Italia maglia nera in Ue per inquinamento: 70mila morti nel 2020

Nel 2020 in Italia sono stati circa 70mila i decessi causati da Pm 2.5, ossidi d’azoto e ozono, facendo salire il nostro paese in testa alla classifica dei paesi europei in cui si muore di più a causa dell’inquinamento. Seguono la Germania con 43.500 decessi evitabili e la Polonia con 41.600. In pratica l’Italia rappresenta il 29% del totale di morti premature da Pm 2.5 in Europa (scese a 238mila rispetto all’anno precedente), il 22% dei decessi evitabili da ossidi di azoto e il 21% di quelli dovuti ad eccessi di concentrazioni di ozono. L’Italia è prima anche per numero di anni di vita persi: ben 606mila quantificabili in circa 61 miliardi di euro di costi sociali e sanitari nel solo 2020. “Questo significa che da diversi decenni, ogni anno nel nostro Paese l’inquinamento dell’aria genera numeri da pandemia”, sottolinea Alessandro Miani, presidente della Società italiana di medicina ambientale (Sima). I dati sono contenuti nell’Air Quality Report dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA).

“Il rapporto EEA appena pubblicato esplicita chiaramente che le maggiori concentrazioni di PM10 si osservano nella Pianura Padana, attribuendo il fenomeno alla densità di popolazione e di attività industriali in un contesto orografico e meteorologico che favorisce l’accumulo di polveri sottili”, aggiunge Prisco Piscitelli, epidemiologo e vicepresidente Sima. “Questi dati certificano che l’Italia è tra i Paesi europei che deve compiere i più netti progressi per l’attuazione della Zero Pollution Strategy Europea, che sottende la revisione delle Linee Guida per la Qualità dell’Aria presentate dalla Commissione Europea lo scorso 26 Ottobre (che ha visto Sima partecipare alla Stakeholders’ Consultation) per allinearsi alle più stringenti direttive OMS entro il 2050. Ancora una volta, il nostro appello al nuovo Governo è un invito a non perdere l’occasione del PNRR per invertire rapidamente la rotta con un’attenta strategia di allocazione delle risorse e verifica in corso dei risultati prodotti, a cominciare dal Programma Salute, Ambiente e Clima per proseguire con la mobilità sostenibile, l’efficientamento energetico degli edifici con annessi riscaldamenti domestici”, conclude il presidente Sima, Alessandro Miani.

Il Mar Egeo vittima dell’inquinamento: sul fondale pneumatici, sedie e telefoni

Sull’isola greca di Naxos la pesca è abbondante. Eppure, nelle reti, non ci sono calamari o orate destinate alle taverne che costeggiano il mare. Sulle banchine assolate di quest’isola dell’arcipelago delle Cicladi si svolge il dramma ambientale dell’Egeo: pneumatici, sedie, vecchi telefoni cellulari, forchette e cucchiai, CD, suole, tappetini da bagno e una scopa. Accanto, decine di lattine di metallo, pezzi di plastica sparsi, bottiglie a bizzeffe, macchiate di limo. Improvvisamente, tra le barche dei pescatori che si agitano nel porto, emergono due sommozzatori che si affannano a tirare su una matassa di cavi, corde, sezioni di rete da pesca e persino vecchi vestiti.

In due giorni, “abbiamo tirato fuori dal porto più di una tonnellata di rifiuti marini”, spiega George Sarelakos, cofondatore e responsabile dell’Ong greca Aegean Rebreath. “E nell’altra parte del porto c’è una vera e propria discarica”, continua il 44enne subacqueo. Negli ultimi cinque anni, l’organizzazione ha setacciato le coste greche per estrarre i rifiuti che sporcano i fondali di questo mare cristallino che attrae milioni di turisti ogni estate.

PNEUMATICI, RETI E PLASTICA. Dopo Zante e Creta, la squadra si è fermata a Naxos per il fine settimana. Tra quindici giorni, effettuerà un’ultima missione a Corfù, un’altra isola turistica greca nel Mar Ionio, prima di riporre le bombole di ossigeno e le pinne per l’inverno. In 75 operazioni di ‘pulizia’, i circa 300 subacquei volontari di Aegean Rebreath hanno recuperato più di 1.700 pneumatici, 21 tonnellate di reti abbandonate o perse, 90.000 bottiglie di plastica, per non parlare delle centinaia di migliaia di sacchetti di plastica, uno dei principali flagelli del mare. “I pescatori gettano i rifiuti in mare. Non sono consapevoli dei problemi ambientali”, dice Theodora Francis, 29 anni, una delle sub di Aegean Rebreath. Anche il sindaco di Naxos, Dimitrios Lianos, deplora l’atteggiamento di alcuni isolani. I pescatori “vivono del mare e quindi devono proteggere l’ambiente marino, è la loro ricchezza!”.

LE RESPONSABILITA’ DEI TURISTI. Da diversi anni l’Ong ambientalista Wwf lancia l’allarme, visto che il settore turistico rappresenta un quarto del Pil greco. “Circa il 25% della produzione di rifiuti di plastica in Grecia è dovuta all’afflusso di turisti durante l’estate”, afferma Achilleas Plitharas, responsabile del programma di riduzione dei rifiuti di plastica del Wwf Grecia. La Grecia, che ha una popolazione pari a circa un sesto di quella della Francia o dell’Italia, produce circa 700.000 tonnellate di rifiuti di plastica all’anno, pari al 2,5% dei rifiuti di plastica prodotti dai Paesi del Mediterraneo, contro il 21,1% dell’Italia e il 15,1% della Francia, secondo uno studio della Ong. “Molte delle misure adottate nelle direttive europee purtroppo non sono applicate in Grecia”, spiega l’esperto ambientale. I sacchetti di plastica vengono ancora distribuiti nei mercati e nelle panetterie. E le cannucce di plastica non sono rare, nonostante l’Ue ne abbia vietato la commercializzazione da oltre un anno. Eppure la Grecia ha imposto una tassa di 9 centesimi sui sacchetti di plastica dal 2018.

Greenpeace mappa allevamenti: soldi anche a chi inquina troppo

Quasi novecento allevamenti intensivi in Italia inquinano emettendo molta più ammoniaca degli altri, pur ricevendo fondi pubblici. La mappa la traccia Greenpeace, che rivela dove si trovino gli allevamenti segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR) che emettono maggiori quantitativi di ammoniaca (NH3), un inquinante dannoso per l’ambiente e la salute umana, e quanti soldi pubblici ricevono.

Nel complesso, l’associazione ambientalista ha geolocalizzato 894 allevamenti inquinanti appartenenti a 722 aziende, alcune delle quali fanno capo a gruppi finanziari come il colosso assicurativo Generali, a nomi noti del food come Veronesi SpA, holding che comprende i marchi Aia e Negroni, o a grandi aziende della zootecnia come il gruppo Cascone.

Le regioni della Pianura Padana sono quelle maggiormente a rischio. Qui, infatti, ha sede il 90% degli allevamenti italiani che nel 2020 hanno emesso più ammoniaca. Capofila è la Lombardia, dove si trova oltre la metà degli stabilimenti che emettono grandi quantità di ammoniaca, una sostanza che concorre in maniera importante a formare lo smog che respiriamo: combinandosi con altre componenti atmosferiche (ossidi di azoto e di zolfo), l’ammoniaca genera infatti le pericolose polveri fini.

Dati alla mano, in Italia gli allevamenti sono la seconda causa di formazione del particolato fine (responsabili di quasi il 17% del PM2,5), più dei trasporti (14%) e preceduti solo dagli impianti di riscaldamento (37%). Mappare dove si trovano i maggiori emettitori di ammoniaca è quindi cruciale per sapere quanto è compromesso l’ambiente in cui viviamo, visto che l’elevata presenza di polveri fini comporta pesanti ricadute per la salute, come Greenpeace ha segnalato in un precedente studio condotto con ISPRA.

Aggiornando i dati pubblicati nel 2018, l’inchiesta di Greenpeace mostra come quasi 9 aziende su 10, tra quelle che possiedono allevamenti segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR), abbiano ricevuto finanziamenti nell’ambito della Politica Agricola Comune (PAC): un totale di 32 milioni di euro nel 2020, per una media di 50.000 euro ad azienda.

Le polveri fini (PM2,5) sono responsabili di decine di migliaia di morti premature ogni anno: l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha stimato quasi 50.000 vittime in Italia nel solo 2019. Com’è possibile ridurre drasticamente la diffusione di queste sostanze, se, parallelamente, si continuano a finanziare i modelli zootecnici intensivi e inquinanti che le producono?”, tuona Simona Savini, campagna Agricoltura di Greenpeace Italia.

L’inquinamento segnalato però è solo la punta dell’iceberg. Infatti, il Registro europeo E-PRTR riporta solo una parte delle emissioni della zootecnia, tanto che nel 2020 il 92% delle emissioni di ammoniaca prodotte dagli allevamenti non ha trovato “responsabili” nell’E-PRTR, perché non monitorato. Questa dannosa lacuna segnala l’urgenza di monitorare e regolamentare un maggior numero di allevamenti, come previsto dalla proposta della Commissione UE di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali. Una proposta, però, che ha già scatenato violente reazioni da parte di esponenti politici e di alcune organizzazioni di categoria. “Sembra che si faccia finta di ignorare che gli allevamenti intensivi sono già da anni considerati attività insalubri di prima classe, e che pertanto servono misure per proteggere la salute delle persone e l’ambiente dalle loro pericolose emissioni. Per farlo in modo efficace, occorre pianificare una riduzione del numero degli animali allevati, come sta già accadendo in altri Paesi europei – sostiene Savini –. Rimandare questi provvedimenti, significa ignorare gli impatti su salute e ambiente legati all’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi“.

 

(Photo credits: DENIS CHARLET / AFP)

demografia

Tra le conseguenze del crollo demografico non solo la riduzione del Pil. Cala anche l’inquinamento

Al Meeting di Rimini di fine agosto Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, aveva posto l’accento sulla crisi demografia e sulle relative conseguenze socio-economiche: “Al primo giugno di quest’anno i residenti in Italia sono 58,87 milioni, fra dieci anni avremo perso 1,2 milioni di persone. Nel 2052 perdiamo 5 milioni di persone, se andiamo al 2070 perdiamo 11 milioni di persone”. E così se “Il Pil di oggi è circa sui 1.800 miliardi di euro, nel 2070 avremo qualcosa come 1.200 miliardi, cioè 560 miliardi in meno, ossia un 32% di Pil in meno solo per il cambiamento di carattere demografico”.

Meno persone, è evidente, significa meno attività, meno consumi e pure meno inquinamento. In effetti il parallelismo tra demografia ed emissioni si può evincere in base a quello che è successo negli ultimi 15 anni. Secondo i dati Ispra, In Italia nel 2019 (il 2020 è stato un anno anomalo causa pandemia) le emissioni totali di gas serra, espresse in CO2 equivalente, sono diminuite del 19% rispetto all’anno base (il 1990 preso a riferimento anche dalle politiche green europee), scendendo da 519 a 418 milioni di tonnellate di CO2. E questa riduzione è stata riscontrata in particolare dal 2008, scrive Ispra, come “conseguenza sia della riduzione dei consumi energetici e delle produzioni industriali a causa della crisi economica e della delocalizzazione di alcuni settori produttivi, sia della crescita della produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico ed eolico) e di un incremento dell’efficienza energetica”.

Anche la crisi demografica è “precipitata nel 2009”, ricordava ultimamente Rino Agostiniani, vicepresidente della Società italiana di pediatria (Sip), conducendo “a un calo di circa un quarto delle nascite negli ultimi 10 anni”.

Utilizzando dunque come metro di paragone il consumo pro capite di tonnellate di C02 possiamo presumibilmente stabilire di quanto diminuiranno le emissioni nei prossimi anni, considerando le proiezioni sulla popolazione fornite da Istat e un calcolo realizzato dal costruttore di caldaie Vaillant e dall’Università di Milano, secondo il quale ogni italiano produce in media ogni anno 5,5 tonnellate di anidride carbonica: oltre un terzo dai trasporti, un altro terzo dall’alimentazione e dai rifiuti, il resto dal riscaldamento (25%) ed illuminazione ed elettrodomestici (5%).

Fra trent’anni, nel 2052, in Italia si potrebbero dunque respirare 27,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno in meno (-6,5% rispetto alla quota del 2019), mentre nel 2070 il crollo dell’inquinamento dovrebbe aggirarsi sui 60 milioni di tonnellate di anidride carbonica (quasi -15%). Il tutto senza fare niente sul fronte ambientale.

inquinamento plastica

Italia rimandata all’esame Ue sull’attuazione delle norme ambientali

Due passi avanti e tre indietro. L’Italia viene rimandata all’esame dell’attuazione delle norme ambientali negli Stati membri presentato dalla Commissione europea, che ha definito le tendenze comuni sulla base delle 27 relazioni nazionali, con incluse le informazioni sulla protezione della qualità dell’aria e dell’acqua, la gestione dei rifiuti e la protezione della natura da parte dei 27 governi dell’Unione.

Come evidenziato dal rapporto specifico sull’Italia, il Paese mostra ancora gravi carenze su diversi dossier, come inquinamento, gestione dei rifiuti e siti naturali, mentre passi in avanti sono stati evidenziati sulla gestione idrica e sull’economia circolare. “Il riesame dell’attuazione ambientale di quest’anno è un invito all’azione“, ha spiegato il commissario europeo per l’Ambiente, gli Oceani e la Pesca, Virginijus Sinkevičius: “Se da un lato mostra i progressi compiuti in alcune aree rispetto al precedente riesame, dall’altro mi preoccupa il fatto che in altri settori il divario di attuazione si stia ancora ampliando, rendendoci tutti più vulnerabili all’inquinamento ambientale e ai rischi correlati“.

La bocciatura più grossa per l’Italia è quella sui rifiuti, per cui il Paese “continua a pagare multe per non-conformità alla normativa europea sulle acque reflue urbane, per le discariche irregolari e per la gestione dei rifiuti nella regione Campania“, sottolinea il rapporto, ma anche i nitrati nell’Italia settentrionale e l’acqua potabile nel Lazio rappresentano “importanti” problemi ambientali. Per quanto riguarda l’inquinamento, si registrano “sostanziali” superamenti dei valori-limite degli inquinanti atmosferici per il particolato fine e il biossido di azoto, soprattutto nella pianura Padana. L’esecutivo comunitario stima che nel 2019 siano stati causati circa 50 mila e oltre 10.500 decessi prematuri attribuibili rispettivamente al particolato fine e al biossido di azoto. Infine, per le aree marine devono ancora essere designati i siti Natura 2000 ed “è necessario migliorare” lo stato di conservazione di habitat e specie, la cui qualità di misurazione è “spesso insufficiente“.

I punti positivi riguardano invece l’adozione dei Piani di gestione dei bacini idrografici di terza generazione e i Piani di gestione del rischio di alluvioni di seconda generazione. Ma soprattutto “l’ambizioso Piano nazionale di recupero e resilienza” (Pnrr), che prevede “riforme-chiave in settori quali l’economia circolare, la gestione dei rifiuti con importanti investimenti nel riciclaggio e la governance dell’acqua“, ha messo nero su bianco la Commissione Ue.

Preinvel, il filtro che con l’aria abbatte micropolveri industriali

Un filtro in grado di risolvere uno dei più grossi problemi legati all’inquinamento ambientale: l’eliminazione delle micro e nano polveri da combustioni e lavorazioni industriali. La tecnologia è brevettata a livello internazionale dalla start-up Preinvel, dopo anni di studio e ricerca.

Volevamo fare qualcosa di concreto, era giusto dare un nostro contributo perché nessuno potesse più essere vittima dell’inquinamento industriale, le cui prime vittime sono, purtroppo, le fasce più deboli della popolazione“, spiegano gli sviluppatori. Un’intuizione che ha un obiettivo ambizioso, puntare a una transizione industriale pulita e scardinare il mito dell’incompatibilità tra diritto alla salute e quello al lavoro: “Nell’immaginario collettivo di ogni cittadino che vive in contesti urbani in cui è presente un sito produttivo, sono molto chiare le immagini terribili dell’inquinamento e il suo impatto devastante sull’ambiente circostante e sulla salute pubblica“, racconta il fondatore dalla start up pugliese, Angelo Di Noi.

Così, scandisce, ha trasformato una crisi in opportunità: “Le condizioni sfavorevoli e le problematiche fortemente impattanti sul contesto sociale possono trasformarsi in un incredibile motore propulsivo per trovare soluzioni innovative“.

Il sistema di filtraggio fluidodinamico risolve in “maniera efficiente, efficace e totalmente ecocompatibile“, assicura Preinvel, il problema delle emissioni industriali inquinanti. Il team di lavoro è composto da professionisti con competenze eterogenee (ingegneri, sociologi, giuristi, economisti, comunicatori) che hanno favorito un approccio “non ortodosso” e innovativo alle tematiche legate allo sviluppo di tecnologie ecosostenibili.

L’osservazione della natura e delle sue leggi ha permesso alla tecnologia di sfruttare il più efficiente, economico ed eco-compatibile dei sistemi filtranti: l’aria. Il ragionamento seguito è semplice e rivoluzionario: se si adopera un filtro fisico per “intrappolare” le polveri, non si sta risolvendo il problema, lo si sta solo spostando su un altro livello, perché qualsiasi mezzo fisico utilizzato per questo scopo, sarà per sua stessa natura destinato a saturarsi e diventare nel tempo sempre più inefficiente. Utilizzando il principio di Bernoulli, il filtro Preinvel crea gradienti di pressione e definisce aree di alta depressione capaci di catturare in maniera definitiva tutte le micropolveri inferiori a 0.5 micron prodotte nelle lavorazioni industriali. In questo modo si annullano le emissioni nocive garantendo efficienze filtranti altissime, costanti nel tempo e assicurando costi di manutenzione vicini allo zero, data l’assenza di componenti che necessiterebbero di periodiche manutenzioni o sostituzioni per usura o saturazione.

L’invenzione ha ricevuto il primo premio dell’Apulian Sustainable Innovation Award 2021 ed è stata selezionata da Zero, l’Acceleratore di startup Cleantech della Rete Nazionale Acceleratori di Cdp, che promuove la crescita del Paese ha come Partner Eni, la holding LVenture Group e la cooperativa sociale Elis e come Sponsor la multiutility Acea, Vodafone, la multinazionale dei computer Microsoft e Maire Tecnimont, leader del comparto di impiantistica.

traffico strada

Turismo poco sostenibile, 3/4 dei villeggianti usano ancora l’auto

La mattina di sabato 6 agosto la Polizia di Stato informa che sulle autostrade italiane il traffico sarà da bollino nero, ovvero si prevedono code e forti rallentamenti per il primo grande esodo estivo verso le località turistiche (di mare principalmente). Perché, dagli anni del Boom economico in avanti, l’automobile resta il principale mezzo di trasporto utilizzato dagli italiani per spostarsi lungo lo Stivale, ma anche all’estero. Nonostante la comodità del treno (che permette di rilassarsi durante il tragitto e conduce direttamente nei centri storici delle città) la macchina viene infatti preferita per la sua praticità e per la possibilità di utilizzarla anche nei piccoli spostamenti una volta giunti a destinazione. Il turismo sostenibile, dunque, resta un miraggio, nonostante gli sforzi delle grandi società di trasporti e delle amministrazioni pubbliche.

La macchina viene preferita soprattutto dalle famiglie che con bambini dichiarano di essere più libere e rilassate negli spostamenti, mentre i più giovani tendono a preferire il treno. Secondo lo studio Ispra ‘Flussi turistici per modalità di trasporto’ a fronte di una diminuzione dei viaggi in generale dovuto inevitabilmente al ‘pandemico’ 2020, la scelta dell’automobile, da sempre il mezzo più utilizzato, diventa prevalente per il 73,9% dei viaggi effettuati nel 2020 e del 78,2% di quelli compiuti in Italia. Osservando i dati degli spostamenti in vacanza, ben il 79,6% dei turisti si mette alla guida di un’auto; il 7% viaggia in treno, il 5,2% prende l’aereo, il 2% la nave e il 6,3% altri mezzi di trasporto.

turismo

Anche i turisti che arrivano dall’estero in Italia non sono poi così sensibili all’ambiente. Guardando i dati sull’andamento, nel corso degli anni, delle infrastrutture utilizzate per raggiungere il Bel Paese, si nota come quelle stradali rappresentino oltre il 60% del totale. Dal 1996 al 2003 le infrastrutture stradali sono state preferite da oltre il 70% dei turisti stranieri; dal 2004 il dato è calato a poco più del 60%, fino a restare stabile fino al 2016, per scendere sotto il 60% dal 2017 al 2019. Lo spazio lasciato vuoto è stato occupato dalle infrastrutture aeroportuali, il che significa che molti turisti (quelli extra Ue) hanno raggiunto l’Italia in aereo. Fanalino di coda restano le infrastrutture ferroviarie (assottigliatesi sempre più dal 1996 al 2019) e quelle portuali.

Nonostante l’impennata dei prezzi dei carburanti, gli italiani pare non vogliano rinunciare alla macchina per i loro spostamenti, forse perché vengono da ‘anni pandemici’ che li hanno visti rinunciare o limitare parecchio gli spostamenti e per questo ora vogliono sentirsi liberi. Ma le prospettive sostenibili restano comune buone.

Secondo un recente studio realizzato da ‘EY Future Travel Behaviours’ diffuso in primavera, aumenta infatti rispetto al 2020 l’utilizzo di treno e aereo rispetto ai mezzi personali, ma con livelli ancora inferiori rispetto al 2019, e con alcune differenze per fascia d’età che rivelano un incremento consistente dei voli aerei per gli under 40 (42% contro il 30% del campione totale). Aumentano anche gli spostamenti per lavoro: tra chi viaggia per lavoro, l’auto resta il mezzo più utilizzato (60%), il treno è usato in misura maggiore rispetto al 2019 (55%), mentre solo 1 su 3 si sposta in aereo. Comodità e prezzo sono i principali fattori che influenzano la scelta del mezzo di viaggio, come per la precedente rilevazione, ma, anche se la sicurezza dell’esperienza di viaggio resta importante, quest’ultima tuttavia assume meno rilevanza nelle priorità dei viaggiatori. Aumenta invece l’importanza attribuita alla sostenibilità: il 74% degli individui afferma di aver fatto scelte di viaggio pensando alla sostenibilità in quanto sono preoccupati per le conseguenze delle proprie azioni sul pianeta.

Nel confronto tra auto e treno, si registra un’elevata attenzione dei viaggiatori alle iniziative di riduzione dell’impatto ambientale dei viaggi in aereo, con oltre la metà del campione che ritiene rilevanti quelle relative all’utilizzo di carburanti green, ma si evidenzia anche una disponibilità da parte dei 2/3 degli intervistati a pagare un sovrapprezzo per garantire la compensazione delle emissioni di CO2 dei propri viaggi di breve e lungo raggio.

L’analisi delle attitudini, effettuata con test impliciti, verso un atteggiamento di tipo ‘Environmental Concern’, evidenzia una netta tendenza verso l’adozione di comportamenti eco-friendly ed attenti all’ambiente. Dalle risposte esplicite emerge che il 46% considera importante o molto importante l’impatto sull’ambiente delle proprie scelte, un dato in aumento rispetto alla precedente rilevazione. Anche i test impliciti confermano il trend di crescita della preoccupazione verso i temi ambientali. Infatti, il 75% degli intervistati ha un atteggiamento ansioso verso i problemi ambientali (contro il 67% dello scorso sondaggio).

migranti

Il dramma umano e ambientale dei migranti della Manica

Gommoni, giubbotti di salvataggio, lattine abbandonate: segnali evidenti di un dramma umano, ma anche ambientale. È lo scenario che si para davanti a chi arriva sulle dune delle Fiandre, in Francia. Ogni settimana, centinaia di chili di rifiuti lasciati dal traffico di migranti che tentano la traversata verso l’Inghilterra devono essere rimossi dall’area naturale protetta sulla costa settentrionale della Francia. Sulla Duna di Dewulf, che sorge alla periferia della città portuale di Dunkerque, tra un terminal degli autobus e il mare, le tracce delle partenze sono numerose alla fine di luglio, dopo qualche giorno di bel tempo. Il ministero dell’Interno francese stima che 20.000 aspiranti esuli abbiano tentato la traversata tra il 1° gennaio e il 13 giugno (+68% rispetto allo stesso periodo del 2021). Da quando le autorità hanno bloccato il tunnel della Manica e il porto di Calais, punto di partenza sul versante francese, sempre più aspiranti esuli tentano la fortuna attraversando la rotta marittima più trafficata del mondo. A rischio della loro vita.

Come effetto collaterale di questi drammi umani, una moltitudine di rifiuti si accumula sulla duna. Sotto un fitto bosco spuntano maglioni, piumoni, carrozzine e lattine di bevande energetiche che segnalano le aree in cui i migranti hanno aspettato di imbarcarsi. Anche alcuni lacrimogeni, che segnalano l’intervento della polizia.

Non possiamo essere insensibili a tutte queste partenze (…) mi sorprende, ma c’è anche un impatto ambientale disastroso“, lamenta Olivier Ryckebusch, sindaco di Leffrinckoucke, una cittadina di 4.500 abitanti. Per le guardie costiere incaricate di ripulire l’area, la giornata inizia con un rapido volo di drone per individuare i principali rifiuti. “A volte, in estate, riempiamo diversi cassoni a settimana con gommoni e simili“, dice il pilota, Florian Boddaert, prima di partire con i suoi colleghi sulle strade accidentate. La Guardia Costiera di Dunkerque ha trovato il suo primo gommone nel 2019. “Da allora ne abbiamo avuti circa un centinaio“, dice Aline Bué, a capo di una squadra di sei guardie responsabili della sorveglianza di oltre 1.000 ettari di dune e siti naturali.

In un punto pianeggiante a 300 metri dal mare, un gommone, lacerato dalla polizia dopo una partenza fallita, attende di essere raccolto, circondato da una quarantina di giubbotti di salvataggio nuovi e taniche di benzina. L’inquinamento è visivo, ma soprattutto questo accumulo di rifiuti disturba l’area classificata Natura2000, che ospita molte specie autoctone, orchidee e aglio selvatico, oltre a rane, tritoni e uccelli. Alcune recinzioni sono state danneggiate da aspiranti esuli e i ranger hanno dovuto rimuovere temporaneamente le capre portate sul posto come tagliaerba ecologici.

Le autorità locali, da parte loro, chiedono aiuto allo Stato. Secondo il sindaco di Leffrinckoucke, il costo della bonifica nel 2021 ammontava a 20.000 euro solo per il suo comune. “Stiamo lavorando a soluzioni collettive per questo problema, che durerà a lungo”, ha dichiarato il sottoprefetto di Dunkerque, Hervé Tourmente. Lo Stato sta “negoziando con le autorità britanniche affinché possano contribuire finanziariamente alla neutralizzazione e all’evacuazione delle attrezzature nautiche“, ha aggiunto.

(Photo credits: FRANCOIS LO PRESTI / AFP)

app rifiuti mare

In Francia l’app per mappare in real-time i rifiuti galleggianti

Si chiama ‘The Collector’ ed è un catamarano che ogni giorno perlustra la costa di Biarritz alla ricerca di rifiuti di plastica causati dai turisti. L’imbarcazione – le cui attività sono finanziate dal Comune – è collegata a un’app (I clean my sea), che consente agli utenti di segnalare la presenza dei rifiuti. Si tratta, principalmente, di diportisti, surfisti, nuotatori o semplici cittadini che passeggiano sulla spiaggia. I due marinai a bordo della barca ricevono una notifica, con la foto scattata dall’utente e la posizione GPS, come spiega Aymeric Jouon, ricercatore in oceanografia e ideatore della società che gestisce la barca, omonima dell’applicazione. L’augurio è che con l’aiuto degli utenti, si riesca a creare “una mappa dei rifiuti galleggianti in tempo reale“.

La raccolta, a cui la città di Biarritz ha assegnato 60mila euro, è stagionale e segue il picco di affluenza turistica sulla costa, spiega Mathieu Kayser, assessore all’ambiente. “Se potessimo, useremmo la barca tutto l’anno, ma avrebbe un costo“, troppo elevato. Sulle spiagge di Biarritz, ogni mattina, i dipendenti comunali raccolgono anche i rifiuti arenati, riportati dalle correnti. Ogni anno, spiega Kayeser, i rifiuti aumentano a causa del problema del “consumo globale“, ma “noi cerchiamo di trovare tutte le soluzioni per affrontare la questione. ‘The collector’ terminerà la sua missione a settembre.

I rifiuti raccolti in mare vengono smistati a mano dal personale che si trova a bordo. Come Valetin Ledée, 22 anni. “L’80% dei rifiuti – racconta – è costituito da plastica molto fine o microplastica, a volte intrappolata in un mucchio di alghe“. I venti e le maree hanno un grande impatto sulla raccolta. “Il vento leggero da ovest spinge la plastica indietro, verso la costa, e quando il livello dell’acqua si alza, raccoglie tutto ciò che è sulle sponde o ciò che si è depositato sulle spiagge“, afferma Aymeric Jouon. Così, assicura Mathieu Kayser, “l’80% dei rifiuti raccolti in mare arriva da terra“.

Oltre la fascia costiera di 300 metri, in cui opera The Collector, un’altra barca attraversa le acque tra la foce dell’Adour, a Bayonne, e il confine spagnolo, a Hendaye. Sostenuta dal dipartimento dei Pirenei atlantici, nel 2021 ha raccolto diverse tonnellate di rifiuti di plastica.

(Photo credits: GAIZKA IROZ / AFP)

riviera romagnola

In Romagna si torna a fare il bagno. Boom di batteri causato da caldo e siccità

Contrordine sulle spiagge romagnole: i villeggianti possono tornare a fare il bagno in mare in piena sicurezza. Lo hanno comunicato ieri mattina gli assessori regionali all’Ambiente e al Turismo, Irene Priolo e Andrea Corsini durante una conferenza stampa dopo che ieri l’Arpa (agenzia per l’ambiente) aveva imposto lo stop a causa di valori anomali di batteri Escherichia coli nell’acqua di 28 tratti costieri (sei erano tornati già a norma nella giornata di giovedì).

Per tutta la giornata di giovedì era aleggiato il dubbio: perché questi valori erano fuori norma? Non piove da settimane, non ci sono stati sversamenti in mare, i fiumi non possono essere i responsabili dal momento che sono praticamente a secco. Allora perché una così alta concentrazione di batteri? Secondo gli esperti è colpa proprio del caldo e della siccità.

I risultati dei campioni aggiuntivi effettuati giovedì sulle acque della provincia di Rimini interessate dal divieto di balneazione hanno evidenziato valori di Escherichia coli nella norma in tutti i 21 tratti di spiaggia. I sindaci potranno pertanto emanare l’ordinanza di revoca del divieto di balneazione“, ha informato la Regione. “Domani arriveranno i risultati anche per il tratto di mare Spiaggina di Goro (Ferrara). La soglia limite del batterio – hanno detto i due assessori –, che è di 5000 cfu (unità formante colonia) per 100 ml di acqua, raggiunge oggi al massimo 135, ma nella maggior parte degli ultimi prelievi effettuati da Arpa non supera i 20-30 o anche meno“.

In Emilia-Romagna, hanno sottolineato Priolo e Corsini, la qualità dell’offerta turistica e ricettiva va di pari passo con la qualità del sistema dei controlli, che vengono eseguiti per la sicurezza delle persone, in particolare anziani e bambini. Qualità delle strutture ricettive e degli stabilimenti balneari, dunque, ma anche dell’acqua del mare, con i controlli che si mantengono costanti e la prossima rilevazione, come da programma, il prossimo 22 agosto.

L’assessora all’Ambiente Priolo si è quindi soffermata sulle cause dei dati anomali di martedì scorso, quando i controlli effettuati come di consueto da Arpae per garantire sicurezza e qualità della stagione balneare hanno evidenziato valori al di sopra della soglia. E ciò si è verificato verosimilmente per la compresenza di una serie di fattori che hanno favorito la proliferazione batterica: per la prima volta da decenni, Arpa ha registrato, attraverso 12 stazioni dislocate sul territorio, temperature superiori ai 40 °C per più giorni. Questo ha influito su un innalzamento della temperatura del mare, che ha visto da mercoledì improvvise mareggiate dopo un lungo periodo di calma. A ciò si è aggiunta la scarsa ventilazione e la siccità, con un apporto idrico dei fiumi al mare estremamente ridotto.

batterio

Diversi studi di Ispra, Legambiente ed Eea (Agenzia europea dell’ambiente) spiegano infatti che la siccità porta con sé il rischio di aumentare la concentrazione di sostanze inquinanti nei corpi idrici. È una questione chimica: la concentrazione di una sostanza è maggiore se è diluita in meno acqua. Per quanto riguarda le sostanze presenti di origine antropica, gli ultimi dati dell’annuario dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) per il periodo 2018-2019 dicono che l’82% delle circa 3.800 stazioni di monitoraggio analizzate non presenta superamenti delle soglie di concentrazione delle sostanze inquinanti, tuttavia circa il 18% supera i valori in uno o più casi. La situazione non è delle migliori neanche per quanto riguarda le condizioni quantitative delle riserve idriche sotterranee. Sempre secondo il rapporto dell’Eea, in Italia quasi il 10% dei corpi idrici sotterranei analizzati si trova in situazione di scarsità.

La situazione più grave si concentra nelle Regioni del Sud, dove l’abbassamento del livello delle falde porta a fenomeni di intrusione salina con conseguente perdita della risorsa di acqua potabile. In particolare in Puglia il 45% delle riserve si trova in condizioni di quantità critiche. Ma nelle ultime settimane anche la zona della foce del Po ha registrato criticità con una forte risalita del cuneo salineo (si parla di una trentina di km).

Ma perché ci sono questi batteri in mare? La presenza di Escherichia coli e di enterococchi, spiegano le agenzie regionali per l’ambiente, è legata all’esistenza di scarichi diretti di fognature non depurate oppure scarichi mal depurati o mal disinfettati. Per la balneazione la norma nazionale di riferimento è il Decreto Legislativo 116/08, che recepisce la Direttiva 2006/7/CE. La norma tecnica applicativa è il D.M. 30/03/2010, che sancisce che la valutazione sia effettuata sulla base dei soli parametri batteriologici Escherichia coli ed enterococchi intestinali, indicatori di contaminazione fecale, che i controlli abbiano frequenza mensile, da aprile a settembre, in base ad un calendario prestabilito, che la valutazione venga effettuata secondo un calcolo statistico e le acque siano classificate sulla base dei dati delle ultime 3-4 stagioni balneari. Il divieto di balneazione per un sito e la sua revoca avvengono a seguito di esito sfavorevole di una sola analisi.