Frans Timmermans

Gozzi: “Timmermans ha smesso di fare danni ma la sua eredità è pesante”

Frans Timmermans, olandese, socialista, Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’, ha lasciato il suo incarico per candidarsi primo ministro dello schieramento di sinistra per le elezioni che si terranno prossimamente nel suo Paese.

Gli ultimi mesi della sua attività europea sono stati frenetici nel tentativo di far passare, nel complesso meccanismo legislativo comunitario (Commissione, Consiglio Europeo e Parlamento, il cosiddetto Trilogo), il maggior numero di norme e regolamenti riguardanti la transizione energetica e la lotta al climate change.

Timmermans, che parla un perfetto italiano e che è tutt’altro che un idealista sognatore ma, a detta di chi lo conosce bene, un politico scaltro e navigato che ha cavalcato l’onda ambientalista, è stato l’esempio e l’alfiere di un approccio ideologico ed estremista che ha pervaso tutta l’azione europea degli ultimi anni in tema di transizione, decarbonizzazione, emissioni di CO2. Un approccio fatto di obiettivi irraggiungibili in tema di decarbonizzazione (Fit for 55), di sovrana noncuranza per le conseguenze economiche, industriali e sociali delle scelte estremiste che hanno trasformato le politiche ambientali e la lotta al cambiamento climatico in una nuova religione pagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e tecnologico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

In molti hanno salutato il suo ritiro dalla scena europea dicendo che “ha finito di fare danni”.

In particolare sembra finalmente farsi strada, all’interno del mondo industriale europeo, una più forte riflessione e consapevolezza sulle conseguenze e sui danni provocati da un approccio estremista alla transizione. Non stiamo parlando di posizioni negazioniste, ma al contrario di soggetti attivi che perseguono convintamente politiche di decarbonizzazione dei processi industriali, fatte però con razionalità e pragmatismo e senza fanatismi ideologici.

Alla Assemblea di Assolombarda tenutasi nel luglio scorso il presidente Alessandro Spada ha ad esempio affermato: “L’Unione Europea con i suoi ambiziosi obiettivi ambientali sta forzatamente intaccando la competitività delle imprese manifatturiere europee. E quello che è del tutto irragionevole è l’accelerazione impressa dalla Commissione Europea che con questi tempi e modalità sta dimostrando di voler scaricare sulle imprese i costi della transizione ecologica”.

Una riflessione matura sul tema apre molteplici interrogativi.

Quale è la ragione per la quale un’area del mondo, l’Europa, responsabile di meno dell’8% delle emissioni globali di CO2 deve adottare un atteggiamento così estremista e così negativo per il futuro economico, industriale e quindi sociale del continente quando a livello mondiale le emissioni crescono ogni anno soprattutto per la fame di energia e di crescita che caratterizza quelli che una volta si chiamavano paesi in via di sviluppo?

Se con un colpo di bacchetta magica l’industria europea, tutta l’industria europea, che è responsabile di meno della metà di quell’8%, chiudesse i battenti (con le conseguenze economiche e sociali facilmente immaginabili) a livello mondiale non cambierebbe praticamente niente in termini di emissioni di CO2.

Quale è la ragione per la quale l’Europa è l’unica tra le grandi aree del pianeta ad aver vietato dal 2035 la produzione di auto a combustione interna e per ridurre le emissioni ha scelto di puntare tutto sull’elettrico (senza peraltro dire come verrà prodotta tutta questa energia elettrica) anziché farlo anche attraverso l’uso di altri combustibili come biocarburanti, carburanti sintetici ecc.?

Le conseguenze di questa scelta, fatta sulla base di un postulato ideologico (rifiuto della neutralità tecnologica ma scelta di una sola tecnologia per la decarbonizzazione e cioè l’elettrico), sono l’aver creato una nuova gigantesca dipendenza dalla Cina, primo paese al mondo per la produzione di auto e di auto elettriche e quasi monopolista nel controllo di tutte le materie prime necessarie alla produzione di batterie (litio, cobalto, vanadio, nichel). Su queste basi il futuro è quello di una grave perdita di quote di mercato dell’industria dell’auto europea a favore di quella cinese.

Quale è la ragione per la quale l’Europa si appresta a perdere una parte consistente della sua produzione di acciaio fatto con gli altoforni e con il carbone quando questo acciaio, detto da ‘ciclo integrale’, è indispensabile alla produzione automobilistica?

E ancora: se perderemo quote importanti di produzione di acciaio, settore in cui l’Italia eccelle (perché applica per più dell’80% della sua produzione la tecnologia del forno elettrico che ha ridottissime emissioni di CO2) perché dobbiamo farlo a favore di Cina, India, Indonesia ecc. mettendoci in condizione di esportare lavoratori disoccupati e di importare CO2?

Abbiamo sostenuto più volte, anche da queste pagine, che l’applicazione delle direttive europee nei prossimi anni comporterà la desertificazione industriale del continente con la scomparsa e/o il ridimensionamento di settori strategici quali l’acciaio, la chimica, la carta, il cemento, il vetro, la ceramica.

Perché tutto questo? Ritorniamo alla domanda iniziale.

L’atteggiamento di Timmermans e della maggioranza della sinistra europea può essere spiegato con il fatto che, persa la rappresentanza della classe operaia e dei ceti produttivi (ad esempio, il 75% degli operai iscritti alla Fiom di Brescia, sulla base di un sondaggio coraggiosamente pubblicato dalla Fiom stessa, ha votato Lega) ha sposato l’ecologismo estremista come nuovo rifugio ideologico.

La sinistra radicale, che non ha mai vinto le elezioni in Europa, non può fare a meno di un nemico (i capitalisti che inquinano) e di un totem ideologico (la decrescita infelice).

Questo estremismo della sinistra, che purtroppo ha condizionato e talvolta improntato le politiche europee, nasce anche da un senso di colpa sui temi dell’ambiente che considerata la situazione dell’Europa è totalmente ingiustificato. Questo senso di colpa non tiene conto infatti degli importantissimi risultati positivi messi a segno, in questi anni, dalla UE sul fronte della difesa dell’ambiente.

Secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto delle pressioni esercitate sull’ambiente da ogni singola nazione, l’Italia figura, nell’elenco dei virtuosi, terza al mondo dopo Regno UnitoSpagna e, tra i paesi che emettono meno CO2, sette sui primi dieci in classifica, tra cui anche Germania Francia oltreché l’Italia, appartengono all’Unione Europea.

Il perché di una posizione ambientalista radicale, astratta e ideologica della sinistra può dunque essere spiegato come sopra, anche se è in contraddizione con la tradizione di quello schieramento politico storicamente attento all’economia e ai problemi del mondo del lavoro.

Ma perché il Partito Popolare e le altre forze moderate, compreso Renew Europe di Macron, hanno seguito questo approccio in maniera quasi acritica? Mistero.

Un mistero che ha aperto spazi e consenso a movimenti populisti e sovranisti di destra cresciuti in molti paesi riscuotendo sostegno in fasce di popolazione che non si sono sentite rappresentate (gilets jaunes in Francia, il partito dei contadini in Olanda, AfD in Germania).

A me sembra che oggi si presenti l’occasione di rilanciare una nuova visione europeista, non sovranista né populista, che non neghi i problemi del climate change, che continui ad essere attenta ai problemi della transizione energetica, ma che lo faccia con gradualità e buon senso e con la consapevolezza che solo le tecnologie e le imprese possono essere i motori di questa transizione. Ciò significa mettere al centro dell’agenda europea la difesa dell’industria, la sua competitività, il suo accompagnamento e sostegno nel difficilissimo sentiero della transizione.

Tale visione deve essere comune a tutte le grandi famiglie politiche europee: Popolari, Liberal-democratici, e perfino i Verdi tedeschi che ultimamente sembrano riflettere sugli errori commessi seguendo l’approccio radicale alla Timmermans. Le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sembrano andare in questa direzione anche se non si può negare che l’appoggio dei verdi e dei socialisti alla sua presidenza l’abbia condizionata non poco.

Anche i socialisti dovrebbero adottare una visione più realistica e razionale invece di continuare ad assecondare la retorica ideologica degli ambientalisti estremisti di fatto nemici dell’Europa. Un aiuto più importante del Sindacato in questo senso forse aiuterebbe, richiamando la sinistra al fatto che senza economia e senza lavoro l’unica transizione è verso la miseria e sarebbero i ceti più deboli a pagarne le peggiori conseguenze.

Folgiero (Fincantieri): “Nel futuro metanolo e idrogeno, studiamo nucleare su grandi navi”

Transizione e decarbonizzazione sono due parole che segneranno il futuro non solo di case e auto, argomenti al centro delle cronache quotidiane, ma anche del trasporto marittimo, che vede l’Italia ponte naturale nel Mediterraneo e che vanta uno dei principali player nella cantieristica e non solo, a livello mondiale, come Fincantieri. Il gruppo ha chiuso il primo semestre con ricavi per 3,669 miliardi, +4,5 % rispetto allo stesso periodo del 2022, e un margine lordo di 185 milioni dai 90 di un anno fa. In un’intervista a GEA, l’amministratore delegato Pierroberto Folgiero indica i progressi del gruppo verso la sostenibilità e traccia le linee del percorso verso la decarbonizzazione.

Sostenibilità. Avete presentato un piano dettagliato con progetti e missioni da qua al 2027. Secondo lei sarà più impegnativa la transizione energetica nel trasporto marittimo rispetto a quello su strada?

“L’intero mondo della navigazione, che sia crocieristico, mercantile o militare, sta attraversando un processo evolutivo all’insegna dei principi della sostenibilità e dell’economia circolare. Nel quadro del nuovo Piano Industriale abbiamo presentato una chiara strategia per realizzare navi sempre più ecologiche, sicure e performanti, proiettandoci verso la nave del futuro, sostenibile e digitale. Si tratta di una sfida particolarmente ardua, perché tutte le problematiche dell’implementazione di tecnologie legate alla decarbonizzazione che si possono incontrare a terra, si moltiplicano in mare, dove peso e spazio costituiscono vincoli ineludibili. Questo non significa che ci lasciamo intimidire, anzi. Per Fincantieri questa traiettoria è una realtà già consolidata”.

Uno dei temi fondamentali è quello dei carburanti: idrogeno e Gnl quanto possono essere soluzioni realistiche e che tempistiche ci sono?

“L’impiego di combustibili alternativi, insieme a tematiche relative alla cattura di CO2 e alla capacità di riciclare i rifiuti prodotti a bordo – oggi le nostre navi raggiungono una quota del 90% – rivestono un ruolo primario nella riduzione dell’impatto ambientale. Il Gnl si presenta come il combustibile marino più pulito attualmente disponibile su larga scala e già il prossimo anno consegneremo la prima unità ad alimentazione duale diesel e Gnl, la Sun Princess del gruppo Carnival. La traiettoria verso il target net zero passerà per il metanolo, per cui abbiamo già ottenuto i primi ordini, l’ammoniaca e l’idrogeno: la prima è in sperimentazione nelle navi per l’offshore, mentre l’idrogeno è già una fonte ausiliaria nelle operazioni in porto delle navi da crociera, grazie all’esperienza della nostra nave-laboratorio Zeus, alimentata tramite fuel cell e prima nel suo genere al mondo”.

Recentemente avete siglato un accordo per studiare l’utilizzo dei propulsori nucleari: la garanzia di zero emissioni in questo caso ci sarebbe, cambierebbe qualcosa per la sicurezza del trasporto?

“Ciò che oscilla tra il potenziale di una tecnologia e la capacità degli operatori di estrarre quel potenziale, è il fulcro della questione. Le forze migliori devono collaborare per far emergere il percorso di sviluppo che condurrà il nostro settore al raggiungimento degli ambiziosi obiettivi che si è posto. È ciò che abbiamo fatto con l’accordo citato, attraverso cui studieremo applicazioni nucleari di IV generazione per navi di grandi dimensioni. Oltre a newcleo, che porta il know-how, abbiamo come partner il Rina, ente di classifica internazionale di primo livello, impegnato nella certificazione di ogni soluzione secondo i più alti standard richiesti, primo fra tutti quello della sicurezza”.

A livello di gruppo puntate a garantire l’utilizzo di energia elettrica al 100% da fonte rinnovabile entro il 2030. Da dove verrà questa energia? 

“I nostri sforzi per aumentare l’uso di energia rinnovabile sono costanti. Lo scorso anno abbiamo firmato un accordo con Renovit, uno dei principali operatori nazionali per le soluzioni innovative di efficienza energetica, per realizzare impianti fotovoltaici nel nostro network produttivo. Stiamo ultimando l’installazione di 22.000 pannelli fotovoltaici in diversi cantieri italiani, che avranno una potenza complessiva di circa 10 MW e, grazie all’autoconsumo dell’energia prodotta, stimabile tra il 75% e il 100%, ci permetteranno di ridurre il prelievo annuale di energia elettrica dalla rete nazionale di circa 11 GWh. La rotta è tracciata”.

Fincantieri è attiva anche nel mondo dell’eolico. Finora, causa aumento dei costi, la corsa all’offshore in Europa sembra rallentata. O non è così? E in Italia?

“L’eolico offshore può essere un grande volano di sviluppo per l’Italia, fornendo un contributo decisivo alla sicurezza e alla transizione energetiche. Il comparto ci vede protagonisti a livello mondiale, grazie a una forte expertise nella progettazione e costruzione di navi di supporto agli impianti eolici in mare aperto e dei campi eolici flottanti”.

Si parla molto di rischio deindustrializzazione. Secondo lei si può coniugare la transizione con la tenuta e il rilancio dell’industria made in Italy?

“Assolutamente. La transizione deve diventare uno dei canali di rilancio della nostra industria. Proprio in riferimento ai parchi eolici, uno sviluppo in questo senso significherebbe un impulso anche all’occupazione, creando posti di lavoro soprattutto al Sud, considerato che un impianto di produzione può impiegare dalle 200 alle 700 persone e che ci potranno volere, a tendere, diversi impianti. Una simile evoluzione rafforzerebbe anche la posizione dell’Italia quale hub energetico del Mediterraneo. Fincantieri è pronta ad agire come attivatore della transizione energetica, guardando al futuro del Paese”.

Decarbonizzare il trasporto marittimo costerà 3 trilioni di dollari. Ma la strada è tracciata

Tre trilioni di dollari. A tanto ammontano gli investimenti necessari ad arrivare alla totale decarbonizzazione dei trasporti marittimi. I tempi per la transizione green del settore, anche se si stanno facendo “importanti sforzi”, possono essere “lunghi e sono necessari enormi investimenti”. E’ quanto emerge dal decimo rapporto annuale ‘Italian Maritime Economy’ a cura di Srm (Centro Studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo). Il trasporto marittimo, infatti, produce il 2,19% di CO2. Un valore “che non sembra particolarmente elevato se non fosse per tre elementi essenziali, che hanno la capacità di condizionare il mercato e trasformarlo: lo shipping a livello mondiale trasporta il 90% delle merci, è un settore capital intensive i cui investimenti di lungo periodo condizionano il futuro ed è fortemente concentrato, per cui le azioni dei big player hanno la possibilità di orientare i mercati”.

I CARBURANTI DEL FUTURO. Nel medio termine, per gli analisti, si può prevedere una progressiva sostituzione del Gnl con il biometano, ammoniaca e, a lungo termine, l’idrogeno “perché più sostenibili e dal minor impatto ambientale”. E anche se “non è ancora definita la scelta del carburante alternativo del futuro”, il settore marittimo è sulla strada giusta.

A luglio 2023 le navi in ordine (in termini di GT) con carburante Gnl rappresentano il 39% del portafoglio ordini; quelle a metanolo il 5,4%; a Lpg il 2,1%; ad altri carburanti alternativi (idrogeno, etano, biofuel, batterie), il 2,8%. Inoltre il 7,7% dell’orderbook riguarda navi ammonia ready (pronte cioè ad utilizzare l’ammoniaca non appena la tecnologia lo consentirà). L’individuazione del carburante alternativo, spiega il rapporto, “è determinante anche per i porti che già stanno realizzando investimenti in infrastrutture che potranno consentire il bunkeraggio”. Diventa questo “un vantaggio strategico perché in tal modo i porti saranno in grado di attrarre nuovi traffici”. Attualmente sono 169 i porti attivi per il bunkeraggio di Ggn (e 95 le strutture in progetto).

IN CINQUE ANNI ITALIA HUB MEDITERRANEO DEL GAS. La spinta verso la transizione ecologica e l’utilizzo di fonti alternative, è l’analisi del rapporto, “contribuirà in futuro a ridurre la domanda di prodotti petroliferi a vantaggio di forme green”. Per il nostro paese molte delle iniziative “devono tener conto dell’attività dei porti che possono diventare dei veri e propri “hub energetici” per lo stoccaggio e/o produzione di Gnl, biocarburanti, idrogeno”.  Si stimano 5 anni per fare dell’Italia il ponte Mediterraneo del gas attraverso 7 rigassificatori in prossimità dei porti e 5 gasdotti da sud volti a far transitare circa 50 miliardi di metri cubi di GNL e fino a 90 miliardi di gas (a pieno regime) per un totale di 140 mld.

LA DIGITALIZZAZIONE DEL SETTORE. Ma c’è un altro strumento “essenziale” per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità, che è, secondo il rapporto, la digitalizzazione del settore“. Il World Economic Forum ha stimato l’impatto nei prossimi 10 anni dell’applicazione della tecnologia digitale nell’industria logistica che si può quantificare nella creazione di 2 milioni di occupati e nella riduzione delle emissioni di carbonio pari a 10 milioni di tonnellate. Il mercato globale della digitalizzazione marittima è stato valutato in 157,4 miliardi di dollari nel 2021 e si prevede che raggiungerà i 423,4 miliardi di dollari entro il 2031, con una crescita del 10,7% dal 2022 al 2031. È questo lo strumento, spiegano gli esperti, “per ottimizzare i risparmi e migliorare tempi e qualità”.

Aggiornamento Pniec in dirittura d’arrivo. Pichetto: “Rispetteremo termine 30/6”

L’aggiornamento del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima sta per vedere la luce. “A giorni, all’inizio della prossima settimana, tireremo le somme del confronto con gli stakeholder. Rispetteremo il termine del 30 giugno“, assicura il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto. Si tratta, spiega, di un “passaggio fondamentale per delineare la politica energetica e ambientale del nostro Paese verso la decarbonizzazione nel medio e lungo periodo“. Per raggiungere gli obiettivi di riduzione dei consumi finali, però, non si potrà prescindere dalla piena attuazione di quanto già previsto nel Pnrr, come potenziato dal nuovo capitolo del Repower Eu.

Sono poi in fase di valutazione altre politiche e la “rimodulazione” di misure esistenti, fa sapere il ministro durante il Question Time della Camera. Parla di un “ventaglio di opzioni ampio” che il governo offrirà per l’implementazione del Piano, a patto che vengano eliminati “vincoli aprioristici” sulle tecnologie e sulle misure da attuare. Al centro della strategia dell’esecutivo per le politiche pubbliche dei prossimi anni c’è l’accelerazione sulle rinnovabili, la promozione dell’efficienza energetica degli edifici, l’incentivazione all’autoconsumo energetico, la decarbonizzazione dei trasporti.

Ma servirà anche, mette in chiaro Pichetto, un “cambiamento sulle abitudini dei consumatori“. Necessario dunque garantire non solo un quadro normativo “semplificato e chiaro” per i cittadini e gli operatori, ma anche forme di sostegno e incentivi fiscali che stimolino la transizione energetica in tutti i settori. Senza trascurare gli investimenti in ricerca e sviluppo per offrire le migliori soluzioni tecnologiche possibili al raggiungimento degli obiettivi nazionali di decarbonizzazione. Per l’obiettivo dell'”inquinamento zero” però, fa notare, l’Europa ha dettato una tempistica “inadeguata che manca di “sano pragmatismo“, quello che serve per accompagnare campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema e per le politiche integrate sui territori.

L’Italia ha manifestato apprezzamento sul livello di ambizione posto dalla proposta europea, ma contestualmente, come ribadito ieri in occasione del Consiglio europeo dei ministri dell’Ambiente, ha richiesto alla Commissione di fissare tempistiche cui si possa ragionevolmente ottemperare“, precisa. Il ministro chiede un confronto, anche bilaterale, con la Commissione europea per “valutare la correttezza dei dati e della metodologia utilizzata per la stesura della bozza di direttiva, in modo tale da evitare, in uno spirito di leale collaborazione, di avallare presupposti errati che inficino ab origine la fattibilità delle politiche messe in campo“.

Italgas sceglie Torino: entro 2026 il nuovo polo innovazione per energia green

Un nuovo polo dell’innovazione dove verranno sviluppati studi e ricerche su metano, biometano e idrogeno verde, contribuendo attivamente al processo di decarbonizzazione e di transizione verso un futuro più sostenibile. E’ il progetto di Italgas che, grazie ad un investimento da 35 milioni di euro, vedrà la luce nella storica sede della società a Torino, in corso Regina Margherita. Il campus, presentato da Città di Torino e Italgas, darà lavoro a circa 250 persone a regime e, attraverso l’avvio di partnership e collaborazioni, dialogherà con le più importanti istituzioni accademiche e gli atenei in Italia e all’estero. Ospiterà, inoltre, il Cyber Range del gruppo, all’interno del quale saranno sviluppate e testate le caratteristiche di sicurezza informatica e resilienza degli apparati e dei sistemi digitali di nuova generazione.

Non solo ricerca, ma anche un occhio attento alla riqualificazione della città e all’ambiente. Il progetto, infatti, comporterà la riqualificazione complessiva dell’area che si estende per circa 44mila metri quadrati (di cui 14mila dedicati ai laboratori), attraverso la ristrutturazione conservativa degli edifici preesistenti e l’ammodernamento delle aree esterne. Inoltre verrà realizzato un nuovo edificio ad alta efficienza energetica che ospiterà un Hub per la ricerca e l’innovazione. Infine è prevista la creazione di spazi verdi e aree per la cittadinanza: oltre 9mila metri quadrati di percorsi pedonali e ciclabili all’interno del sito.

Il cronoprogramma dei lavori prevede due distinte fasi realizzative: entro il 2025 verranno riqualificati tutti gli edifici esistenti e le aree esterne, mentre nel 2026 sarà completato il nuovo Hub e verranno valorizzati i due gasometri, strutture di archeologia industriale dal grande valore storico e identificativo per la città. Parallelamente Italgas effettuerà interventi migliorativi delle aree pubbliche limitrofe alla sede, in particolare in corso Farini, con una nuova viabilità ciclabile e pedonale, estensione degli spazi verdi con aree gioco per i più piccoli e riqualificazione di parcheggi e aiuole.

Dopo l’importante intervento di ristrutturazione e valorizzazione architettonica degli edifici e dell’area di Largo Regio Parco, continuiamo a investire in innovazione a Torino – ha dichiarato l’Amministratore Delegato di Italgas, Paolo Gallo -. Per l’area di Corso Regina Margherita inizia una nuova fase: siamo orgogliosi di poter realizzare un progetto che proietta ulteriormente la città nel futuro energetico del Paese e allo stesso tempo contribuisce al rilancio di un’area tanto importante per il tessuto urbano. Qui sorgerà un polo dedicato all’innovazione e all’eccellenza, senza dimenticare la storia di Italgas e della città, che sarà visibile nella valorizzazione di due gasometri che svettano dall’area e che, negli anni, sono diventati elementi caratteristici del paesaggio urbano”.

Fuori il libro ‘Neutralità climatica e decarbonizzazione’: focus su posizioni Ue e Santa Sede

E’ in uscita, per Biblion Edizioni, il volume ‘Neutralità climatica e decarbonizzazione’, che riporta i risultati di una ricerca triennale finanziata dalla facoltà di Scienze Sociali della Pontificia università san Tommaso d’Aquino. La ricerca nasce dall’esigenza di dare un contributo, fondato su dati scientifici certi e verificati, alle decisioni urgenti da prendere per contrastare i fenomeni meteorologici estremi e il rapido riscaldamento del clima.

Il libro presenta il risultato del lavoro del gruppo di ricercatori e accademici, religiosi e laici, coordinati da p. Alejandro Crosthwaite, O.P., e Luigi Troiani. Vi sono raccolti e commentati dati scientifici su economia, energia, auto elettrica, ambiente terrestre e marino, biodiversità etc. aggiornati al 2023, e l’analisi delle posizioni di Santa Sede e Ue, caso esemplare di come politica e religione possano convergere sulle soluzioni da dare ai problemi cruciali dell’umanità.

Il dibattito politico e morale che, con il nuovo secolo, si è venuto sviluppando riguardo a riscaldamento climatico e ambiente, ha visto Santa Sede e Unione Europea su posizioni di sostanziale condivisione. “La natura diversa delle due istituzioni non ha impedito la convergenza sul percorso da compiere e sugli obiettivi da raggiungere. Il fatto che la Chiesa sia fondata su premesse religiose e morali, e le istituzioni dell’Ue nascano da premesse economiche e politiche non ha ostacolato un dialogo che ha mostrato di avere obiettivi molto simili, in quanto basati sull’esigenza di garantire un futuro degno all’essere umano inteso nella sua integralità“, scrivono gli autori.

A conferma del parallelismo tra le azioni che i due soggetti compiono in favore di una neutralità climatica che si realizzi attraverso la decarbonizzazione dell’economia stanno i documenti ai quali fa riferimento il titolo della ricerca: da un lato l’enciclica papale Laudato si’, dall’altro il Programma della Commissione Europea 2019-2024. Sono pubblicati a cinque anni di distanza l’uno dall’altro: nel 2015 quello di Papa Francesco, nel gennaio 2020 quello della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. All’inizio del terzo decennio del secolo XXI l’umanità ha a disposizione due tracciati programmatici, l’uno di ordine morale e religioso, l’altro politico ed economico, per la risposta collettiva della specie alla grande sfida che sta di fronte al pianeta: quale vita garantirsi nel vicino futuro.

Il Gruppo di studio di Roma su Economia e Neutralità climatica GREEN opera dal 2019 presso la facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino. Ne fanno parte docenti universitari, studiosi, esperti, ricercatori e professionisti, di seguito elencati: Corrado Clini, Alejandro Crosthwaite, Bazyli Remigiusz Degórski, Paolo Ghezzi, Michele Governatori, Giuseppe Poderati, Valeria Sala, Justin Schembri, Pierpaolo Simonini, Davide Tabarelli, Luigi Troiani, Pietro Troianiello, Leonardo Zannier. Green è coordinato da Alejandro Crosthwaite e Luigi Troiani, docenti della Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università san Tommaso d’Aquino. I coordinatori hanno assemblato, ordinato e curato l’edizione in libro, dei materiali elaborati dagli esperti del Gruppo nel triennio di ricerca, in base alle rispettive specializzazioni accademiche e professionali.

Giorgia Meloni/Afp

Il Governo italiano conferma gli obiettivi, ma chiede transizione soft

Decarbonizzazione, croce e delizia per la politica italiana. Automotive, etichettatura dei vini, carburanti, edilizia green: sono solo gli ultimi esempi, in ordine cronologico, di quale sia il livello dei negoziati del nostro Paese in Europa. La transizione ecologica, non è un mistero, in passato ha colto di sorpresa – per usare un eufemismo – le nostre istituzioni, che hanno dovuto imbastire programmi per la riconversione delle imprese in tempi record. Il risultato, però, è più che lodevole visto che finora stiamo rispettando le tabelle di marcia, sebbene siano ancora attive le centrali a carbone presenti sul territorio nazionale. A causa, soprattutto, dell’emergenza energetica che si è aperta da inizio 2022 e acuita dopo l’aggressione russa in Ucraina.

Effetti collaterali, che comunque non fermano il percorso. La linea tracciata dal governo di Giorgia Meloni è quella di incentivare anche la produzione di energia da fonti rinnovabili, obiettivo chiarito dalla stessa premier alla Cop27. E ribadito in più occasioni dal ministro dell’Ambiente e sicurezza energetica, Gilberto Pichetto, che infatti si è espresso con queste parole: “La partita è quella della decarbonizzazione”, perché “ci troviamo nella più grande area europea per presenza di polveri sottili che costa la salute di 20 milioni di abitanti di pianura padana. Per questo la sfida nazionale ed europea è legata al discorso della decarbonizzazione, che il paese deve compiere e che impegnerà per anni i governi a venire”.

Il discorso, proprio in questo punto, si incrocia con i dossier aperti in Europa. In particolare con quello legato all’automotive. A Bruxelles è passata la norma che impone lo stop ai motori endotermici, sia benzina che diesel, per passare al full electric dal 2035. Una decisione molto contestata da Roma, che vede a rischio gli obiettivi di neutralità tecnologica, con la Cina che potrebbe diventare il player globale più forte sulla componentistica e le materie prime per la produzione delle batterie. Pichetto è “convinto che il percorso di decarbonizzazione passi dall’autoveicolo e quindi che l’autostrada sia l’elettrico”, ma “quello che l’Italia non ammette è che sia la scelta di qualcuno. L’obiettivo deve essere togliere le emissioni, nessuno lo mette in discussione. E la sfida è quella della razionalità”.

Servono i biocarburanti per una transizione più soft, ma soprattutto per non mandare all’aria un settore e una filiera d’eccellenza per l’economia del Paese. Peraltro, colossi come Eni da tempo hanno investito su questo ramo. Anche somme ingenti, peraltro, con programmi che toccano l’area del Mediterraneo, senza toccare la produzione alimentare, come ha chiarito il ceo, Claudio Descalzi. Tutti fattori che l’esecutivo sta spingendo nel dialogo europeo, senza mai scostarsi dagli obiettivi prioritari: ridurre le emissioni almeno al 55% entro il 2030 e net zero entro il 2050. Perché su questo si gioca il futuro del Vecchio continente, dell’Italia e anche della politica.

Enel a emissioni zero entro il 2040: la roadmap di decarbonizzazione

Zero emissioni di gas a effetto serra entro il 2040 con una roadmap che porterà l’Enel a eliminare tutte quelle climalteranti dirette e indirette, intraprendere una serie di azioni di contrasto al cambiamento climatico e promuovere la transizione per un’elettrificazione sostenibile.

L’azienda pubblica il suo ‘Zero Emissions Ambition Report’ che “descrive la scelta di Enel di fissare un obiettivo ambizioso rispetto all’originario target global ‘net zero’ per il 2050, sottolineando il nostro forte impegno verso un futuro sostenibile e decarbonizzato per tutti nel contesto della transizione energetica globale“, spiega Ernesto Ciorra, Head of Innovability del gruppo. Un documento che comprende anche tutte le iniziative che coinvolgono gli stakeholder di Enel e che, ribadisce, “evidenzia come la sostenibilità e la lotta al cambiamento climatico modellino le nostre decisioni strategiche e di business, in linea con l’esigenza di promuovere la transizione verso processi industriali più sostenibili, resilienti, neutrali dal punto di vista climatico e intrinsecamente meno rischiosi, coniugando equità e inclusività“.

La roadmap si basa su obiettivi specifici di riduzione dei gas serra validati dalla Science Based Target initiative (SBTi) nel dicembre 2022 e allineati alla limitazione del riscaldamento globale a 1,5ºC, che comprendono: la riduzione delle emissioni dirette derivanti dalla generazione di energia elettrica dell’80% nel 2030 e del 100% nel 2040; la riduzione delle emissioni dirette e indirette derivanti dalla vendita di energia del 78% nel 2030 e del 100% nel 2040; la riduzione delle emissioni indirette derivanti dalla vendita di gas nel mercato retail del 55% entro il 2030 e del 100% nel 2040.

Il rapporto descrive anche le tappe fondamentali che il Gruppo prevede di percorrere per raggiungere le zero emissioni entro il 2040: entro il 2025 le rinnovabili dovrebbero rappresentare circa il 75% della produzione totale di Enel; entro il 2027, Enel completerà la dismissione di tutte le sue centrali a carbone; entro il 2040, tutta la capacità installata sarà al 100% rinnovabile.

Enel avrà cessato le attività di generazione termoelettrica e di vendita di gas nel mercato retail e il 100% dell’elettricità venduta sarà prodotta da fonti rinnovabili. Il Piano strategico 2023-2025, annunciato da Enel lo scorso novembre, indica il percorso per raggiungere questi traguardi.

Il Gruppo investirà un totale di circa 37 miliardi di euro nei prossimi tre anni, principalmente per promuovere un’elettrificazione pulita e sostenibile. Di questi, 17 miliardi di euro saranno dedicati alle energie rinnovabili e 15 miliardi di euro alle reti. Di conseguenza, oltre il 94% degli investimenti sarà allineato agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, soprattutto per il contributo alla mitigazione dei cambiamenti climatici.

Per sostenere la decarbonizzazione dell’economia globale, Enel collabora con diversi stakeholder e con 20 associazioni internazionali, tra cui il Global Compact delle Nazioni Unite (UNGC) e il World Business Council for Sustainable Development (WBCSD), per sostenere la mitigazione dei cambiamenti climatici. Per garantire una transizione giusta a tutti i suoi stakeholder, il Gruppo ha creato programmi di sviluppo di nuove capacità e competenze necessarie nel passaggio a un’economia decarbonizzata, coinvolgendo anche i fornitori nell’affrontare le sfide della transizione energetica e mette i clienti in condizione di convertire gradualmente all’elettricità i propri consumi energetici, consentendo anche l’accesso all’elettricità nelle aree più svantaggiate.

Antonio Gozzi: “Pronti a una produzione totalmente green dell’acciaio”

“L’Italia e la sua siderurgia hanno un primato mondiale, a cui temiamo e che cerchiamo, come si fa sempre quando si è campioni del mondo, di mantenere questo titolo”. Lo dice Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e Duferco, al convegno ‘L’evoluzione dell’agroalimentare italiano ed europeo tra sostenibilità e benessere’, organizzato da Gea ed Eunews. “Quando il mondo parla di dover decarbonizzare le produzioni di acciaio – continua -, quando si parla di processo green, in Italia è già realtà, viene già fatto e viene da lontano”. L’esigenza di comunicarlo, spiega,  “non è l’esigenza darsi una reputazione e una credibilità verde, ma comunicare al mondo, agli stakeholder, ai decisori, ai clienti, ai fornitori e persino ai nostri collaboratori che la siderurgia italiana – che è una elettrosiderurgia, cioè non usa il carbone – per natura è già elettrificata”. E “la produzione da forno elettrico rappresenta ormai più dell’80% del totale”.

L’obiettivo è, per Gozzi, quello di arrivare a una produzione totalmente green dell’acciaio. “I Lucchini, i Lonati, i Pasini… Hanno inventato loro l’elettro-siderurgia. Costruirono un settore decarbonizzato – spiega – tutto attaccato a centrali elettriche, una economia circolare perché non consumava risorse naturale in quanto utilizzava i rottami di ferro. Siamo i primi nel mondo e bisogna dirlo. Per produrre una tonnellata con forno elettrico si emettono 10-12 volte di Co2 in meno rispetto a una tonnellata prodotta a ciclo integrale. Vogliamo mantenere il titolo e arrivare al 2030, ben prima del 2055, ad essere il primo Paese con una produzione totalmente green dell’acciaio”. 

Ma non solo. “Sullo Scope1, cioè le emissioni dirette, la siderurgia italiana è già vicina all’obiettivo di arrivare al 2030, ben prima del 2055, ad essere il primo Paese con una produzione totalmente green dell’acciaio”, conferma il presidente di Federacciai e Duferco. “Usiamo però ancora un po’ di gas – aggiunge – ma al Nord siamo in mezzo alla campagna, dove con scarti e deiezioni animali è possibile arrivare a produrre biogas e biometano. Mi bastano 6 contratti con biodigestori da 1,5 Mwh e arrivare a centrare lo Scope1. Per lo Scope2 attualmente stiamo comprando elettricità dalla rete. I siderurgici però stanno già sostituendo energia dalla rete con elettricità prodotta da rinnovabili. Su 8mila ore di esercizio l’anno ora sono 2000 quelle coperte da rinnovabile. Non saremo solo carbon neutral – conclude Gozzi – ma carbon negative così potremo vendere i certificati verdi. Le rinnovabili però non bastano. Servirà la cattura di Co2 e il nucleare, micro reattori, per i quali saranno necessari una ventina di anni per raggiungere l’obiettivo”.

Amazon investe nelle alghe: assorbono C02, migliorando la biodiversità dell’ecosistema

Un investimento da 1,5 milioni di euro per la creazione della prima coltivazione commerciale di alghe situata tra turbine eoliche offshore al mondo. È l’impegno di Amazon attraverso il fondo globale da 100 milioni Right Now Climate Fund, con cui l’azienda opera per supportare le soluzioni basate sulla natura, in aggiunta all’impegno per la decarbonizzazione delle proprie attività. Il progetto, chiamato North Sea Farm n.1, è situato al largo delle coste dei Paesi Bassi. Le alghe possono aiutare a contrastare il cambiamento climatico in virtù della loro capacità di assorbimento della CO2 e, al contempo, favorire la biodiversità. Quindi, posizionare le coltivazioni di alghe tra le turbine eoliche offshore permette di sfruttare spazio altrimenti inutilizzato per catturare il carbonio e aumentare la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera.

Nel localizzare la coltivazione in un’area precedentemente inutilizzata tra le turbine, il progetto è stato in grado di ricavare spazio per la coltivazione di alghe nel già largamente sfruttato Mar del Nord. Se la coltivazione di alghe marine dovesse espandersi fino ad occupare l’intero spazio dei parchi eolici, che dovrebbe arrivare a circa un milione di ettari entro il 2040, potrebbe ridurre milioni di tonnellate di C02 all’anno. Il progetto, sviluppato da un consorzio di ricercatori scientifici guidato dall’organizzazione no-profit North Sea Farmers (NSF), si prevede possa diventare operativo entro la fine dell’anno. Il consorzio auspica che North Sea Farm n.1 possa diventare un modello di riferimento per le coltivazioni di alghe offshore nel mondo.

La North Sea Farm n.1 ambisce a diventare un modello innovativo nella coltivazione di alghe. L’investimento garantirà i fondi necessari alla costruzione di un’area di dieci ettari per la coltivazione delle alghe, che si prevede possano generare una capacità di produzione di almeno 6.000 chili di alghe fresche nel primo anno. Questo finanziamento aiuterà North Sea Farmers ad analizzare e migliorare la capacità produttiva della coltivazione. Allo stesso tempo, i ricercatori esploreranno le potenzialità delle alghe nella riduzione della CO2 dall’atmosfera, creando un modello dell’impatto su larga scala delle coltivazioni. La no-profit auspica che questi riscontri possano contribuire allo sviluppo del settore e alla conseguente creazione di posti di lavoro.
“Le alghe possono diventare uno strumento cruciale per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, tuttavia sono ad oggi ancora coltivate su scala relativamente ridotta in Europa. Siamo entusiasti di supportare un progetto come questo in grado di contribuire a una maggiore comprensione delle potenzialità delle alghe nel contrasto al cambiamento climatico”, spiega Zak Watts, direttore della Sostenibilità per Amazon in Europa