Dazi, 10-11 maggio vertice Usa-Cina in Svizzera: si cerca l’accordo commerciale

La Cina e gli Stati Uniti hanno annunciato che si riuniranno il prossimo fine settimana a Ginevra, in Svizzera. per gettare le basi di negoziati commerciali: si tratta della prima volta dopo l’imposizione da parte di Donald Trump di dazi doganali esorbitanti sui prodotti cinesi e la risposta di Pechino. Allo stesso tempo, la banca centrale cinese ha annunciato una serie di misure per sostenere l’economia del Paese minacciata dalla guerra commerciale con Washington e dal calo dei consumi interni.

La Cina “non sacrificherà la sua posizione di principio” e “difenderà la giustizia” durante l’incontro tra il vice primo ministro He Lifeng, il ministro delle Finanze americano Scott Bessent e il rappresentante americano per il commercio Jamieson Greer, ha avvertito il ministero cinese del Commercio. “Se gli Stati Uniti vogliono risolvere il problema attraverso i negoziati, devono affrontare il grave impatto negativo dei dazi unilaterali su se stessi e sul mondo”, ha aggiunto in un comunicato. “Se gli Stati Uniti dicono una cosa e ne fanno un’altra, o (…) se cercano di continuare a costringere e ricattare la Cina con il pretesto dei colloqui, la Cina non sarà mai d’accordo”. Anche perché i colloqui, assicura Pechino, sono stati organizzati “su richiesta degli Stati Uniti”. “Qualsiasi dialogo deve basarsi sull’uguaglianza, il rispetto e il reciproco vantaggio. Qualsiasi forma di pressione o coercizione non avrà alcun effetto sulla Cina”, ha precisato il ministero.

“Sono ansioso di condurre discussioni produttive con l’obiettivo di riequilibrare il sistema economico internazionale per servire meglio gli interessi degli Stati Uniti”, ha dichiarato da parte sua Bessent in un comunicato. Le due parti si riuniranno sabato e domenica per gettare le basi per i futuri negoziati, ha spiegato a Fox News. “Mi aspetto che si parli di allentamento delle tensioni, non di un grande accordo commerciale”, ha anticipato. “Abbiamo bisogno di un allentamento delle tensioni prima di poter andare avanti”.

Al fine di sostenere un’economia afflitta da consumi stagnanti e dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti, Pechino ha anche annunciato mercoledì la riduzione di un tasso di interesse di riferimento e dell’ammontare delle riserve obbligatorie delle banche per facilitare il credito. “Il tasso di riserva obbligatoria sarà ridotto di 0,5 punti percentuali”, ha spiegato il capo della banca centrale cinese, Pan Gongsheng, durante una conferenza stampa. Ha aggiunto che anche il tasso di pronti contro termine a sette giorni è stato ridotto dall‘1,5% all’1,4%. Gli annunci economici sono proseguiti con la riduzione dei tassi di interesse per chi acquista la prima casa. Il tasso per i primi acquisti immobiliari con prestiti di durata superiore a cinque anni sarà ridotto dal 2,85% al 2,6%, ha dichiarato Pan Gongsheng.

Dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca a gennaio, la sua amministrazione ha imposto nuovi dazi doganali per un totale del 145% sulle merci provenienti dalla Cina, ai quali si aggiungono misure settoriali. Pechino ha reagito imponendo imposte del 125% sulle importazioni statunitensi in Cina, oltre a misure più mirate. Questi livelli sono considerati insostenibili dalla maggior parte degli economisti, al punto da far incombere sugli Stati Uniti e sulla Cina, ma probabilmente anche oltre, il rischio di una recessione accompagnata da un’impennata dei prezzi. “Non è sostenibile, (…) soprattutto dal punto di vista cinese”, ha affermato il segretario al Tesoro americano. “Il 145% e il 125% equivalgono a un embargo”.

I negoziati del 10 e 11 maggio saranno il primo impegno pubblico ufficiale tra le due maggiori economie mondiali per risolvere questa guerra commerciale.

Tajani apre la Via del Cotone alla Croazia: “Non può non essere protagonista”

Photo credit: account X ministero degli Esteri

 

Il momento “è complicato”. Lo sa bene Antonio Tajani, che da ministro degli Esteri si è visto piombare sulla scrivania, dal giorno zero, il dossier dazi. Da quel momento qualcosa, anzi tutto, è cambiato nei piani dell’Occidente. Da quando Washington ha deciso di alzare il muro commerciale sulle importazioni negli Usa, l’Europa ha dovuto ritrovare prima l’unità e poi elaborare una exit strategy per non veder crollare la crescita degli Stati membri.

L’Italia ha fatto un proprio piano, ma riguarda principalmente i mercati da ‘aggredire’: termine tecnico un po’ duro, perché in realtà serve armonia per non perdere terreno. E alleati, altra cosa che Tajani sa perfettamente. Una nuova occasione in questo senso se l’è giocata a Zagabria, al business forum Italia-Croazia, aprendo le porte di un progetto a cui il nostro Paese tiene molto, e non solo per la fine della Via della Seta. O meglio, non più solo per quello, visto che Donald Trump rinvia l’entrata in vigore dei dazi, ma non li cancella (per ora). “Sosteniamo il lavoro del commissario Ue Maros Sefcovic per cercare di raggiungere un accordo con gli Usa”, dice il vicepremier alla platea di imprenditori dei due Paesi, “nel frattempo dobbiamo lavorare insieme e credo che una delle opportunità che abbiamo di fronte è il corridoio Imec, che noi chiamiamo la Via del Cotone, quello che parte dall’India, attraversa Israele, i paesi del Golfo, l’Africa e poi sale sul Mediterraneo verso il nord”. Il ragionamento di Tajani è semplice: “Riteniamo che il porto di Trieste possa essere il terminale o il punto di partenza di questo corridoio commerciale, infrastrutturale e, naturalmente, la Croazia, paese che si affaccia sul mare Adriatico, non può non essere protagonista anche di questa nuova stagione infrastrutturale e commerciale”.

Il ministro rivela di avere in mente “di riunire, alla fine dell’anno, i ministri dei Paesi coinvolti e credo che la Croazia non possa non essere protagonista di un’iniziativa del genere, perché se pensiamo che si debba realizzare una ferrovia da Belgrado a Trieste, Zagabria non può non essere uno dei punti fermi di questo nuovo percorso che deve favorire commercio e sviluppo economico”.

Alleati, dunque. “Gli imprenditori croati sono benvenuti nel nostro Paese: credo che insieme, come joint venture, si possa lavorare anche al di fuori dell’Unione europea. Penso al continente africano, al Sudamerica, all’Asia, l’India – sottolinea il vicepresidente del Consiglio -. Si possono creare cooperazioni tra noi Paesi europei per avere una presenza che favorisca la crescita delle nostre economie”.

Giusto per capire la portata che avrebbe un’operazione del genere, bisogna partire dal livello di interscambi bilaterali che c’è tra Italia e Croazia: stabilmente sugli 8,35 miliardi di euro, con Roma che nel 2024 ha totalizzato 5,6 miliardi di export, un punto percentuale in più dell’anno precedente. Il settore più incisivo è quello petrolifero, ma sono ottimi i risultati anche sui metalli di base e prodotti in metallo, il tessile, l’agroalimentare. In Croazia lavorano oltre 300 imprese italiane, dal campo bancario e assicurativo a quello del turismo, ma pure meccanica, tessile, energia, legname e trasporti. L’interesse è forte anche nel settore ferroviario e nell’energia. Non a caso Tajani, sul punto, dedica un passaggio del suo intervento: “Speriamo che le guerre finiscano presto e si possa abbassare il costo dell’energia. Ma proprio perché ci sono tante opportunità di collaborazione comune, credo che anche da questo punto di vista si possa fare qualche passo in avanti per cercare di ridurre i costi”. Tutti motivi più che validi per provare a stringere una partnership che vada anche oltre il mercato interno europeo. Perché “il momento è complicato”, appunto.

Più import e meno spesa pubblica: Pil Usa in negativo. Petrolio ko, Trump accusa Biden

Secondo la stima preliminare pubblicata dal Bureau of Economic Analysis degli Stati Uniti, il prodotto interno lordo reale è diminuito a un tasso annuo dello 0,3% nel primo trimestre del 2025, mentre il mercato puntava su un +0,2% Nel quarto trimestre del 2024, il Pil reale era invece aumentato del 2,4%. Il calo del Pil reale nel primo trimestre ha riflesso principalmente un aumento delle importazioni, “che rappresentano una sottrazione nel calcolo del Pil “, sottolinea il Bureau of Economic Analysis, e una calo della spesa pubblica.

Movimenti che “sono stati in parte compensati dall’aumento degli investimenti, della spesa dei consumatori e delle esportazioni“. Si tratta del primo dato negativo dal secondo trimestre del 2022. Solo 4 mesi fa, si prevedeva che il Pil sarebbe cresciuto di oltre il 3% nel primo trimestre del 2025. E’ l’inizio dell’effetto dazi? Più nel dettaglio – si legge nel comunicato del Tesoro Usa – “rispetto al quarto trimestre, la flessione del Pil reale nel primo trimestre riflette una ripresa delle utilizzate, una decelerazione della spesa dei consumatori e una flessione della spesa pubblica, in parte compensati dalla ripresa degli investimenti e delle esportazioni“. E inoltre “le vendite finali reali agli acquirenti privati ​​nazionali, ovvero la somma della spesa dei consumatori e degli investimenti fissi privati, sono aumentate del 3% nel primo trimestre, rispetto a un aumento del 2,9% nel trimestre quarto“.

Fuori dai tecnicismi, il presidente Donald Trump ha dato subito la colpa al suo predecessore e ha difeso i dazi dopo un dato del Pil negativo dello 0,3%. nel primo trimestre negli Usa , ben al di sotto delle attese. “Questo è il mercato di Joe Biden, non di Trump. Ho preso il potere solo il 20 gennaio“, ha dichiarato il Tycoon in un post su Truth Social. “I dazi entreranno presto in vigore e le aziende stanno iniziando a trasferirsi negli Stati Uniti in numeri record. Il nostro Paese prospererà, ma dobbiamo liberarci del ‘sovrappeso’ di Biden“, ha affermato. “Ci vorrà un po’, non ha nulla a che vedere con i dazi, solo che ci ha lasciato con numeri negativi, ma quando inizierà il boom, sarà come nessun altro. Siate pazienti!!!“, ha scritto Trump.

Il problema non è solo il Pil però… perché il peggior incubo della Fed rischia di peggiorare: oltre alla crescita negativa, oggi è uscito il dato dell’indice dei prezzi al consumo che balzato al +3,7%, il livello più alto da agosto 2023. Cosa fa adesso Jerome Powell? Per questo i rendimenti dei bond Usa sono in forte aumento, con il rendimento delle obbligazioni a 10 anni in rialzo di quasi 10 punti base rispetto al minimo precedente alla pubblicazione dei dati. Perché i tassi aumentano in un’economia in contrazione? Il mercato teme che stia arrivando la stagflazione? Oggi, pochi minuti prima dei dati sul PIL, sono stati pubblicati i dati Adp sull’occupazione. Ebbene, l’economia statunitense ha creato solo 62.000 posti di lavoro ad aprile, il livello più basso da luglio 2024, come mostrato di seguito da ZeroHedge.

Ecco perché – mentre Wall Street ha provato a recuperare arrivando fino a perdere meno dell’1% dopo un tonfo iniziale – invece i prezzi del petrolio sono crollati di oltre il 3%, attestandosi al di sotto dei 60 dollari, scontando una recessione e un calo della domanda. Per Richard Clarida quello del Pil però è un dato fuorviante, distorto dall’aumento delle importazioni in vista dell’entrata in vigore dei dazi. Per questo la Fed lo ignorerà, secondo l’ex vicepresidente della Federal Reserve. Intanto un nuovo studio del Kiel Institute, che considera l’impatto dell’attuale regime tariffario statunitense del 145% su tutte le importazioni cinesi, sulle contro-tariffe imposte dalla Cina del 125% e su una tariffa generale aggiuntiva del 10% su quasi tutte le importazioni degli Usa, segnala che “l’attuale guerra commerciale tra Stati Uniti e la Cina peserà soprattutto sull’economia americana. L’aumento aumenterà probabilmente del 5,5% e le esportazioni crolleranno di quasi il 17% e il Pil diminuirà fino al -1,6%. Le conseguenze per la Cina stessa sono considerevoli, ma molto meno gravi in ​​Germania e non subiranno praticamente alcun impatto negativo sui vicini asiatici della Cina che dovranno invece affrontare una concorrenza aggiuntiva e sostanziale sul mercato globale“.

Trump allenta la pressione dei dazi sulle auto, ma la misura è temporanea

Il presidente americano Donald Trump ha alleggerito il carico dei dazi doganali per i costruttori automobilistici che producono negli Stati Uniti con componenti importati, evitando in particolare un accumulo delle imposte che sono in vigore dall’inizio di aprile. L’annuncio è arrivato in occasione dei primi 100 giorni del repubblicano alla Casa Bianca durante un comizio a Warren, vicino a Detroit, il cuore dell’industria automobilistica americana. “Vogliamo semplicemente aiutarli in questo periodo di transizione, ma a breve termine”, ha dichiarato il presidente prima di partire per il Michigan. “Se non potevano avere pezzi di ricambio, non volevamo penalizzarli”, ha aggiunto.

Dal 3 aprile, tutti i veicoli importati sul territorio americano sono tassati al 25%. Il decreto presidenziale firmato martedì esenta i costruttori automobilistici dal pagamento di altri dazi doganali, come quelli sull’acciaio o sull’alluminio, per evitare un cumulo. Pagheranno l’importo “più elevato”, ha precisato un responsabile del ministero del Commercio, affermando che queste nuove disposizioni avranno effetto retroattivo al 3 aprile.

I costruttori americani sono tra i più colpiti perché hanno stabilito fabbriche in Messico e Canada. Questi due paesi hanno un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, ma ciò non ha impedito a Donald Trump di includerli nella sua guerra commerciale mondiale. Il loro processo di produzione spesso comporta spostamenti tra i tre paesi. I pezzi di ricambio dovrebbero essere interessati al più tardi il 3 maggio. Alla chiusura della Borsa di New York, le azioni Ford erano in rialzo dell’1,30% e quelle di General Motors in calo dello 0,64%.

La Casa Bianca, inoltre, ha pubblicato sul suo sito web un decreto che istituisce un dispositivo di riduzione per due anni dei dazi doganali per i costruttori. Per tutti i veicoli fabbricati e venduti negli Stati Uniti con parti di ricambio importate, i costruttori americani e stranieri potranno così dedurre il 15% del prezzo di vendita raccomandato il primo anno – e il 10% il secondo – dai dazi doganali del 25% sulle importazioni successive. Questo corrisponderà, secondo quanto specificato nella dichiarazione, a una detrazione del 3,75% del prezzo consigliato nel primo anno (dal 3 aprile 2025 al 30 aprile 2026) e del 2,50% nel secondo (dal 1° maggio 2026 al 30 aprile 2027). Si tratta di “una riduzione e non di un rimborso”, ha precisato Trump, affermando che questo periodo di due anni è stato ritenuto sufficiente dagli industriali per installare una catena di approvvigionamento negli Stati Uniti. Non sono state fornite precisazioni sulle importazioni dalla Cina, che possono essere tassate fino al 245% (ad esempio i veicoli elettrici).

“Ford accoglie con favore e apprezza queste decisioni del presidente Trump, che contribuiranno ad alleggerire l’impatto dei dazi doganali sui costruttori automobilistici, i fornitori e i consumatori”, ha commentato Jim Farley, amministratore delegato del costruttore americano, prima dell’annuncio presidenziale, il cui contenuto era trapelato sui media già lunedì sera. Il costruttore “ritiene essenziali le politiche che incoraggiano le esportazioni e garantiscono una catena di approvvigionamento a costi accessibili per promuovere una maggiore crescita nazionale”, ha aggiunto. Da parte sua, l’amministratrice delegata di General Motors, Mary Barra, ha apprezzato “il sostegno del presidente Trump all’industria automobilistica e ai milioni di americani che dipendono da noi”. Stellantis, che oggi ha presentato i risultati del primo trimestre 2025 “si sta impegnando a fondo con le autorità politiche in materia di tariffe doganali, adottando al contempo misure per ridurne gli impatti”. “Proteggere l’azienda e al tempo stesso dialogare con le istituzioni governative competenti per facilitare l’implementazione e l’evoluzione informata dei provvedimenti” sono gli obiettivi indicati dal gruppo. Allo stesso tempo, “il management si sta attivando per adeguare i piani di produzione e individuare opportunità per migliorare gli approvvigionamenti”.

Dopo l’annuncio presidenziale, l’Associazione dei costruttori americani (AAPC), che rappresenta i tre storici costruttori Ford, GM e Stellantis (Chrysler, Jeep, Dodge, ecc.), ha accolto con favore queste decisioni. “L’applicazione di dazi multipli sullo stesso prodotto o sullo stesso pezzo di ricambio rappresentava una preoccupazione importante per i costruttori americani e siamo lieti che la questione sia stata risolta”, ha commentato Matt Blut, presidente dell’associazione, salutando anche il dispositivo di deduzione. Ha precisato che il decreto presidenziale sarà “esaminato attentamente” per valutarne l’“efficacia” nell’alleggerire il conto doganale.

Tags:
, ,

Stellantis sospende le previsioni per il 2025: “Troppe incertezze legate ai dazi, ma bene misure riduzione”

Stop alla guidance finanziaria per il 2025 a causa delle incertezze legate alle tariffe doganali, alla loro evoluzione e alla “difficoltà di prevederne i possibili impatti sui volumi di mercato e sul panorama competitivo”. In sostanza, l’alleggerimento dei dazi sul settore automotive annunciato dal presidente Usa, Donald Trump non è sufficiente a rassicurare le aziende che ora puntano tutto sulla prudenza. In primis Stellantis, che nel giorno in cui annuncia i risultati del primo trimestre – non troppo lusinghieri – spiega che “non è possibile al momento garantire una previsione con un grado di accuratezza adeguato”. Ma, assicura il Cfo, Doug Ostermann, “l’azienda si impegna a ripristinare le previsioni finanziarie quando sarà in grado di farlo in modo attendibile”. Il contesto, insomma, è ancora troppo “turbolento”, anche perché il quadro politico sui dazi “è cambiato rispetto a quando abbiamo fissato le nostre previsioni per il 2025 e continua ad evolversi”. In ogni caso il gruppo apprezza naturalmente le misure di alleggerimento dei dazi” decise da Trump e valutando “l’impatto della nuova politica sulle nostre attività in Nord America. Ciononostante, permangono forti incertezze”.

Su questo fronte l’obiettivo del gruppo non cambia: “proteggere l’azienda e al tempo stesso dialogare con le istituzioni governative competenti per facilitare l’implementazione e l’evoluzione informata dei provvedimenti”. Allo stesso tempo, “il management si sta attivando per adeguare i piani di produzione e individuare opportunità per migliorare gli approvvigionamenti”.

Stellantis produce al di fuori degli Stati Uniti (in Messico e Canada) i due quinti delle auto che vende nel Paese. Sebbene abbia annunciato un aumento della produzione americana, ha già dovuto sospendere l’attività in alcuni stabilimenti per adeguarsi al nuovo costo dei componenti legato ai dazi doganali e al rallentamento del mercato americano.

In questo contesto, risultati del primo trimestre non sono eccezionali. I ricavi sono stati pari a 35,8 miliardi di euro, in calo del 14% rispetto al 1° trimestre 2024, principalmente, “a causa dei minori volumi di consegne, nonché di un mix e di prezzi sfavorevoli”. Nello stesso periodo dello scorso anno i ricavi netti erano stati pari a 41,7 miliardi di euro. Diminuiscono anche le consegne consolidate, che da gennaio a marzo sono state pari a 1.217 mila unità (118.000 in meno), in calo del 9%. Il dato, spiega il gruppo, “riflette la minore produzione in Nord America, conseguenza del prolungamento di inattività festiva in gennaio, l’impatto della transizione del portafoglio prodotti e i minori volumi di LCV nell’Europa allargata”.

Ecco perché, di fronte a una performance “difficile e non all’altezza delle nostre aspettative”, ha spiegato Ostermann, “ora ci concentriamo sull’esecuzione della strategia, cioè sulle cose che possiamo controllare in un contesto molto turbolento”. Allo stesso tempo, ha ricordato, “stiamo assistendo a importanti progressi grazie alle nostre azioni di ripresa commerciale. Inoltre, stiamo procedendo bene con il lancio della nuova ondata di prodotti per il 2025, colmando le lacune di prodotto e ampliando le nostre opportunità”.

In Europa, la quota di mercato del primo trimestre 2025, pari al 17,3%, è stata superiore di 190 punti base rispetto al quarto trimestre 2024 e in Sud America, il cosiddetto ‘Terzo motore’, l’azienda ha mantenuto la sua posizione di leader, con una quota di mercato del 23,8%, in aumento di 1,5 punti percentuali. “La ripresa commerciale” negli Usa “è in una fase iniziale”, ha detto il Cfo, e “stiamo assistendo a progressi incoraggianti”.

 

Il liberale Carney trionfa in Canada e promette: “Non dimentichiamo tradimento Usa”

Storica vittoria elettorale in Canada per il primo ministro liberale Mark Carney che ha promesso di trionfare sugli Stati Uniti nella guerra commerciale lanciata da Donald Trump e di non dimenticare mai il “tradimento” americano. I liberali potrebbero tuttavia fallire di poco l’ottenimento della maggioranza in Parlamento e quindi essere costretti a governare con l’appoggio di un altro partito. Lo spoglio è ancora in corso in alcune regioni.

Solo pochi mesi fa, la strada sembrava spianata per consentire ai conservatori canadesi guidati da Pierre Poilievre di tornare al potere, dopo dieci anni di governo di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi doganali e minacce di annessione, hanno cambiato le carte in tavola. Davanti ai suoi sostenitori nella notte tra lunedì e martedì, Carney ha affermato che “il vecchio rapporto con gli Stati Uniti è finito”. Il “presidente Trump sta cercando di distruggerci per possederci”, ha aggiunto, invitando il Paese all’unità per “i difficili mesi a venire che richiederanno sacrifici”.

In un discorso in cui ha riconosciuto la sua sconfitta, il suo principale avversario, Poilievre, ha promesso di lavorare con Carney e di mettere l’interesse del Paese al di sopra delle lotte partigiane di fronte alle “minacce irresponsabili” del presidente americano. Poco prima, nell’arena di hockey dove erano riuniti i sostenitori liberali, l’annuncio della vittoria aveva provocato un’ovazione e grida entusiastiche.

Per il ministro della Cultura Steven Guilbeault, “i numerosi attacchi del presidente Trump all’economia canadese, ma anche alla nostra sovranità e alla nostra stessa identità, hanno davvero mobilitato i canadesi”, ha dichiarato alla rete pubblica CBC.E gli elettori “hanno visto che il primo ministro Carney ha esperienza sulla scena mondiale”.

Nelle lunghe file davanti ai seggi elettorali durante tutta la giornata, i canadesi hanno sottolineato l‘importanza di questo voto, parlando di elezioni storiche e decisive per il futuro di questo Paese di 41 milioni di abitanti. A 60 anni, Mark Carney, novizio in politica ma economista di fama, ha saputo convincere una popolazione preoccupata per il futuro economico e la sovranità del Paese che era la persona giusta per guidare il Canada in questi tempi difficili.

L’ex governatore della Banca del Canada e della Gran Bretagna ha ripetuto più volte durante la campagna elettorale che la minaccia americana è reale. “Il caos è entrato nelle nostre vite. È una tragedia, ma è anche una realtà. La questione chiave di queste elezioni è chi è nella posizione migliore per opporsi al presidente Trump”, aveva ripetuto più volte.

Per far fronte alla situazione, ha promesso di mantenere i dazi doganali sui prodotti americani fintanto che le misure di Washington saranno in vigore, ma anche di sviluppare il commercio all’interno del suo Paese eliminando le barriere doganali tra le province e cercando nuovi sbocchi, in particolare in Europa. I legami tra Europa e Canada “sono forti e si stanno rafforzando”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, congratulandosi con Carney per la vittoria. “Non vedo l’ora di lavorare a stretto contatto, sia a livello bilaterale che all’interno del G7. Difenderemo i nostri valori democratici comuni, incoraggeremo il multilateralismo e saremo paladini del commercio libero ed equo”, ha scritto su X. A Londra, anche il primo ministro britannico Keir Starmer si è congratulato con Carney e ha espresso la sua soddisfazione per il “rafforzamento dei legami” tra Regno Unito e Canada.

Anche la Cina si è detta pronta “a sviluppare le relazioni sino-canadesi sulla base del rispetto reciproco, dell’uguaglianza e dei vantaggi reciproci”, ha dichiarato Guo Jiakun, portavoce del ministero degli Affari esteri cinese. La vittoria di Carney è stata salutata positivamente anche dall’India. Il primo ministro Narendra Modi ha annunciato di voler “rafforzare la partnership” e “aprire nuove opportunità” tra i due paesi. E di legami più stretti ha parlato anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “Siamo convinti – ha scritto sui social – che la nostra partnership non potrà che rafforzarsi nella nostra comune ricerca di pace, giustizia e sicurezza”.

Il leader conservatore Poilievre, che aveva promesso tagli alle tasse e alla spesa pubblica, non è riuscito a convincere gli elettori di questo Paese del G7, nona potenza mondiale, a voltare le spalle ai liberali. E alla fine ha anche pagato per la sua vicinanza, per il suo stile e per alcune delle sue idee, al presidente americano, che gli ha alienato una parte dell’elettorato, secondo gli analisti.

Quasi 29 milioni di elettori erano chiamati alle urne in questo vasto Paese che si estende su sei fusi orari. E più di 7,3 milioni di persone hanno votato in anticipo, un record.

Dazi, Cina: Siamo dalla parte giusta della storia nei confronti degli Usa

Pechino si trova “dalla parte giusta della storia” nella guerra commerciale lanciata da Washington, la Cina ne è convinta.

Dal suo ritorno alla Casa Bianca a gennaio, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi di almeno il 10% alla maggior parte dei partner commerciali degli Stati Uniti e un’imposta aggiuntiva del 145% sulla maggior parte dei prodotti cinesi che entrano nel territorio americano. Pechino ha reagito introducendo a sua volta dazi del 125% sui prodotti americani.

“La Cina resterà al fianco della stragrande maggioranza dei paesi del mondo, dalla parte giusta della storia e del progresso umano”, spiega in conferenza stampa Zhao Chenxin, vicedirettore dell’agenzia cinese di pianificazione economica. Lui e diversi alti funzionari dei ministeri hanno promesso che il governo adotterà ulteriori misure per rilanciare l’economia, i consumi interni e attenuare gli effetti della guerra commerciale con gli Stati Uniti.

“Siamo convinti che opporsi al mondo e alla verità porterebbe solo all’isolamento. Solo avanzando mano nella mano con la comunità mondiale e difendendo la moralità e la giustizia potremo costruire il futuro”, sottolinea Zhao Chenxin, vicedirettore della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (NDRC). Gli Stati Uniti “si abbandonano all’intimidazione e all’egemonismo, venendo costantemente meno ai propri impegni”, denuncia.

Il ministro delle Finanze americano Scott Bessent difende la politica doganale di Donald Trump, che sta sconvolgendo l’economia mondiale, vedendovi un mezzo per creare “incertezza strategica” al fine di avvantaggiare gli Stati Uniti. Pechino promette regolarmente di portare avanti la guerra commerciale “fino alla fine” se Washington continuerà con le sue misure doganali. La Cina ha tuttavia riconosciuto che la tempesta commerciale scatenata da Donald Trump ha ripercussioni sulla sua economia, che rimane fortemente dipendente dalle esportazioni. “Sebbene l’economia nazionale continui la sua ripresa, le basi per un miglioramento sostenibile richiedono un ulteriore rafforzamento di fronte alle crescenti pressioni esterne”, ammette Yu Jiadong, viceministro delle Risorse umane. “Le successive imposizioni di dazi doganali esorbitanti da parte degli Stati Uniti – osserva – hanno creato difficoltà di produzione e di esercizio per alcune imprese esportatrici e hanno inciso sull’occupazione di alcuni lavoratori”.

Usa, 12 Stati in rivolta contro Trump: “Dazi illegali, facciamo causa al governo”

“Il Congresso non ha concesso al presidente l’autorità di imporre queste tariffe, pertanto l’amministrazione ha violato la legge imponendole tramite ordini esecutivi, post sui social media e ordini delle agenzie”. Queste le parole con cui una coalizione di 12 Stati americani ha annunciato una causa legale contro l’amministrazione Trump per la nuova politica commerciale sui dazi, definita “illegale”. I governi statali sostengono che il presidente non abbia il potere di imporre arbitrariamente tariffe e che abbia in questo modo scavalcato il parlamento.

Già la California, il 16 aprile scorso, aveva annunciato di aver avviato una causa contro la Casa Bianca. Ora procedure legali analoghe sono state presentata in Arizona, Colorado, Connecticut, Delaware, Illinois, Maine, Minnesota, Nevada, New Mexico, New York, Oregon e Vermont: solo Nevada e Vermont non sono a guida democratica, bensì governati da repubblicani. I dazi emessi ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa) dall’amministrazione Trump “aumentano le tasse sulle importazioni da quasi tutti i paesi del mondo, compresi i più stretti alleati e partner commerciali degli Stati Uniti, e hanno già causato gravi danni economici”, spiega la nota diffusa tra gli altri dall’ufficio della procuratrice generale di New York, Letitia James. “Trump non ha il potere di aumentare le tariffe a suo piacimento, ma è esattamente ciò che ha fatto con questi dazi. Ha promesso che avrebbe abbassato i prezzi e alleggerito il costo della vita, ma questi dazi illegali avranno l’effetto esattamente opposto sulle famiglie americane. Se non venissero fermati porteranno a maggiore inflazione, disoccupazione e danni economici” ha ammonito James, membro del partito democratico e procuratrice generale di New York dal 2019.

Secondo quanto sottolineato dalla coalizione, “l’Ieepa al massimo consente al presidente di imporre dazi in risposta a minacce straordinarie o a un’emergenza specifica. Tuttavia da febbraio il presidente Trump ha imposto unilateralmente dazi doganali ingenti contro i partner commerciali più stretti dell’America. Questi dazi sono stati ampliati con una serie di annunci ad aprile, fino a coprire quasi tutti i paesi del mondo, compresi luoghi non coinvolti nel commercio internazionale, come le isole Heard e McDonald, che non hanno alcuna popolazione umana nota”. La causa è stata presentata alla Corte del commercio internazionale di New York (Us Court of International Trade) e chiede un’ordinanza che sospenda i dazi “e impedisca all’amministrazione Trump di applicarli o implementarli”. Nel documento la coalizione dei 12 Stati sostiene che “la legge non è stata concepita per consentire al presidente di imporre dazi unilaterali e indiscriminati a livello mondiale” e che l’amministrazione Trump “abbia abusato della propria autorità e violato la Costituzione e l’Administrative Procedure Act”.

Duro il commento della governatrice di New York, Kathy Hochul, secondo cui “le tariffe sconsiderate del presidente Trump hanno fatto schizzare alle stelle i costi per i consumatori e scatenato il caos economico in tutto il Paese. New York si sta mobilitando per contrastare il più grande aumento delle tasse federali nella storia americana. Con la procuratrice generale stiamo collaborando in questa causa per conto dei consumatori di New York, perché non possiamo permettere che il presidente Trump spinga il nostro Paese in recessione”.

La nota dell’ufficio della Procura generale di NY cita un rapporto del New York City Comptroller che ha stimato che anche una lieve recessione causata dalle tariffe porterebbe alla perdita di oltre 35.000 posti di lavoro nella sola città di New York e le agenzie statali potrebbero dover pagare “oltre 100 milioni di dollari di costi aggiuntivi a causa dell’aumento dei prezzi”. Le tariffe di ritorsione imposte dal Canada sulle centinaia di milioni di dollari di elettricità che New York importa ogni anno “causerebbero un’impennata delle bollette energetiche dei newyorkesi” e in tutto lo Stato, le piccole imprese che dipendono dalle importazioni “stanno già vacillando per la minaccia di prezzi più elevati e l’incertezza causata dalle politiche dell’amministrazione”.

Non è l’unica causa intentata contro l’amministrazione Trump ma si tratta della seconda (in ordine di tempo) che riguarda i dazi. La California, la scorsa settimana, aveva annunciato di aver avviato procedure legali per contestare l’autorità esecutiva di Trump di emanare dazi internazionali “senza l’approvazione del Congresso”. Lo stesso governatore democratico Gavin Newsom ha assunto un ruolo di primo piano in una delle 15 cause intentate contro il governo federale, segnalando un potenziale allontanamento dal suo approccio più riservato nei confronti del presidente. La California, che secondo l’ufficio del governatore ha registrato quasi 675 miliardi di dollari di scambi commerciali bilaterali lo scorso anno, rischierebbe di perdere miliardi di entrate statali a causa delle politiche tariffarie. Messico, Canada e Cina rappresentano i tre maggiori partner commerciali dello Stato. “I dazi illegali stanno creando il caos tra le famiglie, le imprese e l’economia della California, facendo salire i prezzi e minacciando posti di lavoro – aveva dichiarato Newsom -. Stiamo difendendo le famiglie americane che non possono permettersi che il caos continui”.

Tags:
, ,

Meloni vede Vance, ‘dialoga’ per Ue ma non può negoziare. Trump valuta incontro con Vdl

Washington-Bruxelles, via Roma. Per dirimere il nodo dei dazi, Giorgia Meloni continua a porsi da ponte tra Donald Trump e Ursula von der Leyen.

La premier, che ieri ha avuto il bilaterale col presidente americano alla Casa Bianca, oggi accoglie JD Vance a Palazzo Chigi. Prima e dopo, si tiene in contatto con la presidente della Commissione europea. “Come sapete abbiamo avuto un fantastico incontro ieri alla Casa Bianca a Washington e questa presenza è un’altra grande occasione per rafforzare la nostra cooperazione bilaterale“, spiega la prima ministra prima dell’incontro a porte chiuse. Due ore di colloquio con, a seguire, un pranzo di lavoro anche con i due vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. E’ il vicepresidente a precisare che il confronto sui negoziati commerciali con Bruxelles sarebbe proseguito, per il momento, con Roma. La premier insomma dialoga per conto dell’Unione, ma non ha poteri negoziali. Nella dichiarazione congiunta sull’incontro con Trump diffusa dalla Casa Bianca, viene ribadito che il tycoon ha accettato l’invito in Italia, ma si sottolinea che un eventuale incontro con i vertici europei, in quella occasione, è ancora in valutazione. Nel documento, i due leader si dicono concordi ad “adoperarsi per garantire che il commercio tra gli Stati Uniti e l’Europa sia reciprocamente vantaggioso ed equo”.

Sull’Ucraina, Vance annuncia che nelle ultime 24 ore c’è stata una evoluzione. “Aggiornerò il primo ministro, pensiamo di avere alcune cose interessanti da riferire”, afferma, ribadendo quello che già ha comunicato ieri Trump: “Siamo ottimisti e speriamo di poter porre fine a questa guerra brutale“. Nella dichiarazione congiunta Meloni e Trump “sostengono pienamente” la leadership del presidente degli Stati Uniti nel negoziare un cessate il fuoco per “garantire una pace giusta e duratura“.

Tutti gli altri dossier sul tavolo parlano di un “rapporto privilegiato” tra i due Paesi e di una collaborazione sempre più stretta tra Roma e Washington sui più svariati fronti: dall’energia (l’Italia importerà più Gnl dagli Stati Uniti) alla sicurezza, passando per l’economia, lo spazio e la tecnologia. L’impegno di Trump è anche sulla valorizzazione del Piano Mattei:Valuteremo la possibilità di sfruttare il potenziale del Piano“, scrivono nella dichiarazione. E fanno riferimento all’Italia come “hub per il Mediterraneo e il Nord Africa” parlando di investimenti americani nell’intelligenza artificiale e nei servizi cloud in Italia per “massimizzare le opportunità della trasformazione digitale”.

Washington entra invece nello sviluppo dell’Imec, il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa che, si legge, “stimolerà lo sviluppo economico e l’integrazione dall’India, al Golfo, a Israele, all’Italia e fino agli Stati Uniti. Seguendo l’esempio del successo dell’approccio degli Accordi di Abramo del presidente Trump, gli Stati Uniti e l’Italia coopereranno su progetti infrastrutturali cruciali“.

Nel capitolo Difesa, si cita l’“impegno incondizionato nei confronti della Nato” e l’impegno a “garantire che la sicurezza nazionale e la difesa siano allineate e finanziate in modo da poter affrontare le sfide di oggi e, soprattutto, i rischi di domani”. Una collaborazione basata su una “catena di approvvigionamento transatlantica profonda ed estesa“, anche in materia di “attrezzature e tecnologie di difesa“, cioè di armi, “compresa la coproduzione e lo sviluppo congiunto“.

Avanti insieme anche in orbita, con le due missioni spaziali per Marte 2026 e 2028 e l’esplorazione della superficie lunare nelle future missioni Artemis. E con, anche se non viene citata Starlink, la protezione dei dati: “Mentre passiamo alle tecnologie del futuro e le innoviamo, come il 6G, l’intelligenza artificiale, l’informatica quantistica e le biotecnologie, ci impegniamo anche a esplorare opportunità per rafforzare le partnership in questi settori critici che proteggono i nostri dati da avversari che potrebbero sfruttarli“. Alla fine del colloquio, Trump torna a elogiare la prima ministra: “E’ stata grandiosa ieri, ama il suo Paese e l’impressione che ha lasciato su tutti è stata fantastica“, scrive su Truth. “Grazie, presidente“, risponde lei su X: “Continueremo a lavorare insieme per rafforzare il legame tra i nostri popoli e affrontare con determinazione le sfide globali”.

Dazi e clima di incertezza frenano il Pil. Giorgetti: “Spese difesa al 2% già dal 2025”

I conti pubblici dell’Italia tengono, il problema è capire per quanto ancora. Dalle audizioni sul Documento di finanza pubblica 2025 emergono tre rischi sostanziali per la crescita: i dazi voluti e imposti da Donald Trump, le tensioni geopolitiche ancora lontane da una soluzione e l’aumento delle spese per la difesa. Partendo dall’ultimo punto, è il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, a dare la notizia: “Già da quest’anno saremo in grado di raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil”.

Il sentiero resta comunque prudente, del resto il troppo rigore nel Psb e nel Dfp è una delle principali critiche che arrivano dalle opposizioni, ma anche da alcune realtà economiche all’indirizzo del Mef. “Faccio una metafora calcistica: se una squadra parte da un passivo di 2-0 e prende gol è finita – dice Giorgetti -. Io ho un debito da gestire che, ahimè, grava per circa 90 miliardi di interessi che mi divorano spese anche nobili come sanità o scuola. Dunque, prima regola: non prenderle”.

Questo significa che “la soluzione non è uno scostamento di bilancio” né una manovra correttiva, lo dice chiaro e tondo il ministro. Del resto, il “frangente internazionale caratterizzato da cambiamenti sempre più repentini, rendono particolarmente complesso elaborare stime non solo nel lungo termine, ma anche nel breve”. Questo, però, non significa vedere tutto a tinte fosche, anzi. Giorgetti conferma le stime di crescita dimezzate allo 0,6% quest’anno e allo 0,8 il prossimo, ma avverte: “Sembra prospettarsi uno scenario meno avverso di quello messo in conto nelle previsioni ufficiali, più favorevole in termini sia di possibile esito finale della struttura dei dazi a livello internazionale, sia di variabili esogene (quali i prezzi dell’energia e i tassi d’interesse) che condizionano la crescita. Il quadro macroeconomico è pertanto soggetto anche a rischi positivi”. Tutto ciò a patto che il negoziato tra Ue e Usa porti buoni risultati e che l’Europa non faccia scherzi con i possibili ‘bazooka‘, lascia intendere.

Fin qui c’è la visione del governo, ma il Parlamento ascolta anche la voce delle parti sociali. Con i dazi Usa “al 20% la crescita del Prodotto interno lordo sarebbe più contenuta: 0,3% nel 2025 e 0,6% nel 2026”, calcola Confindustria. Che boccia il piano Transizione 5.0 spiegando che “non funziona” e sottolinea il crollo degli investimenti. Sul punto Giorgetti mette in luce che il governo sta lavorando a un “riorientamento” del programma nato dai fondi del RePowerEu per renderlo più fruibile alle aziende e, ovviamente, efficace.

Intanto, non fa sorridere nemmeno la previsione dell’Istat, che ha svolto simulazioni con risultati preoccupanti: una guerra commerciale con gli Usa farebbe contrarre il Pil italiano dello 2 decimi di punto quest’anno e tre decimi il prossimo.

In questo scenario, dunque, è fondamentale – è il coro quasi unanime – portare a piena attuazione il Pnrr, accelerando opere e spesa. Anche Banca d’Italia lo suggerisce, come ‘antidoto’ a “instabilità delle politiche commerciali, la possibilità di prolungate turbolenze sui mercati finanziari e l’adozione di eventuali misure ritorsive da parte dei partner commerciali degli Stati Uniti” che “possono compromettere l’andamento delle esportazioni e incidere negativamente sulla spesa per investimenti e consumi”.

Via Nazionale, però, avverte anche di altri rischi. Innanzitutto che in questo contesto economico contesto economico il rallentamento della crescita potrebbe essere “ancor più marcato di quanto atteso”, ma soprattutto che sull’inflazione (ora contenuta) “un contraccolpo sarà inevitabile se vi sarà un forte rallentamento del commercio mondiale”.

Giorgetti prende nota, poi indirettamente risponde. Sul Piano nazionale di ripresa e resilienza manda un messaggio a Bruxelles quando dice di ritenere “fisiologico che, indipendentemente dal conseguimento degli obiettivi e dei traguardi entro la fine del 2026, parte della spesa dovrà essere contabilizzata anche negli esercizi successivi”. E assicura: “Stiamo lavorando per il raggiungimento degli obiettivi previsti nelle ultime tre tranche e ad un monitoraggio rafforzato dello stato di attuazione del Piano”.

Sono, però, i dazi il tema principale. Il ministro dell’Economia non nega che i toni di Trump siano “eccessivi”, ma a suo modo di vedere non devono nascondere la necessità di rivedere l’intero sistema del commercio internazionale, passando dal “il far west della globalizzazione senza regole”, ovvero il free trade, a un più utile fare trade. Dunque, lascia intendere che il presidente americano può essere lo shock necessario ad aprire il dibattito.

Lo stesso termine, shock, lo usa anche la Corte dei Conti, per definire i dazi che colpiscono l’economia italiana “in una fase di rallentamento dei ritmi produttivi che sono tornati ad assumere intensità inferiori a quelli dell’area euro”. Nel Dfp, spiegano i magistrati contabili, “manca lo sviluppo programmatico” e sono “limitate” le indicazioni sulla composizione di spesa, ragion per cui è “difficile valutare la tenuta del quadro complessivo”.

Altri dati di cui tenere conto sono quelli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che stima una contrazione del Pil italiano dello 0,2 percento nel 2026 se Trump andasse avanti creando un bug nel commercio internazionale. Tra i settori più colpiti, ovviamente, c’è l’automotive.

Non se la passa bene nemmeno il comparto agroalimentare. Da Coldiretti a Confagricoltura, Cia-Agricoltori italiani e Copagri tutti chiedono a governo e Parlamento di confermare le misure di sostegno al comparto, oltre a favorire il credito e intervenire sulle infrastrutture, in particolare quelle idriche. In particolare, i coltivatori diretti propongono di creare “una sinergia tra vari attori istituzionali, ad esempio Ice, Sace, Simest, Cdp, per supportare anche a costo zero le imprese dell’agroalimentare che esportano negli Stati Uniti, creando una vera e propria infrastruttura a supporto delle aziende”. Martedì 22 aprile l’ultimo giro di audizioni per le commissioni Bilancio di Camera e Senato, con consulenti del lavoro, commercialisti, cooperative e pmi, sperando che nel frattempo, da Washington e Bruxelles, arrivino buone notizie.