isola Cavoli

Con Green Hyland l’isola dei Cavoli sarà la prima al mondo a impatto zero

L’isola dei Cavoli, sulla costa sud orientale della Sardegna, potrebbe presto diventare la prima isola al mondo alimentata al 100% da energia rinnovabile. È questo l’obiettivo dell’iniziativa Green Hyland, promossa dalla startup sarda H2D Energy, in partenza il prossimo settembre. Un progetto ambizioso che mira all’autonomia energetica mediante accumulo e trasformazione in idrogeno; in questo modo tutti i servizi verranno alimentati da tecnologie a emissioni zero e saranno realmente sostenibili e rispettosi dell’ecosistema marino e terrestre.

Non è un caso che sia stata scelta proprio l’isola dei Cavoli per questo esperimento unico al mondo. Collocata all’interno dell’area marina protetta di Capo Carbonara, ente del Comune di Villasimius, la piccola isola granitica è una terra di confine di impareggiabile bellezza, immersa in un contesto naturalistico selvaggio. Le sue acque limpide ospitano delfini, balenottere e razze marine pregiate, dalle aragoste alle ricciole, vero e proprio richiamo per il pescaturismo. Un patrimonio naturale che necessita, oggi più che mai, di essere salvaguardato.

Ma su cosa si basa il progetto? L’idea è quella di accumulare energia elettrica rinnovabile mediante idrogeno, sfruttando il sistema Hybox, progettato dalla startup H2D Energy. Durante le ore diurne questo dispositivo accumula l’energia elettrica prodotta da un sistema fotovoltaico, la trasforma in idrogeno e la restituisce quando quest’ultimo non produce energia (ad esempio di notte o con tempo nuvoloso). Il sistema – come ha spiegato a GEA Carlo Manconi, managing director di H2D Energy – lavorando 24 ore su 24 e 365 giorni all’anno, risolve il problema fisiologico delle energie rinnovabili, ovvero la mancanza di continuità. Una vera e propria rivoluzione energetica: la produzione dell’idrogeno non utilizza infatti componenti inquinanti, né nella fase di accumulo, né in quella di rilascio dell’energia, dunque non necessita di alcun processo di smaltimento. Evita inoltre le dispersioni di energia che, prodotta durante l’estate, può essere utilizzata in inverno, o anche a distanza di anni.

Grazie al sistema Hybox, l’acqua sarà ottenuta condensando l’umidità dell’aria mediante un sistema chiamato AWG (Atmospheric Water Generator) e le acque reflue saranno filtrate da un sistema a osmosi inversa e rese pure. Anche il trasporto verrà rivoluzionato: per la prima volta al mondo sarà installata una colonnina di rifornimento idrogeno per imbarcazioni da diporto, così l’isola potrà essere raggiunta direttamente con imbarcazioni elettriche, eliminando non solo l’inquinamento emesso dagli scarichi, ma anche quello acustico.

Le tappe dell’iniziativa sono già ben definite, come spiegato da Fabrizio Atzori, direttore dell’area marina protetta di Capo Carbonara: “Partiamo a settembre con il primo processo di elettrolizzazione e con il posizionamento della strumentazione sull’isola per testarne il sistema. Questo ci è possibile anche grazie alla collaborazione con il dipartimento di ricerca dell’Università di Cagliari. Poi tra giugno e luglio 2023 forniremo una barca alimentata a propulsione a idrogeno e una colonnina che verrà posizionata sui moli grazie al finanziamento di Regione Sardegna. Arriviamo poi a fine 2023/inizio 2024 con l’avvio della produzione di acqua. In questo modo andiamo verso quello che è il concetto vero e proprio di transizione ecologica”.

Il progetto, che ha un costo stimato di circa 250mila euro, è finanziato con fondi regionali e privati. Si tratta di un’occasione unica per la Sardegna e l’Italia intera di dare vita al primo territorio del pianeta Terra realmente sostenibile: un primo piccolo grande passo verso una rivoluzione che avrà presto dimensioni globali.

Bandiere Blu nel segno della sostenibilità. Fee: “Trend positivo”

Una cartina al tornasole dello stato di salute del mare e dei laghi italiani. Con l’assegnazione delle celebri Bandiere Blu della Foundation for Environmental Education (Fee) anche quest’anno è stato possibile scattare una fotografia aggiornata delle aree di balneazione nazionali. I risultati sono lusinghieri: 210 in totale i comuni che hanno ricevuto il riconoscimento e ben 14 nuove spiagge inserite nell’elenco.

La Liguria si conferma al primo posto con 32 località insignite della Bandiera Blu, seguita da Campania, Toscana, Puglia (tutte a quota 18) e Calabria e Marche (17). Quindi spazio a Sardegna (15), Abruzzo (14), Sicilia (11) e Lazio con 10 località. Il Trentino conferma le sue 10 Bandiere Blu, 9 quelle per Veneto ed Emilia Romagna, 5 quelle presenti in Basilicata. Con un nuovo ingresso il Piemonte sale a quota 3 Bandiere Blu, 2 quelle assegnate in Friuli Venezia Giulia e una a testa per Lombardia e Molise. Nella classifica sono comprese le 17 Bandiere assegnate ai laghi.

Il trend è positivo anche per quest’anno – spiega a GEA Claudio Mazza, presidente di Fee –. Crescono ancora le località del centro e del Sud dell’Italia, ma bisogna sottolineare come l’assegnazione delle Bandiere Blu sia solo la punta dell’iceberg di un percorso di continuo miglioramento basato su una serie di criteri che vengono aggiornati periodicamente. Per questo oltre al crescere della qualità delle acque è bello vedere una maggiore attenzione al tema della sostenibilità e un ulteriore impegno in questo senso da parte delle amministrazioni”.

L’Italia si è anche confermata tra i Paesi europei con le acque balneabili di livello più alto, secondo il rapporto annuale realizzato dall’Agenzia europea per l’ambiente e la Commissione europea. Un risultato a cui contribuisce anche Fee: “Al di là delle acque balneabili, le località Bandiera Blu devono essere state qualificate come eccellenti in senso più ampio negli ultimi quattro anni – sottolinea Mazza –. I criteri sono 32 e riguardano tutta la gestione del territorio, a cui la qualità del mare è strettamente collegata. Anche per quanto riguarda la sicurezza dei bagnanti: nelle località da noi premiate è garantita la presenza degli assistenti oltre che negli stabilimenti anche nelle spiagge libere”.

Certo, le criticità non mancano. “La depurazione resta il problema principale da affrontare – afferma Mazza -, a cui segue quello dell’efficienza delle reti fognarie. Da monitorare è anche la situazione dei fiumi: soprattutto in occasione dei forti temporali estivi i versamenti in mare creano situazioni difficili e molti comuni si trovano a dover pagare per situazioni che non dipendono direttamente da loro. Ecco perché bisognerebbe intervenire anche con i Contratti di Fiume che, pur non essendo una risposta definitiva, restano comunque un buono strumento”.

Quest’anno la Fondazione ha introdotto una novità tra i criteri di assegnazione delle Bandiere Blu: l’impegno sociale e l’inclusività, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. “Una scelta naturale che si inserisce nel percorso di continuo miglioramento a cui accennavo prima – sottolinea Mazza –. Chiediamo che l’aumento di performance sia dimostrato, attraverso una politica fatta di piccoli passi, ma estremamente concreti. Nuovi criteri e indicatori vengono introdotti ogni anno, ma l’accessibilità è sempre stato un punto centrale delle nostre richieste. Quest’anno abbiamo deciso di imprimere un ulteriore stimolo sul piano dell’inclusività sociale per i portatori di handicap e sul fronte della solidarietà. Dopo aver monitorato cosa i comuni già facciano in questo senso, abbiamo suggerito la partecipazione alla 2+Milioni di KM di Dynamo Camp: una sfida non competitiva aperta a tutti gli amanti della bicicletta, attraverso la quale raccogliere fondi per i bambini con malattie gravi e croniche. Il nostro compito è anche questo: sollecitare ed essere da stimolo per i comuni, ma anche far capire che alcuni risultati si raggiungono solo se sono condivisi dalla comunità locale e che bisogna lavorare sia per raggiungerli che per mantenerli”.

bandiere blu infografica

Un impegno che viene già ripagato, almeno dal punto di vista delle presenze turistiche. “La Bandiera Blu è un marchio ormai riconosciuto a livello internazionale: è un’indicazione della quale il turista tiene presente e, a detta delle stesse categorie di settore e di studi svolti al riguardo, risulta fortemente trainante al momento della scelta della località in cui soggiornare”, conclude Mazza.

Di classifica in classifica, nei giorni scorsi è stata diffusa anche quella de ‘Il mare più bello’, stilata da Legambiente e Touring Club Italiano. A conquistare le Vele Blu le località che possono contare su acque cristalline, ma anche sulla possibilità di coinvolgere i turisti con escursioni, passeggiate e luoghi d’arte, senza dimenticare la gestione sostenibile del territorio e un’offerta turistica di qualità.

Caratteristiche ambientali e livello di ospitalità hanno permesso a Legambiente di assegnare da una a cinque Vele Blu a 427 spiagge e 82 approdi turistici. Al vertice la Sardegna, con sei comprensori turistici a Cinque Vele, seguita da Toscana e Puglia con 3 comprensori e da Sicilia e Campania con due. Un comprensorio a Cinque Vele anche in Basilicata e Liguria. Il Trentino-Alto Adige si distingue nella classifica dei laghi – ben tre su sei raggiungono le Cinque Vele – ma è il lago del Mis, nel Bellunese, in Veneto, a conquistare il titolo di “lago più bello d’Italia”.

spiaggia

La responsabilità degli italiani passa anche dalle spiagge. Quanto ce ne prendiamo cura?

L’esperienza della sporcizia sui litorali è comune a gran parte della popolazione: 27,4 milioni gli italiani che l’hanno vissuta. Pochissimi (solo il 12%) quelli che dicono di non averla mai provata. Il sentimento più diffuso che questo stato di degrado provoca è il fastidio, provato da circa 25 milioni di persone. Per fortuna ci sono anche buone notizie: 19 milioni di italiani (circa il 62% del totale), i ‘responsabili’, si prendono cura del luogo in cui si trovano, rimuovendo se necessario gli oggetti abbandonati che incontrano. Lo fanno con stati d’animo diversi: la maggior parte di loro (circa 14 milioni) prova fastidio e sdegno, una piccola parte sembra invece non essere particolarmente colpita dalla presenza dei rifiuti in spiaggia; nonostante due sentimenti così diversi, la reazione è la medesima: fare la propria parte. I responsabili sono per lo più giovani, con meno di 24 anni, vivono in prevalenza nelle grandi città del sud, sono lettori e appassionati di sport e vita all’aperto. È quanto emerge in una indagine di Sorgenia tramite Human Highway sul sentimento degli italiani rispetto alla pulizia delle spiagge.

Ci sono poi i vorrei ma non posso (18,7%): persone che provano rabbia di fronte ai litorali sporchi ma non agiscono. Le ragioni? Non ritengono sia compito loro, non hanno gli strumenti adeguati o sono preoccupati per ragioni igieniche, ancora più sentite dopo questi anni di Covid. In fin dei conti pensano sia pressoché impossibile cambiare lo status quo.

Troviamo anche gli indifferenti, ovvero 2,5 milioni di italiani che, pur notando la sporcizia, non provano alcun fastidio né sentono il bisogno di intervenire.

Infine, abbiamo i distratti (l’11,7% del totale), persone che addirittura non vedono i rifiuti; difficile risalire alle possibili motivazioni: abitudine oppure frequentazione di litorali molto curati dove la pulizia è impeccabile? È questo il quadro che emerge dal sondaggio di Sorgenia realizzato da Human Highway su un campione statisticamente rilevante, con l’obiettivo di misurare i sentimenti di 31 milioni di italiani che frequentano abitualmente le spiagge del Paese. L’indagine arriva a conclusione delle iniziative di plogging promosse da Sorgenia in alcuni lidi italiani in concomitanza con il progetto M.A.R.E. (Marine Adventure for Research & Education), ideato da Centro Velico Caprera e One Ocean Foundation per studiare la salute del Tirreno.

Ma quali sono i rifiuti più diffusi? Al primo posto i mozziconi di sigaretta (notati dal 72,3% del campione), poi bottiglie, lattine e plastiche (intorno al 50%) e, new entry tra gli oggetti d’uso quotidiano, le mascherine (39,8%). Nella classifica degli oggetti indebitamente abbandonati sui litorali anche avanzi di alimenti, carte e giornali, escrementi di animali domestici e indumenti.

Per prevenire il degrado, il 40% degli italiani suggerisce un maggior numero di cestini e bidoni a margine dei lidi e una quota simile reclama la figura della “guardia marina” per far rispettare le regole. Tra le altre proposte, aumentare i cartelli informativi e dare ai bagnanti gli strumenti per portare via i propri rifiuti. Soprattutto i responsabili sono favorevoli a nuove forme di interventi condivisi, come flashmob da organizzare periodicamente sulle spiagge: il 22,8% di loro vorrebbe istituire la “mezz’ora di pulizia” e uno su sette consiglia di puntare sulla tecnologia, segnalando gli appuntamenti di plogging su canali social o promuovendo apposite App che indichino le spiagge più sporche e convochino i volontari a pulirle.

Albania

Le armi della seconda Guerra Mondiale inquinano i fondali albanesi

Ai piedi di una scogliera nella baia di Valona, uno dei luoghi più belli della Riviera albanese, le munizioni della Seconda guerra mondiale arrugginiscono in fondo al mare, inquinando le acque cristalline dell’Adriatico. Per mettere in sicurezza l’area, i sommozzatori francesi e albanesi stanno cercando vecchie granate e razzi nell’ambito di una missione congiunta. “È uno sforzo congiunto con la marina albanese, che conosce il sito meglio di noi“, ha dichiarato il capitano Aymeric Barazer de Lannurien, comandante del gruppo francese di sommozzatori per lo sminamento nel Mediterraneo. “Stiamo intervenendo per collaborare con loro in questa missione di bonifica e messa in sicurezza del sito”.

I sommozzatori “cercano munizioni e, man mano che procedono, le munizioni che trovano vengono portate sulla spiaggia per essere prese in carico dall’esercito albanese“, spiega il capitano Barazer di Lannurien. Il risultato dell’operazione è impressionante. In meno di due ore, hanno raccolto 85 munizioni arrugginite, probabilmente armi italiane gettate in mare più di 70 anni fa, ha detto il capitano albanese Ilirian Kristo, che ha spiegato che le immersioni sono il suo “lavoro” ma anche la sua “passione“.

L’Albania fu occupata successivamente dall’Italia e dalla Germania tra l’aprile 1939 e il novembre 1944. “Abbiamo trovato mortai, proiettili di diverso calibro, da 20 millimetri a 155 mm“, ha dichiarato un sommozzatore francese che non può essere nominato a causa delle regole navali. Nel 2021, una precedente missione congiunta franco-albanese ha permesso agli specialisti di recuperare 310 oggetti risalenti alla Seconda Guerra Mondiale.

Si trattava soprattutto di proiettili d’artiglieria, ha detto il capitano Barazer de Lannurien. Ma “avevamo trovato una o due granate che si trovavano sul fondo tra le rocce, facilmente accessibili alla popolazione e che potevano essere pericolose per gli utenti del mare“, ricorda. Sebbene non esistano stime ufficiali sulla quantità di munizioni sommerse, gli esperti ritengono che ci siano almeno 20 relitti del conflitto nel Mar Adriatico e nel Mar Ionio, teatro di combattimenti durante la Seconda guerra mondiale.

(Photo credits: AFP STORY BY BRISEIDA MEMA)

Giornata mondiale dello squalo, nel Mediterraneo il 50% delle specie è a rischio

Dalla salute degli squali – in molti casi predatori all’apice della catena alimentare – dipende il benessere degli ecosistemi marini, ma più del 50% delle loro specie nel Mediterraneo è minacciato di estinzione. L’allarme lo lancia il Wwf nella giornata mondiale dedicata agli squali, diffondendo i dati dei progetti SafeSharks e Medbycatch.

Il report è pubblicato nell’ambito della campagna #GenerAzioneMare, che raccoglie anche raccomandazioni per istituzioni e consumatori sull’importanza di salvaguardare squali e razze per la tutela del Mediterraneo.

Nel mondo, la percentuale di squali e razze a rischio è del 37,5%, dato che schizza oltre al 50% se riferito alle specie del Mediterraneo, con gravi conseguenze su tutto l’ecosistema marino. Questa situazione è provocata dalla pesca eccessiva, sia diretta (tra cui anche molta pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, per finalità sia alimentari che cosmetiche), sia indiretta a causa delle catture accidentali (bycatch) per cui queste specie finiscono vittime involontarie delle attività di pesca.

squalo

SafeSharks e Medbycatch sono due progetti internazionali, portati avanti in Italia insieme a Coispa Tecnologia & Ricerca, nati per migliorare le conoscenze sui tassi di cattura accidentale di specie vulnerabili in Mediterraneo e ingaggiare pescatori e autorità per garantire buone pratiche di gestione e mitigazione delle catture accidentali. I due progetti hanno coinvolto i pescatori di Monopoli, che praticano la pesca con palangaro (lunga lenza di grosso diametro con inseriti a intervalli regolari spezzoni di lenza più sottile portanti ognuno un amo) al pesce spada nell’Adriatico meridionale, rendendoli attori fondamentali nelle fasi di ricerca e raccolta dei dati. La raccolta dati ha rivelato che le verdesche (Prionace glauca) rappresentano, in media, il 15% del pesce sbarcato: ogni sette pesci spada – in media- viene sbarcata una verdesca.

Ma ridurre un tale impatto è possibile. All’interno del progetto infatti, il monitoraggio mediante tag satellitari, applicati sulle verdesche accidentalmente pescate e poi successivamente liberate con il supporto dei pescatori, ha permesso di verificare che il 90% delle verdesche rilasciate sopravvive. Il rilascio in mare può quindi essere una valida misura gestionale per migliore lo stato delle popolazioni di verdesca. L’utilizzo degli ami circolari, testati al posto dei tradizionali ami a forma di J, sembra inoltre influire sulle condizioni degli animali alla cattura e potrebbe contribuire a migliorare la probabilità di sopravvivenza nel caso siano liberati. Grazie ai dati raccolti dai tag è anche emerso che le verdesche durante il giorno preferiscono nuotare in acque anche molto profonde fino oltre i 600 metri, mentre durante la notte cacciano in superficie, anche a pelo d’acqua.

Queste informazioni sono state la chiave per ideare una strategia di mitigazione basata sull’inversione notte-giorno delle operazioni di pesca. Importantissimo risultato del progetto, è stato infatti verificare che per le giornate di pesca in cui l’inversione delle attività di pesca è stata messa in atto, il bycatch di verdesche è stato ridotto a 0. Sebbene siano necessari ulteriori test per valutare i risultati di questa strategia in altre stagioni e gli effetti sulla cattura di pesce spada (i primi dati indicano una riduzione di cattura di circa il 30%), questo è un primo passo importante verso l’identificazione di misure gestionali adeguate.

I progetti SafeSharks e Medbycatch ci hanno permesso di dimostrare che il tasso di cattura accidentale di verdesche in alcune attività di pesca è considerevole e non può essere ignorato, e che misure gestionali efficaci possono essere identificate insieme a ricercatori e pescatori. L’Italia deve implementare quanto prima un monitoraggio adeguato su scala nazionale insieme a concrete misure di mitigazione delle catture accidentali di elasmobranchi, come richiesto dalla Raccomandazione della Commissione Generale per la Pesca in Mediterraneo e Mar Nero del 2021 (GFCM 44/2021/16). Deve anche dotarsi quanto prima di un Piano d’Azione Nazionale sugli Elasmobranchi secondo le linee guida FAO e UE” afferma Giulia Prato, Responsabile Mare del WWF Italia. Per proteggere queste specie nel Mediterraneo e nel mondo, secondo il WWF, è anche necessario poi cambiare le proprie abitudini di consumo, evitandone l’acquisto.

(Photo credits: Joost Van Uffelen | Wwf)

microplastiche

Migliaia di pellets di plastica sulle coste pugliesi: la denuncia di Greenpeace

Migliaia e migliaia di lenticchie sulle spiagge pugliesi. Osservando con più attenzione, però, è facile comprendere che delle lenticchie quegli oggetti hanno solo la forma. Sono chiamati pellets di plastica, o nurdles, più semplicemente in italiano ‘granuli’. È quello che emerge dal report ‘Inquinamento silenzioso’, diffuso oggi da Greenpeace Italia, nel quale vengono illustrati i risultati dei campionamenti effettuati nel 2021 in dodici spiagge lungo le coste pugliesi. A seguito dei risultati dell’indagine, l’organizzazione ambientalista ha presentato un esposto in procura, chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di questi granuli.

Ma cosa sono i pellets? È questa la forma in cui si presenta la plastica vergine, ovvero quella appena prodotta dagli stabilimenti petrolchimici dalla raffinazione di idrocarburi, qualunque sia il polimero in questione. Questi granuli vengono poi inviati alle industrie che producono i singoli, vari oggetti: che sia un paio di occhiali, un sacchetto, il cruscotto dell’automobile o una cannuccia si parte da quelle ‘lenticchie’. Sono microplastiche primarie, ovvero hanno misure comprese tra 0,3 e 5 mm sul lato più lungo e vengono prodotte in quelle dimensioni, ovvero il loro essere ‘micro’ non deriva dalla frammentazione di un oggetto più grande.

microplastiche

Nei mesi scorsi abbiamo effettuato una serie di campionamenti– racconta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeaceseguendo una metodica già messa in atto da alcuni ricercatori a livello internazionale. L’obiettivo era quello di definire l’abbondanza di questi granuli lungo alcune spiagge delle coste pugliesi e soprattutto brindisine, a differenti distanze dal dall’impianto del petrolchimico, tra i più grandi in Italia per la produzione di materie plastiche. Abbiamo campionato spiagge in direzione nord e sud: a ridosso dell’impianto, a 12, 20, 25, 50 chilometri dal petrolchimico e anche un luogo a 100 di distanza. Il dato ci mostra chiaramente che c’è un gradiente di concentrazione variabile in base alla distanza dall’impianto industriale”.

Dei 7938 granuli raccolti nell’indagine, circa il 67% proviene dai tre siti di campionamento più vicini al petrolchimico. Al contrario, nelle aree più distanti i livelli di contaminazione sono risultati, quasi ovunque, nettamente inferiori. Dal rapporto emerge che gran parte dei granuli raccolti e analizzati nel corso dell’indagine, pari a circa il 70% del totale, è traslucido e trasparente: un’evidenza che la letteratura scientifica collega a rilasci recenti nell’ambiente, perché con il trascorre degli anni e dei decenni questi granuli diventano più scuri, giallognoli e quasi marroni. Inoltre, di tutti i nurdles raccolti, il 78 per cento è in polietilene (un tipo di plastica prodotto in loco dall’azienda Versalis, di proprietà di Eni), mentre poco più del 17 per cento è in polipropilene (un polimero plastico prodotto nell’area da Basell Poliolefine Italia).

microplastiche

I dati che diffondiamo oggi dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita – dice Giuseppe Ungherese -. In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche. Chiediamo alla magistratura di intervenire e a Versalis e Basell Poliolefine Italia, le due società specializzate nella produzione di granuli nell’area brindisina, di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento”.

Ungherese spiega: “Esistono vari programmi volontari da parte dell’industria petrolchimica per azzerare questa contaminazione, come Operation Clean Sweep a cui aderiscono le due aziende in questione, ma non esiste un controllo esterno e indipendente, non c’è un monitoraggio sulle buone pratiche condivise. La sensazione, quindi, è che questi impegni lascino un po’ il tempo che trovano. Un rapporto di qualche anno fa, stilato per conto della Commissione europea, stima che solo nel nostro continente il rilasci di questi granuli nell’ambiente possa arrivare a superare le 167.000 tonnellate annue. Come tutte le microplastiche, anche queste entrano facilmente nella catena alimentare degli organismi marini, accumulandosi negli animali che si trovano al vertice, come i predatori, tonni e pesce spada ad esempio”.

microplastiche

Greenpeace ha registrato anche una lunga serie di interviste con gli abitanti dei luoghi in cui sono stati effettuati i campionamenti: raccontano tutti come la presenza di questi granuli sia una costante nel tempo, come queste graziose perline fossero oggetti di gioco durante l’infanzia. Nessuno pensava fossero palline di plastica, ma qualcuno di quei meravigliosi capolavori che l’usura delle onde e del vento su sassolini, conchiglie e sabbia ci lascia spesso ritrovare sulle spiagge.

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Il Mediterraneo scotta, Bonino (Feversea Esa): “Caldo anomalo, ecosistemi a rischio”

Il Mediterraneo sta vivendo un’ondata di calore marino molto violenta, raggiungendo nel Golfo di Taranto i 5 gradi di sforamento rispetto alla media dei trent’anni precedenti. Un’ondata di calore marino si verifica quando le temperature superano una soglia estrema per più di cinque giorni consecutivi: nel mar Ligure a maggio questa ondata è durata tre settimane, per poi riprendere da metà giugno. Partita da Ovest a metà primavera, l’ondata si è diffusa e spostata verso est raggiungendo un’intensità ancora maggiore tra Ionio e Adriatico. È quanto emerge osservando i dati satellitari forniti dal Copernicus Marine Service. Il CMCC, Centro Euro Mediterraneo sul Cambiamento Climatico, è l’istituzione scientifica italiana che gestisce il Mediterranean Forecasting System per la produzione di previsioni per i successivi dieci giorni e la ricostruzione del passato recente. Ma in chiave strategica è molto rilevante il lavoro che, sempre al CMCC, viene fatto sul progetto Feversea Esa coordinato dalla ricercatrice Giulia Bonino. Il progetto, che si concluderà nel 2023, ha l’obiettivo di arrivare a produrre previsioni a breve e medio termine per consentire di elaborare strategie di adattamento più efficaci e attutire le conseguenze pesantissime di questi fenomeni legati al cambiamento climatico.

Perché il Mediterraneo ha un ruolo fondamentale per l’economia e il benessere dei molti e popolosi Paesi che vi si affacciano, a partire dal nostro. Pur avendo una superficie inferiore all’1 per cento rispetto all’intera superficie oceanica terrestre, il Mediterraneo conta sull’8 per cento della biodiversità marina globale. Queste ondate di calore possono avere conseguenze molto pesanti sulla biodiversità, con ricadute ecologiche, economiche e sociali importanti: pensiamo ad esempio alla pesca e all’acquacoltura, agli allevamenti di molluschi ecc… oltre alla potenziale enorme perdita dei servizi ecosistemici che il mare ci fornisce costantemente.

Giulia Bonino ci racconta il lavoro in corso, frutto del finanziamento di una borsa di ricerca da parte dell’Agenzia Spaziale Europea: “Partiamo dai dati satellitari per capire al meglio le ondate di calore oceaniche. Si tratta, quindi, soprattutto di temperatura della superficie del mare. La prima fase è quella di studiare e documentare questi eventi estremi. Abbiamo quindi analizzato i dati che vanno dal 1981 fino al 2016, documentando questi eventi. L’obiettivo successivo è quello di caratterizzare quali siano i precursori di questi eventi, le cause insomma. Cosa ha portato alle ondate di calore? Infine, ed è questa la fase del progetto in cui stiamo entrando in questo momento, creare uno strumento che possa permetterci di prevedere gli eventi e permettere almeno di programmare e applicare qualche strategia di adattamento”. Perché una cosa è sapere cosa accadrà con dieci giorni di anticipo, altra cosa è poter eventualmente prevedere con mesi di anticipo. Prosegue la ricercatrice del CMCC: “Partiamo dalla creazione di un database sugli eventi di questo tipo in un periodo di oltre 30 anni, ne studiamo le cause e quindi cerchiamo di elaborare un metodo per predire le ondate di calore. Per adesso ci siamo concentrati soprattutto sul Mar Mediterraneo, il Mar Nero e il mar Caspio, ma gli obiettivi vorrebbero essere globali”.

Le conseguenze più importanti sono quelle per gli ecosistemi. Spiega ancora Giulia Bonino: “Nel mese di maggio sono state rilevate importanti ondate di calore nel mar Ligure, ricchissimo di biodiversità, e successivamente nel Golfo di Taranto, area in cui c’è un’intensa attività di mitilicoltura. È evidente che questi eventi hanno un potenziale impatto anche sociale molto forte. In questo momento stiamo raggiungendo i 5 gradi di sforamento rispetto alla media trentennale di temperatura della superficie dello stesso mare: un dato enorme. Gli eventi di questo tipo, le ondate di calore, sono in crescendo e questo è dovuto al cambiamento climatico. Quello che sta accadendo quest’anno ci permette di fare similitudini con l’ondata di calore del 2003: anche nel 2003 era iniziato a maggio, prosegue nello stesso mese di giugno. Allora, dopo una prima caduta, il fenomeno si estese anche a luglio e agosto con gli eventi più gravi, duraturi ed ecologicamente devastanti mai registrati. Dobbiamo aspettarci che l’evento estremo in corso si prolunghi anche nei prossimi due mesi”.

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Plancton oceanico: una straordinaria ‘zuppa di microbi’

In ogni litro di acqua marina vivono tra i 10 e i 100 miliardi di organismi viventi. Ma questo “microbioma oceanico“, che ha reso il pianeta abitabile, rimane in gran parte sconosciuto. Una missione scientifica, condotta con la marina francese, punta a scoprirlo. “Il microbioma del pianeta Terra è l’argomento del secolo“, afferma Colomban de Vargas, direttore della ricerca presso la stazione biologica del CNRS a Roscoff (Finistère).

Questo signore svizzero, “ossessionato dall’esplorazione“, si è impegnato a mappare il plancton oceanico, quella grande “zuppa di microbi” composta da virus, batteri, animali, ecc. Queste “foreste invisibili“, che navigano insieme alle correnti oceaniche, hanno reso il pianeta abitabile producendo la maggior parte dell’ossigeno che respiriamo. “La biodiversità è soprattutto microbica. Per tre miliardi di anni ci sono stati solo microbi“, afferma il ricercatore. Tuttavia, “non sappiamo con chi viviamo o quanti microbi ci siano sulla Terra“.

Traendo insegnamento dalla missione “Tara Oceans“, che ha già effettuato 220 misurazioni di microrganismi marini, Colomban de Vargas e i suoi colleghi ricercatori vogliono realizzare una “misurazione cooperativa, frugale, planetaria e perenne” di questa invisibile vita oceanica. A lungo termine, l’obiettivo è quello di affidare, attraverso il progetto Plankton Planet, strumenti di misura e sensori poco costosi alle decine di migliaia di barche a vela, navi commerciali e trasportatori di merci che attraversano il pianeta. L’obiettivo è comprendere “l’adattamento degli organismi viventi ai brutali cambiamenti” imposti dalle attività umane. “Non è facile perché la misurazione deve essere omogenea. Tutto dipenderà dalla qualità di questa misurazione“, sottolinea Colomban de Vargas.

È qui che entra in gioco la missione Bougainville, realizzata in collaborazione con la marina francese, per consolidare l’affidabilità dei “sensori frugali” del plancton. Sulla scia della circumnavigazione del globo compiuta dall’esploratore Louis-Antoine de Bougainville sulla Boudeuse nel 1766-1769, dieci studenti del Master dell’Università della Sorbona si imbarcheranno sulle navi della Marina francese come ‘ufficiali della biodiversità’. “È importante vivere l’oceano quando lo si studia“, afferma l’ammiraglio Christophe Prazuck, direttore dell’Ocean Institute dell’Università Sorbona, che ha creato un collegamento tra la Marina e il mondo della ricerca. Gli studenti attraverseranno così gli 11 milioni di km2 della Francia oceanica (20 volte la Francia terrestre) negli oceani Indiano e Pacifico, a bordo di tre Bâtiments de soutien et d’assistance outre-mer (BSAOM).

(Photo credits: JEAN-LOUIS MENOU / AFP)

big data

Big data per una blue economy sostenibile: al via Tech.Era

Un drone sottomarino capace di raccogliere informazioni utili per il monitoraggio della salute del mare, oppure una app che permette ai consumatori di individuare le aziende di pesca più vicine tra quelle che fanno vendita diretta o consegna a domicilio. Sono solo due delle soluzioni nate grazie al Programma di Cooperazione transfrontaliera Interreg V A Italia-Croazia, ora in via di conclusione. Una serie di metodi e tecnologie per rendere più competitiva e smart l’economia blu che ora saranno messi a sistema grazie al nuovo progetto TECH.ERA.

Finanziato dalla Commissione europea con 600mila, il progetto favorirà la capitalizzazione dei risultati raggiunti dal Programma Interreg tra il 2014 e 2020 e preparerà al tempo stesso il terreno per la prossima programmazione, sviluppando nuove idee progettuali. Un’attività che coinvolgerà docenti e ricercatori di tre dipartimenti dell’Università di Bologna.

Il progetto TECH.ERA è focalizzato in particolare sugli strumenti per l’analisi dei dati relativi agli ecosistemi del Mar Adriatico Centro-Settentrionale, che sono di estremo interesse per la loro altissima biodiversità”, spiega Luca De Marchi, professore che ha coordinato il progetto Interreg SUSHI DROP, da cui è nato un drone sottomarino per il monitoraggio della salute del mare.

Le attività di TECH.ERA non saranno però d’aiuto solamente per studiosi e ricercatori: le informazioni raccolte e i modelli sviluppati saranno infatti condivisi online su piattaforme digitali aperte.

Le associazioni ambientaliste, le imprese del settore ittico e le comunità di tutti i territori interessati potranno utilizzare i dati raccolti e gli strumenti sviluppati per implementare nuove forme di protezione dei mari e ottimizzare le attività di pesca, al fine di aumentarne la sostenibilità ambientale”, aggiunge Alessia Cariani, che ha coordinato il progetto Interreg PRIZEFISH.

In TECH.ERA, ricorda Luca Camanzi, verranno messe a sistema “interessanti opportunità per aumentare la competitività, la sostenibilità e il valore delle imprese della filiera ittica, tra cui app per mettere in contatto diretto aziende e consumatori, realizzando la circular sea economy adriatica”.

Insieme ai tre dipartimenti dell’Alma Mater coinvolti, il progetto TECH.ERA include anche quattro partner italiani (ASSAM, Comune di Ravenna, OGS e Veneto Agricoltura) e tre croati tra enti di ricerca, amministrazioni regionali ed agenzie del settore: il ministero dell’Agricoltura, la Contea di Zara e l’Euroregione Adriatico Ionica.

È emergenza oceanica, Onu: “Agire subito”

Migliaia di politici, esperti e attivisti ambientali si sono riuniti a Lisbona per sostenere l’appello delle Nazioni Unite a lavorare per preservare la fragile salute degli oceani ed evitare “effetti a cascata” che minacciano l’ambiente e l’umanità.

Purtroppo, abbiamo dato per scontato l’oceano. Attualmente stiamo affrontando quello che definirei uno stato di emergenza oceanica“, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite. “La nostra incapacità di preservare l’oceano avrà effetti a cascata“, ha sottolineato nel suo discorso di apertura della conferenza, che durerà cinque giorni, più volte rinviata a causa della pandemia.

I mari, che coprono più di due terzi della superficie del pianeta, generano metà dell’ossigeno che respiriamo e rappresentano una fonte vitale per la vita quotidiana di miliardi di persone. L’oceano svolge anche un ruolo chiave per la vita sulla Terra mitigando gli impatti dei cambiamenti climatici. Ma pagano un prezzo altissimo.

Assorbendo circa un quarto dell’inquinamento da CO2, con un aumento di emissioni del 50% negli ultimi 60 anni, il mare è diventato più acido, destabilizzando le catene alimentari acquatiche e riducendo la sua capacità di catturare sempre più gas carbonici. E, assorbendo oltre il 90% del calore in eccesso causato dal riscaldamento globale, l’oceano sta subendo potenti ondate di calore che stanno distruggendo preziose barriere coralline e diffondendo zone morte prive di ossigeno.

Abbiamo ancora poca idea dell’entità della devastazione provocata dai cambiamenti climatici sulla salute degli oceani“, ha spiegato Charlotte de Fontaubert, la principale esperta di economia blu della Banca mondiale. Al ritmo attuale, l’inquinamento da plastica triplicherà entro il 2060, raggiungendo un miliardo di tonnellate all’anno, secondo un recente rapporto dell’Ocse. Le microplastiche causano già la morte di un milione di uccelli e di oltre 100mila mammiferi marini ogni anno. I partecipanti alla riunione di Lisbona discuteranno proposte per affrontare questo problema, che vanno dal riciclaggio al divieto totale dei sacchetti di plastica.

All’ordine del giorno c’è anche il problema della pesca intensiva. “Almeno un terzo degli stock ittici selvatici è sovrasfruttato e meno del 10% dell’oceano è protetto“, ha detto Kathryn Mathews, direttrice scientifica dell’Ong americana Oceana. “I pescherecci illegali devastano impunemente le acque costiere e in alto mare“, ha aggiunto.

I dibattiti verteranno anche su una possibile moratoria volta a proteggere i fondali marini dall’attività mineraria alla ricerca di metalli rari necessari alla fabbricazione delle batterie per il fiorente settore dei veicoli elettrici. Molti ministri e alcuni capi di Stato, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, atteso giovedì, prenderanno parte alla conferenza che, però, non vuole diventare una sessione formale di negoziazione. Alcuni partecipanti coglieranno comunque l’occasione per difendere un’ambiziosa politica a favore degli oceani in vista dei due vertici cruciali che si terranno a fine anno: la conferenza delle Nazioni Unite sul clima COP27, che si svolgerà a novembre in Egitto, seguita a dicembre dalla tanto attesa conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità COP15, che si svolgerà in Canada sotto la presidenza cinese.

 

(Photo credits: CARLOS COSTA / AFP)