India, nuovo picco di inquinamento atmosferico: scuole chiuse a Nuova Delhi

L’inquinamento atmosferico ha raggiunto lunedì un nuovo picco, a livelli 60 volte superiori agli standard internazionali, nella capitale indiana Nuova Delhi, dove la maggior parte delle scuole è rimasta chiusa e il traffico è stato limitato. Ogni inverno la megalopoli di 30 milioni di persone affronta picchi di inquinamento causati dal fumo delle fabbriche, dal traffico stradale e dalle combustioni agricole stagionali. Al mattino, le concentrazioni nell’aria di microparticelle tossiche PM 2,5 hanno raggiunto livelli fino a 60 volte superiori alle soglie raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo le letture effettuate da IQAir. In alcune zone della città, uniformemente avvolta da una nebbia opaca, il livello di queste particelle – le più tossiche perché si diffondono nel sangue – ha raggiunto i 907 microgrammi per metro cubo d’aria, secondo IQAir. “I miei occhi bruciano da diversi giorni. C’è più fumo nell’aria, è ovvio”, ha dichiarato all’AFP Subodh Kumar, 30 anni, che guida un taxi a pedali (risciò). “Non so cosa stia facendo il governo”, ha aggiunto, “ma io devo essere in strada, che altro posso fare?“. Le autorità locali hanno attivato il livello 4 del loro piano di allerta domenica sera “per prevenire un ulteriore deterioramento della qualità dell’aria”.

Le lezioni frontali saranno sospese per tutti gli alunni ad eccezione dei livelli 10 e 12” della scuola secondaria, ha ordinato l’amministratore delegato locale Atishi. Le scuole primarie sono chiuse dalla scorsa settimana e gli alunni vengono istruiti a distanza. Inoltre, tutti i lavori di costruzione sono stati sospesi e la circolazione dei mezzi pesanti e dei veicoli più inquinanti è stata fortemente limitata.

Il governo locale ha anche invitato i bambini, gli anziani e chiunque soffra di malattie polmonari o cardiache a “rimanere in casa il più possibile”. Molti residenti della capitale indiana non possono permettersi i depuratori d’aria e vivono in case poco isolate dal mondo esterno. “Chi può permettersi un purificatore d’aria quando sta lottando per pagare le bollette?”, ha dichiarato all’AFP Rinku Kumar, 45 anni, autista di tuk-tuk, taxi a tre ruote motorizzati. “I ministri ricchi e gli alti funzionari possono permettersi di stare a casa, non la gente comune come noi”, ha aggiunto.

Le temperature più basse e i venti invernali più deboli (da metà ottobre a gennaio) intensificano l’inquinamento intrappolando le particelle pericolose. Secondo l’OMS, l’inquinamento atmosferico può causare malattie cardiovascolari e respiratorie, nonché il cancro ai polmoni. Uno studio pubblicato sulla rivista medica Lancet ha attribuito alla scarsa qualità dell’aria la responsabilità della morte di 1,67 milioni di indiani nel 2019. Il mese scorso, la Corte Suprema, il più alto organo giudiziario del Paese, ha aggiunto l’aria pulita all’elenco dei diritti umani fondamentali e ha ordinato al governo di agire di conseguenza. Lunedì scorso, il ministro capo di Nuova Delhi ha messo in discussione l’agricoltura incendiaria praticata negli Stati confinanti con la capitale davanti alla stampa. “Il governo nazionale non sta facendo nulla. Oggi l’intera India settentrionale si trova in un’emergenza sanitaria”, ha lamentato. “Per tutta la notte ho ricevuto telefonate da persone che hanno dovuto ricoverare anziani in ospedale”. Le iniziative prese dalle autorità locali hanno avuto finora scarso effetto.

Dopo aver incoraggiato gli automobilisti a spegnere i motori ai semafori rossi, Nuova Delhi ha recentemente presentato un drone progettato per spruzzare acqua sulle aree più inquinate. Le ONG ambientaliste hanno condannato questa “misura a metà”, chiedendo che le emissioni vengano “fermate alla fonte”.

Green Deal trascurato e inevitabile tra fondi Ue e sponde capitalistiche

Secondo un parere della Commissione Politica di coesione territoriale e bilancio dell’Ue (Coter) del Comitato europeo delle regioni (Cdr), adottato mercoledì 3 luglio, l’Unione europea dovrebbe sostenere tutte le regioni nella realizzazione di una transizione giusta ed equa, in particolare quelle fortemente dipendenti da un unico settore economico o da industrie ad alta intensità energetica. Come sostiene la Coter, le difficoltà incontrate nell’approvazione dei piani di transizione e la riduzione dei fondi alla fine del periodo di programmazione evidenziano la necessità di prorogare il termine per l’utilizzo delle risorse del “Fondo per la transizione” nell’ambito del piano di ripresa dell’Ue di prossima generazione. Il parere invita la Commissione europea a semplificare i finanziamenti e a migliorare la trasparenza nel prossimo quadro finanziario pluriennale (Qfp) dell’Ue post-2027. Presa a prestito da Agence Europe, uno dei punti di riferimento dell’informazione da Bruxelles e su Bruxelles, questa notizia offre lo spunto per rivisitare il Green Deal nell’ottica della Commissione che sarà.

E intanto… Manfred Weber, nominato presidente del Ppe, ha ribadito in un recente intervista che dal Green Deal non si torna indietro. Weber è stato seguito a ruota da Ursula von der Leyen che, nel delicato tentativo di mettere insieme una maggioranza non traballante, ha posto sempre il Green Deal tra le cinque priorità dei prossimi cinque anni di governo. Ovviamente ammesso che, come accade spesso nei Conclave, chi entra Papa non esca cardinale. Green Deal, per la verità, che è stato sorpassato a sinistra da altre tematiche cogenti come la competitività, la Difesa, le questioni sociali e la semplificazione normativa. Sintetizzando: la transizione verde è indispensabile ma non così indispensabile come nel 2019. Ora: cosa sia cambiato in meglio o in peggio dopo un lustro di propositi più o meno buoni è difficile da stabilire con determinazione matematica, ma che siano indispensabili delle correzioni ‘in corsa’ questo è ineluttabile.

Con o senza i Verdi, oppure anche solo con l’appoggio esterno, il Green Deal continuerà a esserci. Giusto. Ma qui si torna al punto di partenza: più delle ideologie e di certe rigide ottusità saranno i denari da investire nella transizione verde a fare la differenza. E di denari ne serviranno davvero tanti: in fondo, più le pratiche sono virtuose più i costi aumentano. Saranno determinanti i fondi privati e il buonsenso collettivo, sarà determinante coinvolgere sempre di più Cina, India e Stati Uniti in un percorso che abbia cura del Pianeta senza creare ulteriori diseguaglianze non solo tra Paesi ma tra blocchi di Paesi, come ad esempio la Ue e i Brics.

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, scrive in un suo intervento che “dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni ‘grandi vecchi’, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi”. Cita Noam Chomsky e Robert Pollin e giunge a sostenere che Occidente e Stati Uniti andranno avanti ma dovranno fare i conti con il popolo. “’Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?, è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste”, sottolinea Gozzi.

Non è indispensabile essere d’accordo, è fondamentale riflettere. E fornire risposte concrete. Il cambiamento climatico è sotto i nostri occhi, “non ci sono più le stagioni di una volta” direbbe qualcuno, ed è una evidenza che si abbatte sulle economie, sul turismo, sull’agricoltura. Come se ne esce? E’ chiaro che ricerca, innovazione, nuove tecnologie, rinnovabili, nucleare sono gli ingredienti indispensabili di una ricetta che, comunque, dovrà avere il sostegno economico di Stati e di industrie. Finanziare il futuro delle generazioni future: non è uno slogan ma una necessità. Insomma, adelante ma con juicio.

Dal carbone alle rinnovabili: il magnate indiano Adani rende green la sua fortuna

Nel bel mezzo del deserto, al confine con il Pakistan, Gautam Adani sta costruendo il più grande parco di energie rinnovabili del mondo. Un investimento nel futuro per l’uomo più ricco dell’Asia, che ha costruito la sua fortuna principalmente sul carbone. Sotto un sole cocente, migliaia di operai ‘coltivano’ file di pannelli solari, preparano il terreno per le future turbine eoliche e srotolano cavi infiniti per alimentare il tutto. A Khavda, il Parco delle Energie Rinnovabili coprirà ben 726 km2, quasi la dimensione di New York. Quando sarà completato nel 2027, dovrebbe generare 30 gigawatt di energia solare ed eolica: 17 GW da parte di Adani, il resto da altre aziende. Abbastanza per dare energia a 18 milioni di persone. Il parco dovrebbe produrre addirittura un terzo in più della Diga delle Tre Gole in Cina, il più grande sito energetico del mondo. Secondo Gautam Adani, che nel 2022 è diventato per breve tempo il secondo uomo più ricco del mondo con una fortuna di 154 miliardi di dollari, l’impianto sarà “visibile anche dallo spazio“.

I critici del magnate affermano che la sua ascesa è stata in gran parte favorita dal primo ministro Narendra Modi. Un anno fa, il suo gruppo è stato accusato di “spudorata manipolazione” delle proprie azioni e di “frode contabile per diversi decenni” dalla società di investimento statunitense Hindenburg Research. Il valore dell’impero è crollato di oltre 150 miliardi di dollari, ma il gruppo ne ha recuperato la maggior parte e, da allora, l’imprenditore 61enne ha speso ingenti somme in progetti di transizione energetica. L’India è il terzo maggior emettitore di CO2 e il governo Modi si è ripetutamente espresso contro la graduale eliminazione del carbone.

Il parco per le energie rinnovabili di Khavda è il fulcro di Adani Green Energy Limited, di cui la francese TotalEnergies ha acquisito una quota del 19,7% per 2,5 miliardi di dollari nel 2021. Il porto commerciale di Mundra, il più grande dell’India e gestito da un altro ramo dell’impero Adani, produce componenti chiave per la sua futura offensiva nel settore delle energie rinnovabili, tra cui eliche di turbine eoliche lunghe 80 metri. “Stiamo creando uno dei più grandi e integrati ecosistemi di energia rinnovabile al mondo per il solare e l’eolico“, ha scritto Gautam Adani su X, dove si descrive come un “orgoglioso indiano“. L’ambizione di Nuova Delhi è di creare 500 gigawatt di capacità di energia rinnovabile entro il 2030 per soddisfare metà del suo fabbisogno. Adani, che respinge le accuse di Hindenburg, ha dichiarato che investirà circa 100 miliardi di dollari in questa transizione energetica. Tuttavia, l’India sta anche pianificando di aumentare la sua capacità di produzione di energia a carbone e non intende essere neutrale dal punto di vista delle emissioni di carbonio fino al 2070.

Secondo Ashok Malik della società di consulenza Asia Group, il Gruppo Adani è “seduto su asset molto solidi” e “riflette le ambizioni, le speranze e la strategia dell’India“. “È perfettamente sensato che una società che è coinvolta solo nel settore energetico indiano inizi a guardare alle energie pulite e rinnovabili come una via d’uscita dal carbone, anche se il carbone non sparirà del tutto“, ha dichiarato l’esperto all’AFP. Al Khavda Park, gli operai indossano elmetti e giubbotti di segnalazione e lavorano con il volto coperto per proteggersi dal sole cocente e dalla sabbia pungente. Un manager non autorizzato a parlare con i media ha comunque dichiarato che le condizioni erano “difficili“. Il sito dista circa 75 km dal villaggio più vicino e sei km dal confine militarizzato con il Pakistan. Un altro dirigente ha detto che le sottounità dell’impianto saranno in grado di funzionare autonomamente “nel caso in cui la sala di controllo centrale diventi inoperante“.

Progetti di questo tipo hanno spesso un costo ambientale elevato, ma l’ambientalista Mahendra Bhanani fa notare che il parco energetico è situato lontano dagli insediamenti umani e da siti rinomati per la loro biodiversità. “L’energia solare è meglio di molte industrie chimiche inquinanti“, afferma, chiedendo uno studio.

L’india non respira più: una ‘green war room’ contro l’inquinamento

La capitale indiana ha allestito una “sala da guerra verde” per combattere l’inquinamento atmosferico, che sta riducendo di dodici anni l’aspettativa di vita dei suoi abitanti. “L’inquinamento è un’emergenza“, ha dichiarato Gopal Rai, ministro dell’Ambiente di Delhi – un territorio che comprende la capitale e la sua regione, una megalopoli in rapida espansione di 30 milioni di abitanti. Nuova Delhi è regolarmente classificata tra le peggiori capitali del mondo in termini di qualità dell’aria. Una vera e propria “epidemia dell’aria“, secondo il signor Rai.
In inverno a Delhi, il livello di PM 2,5 – microparticelle cancerogene che penetrano nei polmoni e nel sangue – è spesso più di 30 volte superiore al livello massimo stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). L’inquinamento riduce l’aspettativa di vita di un abitante di Delhi di una media di 11,9 anni e di cinque anni per gli indiani in generale, secondo un rapporto pubblicato in agosto dall’Energy Policy Institute dell’Università di Chicago. Per affrontare questo problema pluridecennale, a ottobre è stato aperto un centro di coordinamento ad alta tecnologia. Qui, 17 esperti monitorano le tendenze dell’inquinamento in tempo reale su schermi giganti, utilizzando le immagini satellitari della Nasa e gli aggiornamenti degli indici di qualità dell’aria misurati dai sensori. Conosciuto come ‘Green War Room‘, il centro è una piattaforma di coordinamento collegata a 28 agenzie governative. “Non appena la qualità dell’aria si deteriora, allertiamo le nostre squadre a terra che agiscono immediatamente“, ha spiegato Anurag Pawar, ingegnere ambientale presso la War Room.

Una fabbrica inquinante può ricevere un avvertimento, un incendio in una discarica può essere spento, i veicoli che emettono fumo nero o fuochi d’artificio illegali fermati, o i camion inviati per spruzzare la polvere con acqua e farla depositare. D’altra parte, la green war room non può fare nulla per una delle principali fonti di inquinamento: l’incenerimento agricolo, responsabile della tossica foschia giallastra che, insieme alle emissioni industriali e automobilistiche, soffoca Delhi ogni inverno. Nel 2020, uno studio della rivista medica britannica The Lancet ha attribuito 1,67 milioni di morti premature all’anno precedente all’inquinamento atmosferico in India, di cui quasi 17.500 nella capitale.

L’inquinamento atmosferico è “uno dei maggiori rischi ambientali per la salute“, avverte l’Oms. Provoca ictus, malattie cardiache e respiratorie e cancro ai polmoni. Le autorità di Delhi hanno lanciato un’irrorazione biochimica per accelerare la decomposizione delle stoppie. Ma come molti sforzi ambientali, le buone intenzioni si scontrano con ostacoli politici. Secondo Rai, più di due terzi dell’inquinamento atmosferico della città è generato al di fuori dei confini di Delhi, dove le autorità locali non hanno il potere di agire. “Abbiamo introdotto gli autobus elettrici, ma negli Stati vicini gli autobus funzionano ancora a diesel“, ha dichiarato Rai all’AFP, “tutto questo ha un impatto su Delhi. L’inquinamento e il vento non possono essere limitati dai confini di Stato“.

La capitale e lo Stato del Punjab sono governati dall’Aam Aadmi Party (AAP), ma altri Stati vicini sono governati dai rivali del Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi. L’inquinamento è un pomo della discordia. “Ovviamente la politica ha un impatto“, ammette Rai, “ma ci sono ostacoli quando si tratta di stabilire delle regole“. Gli agricoltori, un potente gruppo elettorale, sostengono che l’incenerimento è una pratica antica, semplice e poco costosa, e che l’inquinamento urbano non li riguarda. L’Oms sottolinea che “molti fattori di inquinamento atmosferico sono anche fonti di emissioni di gas serra” e che le politiche di riduzione dell’inquinamento atmosferico “offrono una strategia vantaggiosa sia per il clima che per la salute“.

L’India rimane fortemente dipendente dal carbone per la produzione di energia. Il Paese ha visto le sue emissioni pro capite aumentare del 29% negli ultimi sette anni ed è riluttante ad attuare politiche per eliminare gradualmente i combustibili fossili inquinanti. “La Green War Room, se usata correttamente, sarà efficace nel reprimere l’inquinamento per qualche tempo“, dice Sunil Dahiya, analista del Clean Air and Energy Research Centre. “Ma non è la soluzione per ridurre le emissioni“, sottolinea, “quando si tratta di respirare aria pulita, i livelli di inquinamento devono essere ridotti e sono necessari altri cambiamenti drastici e sistematici“.

L’India verso l’energia pulita: ma gli sforzi non bastano, serve accelerare

L’India deve aumentare la sua capacità di produzione di energia solare di almeno il 36% all’anno per i prossimi cinque anni per raggiungere i suoi obiettivi di mix energetico. E’ quanto emerge da uno studio del think-tank britannico Ember, secondo il quale il Paese ha anche urgente bisogno di modernizzare la rete elettrica e di aumentare la capacità di stoccaggio per far fronte alla natura intermittente delle fonti di energia rinnovabili.

Il rapporto, tuttavia, evidenzia segnali di progresso nel Paese più popoloso del mondo, che dipende in larga misura dal carbone, una fonte energetica altamente inquinante, per la produzione di energia. Secondo Ember, gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili sono in aumento e quest’anno l’India ha commissionato un numero record di pannelli solari.

Il rapporto si basa sul National Electricity Plan (NEP) del Paese, presentato quest’anno. Questo documento, che guarda al 2032, prevede che l’India continuerà a fare affidamento sul carbone, ma con le energie rinnovabili che rappresenteranno una quota sempre maggiore del suo mix di generazione elettrica.

Se nel 2022 l’energia solare rappresentava solo il 5% della produzione totale di elettricità dell’India, il NEP prevede che raggiungerà il 25% entro un decennio. Ma per raggiungere questo obiettivo, la capacità dovrà essere aumentata massicciamente ogni anno per almeno i prossimi cinque anni, secondo Ember.

L’India ha anche bisogno di più soluzioni di stoccaggio per far fronte alla variabilità della produzione di energia solare ed eolica, con il rischio di blackout. Ospite del G20 di quest’anno, ha visto le sue emissioni pro capite di carbone aumentare del 29% negli ultimi sette anni e ha evitato qualsiasi politica volta a ridurre gradualmente il carbone. Nuova Delhi ha annunciato l’obiettivo della neutralità del carbonio entro il 2070, in ritardo rispetto a molti altri Paesi.

I ‘reni di Calcutta’: le zone umide dell’India minacciate dall’espansione urbana

Photo credit: AFP

L’India è ogni giorno più minacciata dall’espansione urbana. A farne maggiormente le spese sono i ‘reni di Calcutta’: così vengono chiamate le zone umide a est della megalopoli indiana.”Stiamo gradualmente distruggendo l’ambiente“, dice all’AFP l’ex pescatore 71enne Tapan Kumar Mondal, che ha trascorso tutta la vita in quest’area, “la pressione esercitata dalla popolazione, oggi più numerosa che mai, sta danneggiando l’ambiente naturale“.

Per più di un secolo queste zone umide, che si estendono per 125 km2, sono servite come “stazione di depurazione biologica” per la metropoli indiana di 14 milioni di abitanti, grazie all’allevamento ittico. “Questo è un caso unico, perché le acque reflue della città vengono trattate in modo naturale“, dichiara all’AFP K. Balamurugan, capo del Dipartimento dell’Ambiente dello Stato orientale del Bengala Occidentale. “Per questo sono chiamati ‘i reni di Calcutta’“, aggiunge.

Ogni giorno, un ingegnoso sistema di canali trasporta circa il 60% delle acque reflue prodotte dalla capitale del Bengala Occidentale, ovvero 910 milioni di litri, negli stagni delle zone umide. “Poiché il livello dell’acqua non supera 1,50 m, la luce del sole combinata con le acque reflue provoca un’esplosione di plancton in quindici o venti giorni“, spiega Balamurugan. Questo plancton ricco e abbondante alimenta gli stagni gestiti dagli allevamenti ittici, che allevano in particolare carpe e tilapia. Gli effluenti di questi stagni, che sono ricoperti di giacinto d’acqua, vengono utilizzati per irrigare le risaie, mentre i rifiuti organici sono usati come fertilizzante per gli orti.

In questo modo, la piscicoltura non solo tratta gratuitamente le acque reflue della città, ma le fornisce anche circa 150 tonnellate di verdure al giorno e 10.500 tonnellate di pesce all’anno a costi inferiori. In questa regione del delta del Gange, delimitata dall’Oceano Indiano e minacciata dall’innalzamento del livello delle acque, le zone umide svolgono un ruolo cruciale nel controllo delle inondazioni. “Calcutta non ha mai avuto problemi di inondazioni, perché le zone umide agiscono come una spugna, assorbendo l’acqua piovana in eccesso” durante i monsoni, aggiunge Balamurugan.

Queste zone umide sono elencate dalla Convenzione intergovernativa di Ramsar, che teme che la “espansione urbana” stia minacciando la mini-biosfera. Secondo Dhruba Das Gupta, ricercatore di SCOPE, un’organizzazione non governativa di ricerca sugli ecosistemi, queste zone umide sono “molto più che la spina dorsale di Calcutta (…) sono la sua linea vitale“. Esse contribuiscono a regolare le condizioni climatiche locali, in particolare le precipitazioni e la temperatura, con effetti benefici per l’agricoltura e la conservazione degli ecosistemi naturali, comprese le zone umide stesse. “Le zone umide devono essere conservate a causa del refrigerio fornito dagli specchi d’acqua che contengono“, ha dichiarato Das Gupta all’AFP. “È un elemento fondamentale per stabilizzare il clima della città e prevenire il riscaldamento globale“.

In questo caso è in atto un circolo virtuoso e, secondo l’esperta che lavora su questo tema da 25 anni, gli allevatori di pesci sono i principali garanti. Das Gupta sta cercando di finanziare uno studio per determinare la superficie esatta delle peschiere ancora “pienamente attive“, il numero di persone che vi lavorano tutto l’anno e la resa della produzione ittica. Grazie alla piscicoltura, la municipalità di Calcutta (KMC) risparmia l’equivalente di 64,4 milioni di dollari all’anno sui costi di trattamento delle acque reflue, secondo uno studio dell’Università di Calcutta pubblicato nel 2017. Ciò rende Calcutta, secondo le parole del principale difensore delle zone umide Dhrubajyoti Ghosh, una “città ecologicamente sovvenzionata“. “Le zone umide si sono ridotte“, aggiunge lo specialista, “ma più importante è il numero totale di ettari di corpi idrici rimasti“. I livelli di produzione sono cambiati, la popolazione è cresciuta, gli edifici invadono le aree di produzione e i prezzi dei terreni sono saliti alle stelle. “La terra viene sottratta alla gente“, lamenta Sujit Mondal, un pescatore di 41 anni.

Meloni in India e poi negli Emirati Arabi: “Momento chiave per transizione energetica”

E’ iniziata la missione della premier Giorgia Meloni in India e negli Emirati Arabi. La presidente del Consiglio ha incontrato il primo ministro Narendra Modi, già visto a Bali per il G20. “India e Italia celebrano il 75esimo anniversario delle loro relazioni bilaterali e noi abbiamo deciso di dare un nuovo impulso alla partnership Dobbiamo lavorare per aumentare le relazioni economiche, le nostre campagne aprono tante possibilità per investimenti”, ha detto Modi in conferenza stampa sottolineando il desiderio di “aumentare la cooperazione su rinnovabili, idrogeno, telecomunicazioni e spazio”. Meloni non è stata da meno nel parlare di possibile cooperazione tra i due Paesi: “Penso al tema della sicurezza energetica, l’india si pone grandi obiettivi sotto questo profilo. Da sempre sappiamo che l’India sta lavorando sulla produzione di energia da fonti rinnovabili  e insieme dobbiamo lavorare sui temi della transizione digitale, sulle tecnologie emergenti, sullo spazio”. Poi ha aggiunto: “Affrontano i grandi shock di questo tempo, la crisi pandemica, la crisi internazionale dettata dalla guerra in Ucraina e le sue ripercussioni sull’ordine internazionale, sulla sicurezza alimentare ed energetica. E diventa importante quando un paese come l’India assume la presidenza g20 perché rappresenta con grande forza i bisogni e gli interessi dei Paesi del sud globale”.

La premier è stata ospite d’onore del Raisina Dialogue, la principale conferenza indiana sulla geopolitica e la geo-economia, sulle questioni più impegnative sullo scacchiere globale. Secondo Meloni il Nord Africa è una regione vasta che possiede risorse, a partire dall’energia, determinante per l’Europa ma che prima di tutto deve andare a loro vantaggio. Stiamo costruendo una collaborazione su basi paritarie, senza ambizioni predatorie, senza interessi economici. L’Italia sta lavorando per essere ponte del Mediterraneo“, tra Africa ed Europa. “L’energia verde, l’idrogeno, l’elettricità saranno prodotti sempre più localmente“. Ma, adesso, “siamo in un momento chiave per la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico. Tutti dobbiamo contribuirvi, abbiamo responsabilità per le generazioni future. In modo equilibrato, ciascun paese svolgere il suo ruolo, se non lo faremo ci sarà un impatto profondo sul mondo, con carestie, siccità, eventi metereologici estremi e altri disastri. La nostra abilità di lavorare insieme su rinnovabili, energia verde, idrogeno, circolarità e transizione determinerà il nostro successo“, ha aggiunto.

Intanto, a margine della visita di Meloni, Enel, tramite la sua consociata Gridspertise, ha firmato due memorandum d’intesa con Tata Power Delhi Distribution Limited (Tata Power-DDL) per favorire l’accelerazione della trasformazione digitale delle reti di distribuzione elettrica in India. La firma dei memorandum è stata annunciata da Antonio Cammisecra, direttore di Enel Grids, in occasione della Business Roundtable tra India e Italia che si è tenuta a Nuova Delhi ed è stata presieduta da Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, e da Piyush Goyal, ministro del Commercio e dell’Industria indiano.

Il 3 e 4 marzo, la leader di Fdi sarà poi negli Emirati arabi. Una visita che consolida le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, ma fa pensare a un ‘Piano Mattei’ anche per il Medio Oriente. Qui l’Italia è partner strategico in diversi progetti energetici. L’ultimo viaggio di un premier negli Emirati risale al 2021, con Giuseppe Conte.

A settembre 2022 il ministro dell’Industria emiratino e Claudio Descalzi, l’amministratore delegato di Eni, si sono incontrati ad Abu Dhabi per discutere delle attività della società nell’Emirato, di progetti futuri e delle aree di interesse comune. L’obiettivo è accelerare i progetti di sviluppo esistenti, le nuove scoperte esplorative così come le attività internazionali, in linea con una strategia di decarbonizzazione e per contribuire a più forniture di gas a livello mondiale. In particolare, il progetto multimiliardario di Ghasha contiene volumi di gas recuperabile “significativi”, fa sapere Eni, e potrebbe arrivare a produrre oltre 42,5 milioni di metri cubi giorno, in aggiunta a oltre 120mila barili di olio e condensati di alto valore al giorno. Di settembre 2021 è il memorandum Eni-Mubadala Petroleum che mira a identificare opportunità di cooperazione nel settore della transizione energetica, inclusi l’idrogeno e la cattura, utilizzo e stoccaggio della CO2, in linea con i rispettivi obiettivi di decarbonizzazione.

“Con la visita del presidente del consiglio Giorgia Meloni negli Emirati, l’Italia conquista la scena di leader energetico. Usciamo vincenti da questa crisi”, commenta il presidente di FederPetroli Italia, Michele Marsiglia. “Attendevamo questa visita nei paesi arabi, è un rafforzamento della nostra industria e un consolidamento fondamentale in questo momento storico per la nostra Eni”, sostiene. Gli Emirati sono uno dei più importanti partner dell’Italia nell’area del Medio Oriente e Nord Africa con rapporti basati sul piano economico, industriale e culturale e sulle tematiche bilaterali.

Fare in modo che la Cop28 non diventi un’altra conferenza inutile

Domanda pleonastica: com’è andata a Sharm eh Sheikh? Bene non benissimo, per usare un giro di parole. Del resto, fin dall’inizio la Cop27 si è portata appresso un carico di scetticismo, per non dire di negatività, che lasciava intravvedere poche speranze per il raggiungimento di intese di largo respiro. Non a caso, a parte il documento sul ‘Loss and damage’, poco si è cavato da due settimane di incontri e scontri, là dove le grandi potenze – che sono anche grandi inquinatrici – hanno continuato a difendere i propri interessi e là dove i più deboli hanno continuato a recitare la parte dei più deboli. Come dicevamo, nulla che non fosse stato messo in preventivo, anche perché nazioni super inquinate e super inquinanti (vedi alla voce India) non si sono nemmeno presentate alla convention egiziana che, in assoluto, si è rivelato un palco sfiatato per gli annunci roboanti. Forse solo Lula, che da gennaio tornerà ad occupare la carica di presidente della repubblica federativa del Brasile, ha dato un po’ di slancio alle illusioni con il suo piano per arrivare alla deforestazione zero. Ma tra preservare l’Amazzonia nelle chiacchiere e poi farlo davvero c’è ancora un bel pezzo di strada da fare. L’altra domanda, meno pleonastica, rischia di suonare un po’ sorda: ma ne vale davvero la pena organizzare eventi come questi? Cioè, dopo il fiasco della Cop26 e quello della Cop27, ha ancora un senso mobilitare mezzo mondo per ritrovarsi con briciole tra le mani? A breve comincerà la Cop15, in Canada, sulla biodiversità: lì forse qualcosa di più si potrà raggiungere, ma la sensazione che uno sforzo enorme partorisca qualcosa di impercettibile sta prendendo il sopravvento. Forse andrebbe cambiata la formula, l’impostazione della Cop28. Ma come? Dando priorità alla scienza e allo studio degli scienziati non per due settimane – ovvero la durata dell’evento organizzato dalle nazioni unite- ma durante un anno, coinvolgendo non solo i leader mondiali ma anche i grandi gruppi che gestiscono la finanza e i grandi gruppi industriali. Insomma, non si tratta di allargare il campo, che è già largo a sufficienza, ma di selezionare meglio gli attori protagonisti con il supporto della scienza. E, soprattutto, senza generare illusioni.

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Siamo 8 miliardi sulla Terra. L’Onu: “Dobbiamo prenderci cura del nostro Pianeta”

Da oggi la popolazione mondiale ha ufficialmente superato gli 8 miliardi. La stima ufficiale è dell’Onu che richiama alla “nostra responsabilità condivisa di prenderci cura del nostro Pianeta”. Per le Nazioni Unite, “questa crescita senza precedenti” – nel 1950 si contavano 2,5 miliardi di abitanti – è il risultato “di un progressivo aumento della durata della vita grazie ai progressi compiuti in termini di salute, alimentazione, igiene personale e medicina”.

Ma la crescita della popolazione ci pone di fronte a enormi sfide, soprattutto nei Paesi più poveri, in cui esiste un problema di sovrappopolazione. La soglia degli 8 miliardi viene superata nel bel mezzo della conferenza mondiale sul clima, Cop27, a Sharm el-Sheikh, dove è stata ribadita più volte la necessità che i Paesi ricchi – i maggiori responsabili del riscaldamento globale – supportino i Paesi più poveri nella strada verso la transizione ecologica. Infatti, ricorda l’Onu, “se la crescita demografica amplifica l’impatto ambientale dello sviluppo economico”, “i Paesi dove il consumo di risorse materiali e le emissioni di gas serra per abitante sono più elevati, sono in genere quelli dove il reddito pro capite è il più alto e non quelli in cui la popolazione sta crescendo rapidamente”.

“Il nostro impatto sul pianeta è determinato molto più dal nostro comportamento che dai nostri numeri”, riassume Jennifer Sciubba, ricercatrice presso il think tank del Wilson Center. Ma è proprio nei Paesi più poveri che la crescita della popolazione pone sfide importanti. “La persistenza di alti livelli di fertilità, che guidano una rapida crescita della popolazione, è sia un sintomo sia una causa del lento progresso dello sviluppo”, scrive l’Onu.

Così l’India, che conta 1,4 miliardi di abitanti e che diventerà il Paese più popoloso del mondo nel 2023, superando la Cina, andrà incontro a un sovraffollamento urbano e alla scarsità di risorse. A Bombay, circa il 40% della popolazione vive in baraccopoli, la maggior parte delle quali prive di acqua corrente, elettricità e servizi igienici. I numeri forniti dall’Onu evidenziano un’immensa diversità demografica. Pertanto, più della metà della crescita della popolazione entro il 2050 proverrà da soli 8 Paesi: Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania. Ed entro la fine del secolo, le tre città più popolose del mondo saranno africane: Lagos in Nigeria, Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo e Dar Es Salaam in Tanzania.

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Decarbonizzazione, tante promesse ‘facili’ e i casi di India e Cina

Secondo un’analisi gli Stati, le autorità locali e le aziende stanno moltiplicando gli impegni per la “neutralità delle emissioni di carbonio, ma molti di essi presentano “gravi difetti“. Tra i grandi inquinatori, la maggior parte dei Paesi sviluppati ha assunto l’impegno di essere neutrale dal punto di vista delle emissioni di carbonio entro il 2050. Cina e India puntano rispettivamente al 2060 e al 2070. “L’uso di questo concetto è esploso“, afferma Frederic Hans, esperto di politica climatica presso l’ONG NewClimate Institute e autore principale di questa analisi per il Net Zero Tracker. “Ma se si fissa un obiettivo senza comunicare le riduzioni di emissioni che esso comporta, non si può essere ritenuti responsabili delle proprie azioni“, afferma.

Lo studio analizza i dati relativi a 4.000 governi, città, regioni e grandi aziende, concentrandosi sulla qualità degli obiettivi e sul fatto che siano accompagnati da una chiara tabella di marcia. Gli impegni degli Stati coprono circa il 90% del Pil globale, sei volte di più rispetto a tre anni fa. E 235 grandi città hanno ora il loro. Anche un terzo delle maggiori società quotate in Borsa nel mondo ha assunto impegni di carbon neutrality (702 rispetto a 417 nel dicembre 2020). “Siamo in un momento decisivo in cui la pressione dei pari a prendere impegni rapidamente, in particolare nel mondo degli affari, potrebbe portare o a un greenwashing di massa o a un cambiamento fondamentale verso la decarbonizzazione” dell’economia, analizza un altro autore dello studio, Takeshi Kuramochi, anch’egli del NewClimate Institute.

Per quanto riguarda i governi, il 65% degli impegni nazionali è ora oggetto di una legislazione o di documenti ufficiali, rispetto a solo il 10% alla fine del 2020. Ma delle 702 aziende intervistate, solo la metà ha obiettivi intermedi, un livello “inaccettabilmente basso“, secondo lo studio. E solo il 38% delle aziende include tutte le emissioni, sia dirette (produzione) che indirette (fornitori e utilizzo), nei propri impegni di neutralità. Il rapporto osserva anche che i maggiori inquinatori privati, in particolare nel settore dei combustibili fossili, sono tra quelli che hanno più probabilità di avere obiettivi: “Questo riflette senza dubbio la pressione sociale su questi settori, ma è forse più simbolico, o addirittura puro greenwashing, che una vera leadership sulle questioni climatiche“.

Ma l’effetto potrebbe anche essere virtuoso, incoraggiando “le aziende ad aumentare le proprie ambizioni e anche i regolatori“, sostiene Frederic Hans. A marzo, l’Onu ha investito un gruppo di esperti per sviluppare standard e una valutazione degli impegni di carbon neutrality degli attori non statali, in particolare delle aziende. Secondo gli esperti climatici delle Nazioni Unite, le emissioni devono raggiungere il picco entro il 2025 e dimezzarsi entro il 2030 rispetto al 2010 per avere una possibilità di raggiungere l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi.