riviera romagnola

In Romagna si torna a fare il bagno. Boom di batteri causato da caldo e siccità

Contrordine sulle spiagge romagnole: i villeggianti possono tornare a fare il bagno in mare in piena sicurezza. Lo hanno comunicato ieri mattina gli assessori regionali all’Ambiente e al Turismo, Irene Priolo e Andrea Corsini durante una conferenza stampa dopo che ieri l’Arpa (agenzia per l’ambiente) aveva imposto lo stop a causa di valori anomali di batteri Escherichia coli nell’acqua di 28 tratti costieri (sei erano tornati già a norma nella giornata di giovedì).

Per tutta la giornata di giovedì era aleggiato il dubbio: perché questi valori erano fuori norma? Non piove da settimane, non ci sono stati sversamenti in mare, i fiumi non possono essere i responsabili dal momento che sono praticamente a secco. Allora perché una così alta concentrazione di batteri? Secondo gli esperti è colpa proprio del caldo e della siccità.

I risultati dei campioni aggiuntivi effettuati giovedì sulle acque della provincia di Rimini interessate dal divieto di balneazione hanno evidenziato valori di Escherichia coli nella norma in tutti i 21 tratti di spiaggia. I sindaci potranno pertanto emanare l’ordinanza di revoca del divieto di balneazione“, ha informato la Regione. “Domani arriveranno i risultati anche per il tratto di mare Spiaggina di Goro (Ferrara). La soglia limite del batterio – hanno detto i due assessori –, che è di 5000 cfu (unità formante colonia) per 100 ml di acqua, raggiunge oggi al massimo 135, ma nella maggior parte degli ultimi prelievi effettuati da Arpa non supera i 20-30 o anche meno“.

In Emilia-Romagna, hanno sottolineato Priolo e Corsini, la qualità dell’offerta turistica e ricettiva va di pari passo con la qualità del sistema dei controlli, che vengono eseguiti per la sicurezza delle persone, in particolare anziani e bambini. Qualità delle strutture ricettive e degli stabilimenti balneari, dunque, ma anche dell’acqua del mare, con i controlli che si mantengono costanti e la prossima rilevazione, come da programma, il prossimo 22 agosto.

L’assessora all’Ambiente Priolo si è quindi soffermata sulle cause dei dati anomali di martedì scorso, quando i controlli effettuati come di consueto da Arpae per garantire sicurezza e qualità della stagione balneare hanno evidenziato valori al di sopra della soglia. E ciò si è verificato verosimilmente per la compresenza di una serie di fattori che hanno favorito la proliferazione batterica: per la prima volta da decenni, Arpa ha registrato, attraverso 12 stazioni dislocate sul territorio, temperature superiori ai 40 °C per più giorni. Questo ha influito su un innalzamento della temperatura del mare, che ha visto da mercoledì improvvise mareggiate dopo un lungo periodo di calma. A ciò si è aggiunta la scarsa ventilazione e la siccità, con un apporto idrico dei fiumi al mare estremamente ridotto.

batterio

Diversi studi di Ispra, Legambiente ed Eea (Agenzia europea dell’ambiente) spiegano infatti che la siccità porta con sé il rischio di aumentare la concentrazione di sostanze inquinanti nei corpi idrici. È una questione chimica: la concentrazione di una sostanza è maggiore se è diluita in meno acqua. Per quanto riguarda le sostanze presenti di origine antropica, gli ultimi dati dell’annuario dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) per il periodo 2018-2019 dicono che l’82% delle circa 3.800 stazioni di monitoraggio analizzate non presenta superamenti delle soglie di concentrazione delle sostanze inquinanti, tuttavia circa il 18% supera i valori in uno o più casi. La situazione non è delle migliori neanche per quanto riguarda le condizioni quantitative delle riserve idriche sotterranee. Sempre secondo il rapporto dell’Eea, in Italia quasi il 10% dei corpi idrici sotterranei analizzati si trova in situazione di scarsità.

La situazione più grave si concentra nelle Regioni del Sud, dove l’abbassamento del livello delle falde porta a fenomeni di intrusione salina con conseguente perdita della risorsa di acqua potabile. In particolare in Puglia il 45% delle riserve si trova in condizioni di quantità critiche. Ma nelle ultime settimane anche la zona della foce del Po ha registrato criticità con una forte risalita del cuneo salineo (si parla di una trentina di km).

Ma perché ci sono questi batteri in mare? La presenza di Escherichia coli e di enterococchi, spiegano le agenzie regionali per l’ambiente, è legata all’esistenza di scarichi diretti di fognature non depurate oppure scarichi mal depurati o mal disinfettati. Per la balneazione la norma nazionale di riferimento è il Decreto Legislativo 116/08, che recepisce la Direttiva 2006/7/CE. La norma tecnica applicativa è il D.M. 30/03/2010, che sancisce che la valutazione sia effettuata sulla base dei soli parametri batteriologici Escherichia coli ed enterococchi intestinali, indicatori di contaminazione fecale, che i controlli abbiano frequenza mensile, da aprile a settembre, in base ad un calendario prestabilito, che la valutazione venga effettuata secondo un calcolo statistico e le acque siano classificate sulla base dei dati delle ultime 3-4 stagioni balneari. Il divieto di balneazione per un sito e la sua revoca avvengono a seguito di esito sfavorevole di una sola analisi.

jet privato

Quanto inquinano i jet dei vip? Lo racconta Jack Sweeney su Twitter

Ha 19 anni, vive in Florida ed ha una spiccata sensibilità ambientale. Si chiama Jack Sweeney e nemmeno un anno fa (ottobre 2021) ha aperto un profilo Twitter chiamato ‘Celebrity Jets’, seguito al momento da oltre 70mila utenti, nel quale monitora, con tanto di mappa e inquinamento prodotto dai jet, tutti gli spostamenti che le varie celebrità americane effettuano sul proprio aereo privato. In pratica il giovane studente americano utilizza i dati dei transponder degli aerei (informazioni pubbliche) per rintracciare i voli delle star e informare gli utenti sulla CO2 prodotta in questi spostamenti anche brevi.

L’ultima notizia che aveva suscitato clamore, era quella che riguardava Kylie Jenner, modella e imprenditrice americana del noto ‘clan’ delle Kardashian. La star alla fine della settimana scorsa era infatti finita nell’occhio del ciclone per aver preso il proprio jet privato per compiere un viaggio, da Los Angeles a Camarillo, in California, della durata di appena 17 minuti. Viaggio che sarebbe durato una manciata di minuti in più se l’avesse compiuto in auto, ma che avrebbe inquinato molto meno. Molti utenti sui social infatti l’hanno aspramente criticata e l’hanno definita “criminale climatica. Jenner è una delle star monitorate da Sweeney. Ad esempio, il giovane studente americano, informa che la modella (o chi per lei, visto per motivi di privacy non si sa chi ci sia di preciso a bordo dell’aereo di Kylie Jenner) il 12 giugno scorso per un breve spostamento ha utilizzato 316 kg di carburante per jet, pari a 704 dollari, ed ha emesso una tonnellata di CO2.

Tra i vip sotto la lente di Jack Sweeney c’è anche la superstar Tom Cruise, amante dei jet anche nei suoi film; recentissimo è infatti il campione di incassi ‘Top Gun Maverick’ seguito del famoso ‘Top Gun’ degli anni 80. Insomma, Cruise, informa Sweeney, il 22 giugno scorso con il suo jet privato Challanger 300 in un volo ha consumato 2.807 libbre (1.273 kg) di carburante per un costo di 2.890 dollari, producendo 4 tonnellate di CO2. E così via con gli aerei dell’attore Mark Wahlberg, del cantante Blake Shelton, della socialite Kim Kardashian, del rapper Travis Scott o della cantante Taylor Swift.

Un discorso a parte merita Elon Musk, numero 1 di Tesla (colosso delle auto elettriche e quindi non inquinanti). Il magnate recentemente ha utilizzato il suo jet privato tra Houston e Austin in Texas per un volo di soli 28 minuti. A lui Sweeney ha addirittura dedicato un account speciale. Musk, evidentemente indispettito, gli avrebbe offerto 5.000 dollari per smettere di tracciare i suoi voli. “Che ne dici di 5.000 dollari per questo account e in generale per rendere più difficile ai pazzi rintracciarmi?“, chiese Musk come riferisce Business Insider. Sweeney gli rispose: “Sembra fattibile, account e tutto il mio aiuto. Qualche possibilità di portare l’offerta a 50.000 dollari?“. Sweeney aveva detto al miliardario che quei soldi potevano essere destinati all’acquisto di una Tesla Model 3 per il suo college in Florida. “Ho lavorato molto su questo progetto e 5.000 dollari non sono sufficienti“, aveva spiegato Sweeney in un’intervista a Insider, aggiungendo che quella cifra non era sufficiente per sostituire “il divertimento che ho provato lavorandoci sopra“. Musk alla fine avrebbe giudicato ingiusto pagare per chiudere un profilo e avrebbe quindi lasciato perdere.

Ma Musk non è l’unico ‘big’ sotto la lente di ‘Celebrity Jets’; un altro ‘pezzo grosso’ sarebbe il papà di Facebook, Mark Zuckerberg. Come riferisce Bloomberg, Sweeney a febbraio avrebbe visto per la prima volta le immagini del codice di registrazione dell’aereo di Zuckerberg sulla coda di quello che crede essere il jet del miliardario tecnologico quando è atterrato in Islanda. Il 19enne ha quindi esaminato il movimento precedente dell’aereo e ha scoperto che aveva effettuato diversi viaggi alle Hawaii, dove Zuckerberg possiede un complesso di 700 acri. Sweeney si è detto fiducioso riguardo la proprietà del jet all’inizio di maggio, quando ha notato che è atterrato in Italia nello stesso momento in cui il miliardario ha pubblicato su Instagram una storia in cui dichiarava di aver visitato Milano per incontrare i big dell’industria della moda.

Un report dell’Ong Transport&Environment (T&E) diffuso lo scorso anno ha parlato di una notevole crescita del settore dei trasporti aerei privati e ha stimato un aumento delle emissioni di CO2 di quasi un terzo (+31%) tra il 2005 e il 2019; una crescita più marcata persino rispetto a quella dell’aviazione commerciale (+25% nello stesso periodo di tempo). “Volare su un jet privato è probabilmente la cosa peggiore da fare per l’ambiente. Eppure, i grandi inquinatori ultra-ricchi continuano a volare come se la crisi climatica non esistesse”, aveva spiegato nel report Andrew Murphy, responsabile Aviazione di T&E. Chissà, forse questo studio, datato giugno 2021, è finito nelle mani di Jack Sweeney e lo ha portato ad aprire, ad ottobre 2021, il suo ‘Celebrity Jets’.

spiagge

Le spiagge di Rimini sposano il green: Ma i turisti si adattano poco

La spiaggia di Rimini, dal boom degli anni Sessanta ad oggi, ne ha fatta di strada in tema di sensibilità ambientale. Anche perché il mare e la sabbia e la loro tutela danno da ‘mangiare’ a migliaia di famiglie, tra gestori di stabilimenti balneari e ristoratori. GEA ne ha parlato con Mauro Vanni, presidente della cooperativa bagnini di Rimini, presidente nazionale di Confartigianato imprese demaniali e gestore del Bagno 62. Innanzitutto serve un quadro d’insieme: sui 15 km di costa riminese si trovano 240 stabilimenti balneari, 160 a sud del porto, che fa da spartiacque, e 80 a nord. E praticamente tutti i gestori, da 20 anni a questa parte, hanno mostrato interesse alle tematiche ambientali e della sostenibilità.

Tutto è partito nel 2003 con Agenda 21 – spiega Vanni -, in quell’occasione la Provincia di Rimini fece promozione e investimenti per rendere le spiagge più ecologiche. Si cominciò con la raccolta differenziata dei rifiuti, con un progetto di Hera (multiservizi dell’Emilia Romagna, ndr): pratica che dura ancora oggi ed è seguita da tutti gli affiliati. Vennero quindi distribuiti a tutti i Bagni i raccoglitori per recuperare vetro, carta e plastica e da allora non si è più smesso. Poi il Comune di Rimini propose di rendere accessibili tutti gli stabilimenti, eliminando le barriere architettoniche“. In questo caso furono costruite passerelle fino alla battigia e realizzati ingressi e bagni per le persone diversamente abili. Poi sempre nei primi anni 2000 iniziò a diffondersi la pratica dell’installazione di pannelli fotovoltaici, grazie ai finanziamenti della Provincia di Rimini, per sfruttare energia pulita e risparmiare sulla bolletta.

Più recentemente invece – prosegue Vanni – alcuni di noi hanno anche applicato riduttori di flusso nei rubinetti per risparmiare acqua. E sempre in tema idrico diversi stabilimenti fanno la raccolta delle acque reflue grigie, cioè quelle di docce e lavandini, per riutilizzarle per irrigare il verde o come acqua per gli scarichi del bagno“. Infine, come ulteriore servizio al cliente, sono state realizzate cabine e tabelle informative per non vedenti.

Tutte queste iniziative, a distanza di quasi 20 anni dalla loro prima applicazione, hanno poi portato benefici anche dal punto di vista economico? Una domanda che si porta dietro una risposta immediata: “I pannelli fotovoltaici, l’illuminazione con lampade a led e la raccolta delle acque reflue hanno portato a un risparmio notevole – spiega Vanni -. E pure la raccolta differenziata portò i suoi benefici anche perché all’inizio della sperimentazione il Comune di Rimini fece uno sconto del 5% sulla tassa per la raccolta rifiuti a tutti quelli che si adeguavano. Insomma, gli investimenti fatti sono stati ampiamenti ripagati“.

C’è sensibilità sull’uso di particolari materiali per sedie, sdraio o ombrelloni anche se, spiega Vanni, “alcuni esperimenti non hanno avuto successo, penso ad esempio agli ombrelloni in paglia. In questo particolare settore servono infatti materiali resistenti, che reggano l’usura; ma so che alcuni bagnini hanno invece posizionato pedane amovibili realizzate in materiali vegetali come l’ulivo. Ma più in generale quasi tutti gli stabilimenti hanno arredi in legno, materiale ecologico per eccellenza; certo questo richiede una maggiore cura“.

Vanni spiega che gli stabilimenti che seguono tutte le linee di Agenda 21 sono circa 5 o 6, mentre sono una cinquantina (quindi poco meno di un quinto) quelli che hanno installato pannelli fotovoltaici. Sono invece una decina quelli che riutilizzano le acque grigie, mentre sul fronte della differenziata e della piena accessibilità alla spiaggia, tutti si sono adeguati.
Ma i villeggianti dimostrano una sensibilità green? “Il cliente in generale è distratto – annota Vanni – soprattutto quello italiano; apparentemente gradisce iniziative di questo genere, ma poi si adatta poco. Alcuni sono più attenti, penso ad esempio agli stranieri, ma molti in vacanza non vogliono limitazioni, non vogliono pensieri. Pensi ad esempio che ad ogni ombrellone è applicato un posacenere, ma non sa quanti mozziconi di sigaretta troviamo sotto i lettini…“.

Infine, la nota dolente: la ‘Bolkestein’, vale a dire la direttiva europea del 2006, recepita dall’Italia nel 2010, ma mai applicata. Ma ora il governo ha deciso che le spiagge (demanio pubblico) dal 2024 dovranno essere date in concessione solo attraverso bandi pubblici. Questo potrebbe frenare i gestori di stabilimenti dal fare investimenti green: “Noi viviamo in questo limbo da decenni – conclude Vanni – nonostante tutto nel tempo abbiamo migliorato sempre di più i servizi, ma ancora adesso il settore non esprime tutto il suo potenziale. Chi ha ristrutturato, ha mostrato attenzione al green, ma servono politiche a sostegno del comparto. Quando abbiamo acquistato i primi pannelli solari, costavano l’ira di dio e non duravano tantissimo, ora invece sono più performanti. La sostenibilità ambientale ha anche un costo economico, quindi in futuro, da parte di chi ci amministra, serviranno certezze e sostegni per continuare sulla strada tracciata e dalla quale non si può tornare indietro“.

spiaggia

La responsabilità degli italiani passa anche dalle spiagge. Quanto ce ne prendiamo cura?

L’esperienza della sporcizia sui litorali è comune a gran parte della popolazione: 27,4 milioni gli italiani che l’hanno vissuta. Pochissimi (solo il 12%) quelli che dicono di non averla mai provata. Il sentimento più diffuso che questo stato di degrado provoca è il fastidio, provato da circa 25 milioni di persone. Per fortuna ci sono anche buone notizie: 19 milioni di italiani (circa il 62% del totale), i ‘responsabili’, si prendono cura del luogo in cui si trovano, rimuovendo se necessario gli oggetti abbandonati che incontrano. Lo fanno con stati d’animo diversi: la maggior parte di loro (circa 14 milioni) prova fastidio e sdegno, una piccola parte sembra invece non essere particolarmente colpita dalla presenza dei rifiuti in spiaggia; nonostante due sentimenti così diversi, la reazione è la medesima: fare la propria parte. I responsabili sono per lo più giovani, con meno di 24 anni, vivono in prevalenza nelle grandi città del sud, sono lettori e appassionati di sport e vita all’aperto. È quanto emerge in una indagine di Sorgenia tramite Human Highway sul sentimento degli italiani rispetto alla pulizia delle spiagge.

Ci sono poi i vorrei ma non posso (18,7%): persone che provano rabbia di fronte ai litorali sporchi ma non agiscono. Le ragioni? Non ritengono sia compito loro, non hanno gli strumenti adeguati o sono preoccupati per ragioni igieniche, ancora più sentite dopo questi anni di Covid. In fin dei conti pensano sia pressoché impossibile cambiare lo status quo.

Troviamo anche gli indifferenti, ovvero 2,5 milioni di italiani che, pur notando la sporcizia, non provano alcun fastidio né sentono il bisogno di intervenire.

Infine, abbiamo i distratti (l’11,7% del totale), persone che addirittura non vedono i rifiuti; difficile risalire alle possibili motivazioni: abitudine oppure frequentazione di litorali molto curati dove la pulizia è impeccabile? È questo il quadro che emerge dal sondaggio di Sorgenia realizzato da Human Highway su un campione statisticamente rilevante, con l’obiettivo di misurare i sentimenti di 31 milioni di italiani che frequentano abitualmente le spiagge del Paese. L’indagine arriva a conclusione delle iniziative di plogging promosse da Sorgenia in alcuni lidi italiani in concomitanza con il progetto M.A.R.E. (Marine Adventure for Research & Education), ideato da Centro Velico Caprera e One Ocean Foundation per studiare la salute del Tirreno.

Ma quali sono i rifiuti più diffusi? Al primo posto i mozziconi di sigaretta (notati dal 72,3% del campione), poi bottiglie, lattine e plastiche (intorno al 50%) e, new entry tra gli oggetti d’uso quotidiano, le mascherine (39,8%). Nella classifica degli oggetti indebitamente abbandonati sui litorali anche avanzi di alimenti, carte e giornali, escrementi di animali domestici e indumenti.

Per prevenire il degrado, il 40% degli italiani suggerisce un maggior numero di cestini e bidoni a margine dei lidi e una quota simile reclama la figura della “guardia marina” per far rispettare le regole. Tra le altre proposte, aumentare i cartelli informativi e dare ai bagnanti gli strumenti per portare via i propri rifiuti. Soprattutto i responsabili sono favorevoli a nuove forme di interventi condivisi, come flashmob da organizzare periodicamente sulle spiagge: il 22,8% di loro vorrebbe istituire la “mezz’ora di pulizia” e uno su sette consiglia di puntare sulla tecnologia, segnalando gli appuntamenti di plogging su canali social o promuovendo apposite App che indichino le spiagge più sporche e convochino i volontari a pulirle.

plastica spiaggia

Plastica, mascherine e cotton fioc: così Legambiente ripulisce le spiagge

Le spiagge italiane? Sono sporche, senza distinzioni geografiche e con la costante di una tendenza all’aumento della quantità di rifiuti. Che, comunque, non rappresentano l’unica problematica per le nostre coste ma – come emerge dai risultati dell’indagine ‘Mare Monstrum’ firmata da Legambiente – sono in compagnia dell’insidioso diffondersi di scarichi illegali di liquami e dell’aggressivo abusivismo edilizio ‘vista mare’. Senza calcolare gli effetti prodotti dalla pandemia che ha ‘popolato’ le spiagge di dispositivi di sicurezza come mascherine e guanti.

Legambiente si occupa di pulizia delle spiagge fin dal 2014, e lo fa in un’ottica di citizen science, ossia coinvolgendo direttamente le persone perché si prendano cura con impegno del pianeta”, racconta a GEA Stefania di Vito, Ufficio Scientifico di Legambiente. “Attraverso la recente indagine Beach Litter è stato effettuato un monitoraggio accurato dei litorali italiani applicando un protocollo comune messo a punto da Ministero dell’Ambiente e basato sulla valutazione di 11 parametri, tra i quali rientra anche la presenza di rifiuti marini. Degli oltre 44mila rifiuti censiti nell’indagine svolta quest’anno la plastica ha rappresentato il materiale di composizione dominante, costituendo oltre l’80% degli oggetti rinvenuti”, aggiunge.

Proprio sugli oggetti in plastica – dalle stoviglie usa e getta per arrivare ai cotton fioc – è necessario intervenire. Ad esempio, agire in maniera mirata sulla riduzione della plastica monouso permetterebbe di limitare considerevolmente la portata del problema, diminuendo una parte importante dei rifiuti. In questa direzione si inserisce la direttiva europea Single Use Plastics, che contempla anche il ripensamento del design degli oggetti: ne costituisce un modello la produzione di tappi che restano attaccati per un lembo al collo delle bottiglie. Per attutire invece l’impatto dei mozziconi – ne vengono abbandonati nelle spiagge 5 milioni ogni giorno – è stato incentivato il coinvolgimento dei produttori di sigarette nelle attività di raccolta e smaltimento.

Ma che fine fanno poi i rifiuti raccolti? Una domanda che non può restare sospesa nell’aria: “Ci sono alcuni progetti sperimentali per il recupero della plastica – racconta di Vito –. Tuttavia soltanto una minima parte, quella che non ha subito eccessive degradazioni, può essere riutilizzata e avere una seconda vita. Non si tratta di una filiera strutturata in quanto il materiale risulta spesso danneggiato in maniera importante”.

La presenza di plastica e microplastica è un pericolo per gli organismi marini sotto diversi versanti: intrappolamento, ingestione, soffocamento e rilascio di sostanze tossiche come additivi e composti persistenti che si insinuano nei tessuti delle specie ittiche causando problematiche in tutta la filiera trofica. “A questo proposito – dichiara di Vito – Legambiente sta seguendo un progetto di studio in collaborazione con i dipartimenti di Ecologia ed Ecotossicologia dell’Università di Siena per approfondire l’impatto delle microplastiche in mare”.

Come si diceva, ad aggravare la situazione, complici gli ultimi anni di pandemia, le spiagge italiane e di tutto il mondo si sono ‘sporcate’ dei rifiuti legati all’emergenza sanitaria, come mascherine e guanti. Tanto che i dispositivi di sicurezza individuale sono presenti in quasi la metà delle spiagge censite dall’iniziativa ‘Clean up the Med’ svoltasi lo scorso maggio: i quantitativi maggiori sono stati rinvenuti in Grecia, seguita da Algeria, Croazia, Libano e Spagna.

incendio

Anno record per incendi in Europa: bruciati già 5mila km2

I roghi che hanno imperversato durante le recenti ondate di calore in Europa dimostrano che il riscaldamento globale favorisce gli incendi boschivi, che dall’inizio dell’anno hanno già distrutto più terreni che in tutto il 2021.”La situazione è persino peggiore del previsto, anche se ci aspettavamo anomalie di temperatura grazie alle previsioni meteorologiche a lungo termine“, dichiarato a Afp Jesus San Miguel, coordinatore del Sistema europeo di informazione sugli incendi boschivi (Effis). Per lui non ci sono dubbi: “L’ondata di calore è un fattore determinante nella situazione e chiaramente legato al riscaldamento globale“.

Nei 27 Paesi dell’Unione Europea, dall’inizio dell’anno gli incendi hanno devastato un totale di 517.881 ettari (dati del 16 luglio), pari a poco più di 5.000 km2 , equivalenti alla superficie di un dipartimento francese come Mayenne o delle isole di Trinidad e Tobago nei Caraibi. Nell’intero 2021, nonostante i numerosi incendi in Italia e Grecia, 4.700 km2 sono bruciati nei Paesi dell’Ue, secondo i dati compilati dall’Effis dal 2000.

Se la tendenza continua, il 2022 potrebbe eguagliare o superare il 2017, l’anno peggiore registrato nell’Ue da quando è stato creato l’Effis, quando sono bruciati quasi 10.000 km2 di vegetazione, superficie pari a quella del Libano.

Nei Paesi più colpiti dalle recenti ondate di calore di giugno e luglio, dall’inizio dell’anno sono bruciati quasi 40.000 ettari in Francia, rispetto a poco più di 30.000 per tutto il 2021, oltre 190.000 ettari in Spagna, rispetto a quasi 85.000 nel 2021, e oltre 46.000 in Portogallo, rispetto a oltre 25.000 nel 2021. Anche la Romania è stata colpita duramente, con 149.264 ettari bruciati rispetto ai 20.364 del 2021. Al contrario, l’Italia e la Grecia, molto colpite lo scorso anno, sono state finora risparmiate: 25.103 ettari bruciati contro i 150.552 dell’Italia, 7.810 contro i 130.058 della Grecia.

Ma con l’ondata di calore che ha colpito la parte occidentale del continente, vicino all’Atlantico, anche i Paesi non abituati a tali incendi hanno visto aumentare la superficie colpita. È il caso della Gran Bretagna, dove la temperatura ha superato i 40°C per la prima volta questa settimana. Dall’inizio dell’anno sono bruciati poco più di 20.000 ettari, rispetto ai 6.000 del 2021, secondo l’Effis.

Sapevamo che sarebbe stata un’estate difficile e ci aspettiamo che continui, non siamo nemmeno a metà della stagione degli incendi, dice San Miguel. “Prima la stagione era concentrata da luglio a settembre, ora abbiamo stagioni più lunghe e incendi molto intensi”. “Ciò che è notevole è la durata della combustione“, concorda Mark Parrington, scienziato capo del servizio europeo di monitoraggio atmosferico Copernicus (Cams). “Non è una cosa che vediamo normalmente in Europa“, continua, ma con il riscaldamento i terreni e la vegetazione si stanno seccando e “c’è molto carburante“. Con questi cambiamenti nelle condizioni fisiche, “c’è una chiara tendenza all’aumento del rischio di incendio nell’Europa meridionale e centrale“, afferma.

Questi incendi più numerosi e intensi influiscono sulla qualità dell’aria respirata dalle persone. Nel sud-ovest della Francia, il fumo, carico di particelle e biossido di azoto, è stato avvertito a Bordeaux, la cui area urbana conta più di 800.000 abitanti, e persino a Parigi, a più di 500 km di distanza. Inoltre, la combustione delle foreste emette CO2, uno dei gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale. In quantità trascurabili in termini assoluti per l’Europa. Ma gli alberi scomparsi non assorbiranno più nemmeno il carbonio.

(Photo credits: Federico SCOPPA / AFP)

nucleare

Il Giappone scaricherà in mare le acque contaminate di Fukushima

L’autorità di regolamentazione nucleare del Giappone ha approvato il piano di scarico in mare delle acque contaminate dell’impianto di Fukushima Daiichi proposto dall’operatore Tepco, che deve ancora convincere le autorità e le comunità locali. Questo controverso progetto era già stato approvato l’anno scorso dal governo ed è supervisionato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea). Si tratta del rilascio graduale nell’Oceano Pacifico, al largo delle coste di Fukushima, di oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata da trizio, un radionuclide che non può essere eliminato con le attuali tecnologie ma che viene già diluito in mare in Giappone e all’estero presso gli impianti nucleari attivi.

L’acqua triziata proviene dalla pioggia, dalle acque sotterranee o dalle iniezioni di acqua necessarie per raffreddare i nuclei di diversi reattori nucleari di Fukushima Daiichi che si sono fusi quando lo tsunami ha colpito la centrale l’11 marzo 2011. Intorno all’impianto sono stati installati più di mille serbatoi per immagazzinare l’acqua triziata dopo le operazioni di filtraggio per rimuovere altre sostanze radioattive. Ma la capacità di stoccaggio in loco raggiungerà presto la saturazione.

Secondo gli esperti, il trizio è pericoloso per l’uomo solo in dosi elevate e concentrate, una situazione che è esclusa a priori nel caso di un rilascio in mare distribuito su diversi decenni, come previsto dalla Tepco. L’Aiea ritiene inoltre che questo progetto sarà realizzato “nel pieno rispetto degli standard internazionali e che non causerà “alcun danno all’ambiente“. La Tepco prevede di iniziare l’operazione nella primavera del 2023, dopo la costruzione di una conduttura sottomarina per trasportare l’acqua triziata a circa un chilometro dalla costa.

Ma l’operatore deve ancora ottenere le autorizzazioni dalla Prefettura di Fukushima e dai comuni vicini all’impianto e sta cercando di placare le preoccupazioni dei pescatori locali, che temono conseguenze negative per la reputazione del loro pesce presso i consumatori. Il progetto è stato criticato anche dai vicini del Giappone, Cina e Corea del Sud, e da organizzazioni ambientaliste come Greenpeace.

(Photo credits: Jung Yeon-je / AFP)

L’Italia è in ritardo sulla decarbonizzazione delle città

L’Italia è in ritardo sulla decarbonizzazione delle città. La tecnologia c’è, le risorse pure. Ma ancora una volta il Belpaese sconta una lentezza (dettata in particolare dalla burocrazia) rispetto agli altri Paesi europei. Anche la recente situazione di incertezza politica non aiuta di certo. Purtroppo però il pianeta non aspetta e gli impegni presi a Bruxelles dovranno essere onorati. Anche perché 9 città italiane sono state selezionate dalla Commissione Ue per la missione ‘100 Climate-Neutral and Smart Cities’, impegnandosi a raggiungere la neutralità climatica (vale a dire, zero emissioni nette) entro il 2030. Sono Bergamo, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Parma, Prato, Roma e Torino. C’è da dire che gli enti locali si sono attivati introducendo svariate misure di restrizione del traffico inquinante anche se prevalentemente nei mesi invernali e durante specifiche fasce orarie.

Sono ancora poche le vere zone a basse emissioni sul modello di Area C e Area B a Milano”, denuncia la campagna Clean Cities, nel rapporto lanciato oggi (‘The development trends of low- and zero-emission zones in Europe’). Perché la maggior parte delle zone italiane a basse emissioni (in inglese Lez, low-emission zone) “non sono sottoposte a controlli sistematici, ad esempio tramite varchi elettronici, o almeno regolari da parte della polizia locale. Inoltre mancano una comunicazione efficace rivolta ai cittadini e piani per il rafforzamento nel tempo delle restrizioni”.

LA CLEAN CITIES CAMPAIGN

La Clean Cities Campaign è una coalizione europea di oltre 70 Ong, associazioni ambientaliste e movimenti di base che ha come obiettivo una mobilità urbana a zero emissioni entro il 2030. E nell’ultimo rapporto segnala il gap tra le diverse realtà europee. Oltre 300 città hanno una zona a basse emissioni e si stima che saranno oltre 500 nel 2025. Quasi 30 città europee (tra Paesi Bassi, Regno Unito, Francia e Paesi scandinavi) si sono impegnate a trasformare le loro zone a basse emissioni in zone a zero emissioni tra il 2030 e il 2035, di fatto impedendo alle auto inquinanti di accedere alla propria area urbana. L’Italia è in ritardo anche su questo, perché al momento non c’è un Consiglio comunale che stia pianificando di trasformare la Lez in una zona a zero emissioni, entro il 2030. Eppure un sondaggio del 2021 commissionato dalla stessa Clean Cities Campaign ha dimostrato che l’84% dei cittadini italiani interpellati “vogliono che i loro sindaci facciano di più per proteggerli dall’inquinamento dell’aria”.

COSA SONO LE LEZ

Si potrebbe considerare le Lez come delle Ztl rafforzate in ottica ambientale. Specifiche misure infatti vietano la circolazione a determinate categorie di veicoli inquinanti all’interno di un’area urbana. Ma a differenza della Zona a traffico limitato, la zona a basse emissioni restringe l’accesso prevalentemente sulla base del tipo di veicolo e della sua classe di inquinamento con riferimento alla normativa europea (Euro 0 – Euro 6). La Ztl invece restringe l’accesso a tutte le categorie di veicoli, salvo eccezioni (generalmente applicate a residenti e operatori commerciali). “Nel corso dell’ultimo decennio – spiega il dossier di Clean Cities – le zone a basse emissioni sono diventate uno strumento sempre più diffuso di regolazione del traffico e riduzione degli inquinanti dell’aria, inclusi il biossido di azoto (NO2) derivato dalle emissioni di NOx, e i particolati, Pm10 e Pm2,5”.

CAMPANELLO D’ALLARME

Le zone a basse emissioni hanno anche un impatto positivo sul clima. Ad esempio a Londra le emissioni di gas a effetto serra sono diminuite del 13% nei primi 6 mesi della Ultra Low-emission zone (Ulez) e a Milano sono scese del 22% dopo l’introduzione dell’Area C. Insomma, spiega Claudio Magliulo, responsabile italiano della campagna Clean Cities. “le zone a basse emissioni funzionano, ma è essenziale che i sindaci comunichino efficacemente e per tempo, e che siano presenti misure di supporto alla transizione, quali ad esempio schemi che diano un accesso gratuito ai servizi di trasporto pubblico e di sharing mobility a fronte della rottamazione dei veicoli inquinanti”. Da qui il campanello d’allarme di Clean Cities: “È evidente – spiega Magliulo – che se le città italiane fanno sul serio, non potranno raggiungere la neutralità climatica senza eliminare dalle proprie aree urbane i veicoli inquinanti nell’arco di questo decennio. Si tratta di una sfida complessa, ma tecnologicamente alla nostra portata. Servono lungimiranza, coraggio politico e attenzione al creare una transizione giusta che non lasci indietro nessuno”.

Il dossier della coalizione delle Ong inoltre chiede maggiori sforzi sui piani di mobilità: non basta aumentare le linee di tram e metro o i chilometri di ciclabili, ma “servono anche misure restrittive ben governate che producano non solo una riduzione dell’inquinamento dell’aria e delle emissioni di CO2, ma anche un complessivo restringimento del parco veicolare privato, per il quale l’Italia ha il triste primato in Europa: 67 auto per 100 abitanti”.

In Messico il megaprogetto treno Maya viola norme ambientali

Il governo messicano ha ripreso la costruzione di una sezione del treno turistico Maya, progetto di punta del presidente Andres Manuel Lopez Obrador, nonostante l’ordine dei giudici di sospendere i lavori per violazioni ambientali. Il cantiere ha ripreso a lavorare grazie a un provvedimento che ha classificato, a novembre, i grandi progetti di infrastrutture pubbliche come questioni di “sicurezza nazionale“.

Con l’ordine, che ha l’effetto di un decreto, López Obrador cerca di proteggere le sue riforme infrastrutturali da contestazioni legali, che ne rallenterebbero la costruzione, e di accelerare l’ottenimento di permessi e licenze.

Il Treno Maya “è un progetto di sicurezza nazionale a causa delle ferrovie“, ha spiegato ieri Javier May, direttore del Fondo Nazionale per lo Sviluppo del Turismo (Fonatur), che sta pilotando il progetto di 1.500 chilometri. Di conseguenza, il governo ha deciso di riprendere i lavori sulla sezione 5, lunga 60 chilometri, che collega le località turistiche di Playa del Carmen e Tulum sulla costa caraibica, ha dichiarato May.

La costruzione del tratto è stata ostacolata anche da modifiche al tracciato del progetto, dalla scoperta di resti archeologici, di pozzi sotterranei di acqua dolce e di fiumi sommersi. Alla fine di maggio, un giudice ha sospeso il progetto dopo diversi appelli delle ONG, che hanno accusato il treno di violare le norme ambientali. Il governo ha presentato ricorso contro la sospensione.

Ieri, Greenpeace e Save Me from the Train hanno avvertito separatamente che il governo stava riprendendo i lavori sul progetto prima della decisione finale del tribunale, che secondo loro violava la legge e minacciava gli ecosistemi della Riviera Maya, gioiello turistico del Messico.

López Obrador respinge queste accuse, affermando che provengono da “pseudo-ambientalisti” legati a gruppi di interesse e all’opposizione.

Il Treno Maya è uno dei megaprogetti di punta di López Obrador, insieme all’aeroporto Felipe Ángeles, inaugurato a Città del Messico, alla raffineria di Tabasco (sud) e alla modernizzazione di un corridoio inter-oceanico.

inquinamento

Chi inquina di più? Un quinto delle emissioni CO2 causate dai trasporti

Viaggiare inquina. Secondo i dati pubblicati dall’Emissions Database for Global Atmospheric Research (EDGAR), nel 2020 il mondo dei trasporti è stato responsabile di circa un quinto del totale delle emissioni di CO2 a livello globale, arrivate a sfiorare i 36 miliardi di tonnellate. Dai numeri emerge anche il peso preponderante dei trasporti su strada in termini di inquinamento: auto, mezzi pesanti, autobus, veicoli commerciali e moto/scooter arrivano assieme al 78% delle emissioni generate dal settore. A seguire ci sono i mezzi marittimi (11%), gli aerei (8%) e i mezzi su rotaia (appena il 3%).

Il quadro si conferma simile, se non peggiore, restringendo l’analisi alla sola Unione europea. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea), attualmente i trasporti sono la fonte di circa un quarto delle emissioni di CO2 e la quota legata a veicoli su strada arriva a toccare il 71,7%, precedendo la navigazione (14,1%) e l’aviazione (13,4%). Non solo: a preoccupare è il trend legato al comparto mobilità, opposto a quello di tutti gli altri principali macrosettori. L’Eea, nel suo Transport and environment report 2021 evidenzia come le politiche in materia di clima ed energia nell’Ue hanno portato, tra il 2000 e il 2019, a riduzioni significative delle emissioni di gas serra in campi come la produzione di energia, l’industria manifatturiera, l’edilizia e l’agricoltura. Nei trasporti invece le emissioni totali di gas serra sono aumentate di oltre un terzo nello stesso lasso di tempo, mentre considerando soltanto i veicoli su strada il balzo è del 28%.

La situazione è senza dubbio destinata a migliorare nei prossimi anni, anche se con un ritmo quasi certamente non sufficiente per raggiungere i target di decarbonizzazione fissati da Bruxelles. In particolare, secondo la Commissione Ue le emissioni di CO2 dei trasporti saranno ancora superiori del 3,5% nel 2030 rispetto al 1990 e diminuiranno solo del 22% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. Cifre ben lontane da quanto previsto nel Green Deal europeo dove, pur non essendo fissati obiettivi specifici per settore, si parlava della necessità di una riduzione del 90% delle emissioni di gas a effetto serra dai trasporti entro il 2050 (rispetto al 1990) per arrivare al traguardo complessivo della neutralità climatica nell’Ue. Non stupisce quindi che si stia accelerando su misure quali lo stop alla vendita di autoveicoli con motori diesel e a benzina nel 2035. Anche perché, sempre secondo i dati dell’Eea riferiti al 2019, le automobili sono il mezzo di mobilità meno pulito, arrivando a produrre il 60,6% di tutte le emissioni del comparto trasporti.

La situazione italiana collima solo in parte con quella comunitaria, mostrando alcune peculiarità significativa del nostro paese. La quota dei trasporti sul totale di emissioni di gas serra si è attestata nel 2019 (dati dell’Ispra) al 25,2%, in linea quindi con il contesto complessivo dell’Ue. In Italia però si nota l’ancora più netta preponderanza del trasporto su strada dal quale deriva addirittura il 92,6% dell’inquinamento. Decisamente ridotto l’impatto della navigazione (4,3%) e dell’aviazione (2,3%), praticamente inesistente quello dei mezzi su rotaia (0,1%). Numeri che fotografano perfettamente l’eccessiva dipendenza dell’Italia nei confronti del trasporto su gomma e l’attuale arretratezza in tema di intermodalità gomma-ferro. Con un problema in più: il peso preponderante, rispetto a altri Paesi, dei carburanti fossili, con i consumi di gasolio e benzina che rappresentano circa l’88% del consumo totale su strada.

Per quanto riguarda il trend, le emissioni di gas serra dei trasporti in Italia sono aumentate del 3,2% tra il 1990 e il 2019, mentre quelle del trasporto su strada sono salite leggermente di più (+3,9%). Anche nel nostro Paese però sono attesi miglioramenti significativi, favoriti sia dalle politiche più green in tema di trasporti sia dall’evoluzione tecnologica. Secondo Ispra, nel 2030 le emissioni di CO2 da trasporto su strada diminuiranno del 39% rispetto al 1990, passando da circa 97 a 59 milioni di tonnellate: una tendenza, questa, nettamente migliore rispetto a quella complessiva dell’Ue. Entro il 2050 il calo proseguirà fino a raggiungere i 22 milioni di tonnellate.