse regole in termini di standard ambientali e sociali, quindi spesso anche attraverso concorrenza sleale“.

Ben venga, dunque, anche la proposta del ministro dell’Economia, delle Finanze e della Sovranità industriale e digitale della Francia, Bruno Le Maire: una sorta di ‘preferenza’ alle imprese continentali negli appalti Ue. Anche se non è l’unica soluzione che incontra il favore dell’Italia: “Abbiamo detto con chiarezza ai nostri colleghi che condividiamo tutte quelle misure che possono consentire di passare dall’Europa dei consumatori all’Europa dei produttori. Quindi, a una politica industriale che tuteli, rafforzi e rilanci il sistema delle imprese europee“, spiega ancora Urso. Aggiungendo che “questo lo si può fare con misure come quella proposta da Le Maire, ma anche con il nuovo focus della Commissione Ue per accertare se c’è concorrenza sleale e dumping nella vendita di macchine elettriche cinesi” o “con i criteri di qualità, come stiamo facendo noi in Italia, sugli incentivi pubblici per realizzare impianti fotovoltaici ai fini dell’autoconsumo”. Dunque, “da questo punto di vista il governo è neutrale sugli strumenti da utilizzare, ma ben consapevole di quale sia la rotta da determinare per il continente europeo“.

Il ministro federale tedesco dell’economia e dell’azione per il clima, Robert Habeck, parla di “tecnologie innovative, come le biotecnologie e le tecnologie verdi nell’industria eolica, solare e di trasformazione, che sono fondamentali per la crescita economica. La neutralità climatica e la nostra sovranità tecnologica nel prossimo futuro e necessitano quindi di un ambiente favorevole agli investimenti – sottolinea -. Il nostro scambio ha anche sottolineato la necessità di maggiori sinergie europee nelle nostre industrie della difesa, che a mio avviso è fondamentale“.

Tra le soluzioni studiate al vertice di Parigi c’è quella sulla semplificazione e accelerazione delle autorizzazioni e l’accesso ai programmi di finanziamento europei e agli aiuti di Stato, in particolare per le pmi, eliminando le sovrapposizioni normative e riducendo gli obblighi di rendicontazione “ben oltre l’obiettivo della Commissione Ue del 25%. O ancora “incrementare gli investimenti pubblici e privati per rafforzare l’innovazione, la produttività e la competitività” e portare a compimento, con successo, la doppia transizione. Con un “sostegno mirato alle imprese dei settori industriali più strategici“. In questo senso, dunque, vanno rafforzati i finanziamenti dell’Ue per i beni pubblici europei e le infrastrutture e coinvolgendo maggiormente la Banca europea per gli investimenti. Ma serve anche un “ampio mix di nuove risorse proprie“, con un’Unione europea capace di “finanziare progetti tecnologici di innovazione, in particolare per le tecnologie pulite e net zero, l’intelligenza artificiale dai chip alla capacità di calcolo e ai modelli di grandi dimensioni, i semiconduttori e la cybersicurezza“.

Altro punto rilevante, messo nero su bianco nella dichiarazione congiunta finale, riguarda la necessità di “applicare meglio, approfondire e rafforzare il mercato unico per sfruttare appieno i vantaggi dell’integrazione economica europea, garantendo regole comuni e una forte supervisione, nonché l’applicazione delle norme, in particolare per i prodotti importati“. L’obiettivo, infatti, è “garantire una concorrenza efficace nel mercato unico e affrontare adeguatamente i problemi strutturali della concorrenza nel contesto globale, in particolare nei settori che hanno una dimensione internazionale e sono di grande importanza per l’economia generale dell’Ue“. Urso, Le Maire e Habeck, infine, auspicano “un controllo efficace delle fusioni che impedisca le ‘acquisizioni killer’ con certezza giuridica e chiedono un’attuazione e un monitoraggio approfonditi della legge sui mercati digitali“.

 

Photo credit: account X Adolfo Urso

Il mercato cinese al centro della rivoluzione globale delle auto elettriche

La Cina è il più grande mercato al mondo per le auto elettriche, settore altamente competitivo, conteso tra produttori affermati e nuovi arrivati come il gigante dell’elettronica Xiaomi, che questa settimana ha lanciato il suo primo veicolo elettrico. Di tutti i nuovi veicoli elettrici acquistati nel mondo lo scorso dicembre, il 69% è stato venduto in Cina. Secondo Ryastad quest’anno il mercato globale raggiungerà 17,5 milioni di auto elettriche, di cui 11,5 milioni in Cina, ovvero il 65%. La spettacolare ascesa di questi produttori ha alimentato la sfida di Pechino alle potenze automobilistiche tradizionali: l’anno scorso, ad esempio, la Cina ha superato il Giappone come primo esportatore mondiale di automobili.

BYD – ‘Biyadi’ in cinese e acronimo di ‘Build Your Dreams’ in inglese – è il principale produttore cinese nella nicchia dei veicoli elettrici. Fondata nel 1995, si è specializzata nella progettazione e produzione di batterie, prima di diventare il campione indiscusso in Cina e il principale concorrente di Tesla. Lo scorso anno è stato il primo produttore al mondo a superare il traguardo simbolico dei 5 milioni di veicoli elettrici prodotti. Nel quarto trimestre del 2023, ha superato il gruppo di Elon Musk come maggior venditore di veicoli elettrici al mondo. BYD gode di vantaggi in termini di costi grazie alle sue forti capacità nella catena di fornitura, in particolare nell’immagazzinamento dell’energia. Molti colossi automobilistici stranieri, tra cui Tesla e BMW, dipendono da BYD per le loro batterie.

Chi sono gli altri attori? Dei 129 marchi cinesi di auto elettriche, solo 20 sono riusciti a raggiungere una quota di mercato nazionale pari o superiore all’1%, secondo i dati compilati da Bloomberg. BYD ha una quota di mercato di quasi il 33%, seguita da Tesla con oltre l’8%. Al terzo posto, con il 5,8% del mercato, si trova Wuling, che produce il modello elettrico più venduto in Cina fino ad oggi, una piccola auto a due porte chiamata Hongguang Mini. Completano il gruppo Geely e il produttore di SUV elettrici Li Auto, oltre a XPeng e NIO. L’offerta per i clienti cinesi è altrettanto variegata: dagli autobus alle berline e roadster di lusso, passando per le city car entry-level e di fascia media. Ma anche i giganti tecnologici cinesi vogliono una fetta della torta delle auto elettriche, un mercato che vale miliardi di dollari. Huawei, che è soggetta a sanzioni statunitensi a causa dei suoi presunti legami con le agenzie di sicurezza cinesi, negli ultimi anni ha sviluppato auto elettriche che fanno ampio uso delle tecnologie sviluppate dal gruppo. Anche il gigante cinese di internet Baidu sta lavorando a un modello, con particolare attenzione alla guida autonoma. E giovedì Xiaomi, il terzo produttore di smartphone al mondo, entra nella mischia.

L’abbondanza di modelli offerti da produttori che hanno investito somme considerevoli nel corso degli anni ha portato a una guerra dei prezzi in Cina. Secondo gli analisti, tuttavia, è probabile che il processo di consolidamento del mercato continui, dato che alcune aziende falliscono, si fondono o cercano acquirenti per le loro tecnologie e i loro asset. Inoltre, i sussidi all’acquisto sono stati gradualmente eliminati dal governo, dopo che un sostegno significativo aveva incoraggiato la crescita del settore.

Come hanno reagito le potenze tradizionali? L’ascesa fulminea dell’industria cinese dei veicoli elettrici ha sollevato preoccupazioni a Bruxelles e a Washington, in particolare per quanto riguarda i sussidi cinesi alle auto elettriche. A settembre, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla questione, impegnandosi a difendere l’industria europea dalla concorrenza sleale. Pechino, da parte sua, ha presentato questa settimana una denuncia all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) contro i sussidi concessi dagli Stati Uniti al settore dei veicoli a nuova energia, accusando Washington di concorrenza sleale.

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Nel 2024 un auto elettrica su 4 venduta in Europa sarà prodotta in Cina

Secondo una nuova analisi di Transport & Environment (T&E), quasi un quinto (19,5%) dei veicoli elettrici venduti in Europa l’anno scorso è stato prodotto in Cina (in Italia il 23%); la quota è destinata a raggiungere un quarto (25%) nel 2024. La previsione giunge mentre l’Ue sta valutando l’opportunità di imporre una maggiorazione sulle tariffe per l’import di auto made in China, col fine di bilanciare i sussidi che l’industria cinese già riceve da Pechino. Secondo T&E, l’aumento della produzione di auto elettriche di massa e maggiori investimenti per creare una supply chain di batterie in Europa sono l’unico modo, per le case automobilistiche dell’Ue, di competere con i marchi cinesi. Ma un aumento delle tariffe avrebbe come ulteriore effetto quello di stimolare i competitor internazionali a localizzare in Europa la loro produzione.

Mentre le importazioni in Europa dalla Cina sono state in gran parte costituite da auto Tesla, Dacia e BMW, T&E prevede che i marchi cinesi potrebbero raggiungere l’11% del mercato europeo dei veicoli elettrici nel 2024 e il 20% nel 2027. Questa proiezione conservativa presuppone una crescita lineare della quota di mercato degli OEM cinesi sulla base delle vendite degli ultimi due anni, anche se BYD da sola punta al 5% del mercato europeo delle auto elettriche entro il 2025.

Andrea Boraschi, direttore di T&E Italia, ha dichiarato: “I dazi spingeranno le case automobilistiche a localizzare la produzione di veicoli elettrici in Europa, e questo è potenzialmente un bene per l’occupazione e le competenze che vogliamo far crescere tra i lavoratori. Ma non proteggeranno a lungo l’industria dell’automotive europea. Le aziende cinesi costruiranno fabbriche nel vecchio continente e quando ciò accadrà la nostra industria dovrà essere pronta a raccogliere la sfida“.

L’aumento al 25% delle tariffe Ue su tutte le importazioni di veicoli dalla Cina, secondo l’analisi di T&E, renderebbe le berline e i SUV di medie dimensioni di Pechino più costosi dei loro equivalenti europei, favorendo la produzione locale. I SUV compatti e le auto più grandi importate dalla Cina, con tale tariffa, dovrebbero rimanere leggermente più economici. Tuttavia, secondo T&E, l’Ue in prospettiva non dovrebbe puntare a proteggere le proprie case automobilistiche da una concorrenza significativa, limitando così l’offerta di auto elettriche a prezzi accessibili per gli europei. È fondamentale che una tariffa più elevata sia accompagnata da una spinta normativa per aumentare la produzione di veicoli elettrici in Europa; e di questa spinta dovrebbero essere parte gli obiettivi di elettrificazione delle flotte di auto aziendali entro il 2030, oltre all’obiettivo concordato del 100% di auto zero emissioni nel 2035.

Ma anche gli investimenti nelle batterie agli ioni di litio sono a rischio, poiché le celle prodotte in Cina costano almeno il 20% in meno rispetto all’Europa e i produttori di batterie cinesi sono in vantaggio sia in termini di tecnologia che di catene di fornitura. Anche gli Stati Uniti stanno attirando gli investimenti nella produzione di batterie grazie a generosi sussidi. T&E ritiene che siano necessarie misure industriali – come sussidi per la produzione pulita e circolare e obiettivi ‘Made in EU’ – per stimolare la produzione locale di celle. Poiché nessuna di queste misure è attualmente in vigore, si dovrebbe prendere in considerazione un aumento anche per le tariffe relative all’import di celle delle batterie. Rispetto agli Stati Uniti e alla Cina, l’UE ha attualmente le tariffe più basse.

Andrea Boraschi ha dichiarato: “Le batterie sono i nuovi pannelli solari. La Cina è in vantaggio e le sue aziende statali hanno un’enorme sovraccapacità produttiva. Se vogliamo davvero avere una catena di fornitura di batterie diversificata e resiliente in Europa, dobbiamo svilupparla ora o potremmo non avere una seconda possibilità“.

L’anno del Drago parte bene in Cina che diventa sempre più pericolosa

L’anno del Drago parte bene in Cina per l’industria. I dati di gennaio e febbraio, a cavallo del capodanno lunare, hanno superato le previsioni in diversi settori chiave, indicando una crescita superiore alle attese. Ad esempio, le vendite al dettaglio hanno registrato un +5,5%, oltre le stime, mentre la produzione industriale ha segnato un solido incremento del 7%, evidenziando una robusta attività manifatturiera. Allo stesso modo, gli investimenti in immobilizzazioni hanno superato le aspettative degli analisti, segnalando una fiducia nel mercato e un impegno nel lungo termine da parte delle imprese. Tuttavia, non tutto è stato positivo, poiché il settore immobiliare ha subito una flessione del 9% rispetto all’anno precedente, evidenziando ancora una volta il punto debole di Pechino.

Per quanto riguarda le nuove costruzioni residenziali in base alla superficie, la contrazione si è ampliata addirittura al -30,6% su base annua da inizio anno. E il valore di vendita degli immobili residenziali nuovi è calato del 32,7% su base annua da inizio anno. La pesantezza del mattone frena le potenzialità di crescita. Il portavoce dell’Ufficio nazionale di statistica, Liu Aihua, ha avvertito che la domanda interna rimane insufficiente, indicando che potrebbero essere necessarie ulteriori misure per stimolare la spesa dei consumatori e sostenere la crescita economica. Riparte comunque anche il turismo interno, che sembra aver registrato una crescita rispetto all’anno precedente e ai livelli pre-pandemici del 2019. Tuttavia, il capo economista cinese di Nomura ha osservato che nonostante questa crescita, la spesa turistica media per viaggio è ancora inferiore ai livelli pre-pandemici, indicando che potrebbero essere necessari ulteriori sforzi per stimolare completamente il settore turistico.

E’ l’industria dunque che tiene alta la bandiera cinese. Per settore, le principali aree di forza sono state individuate nella categoria “computer, comunicazioni e altre apparecchiature elettroniche”, che è cresciuta del 14,6% anno su anno. Anche la produzione di attrezzature per i trasporti ha registrato ottimi risultati, con un aumento dell’11%. Numeri che migliorano il commercio estero. Le esportazioni cinesi hanno sorpreso positivamente, registrando un +7,1% nei primi due mesi dell’anno, mentre le importazioni sono aumentate del 3,5%, superando entrambe le previsioni degli esperti. Questo potrebbe indicare una domanda estera robusta per il Made in China, il che potrebbe contribuire a sostenere ulteriormente la crescita del Paese nel corso dell’anno. Secondo i dati doganali, la Cina, il più grande importatore mondiale di Gnl, ha aumentato le sue importazioni di gas liquefatto del 19,3% nel periodo gennaio-febbraio rispetto allo stesso periodo dell’anno