Moda più sostenibile con la pelle vegana senza plastica. E il merito è dei batteri

(Photo credit: Tom Ellis/Marcus Walker/Imperial College London)

Le alternative alla pelle animale, nell’ottica di una moda più sostenibile, finora non hanno dato grandi risultati, sia in termini di qualità sia di estetica. Spesso quella che viene definita ‘pelle vegana’ altro non è che plastica, lavorata in modo tale da assomigliare il più possibile alla pelle naturale, ma pur sempre inquinante. Ora i ricercatori dell’Imperial College di Londra hanno messo a punto un sistema in grado di ‘far crescere’ una pelle senza animali e senza plastica, capace di tingersi da sola. Merito di batteri ingegnerizzati.

Negli ultimi anni, scienziati e aziende hanno iniziato a utilizzare i microbi per la coltivazione di tessuti sostenibili o per la produzione di coloranti per l’industria, ma questa è la prima volta che sono stati ingegnerizzati per produrre contemporaneamente un materiale e il suo stesso pigmento. La tintura chimica sintetica è uno dei processi più tossici per l’ambiente nel settore della moda e i coloranti neri, soprattutto quelli usati per la pelle, sono particolarmente dannosi. I ricercatori dell’Imperial hanno deciso di utilizzare la biologia per risolvere il problema. Questo nuovo prodotto è già stato utilizzato per creare prototipi di scarpe e portafogli e secondo i ricercatori “rappresenta un passo avanti nella ricerca di una moda più sostenibile”.

Il nuovo processo, pubblicato sulla rivista Nature Biotechnology, potrebbe anche essere adattato teoricamente per produrre vari colori e motivi vivaci e per creare alternative più sostenibili ad altri tessuti come il cotone e il cashmere. Come spiega l’autore principale, Tom Ellis, del Dipartimento di Bioingegneria dell’Imperial College di Londra, la cellulosa batterica “è intrinsecamente vegana e la sua crescita richiede una minima parte delle emissioni di carbonio, dell’acqua, dell’uso del suolo e del tempo necessari per allevare mucche per la produzione di pelle”. A differenza delle alternative in pelle a base di plastica, può essere prodotta senza sostanze petrolchimiche e si biodegrada in modo sicuro e non tossico nell’ambiente.

Il team di ricerca ha già cominciato a lavorare con alcuni designer per far “crescere” la tomaia di una scarpa su uno stampo ad hoc. Dopo 14 giorni il prodotto ottenuto è stato ‘centrifugato’ a 30 gradi per 48 ore per attivare la produzione di pigmento nero da parte dei batteri. “Non vediamo l’ora di collaborare con l’industria della moda per rendere più ecologici gli abiti che indossiamo lungo tutta la linea di produzione”, dice Ellis. Gli autori hanno lavorato a stretto contatto con Modern Synthesis, un’azienda londinese di biodesign e materiali, specializzata in prodotti innovativi a base di cellulosa microbica.

Francia verso una legge per sanzionare il Fast Fashion

In piena Fashion Week, il governo francese annuncia che sosterrà una proposta di legge per sanzionare il ‘fast fashion’ e vietare la pubblicità dei suoi rivenditori. Ad annunciarlo è il ministro per la Transizione ecologica, Christophe Béchu.

Il testo, presentato da Anne-Cécile Violland, sarà difeso dai deputati del gruppo Horizons il 14 marzo. Si rivolge ai rivenditori di fast-fashion e ai siti di e-commerce, che offrono innumerevoli capi di abbigliamento a basso prezzo e di bassa qualità, per lo più importati dall’Asia. Prevede una modulazione dell”ecocontributo’ versato dalle aziende in base al loro impatto ambientale, per di ridurre il divario di prezzo tra i prodotti del fast-fashion e quelli provenienti da fonti più virtuose. L’obiettivo è quello di “ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile” attraverso una migliore informazione dei consumatori e il divieto di pubblicità per le aziende e i prodotti coinvolti. “Vendendo questi prodotti a questi prezzi, le aziende fanno profitto, ma sulle spalle del pianeta”, denuncia il ministro.

Ma Bechu va oltre: “Manca ancora qualcosa nel disegno di legge”, afferma, riferendosi in particolare ai “costi di disinquinamento” e alla “raccolta” degli abiti usati. Il Ministro per la Transizione Ecologica annuncia che una consultazione pubblica sull’etichettatura ambientale dei prodotti tessili sarà lanciata “a metà marzo”. L’obiettivo dichiarato è che “entro la fine di aprile avremo qualcosa che potrà essere oggetto di un decreto”. “Se gli operatori del settore approveranno tutto questo”, verrà poi definito un metodo per definire i criteri di etichettatura, spiega all’AFP.

Il governo condurrà poi una campagna pubblicitaria mirata contro il fast fashion, simile alla campagna ‘devendeurs’ dell’Ademe, che aveva suscitato scalpore, perché era rivolta ai negozi fisici. Alla fine dell’anno scorso, questa serie di spot televisivi umoristici dell’agenzia francese per la transizione ecologica, che promuoveva l’idea di ridurre i consumi, aveva suscitato le ire dei commercianti

Poliestere o cotone riciclato: occhio alle etichette

Nei negozi fioriscono le etichette “materiale riciclato“, ma la costosa tecnologia che permette di riciclare i filati in fili è ancora agli albori in tutto il mondo.

Il 93% dei materiali riciclati nei nostri abiti proviene da bottiglie di plastica e non da vecchi vestiti. Lo spiega Urska Trunk, direttore della campagna dell’ONG Changing Markets, a Bruxelles. “Meno dell’1% dei tessuti che compongono i nostri abiti viene riciclato per farne di nuovi”, precisa la Commissione europea all’Afp. Secondo la Commissione, in Europa il totale dei rifiuti tessili ammonta a 12,6 milioni di tonnellate all’anno (di cui 5,2 milioni di tonnellate di abbigliamento e calzature, mentre il resto è costituito da materassi, tappeti e altri arredi tessili).

La maggior parte dei rifiuti tessili usati viene gettata via o incenerita, mentre solo il 22% viene raccolto per essere riutilizzato o riciclato – principalmente in stracci, imbottiture o isolanti. Riciclare gli abiti è “molto più complesso che riciclare il vetro o la carta“, spiega all’AFP il produttore austriaco di fibre tessili a base di legno Lenzing.

Gli abiti usati devono essere suddivisi per materiale e colore, quindi privati dei loro “punti duri” (cerniere, bottoni, ecc.). Infine, tutto ciò che non può essere riciclato, come alcune fibre o tessuti composti da più di due materiali, deve essere scartato. Tuttavia, questo tipo di operazione non ha ancora raggiunto la fase industriale. Questa tecnologia è “agli inizi“, ribadisce Trunk. Il modo migliore per dare un’impronta “buona per il pianeta” ai propri vestiti è riciclare le bottiglie in PET (polietilene tereftalato) in fibre di poliestere. Questa tecnologia è l’unica realmente utilizzata su larga scala.

Nel 2023, il 79% del poliestere utilizzato nelle collezioni proveniva da materiali riciclati. Il gruppo H&M punta al 100% entro il 2025. Cosa fanno i marchi? Raccolgono le “scaglie” di plastica prodotte dal riciclo meccanico delle bottiglie dai produttori e poi producono la fibra nei propri stabilimenti, ha spiegato all’AFP Lauriane Veillard, responsabile delle politiche di riciclo chimico presso Zero Waste Europe (ZWE) a Bruxelles. “Siamo chiari, non si tratta di circolarità“: avvertono l’industria dell’imbottigliamento e le associazioni ambientaliste. Questo perché se queste bottiglie non fossero state utilizzate per produrre poliestere, sarebbero state di fatto utilizzate per produrre altre bottiglie di plastica. Mentre una bottiglia di PET può essere riciclata cinque o sei volte in un’altra bottiglia, una maglietta o una gonna fatta di poliestere riciclato “non può mai essere riciclata di nuovo”, sottolinea Trunk, che partecipa alle discussioni sulla Direttiva quadro sui rifiuti dell’UE. Il poliestere riciclato viene infatti spesso rigenerato utilizzando componenti chimici ed elastan, apprezzato per la sua elasticità, ma che ne impedisce il riciclo. Per non parlare dell'”energia e dei materiali” necessari per trasportare, selezionare, lavare, macinare, fondere, ecc. fino al filamento, come sottolinea Loom.

Dalla produzione al riciclo, si tratta di inquinamento dell’acqua, dell’aria, del suolo: in breve, anche il poliestere riciclato non è una soluzione miracolosa”, ammette Jean-Baptiste Sultan, consulente di Carbone 4. Le ONG chiedono che l’industria tessile smetta di utilizzare questo materiale, che nel 2021 rappresentava il 54% della produzione di fibre, secondo Textile Exchange. Anche il riciclo del cotone non è l’opzione migliore: la fibra lavorata è di qualità inferiore e, per durare nel tempo, spesso deve essere intrecciata con altri materiali, anch’essi difficili da riciclare. Nel 2019, il 46% dei rifiuti tessili provenienti dall’UE è finito in Africa sui mercati dell’usato o più spesso “in discariche a cielo aperto”, segnala l’Agenzia europea dell’ambiente (AEA). La pratica è ampiamente condannata dalle organizzazioni ambientaliste, come in Ghana.

Un “regolamento sulle spedizioni di rifiuti” adottato a novembre mira ora a “garantire, tra le altre cose, che le esportazioni di rifiuti dall’UE siano destinate al riciclaggio e non allo smaltimento”, ha dichiarato la Commissione europea all’AFP. Sempre nel 2019, il 41% dei rifiuti tessili europei è andato in Asia in “zone economiche dedicate dove vengono selezionati e trattati”, la maggior parte dei quali in Pakistan. Qui e in Bangladesh si stanno sviluppando veri e propri “hub” di smistamento e riciclaggio dei prodotti tessili, spesso all’interno di “Export Processing Zones”. I rifiuti sembrano essere “riciclati localmente, principalmente trasformati in stracci industriali o imbottiture, o riesportati, sia per il riciclaggio in altri Paesi asiatici che per il riutilizzo in Africa”, conclude uno studio dell’AEA del febbraio 2023. Ma l’Agenzia riconosce “la mancanza di dati coerenti sulle quantità e sul destino dei tessili usati” in Europa. Secondo Paul Roeland dell’ONG Clean Clothes Campaign, le EPZ sono soprattutto “note come enclavi ‘senza legge’, dove non vengono rispettati nemmeno i bassi standard lavorativi di Pakistan e India”.

“Inviare gli abiti in Paesi con bassi costi di manodopera per la selezione manuale è orribile in termini di impronta di carbonio”, sottolinea Marc Minassian, direttore commerciale per la Francia di Pellenc ST, che è all’avanguardia nella selezione ottica per il riciclaggio. Allo stato attuale, il riciclaggio dei tessuti è “un mito”, afferma Lisa Panhuber di Greenpeace.

Fibre di banana, bucce di agrumi, foglie di cactus, bucce di mela…tutto può essere riciclato per produrre tessuti. Hugo Boss, ad esempio, utilizza il Pinatex, ricavato dalle foglie di ananas, per alcune delle sue scarpe da ginnastica. “Un sottoprodotto dell’agricoltura odierna, le foglie d’ananas sono utilizzate per creare questo tessuto unico, che non richiede risorse aggiuntive per crescere”, vanta il marchio tedesco sul suo sito web. Tuttavia, esperti come Thomas Ebélé del marchio SloWeAre si interrogano sul modo in cui vengono prodotte queste fibre agglomerate e non tessute, con l’aggiunta di un legante, “nella maggior parte dei casi poliuretano” o PLA (acido polilattico), spiega. Questa composizione non standardizzata rende l’indumento “talvolta biodegradabile” alla fine del suo ciclo di vita, ma non riciclabile. Insiste: “Biodegradabile non significa compostabile! Significa che queste fibre possono degradarsi in condizioni industriali, cioè con una pressione superiore a tre atmosfere, un’igrometria superiore al 90%, una temperatura compresa tra 50 e 70 gradi e con agitazione meccanica”. Al di là di tutti questi processi, “è soprattutto il volume degli indumenti prodotti a essere problematico”, afferma Céleste Grillet dell’unità energia di Carbone 4. Per Lisa Panhuber, la soluzione è sicuramente “ridurre i consumi, riparare e riutilizzare”.

Ad Amsterdam una ‘biblioteca dell’abbigliamento’

C’è una nuova “biblioteca” di Amsterdam in cui non si prendono in prestito libri, ma abiti, camicette e giacche: un’iniziativa per limitare l’impatto ambientale dell’industria della moda.
Si chiama ‘Lena, la biblioteca dell’abbigliamento’ ed è un luogo in cui i clienti hanno la possibilità di cambiare continuamente armadio, noleggiando nuovi capi. Il negozio ne offre a centinaia, regolarmente rinnovati e disponibili anche per l’acquisto. Su ogni capo, un’etichetta indica il prezzo, spesso caro, e il costo del noleggio al giorno, che va da 50 centesimi a pochi euro.
L’industria della moda è una delle più inquinanti al mondo“, ricorda Elisa Jansen, che ha co-fondato l’iniziativa nel 2014 con le sue due sorelle e un’amica.

Secondo le Nazioni Unite, nell’era del fast-fashion una persona media acquista il 60% di vestiti in più rispetto a quindici anni fa, mentre ogni capo viene conservato per la metà del tempo. Per la Fondazione Ellen MacArthur, ogni secondo l’equivalente di un carico di vestiti in un camion viene bruciato o sepolto in discarica.

Abiti sempre nuovi. Fa del bene al pianeta. Sperimenta il tuo stile. Prova prima di comprare‘, recita un manifesto. La “biblioteca” offre la sua collezione anche online e ha punti di consegna e raccolta in altre grandi città olandesi. Jansen ha “sempre lavorato nel riutilizzo dei vestiti”, racconta, in particolare nei negozi vintage. “È allora che è nata l’idea di condividere i vestiti in un grande guardaroba comune“, spiega.

Ogni cliente paga dieci euro per diventare membro. Più di 6.000 persone hanno una tessera, ma la regolarità del prestito varia. La qualità degli abiti è “la cosa più importante” nella scelta della collezione, aggiunge la co-fondatrice, e vengono privilegiati anche i marchi sostenibili.

Qui non troverete fast-fashion“, precisa. Nove anni fa, “siamo stati davvero tra i primi“, rivendica Jansen. Esistevano altre iniziative simili in Scandinavia, ma molte poi sono scomparse.
Trovare un modello redditizio ha richiesto tempo, spiega, ma l’iniziativa in questo quartiere alla moda di Amsterdam sta convincendo, soprattutto “le donne di età compresa tra i 25 e i 45 anni, che vogliono fare scelte consapevoli ma che ritengono importante anche avere un bell’aspetto – fa sapere -. Credo sinceramente che questo sia il futuro, non possiamo continuare a consumare e produrre in questo modo“.

Torna a Venezia il Sustainable Fashion Forum: sfida transizione

Il 26 e 27 ottobre torna tra le calli, per il secondo anno, il ‘Venice Sustainable Fashion Forum‘, il summit dedicato alla moda sostenibile.

Boosting Transition‘ è il titolo scelto per l’edizione 2023: l’obiettivo è sottolineare l’urgenza di interventi efficaci per la riduzione dell’impatto ambientale e sociale dell’industria del fashion. L’invito è rivolto a tutti gli attori della filiera, in particolare alle istituzioni, al mondo politico e al legislatore, perché promuovano un approccio coeso, anche attraverso un sistema normativo omogeneo.

La transizione sostenibile è una “questione strategica urgente” per il settore, conferma il presidente di Sistema Moda Italia, Sergio Tamborini. Nei primi sei mesi del 2023, il comparto ha registrato un fatturato di circa 58 miliardi di euro, con una proiezione di crescita del 7,3% per il primo semestre e una previsione a fine 2023 di circa 112 miliardi di fatturato.

La due giorni sarà anche un’occasione per lanciare un appello alla finanza, che può avere un ruolo chiave per aiutare il comparto ad allinearsi a nuovi standard condivisi a livello internazionale. Il settore non resta fermo: in un solo anno, le top 100 aziende fashion europee hanno tutte incrementato i propri presidi di sostenibilità del 17% negli ambiti ESG. Tuttavia, delle 100 aziende analizzate, la best-in-class soddisfa solo il 70% dei requisiti di maturità dei presidi ESG, il percorso verso la sostenibilità è, anche per i migliori, in salita.

Nella prima giornata, saranno analizzati gli scenari geopolitici che influenzano il tema della sostenibilità e del cambiamento climatico a livello globale. Verranno indagate le implicazioni del fast fashion, il tema dei diritti umani dei lavoratori, il ruolo dell’attivismo e della sensibilizzazione dei consumatori alla luce delle crescenti disuguaglianze economiche e sociali. Climate change al centro, con l’analisi di alcuni dei principali fattori d’impatto, dalle emissioni di sostanze inquinanti al consumo e alla contaminazione delle acque, fino agli effetti sulla biodiversità. La discussione si concentrerà sul ruolo chiave dell’innovazione come acceleratore di transizione. Gli imprenditori condivideranno buone pratiche e soluzioni efficaci per coniugare competitività e resilienza con un approccio responsabile.

La seconda giornata verrà dedicata alle regolamentazioni e alla finanza sostenibile e alle possibili nuove soluzioni alle sfide globali, dal riuso all’ecodesign, fino ai nuovi modelli di business per aderire alle aspettative dei consumatori. Verranno formulate proposte, raccomandazioni, richieste degli stakeholder. “Per una transizione giusta del settore Fashion & Luxury non si può che partire dalla manifattura“, è convinto Flavio Sciuccati, Partner The European House-Ambrosetti e Director Global Fashion Unit. In questa transizione, l’Italia delle filiere e dei distretti della moda, ribadisce, “ha un ruolo centrale“. Sciuccati parla di una sfida che potrà essere affrontata con successo solo attraverso “la ricerca scientifica di nuove soluzioni e prodotti sempre più durevoli, riusabili e differenziabili“. Questo richiederà investimenti difficili da sostenere per le aziende del settore, spesso PMI che operano con marginalità inferiori rispetto a quelle di imprese più vicine alla distribuzione e al consumatore.

Radici Group, storia dell’abito da sera che nasce da un fagiolo

Un abito da sera plissettato, ricamato, con le maniche a sbuffo, compare, completo, direttamente da una macchina. Non ha cuciture, non ha scarti. In più, viene da un fagiolo. Sembrerebbe un remake di Cenerentola, in chiave moderna, invece è quello che Radici Group è riuscito a realizzare con il Biofeel Eleven e che ha portato in passerella nei Mercati dei fori di Traiano a Roma, per il Phygital Sustainability Expo, gli stati generali della sostenibilità della moda.

Presentiamo un abito davvero speciale“, racconta a GEA Chiara Ferraris, head of corporate communication and external relations del gruppo, che produce in tutto il mondo poliammidi, fibre sintetiche e tecnopolimeri.

Come nasce un filato da un fagiolo?

“II piccolo fagiolo nasce in India, da una pianta che si chiama Eranda. Dal fagiolo si ricava un olio che dà origine a un biopolimero al 100% naturale, che dà vita a questo filato che si chiama Biofeel Eleven. Oltre a essere 100% naturale, ha una impermeabilità naturale, è estremamente duttile e può essere utilizzato in molteplici applicazioni. E’ uno splendido abito da sera quello che presentiamo, ma utilizziamo il filato tranquillamente anche per abiti sportivi. L’abbiamo tra l’altro realizzato con una tecnologia grazie alla quale la macchina produce l’abito completo, senza dover fare assolutamente nulla, nessuna cucitura. Ma è estremamente articolato. Ha delle forme particolari ma totalmente senza gli scarti. In più, essendo materiale con caratteristiche termoplastiche, è al 100% recuperabile, per essere trasformato in qualcosa di nuovo nella sua seconda vita, con un altro valore. Zero scarti, impatto ambientale bassissimo e performance elevate per un abito davvero bello esteticamente”.

Come funziona un gruppo internazionale che vuole essere sostenibile?
“Radici è di proprietà italiana ma conta tremila persone nel mondo, più della metà in Italia. Abbiamo delocalizzato, sì, ma produciamo in America quello che vendiamo in America, in Asia quello che vendiamo in Asia e in Europa quello che vendiamo in Europa. Il nostro tessile è europeo”.

Il settore della moda però è tra i più inquinanti…
“In realtà, oggi è al quarto-quinto posto, non è più considerato tra i primissimi settori inquinanti. Detto ciò, è vero: il mondo dell’abbigliamento genera tantissimi capi e questo è dovuto soprattutto al nostro modo di acquisto. Noi, come Radici, in questo ambito abbiamo una storia molto lunga: quest’anno pubblichiamo il nostro 19esimo bilancio di sostenibilità. Significa che sono già 19 anni che rendicontiamo in modo trasparente la nostra sostenibilità. Se ci si misura si può capire come attivarsi per essere ancora più sostenibili e noi ci rendicontiamo a livello di bilancio, ma costruiamo anche gli Lca su tutti i nostri prodotti. Misuriamo per ogni filato quale sarà e come si è generato l’impatto ambientale. Il primo tema per essere sostenibili è imparare a misurarsi e capire come poter attivarsi per poter cambiare le cose”.

Misurare la propria sostenibilità ha costi importanti. Ne vale la pena?
“Ne vale sicuramente la pena. Per completare un Life Cycle Assessment ci vogliono da 1 a 2 mesi, se il prodotto è semplice, ma arriviamo anche a sei mesi. Sono sicuramente attività che occupano tanto tempo e tante risorse. Però solo in questo modo possiamo capire come essere davvero performanti in ambito ambientale. Noi come gruppo ogni anno investiamo milioni di euro in risparmio ambientale. Avendo una storia così lunga di rendicontazione, posso dire che dal 2011 a oggi abbiamo ridotto di più del 70% le nostre emissioni di C02, come gruppo mondo. Per farlo, ci sono voluti decine di milioni di investimento. Ma se non ci crediamo non possiamo fare la differenza. Spero che il consumatore capisca sempre di più che deve scegliere in modo responsabile. Una scelta responsabile ha un costo, ma cambia il mondo”.

Il 5 e 6 luglio tornano a Roma gli Stati generali moda sostenibile

Un abito realizzato in ‘Biofeel eleven‘, filato di origine naturale con performance tecniche, estetiche e ambientali elevate; una ‘Id Shirt‘, camicia prodotta con un cotone coltivato interamente in Puglia, in campi biologici, senza alcun uso di prodotti chimici e con musica a frequenze benefiche per la pianta (il polsino è frutto di una tecnologia intelligente che permette alla camicia di comunicare con chiunque tramite Nfc); coloranti prodotti da microbi e microrganismi derivanti da comunità ricche di biodiversità, che possano rappresentare una fonte alternativa per i colori realizzati a partire da combustibili fossili. Sono solo alcune delle novità in tema di moda che saranno presentate il 5 e 6 luglio, nei mercati di Traiano a Roma, al Phygital Sustainability Expo.

La kermesse è esclusivamente dedicata alla transizione ecosostenibile dei brand di moda e di design ed è giunta alla quarta edizione. Panel, momenti di dibattito, una ‘Sfilata Narrata’ e attività interattive: l’obiettivo è coinvolgere e sensibilizzare il pubblico verso una cultura sostenibile nella moda e nel Made in Italy. L’evento sarà premiato alla Cop28 di Dubai.

Una iniziativa indispensabile, considerando che ogni anno, nel mondo, vengono prodotti 150 miliardi di capi di abbigliamento, il 20% rimane invenduto e meno dell’1% viene riciclato in nuovi indumenti. Il settore della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di gas serra, che si stima aumenteranno del 60% nei prossimi dieci anni. Per questo, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso invoca una “rivoluzione verde” per “rivedere il modo di produrre, raccogliere le materie prime e ripensare i modelli a noi familiari“.

Per Valeria Mangani, presidente di Sustainable Fashion Innovation Society, si tratta dell'”evento di riferimento per il settore perché riunisce istituzioni, imprese e territorio in modo da valorizzare il sistema produttivo, creativo e manifatturiero del Made in Italy, accelerando così il processo della transizione ecosostenibile nella moda e nel design”.

Un format trasversale con una ‘Sfilata Narrata‘, in cui i brand potranno esibire i loro capi più all’avanguardia e sostenibili, raccontati da una voce fuori campo che ne descrive le innovazioni tecnologiche e ne stima la carbon footprint. Nella cornice dei Mercati di Traiano si snoderà poi un’esposizione museale immersiva sulla via Biberatica: ogni brand esporrà i propri prodotti ecosostenibili, spiegandone le caratteristiche e i punti di forza nell’ambito tutela ambientale. Inoltre, saranno suddivisi per aree tematiche e per Sustainable Development Goals (SDGs) dell’Agenda ONU 2030. L’esposizione sarà accompagnata da una componente di deep technology: gli occhiali Lenovo e il codice QR. Questi strumenti daranno la possibilità agli ospiti di vedere attraverso immagini riprodotte in modo realistico e immersivo, l’impatto negativo dell’acquisto compulsivo e del fast fashion, proiettando i visitatori in varie aree del mondo, degradate a causa dei rifiuti generati dal fast fashion shopping.

A Prato nasce il Pan di Stracci e si ispira alle stoffe rigenerate

A Prato, il più grande distretto tessile d’Europa, anche la pasticceria parla di moda sostenibile.

La produzione dei tessuti rigenerati, eccellenza pratese, è fonte di ispirazione del Pan di stracci, il nuovo dolce dedicato al distretto alla città toscana. L’idea nasce da Leonardo Cai, che si descrive come ‘immerso da sempre nella vocazione green del distretto’. Studia Disegno Industriale al DIDA – Design Campus dell’Università di Firenze e ha “progettato” il nuovo dolce per la propria tesi, affiancato dal Maestro di Arte Bianca Massimo Peruzzi, celebre pasticcere della città sulle rive del Bisenzio.

Dai ritagli di stoffa si producono pregiati tessuti, grazie all’arte del riuso. Il Pan di stracci si prepara con un procedimento simile, usando gli avanzi di pan brioche dell’impasto dei cornetti.  Il dolce, anche nella forma irregolare, ricorda i “monti” di stracci, cioè gli alti cumuli di stoffe selezionate per fasce cromatiche che devono essere scelte dagli esperti cenciaioli capaci di identificarne la qualità con il solo tocco delle dita.

Del Pan di stracci non c’è solo la versione classica: partendo dall’impasto di base sono nate alcune varianti, una vera collezione che rimanda ai colori della cernita dei cenciaioli ma anche alle collezioni di pregiati tessuti che le aziende del distretto pratese ogni anno preparano per le case di moda di tutto il mondo. Come si ottiene l’impasto bicolore? Alla versione classica si aggiunge un ingrediente per le diverse nuance: per il Cammellitto, farcito con crema di mandorle, il colore marrone si ottiene dal cacao in polvere; per il Verzino, farcito con crema al pistacchio e cioccolato bianco, per il colore verde si usa il tè matcha in polvere; per il Mezzochiaro, farcito con crema chantilly, il colore giallo si ottiene con curcuma e pasta di cocco; per il Rossino, farcito con marmellata di fichi, il colore rosso è dato dalla pasta di fragole.
Un’ulteriore sorpresa è nella confezione, che si presenta in due varianti: in cartone (riciclabile dopo l’uso) ed in edizione speciale, in cui il Pan di Stracci è contenuto in un sacco in jeans rigenerato composto da filato 100% cotone e progettato per aprirsi completamente, diventando così una sorta di tovaglia, un supporto su cui condividere e mangiare il dolce.

Per la sua progettazione ho preso ispirazione dal Furoshiki, un’antica tradizione giapponese che consiste nel trasportare oggetti senza utilizzare sacchetti ma bensì stoffe, magistralmente piegate per ottenere un sacco” spiega Cai. La confezione in tessuto è stata realizzata grazie all’aiuto di Rifò, giovane brand pratese di moda sostenibile, che tiene insieme qualità e riuso lavorando con fibre 100% rigenerate e rigenerabili: “È un’edizione speciale che vuole rafforzare il tributo a Prato. Pan di Stracci si propone come monito che invita al riuso in tutte le sue forme e declinazioni; rappresenta un approccio di progetto sul territorio pratese, in cui tradizioni, valori e identità sono fortemente connessi tra loro”.

Love Therapy e le carceri: dai Fiorucci nuova collezione etica

Sostenibili integralmente. Dopo il ‘featuring’ con Gorilla Socks, Love Therapy, il brand di Elio e Floria Fiorucci lancia una collaborazione con Cooperativa Alice dando vita a una collezione etica e Made in Italy. Abiti solidali e composti da 100% cotone biologico.

La ‘rivoluzione d’amore’ dei Fiorucci stravolge i metodi e i tempi di lavoro tradizionali e punta sulla produzione inclusiva di Cooperativa Alice, che da trent’anni si impegna nel reinserimento sociale e lavorativo di soggetti svantaggiati, in particolare donne, all’interno di un sistema produttivo dedicato alla sartoria italiana, coinvolgendo le carceri di Monza e Bollate. “I nostri ‘mini dress’ sono un esempio materiale di un giusto equilibrio tra sostenibilità ambientale e sociale” scandisce Marina de Bertoldi, direttrice creativa e nipote dello stilista: “sfidano la corsa senza fine della moda di oggi giorno per testimoniare gli sforzi e le tempistiche reali necessarie per una produzione inclusiva che porta con sé un grande significato“.

L’abito abbraccia la silhouette donando un look ‘effortlessly chic’, uno stile easy, giovane e senza troppe pretese, che però restituisce importanza al dietro alle quinte della moda, rendendo protagonisti i produttori e i materiali. “Alice è un promemoria per ricordarci che dietro ogni oggetto, c’è un essere umano“, osserva Caterina Micolano, presidente di Cooperativa Alice. Parla dei suoi dipendenti: “Queste persone non solo si stanno riconquistando l’indipendenza, ma stanno diventando parte di una tradizione più ampia, quella delle tecniche artigianali“.

Lo scorso mese, Love Therapy ha annunciato la collaborazione con Gorilla Socks, portando la sostenibilità al centro della propria ‘rivoluzione’ con una collezione di calze eco-friendly. L’azienda emergente italiana, nata a Napoli, utilizza fibre di bambù, una pianta a rapida crescita con un bassissimo impatto ambientale che consuma meno acqua e produce grandi quantità di ossigeno. Il risultato è una fibra morbida, antibatterica e resistente. “Studiamo prodotti che abbiano un impatto positivo valorizzando la qualità delle materie prime, senza mai rinunciare al colore”, commenta Floria Fiorucci. “Con il nostro progetto – le fanno eco Andrea Salvia e Tommaso Colella, fondatori di Gorilla Socks – vogliamo proporre il nostro brand come attore nella lotta per l’ambiente nel mondo dell’industria tessile. Con Love Therapy condividiamo gli stessi valori e le stesse emozioni con l’obiettivo di portare gioia, colore e sostenibilità tramite un gesto quotidiano come quello di indossare un paio di calzini“.

Stella McCartney, l’inno al pianeta per il Coronation Concert

Campione di speranza, ma anche di azione”. Sul palco del concerto dell’incoronazione, in un doppiopetto rosso sangue e collant nero, Stella McCartney descrive così Carlo III.

L’eterno erede al trono, in tutti questi anni, non ha soltanto atteso la corona. E’ sempre stato in prima linea su più fronti sociali e la causa ambientale è quella che l’ha impegnato più delle altre. La stilista inglese, figlia di Paul, è una delle sue sostenitrici più famose. Da sempre impegnata in una moda rispettosa dell’ambiente e degli animali, non utilizza pelli, pellicce e piume. Anche Carlo, ricorda, “ha illuminato molti sulla necessità di preservare e proteggere il nostro pianeta”.

A febbraio la designer è stata insignita dal re in persona con il titolo di Cbe ovvero Commander of the British Empire per ‘meriti di moda e in fatto di sostenibilità’.

Sul palco ricorda l’emozione di quando da bimba visitava le Highlands scozzesi, “l’emozione della bellezza di Madre Natura, così vasta e dirompente”. Col passare del tempo, osserva, “siamo stati capaci di straordinari progressi nella scienza, nella tecnologia e anche nella moda”. Tecnologie che lei per prima sperimenta e utilizza ogni giorni. Anche perché, constata, “siamo testimoni anche di grossi cambiamenti del pianeta e della natura, che oggi a volte non è più riconoscibile. Questo è sconvolgente”. L’appello al mondo, nella vetrina più in vista, è a cambiare rotta il prima possibile. “Le nostre azioni stanno mettendo a rischio l’essenza stessa della vita. Ma nei momenti difficili, c’è sempre una luce che splende, un motivo per essere ottimisti”, scandisce. “L’impegno per salvare il pianeta dovrebbe e deve essere la causa che unisce tutti noi e mai dividerci. La Terra è molto più grande e importante di tutte le nostre differenze. Perché, alle generazioni che verranno dopo di noi, abbiamo l’obbligo di lasciare un mondo sano e sostenibile”.

Il discorso della stilista fa parte di una più ampia sezione del concerto a tema ambientale, con un’interpretazione di una hit degli anni Ottanta, eseguita dal compositore/produttore di soul classico Alexis Ffrench e dal cantautore londinese Zak Abel, con il supporto dell’orchestra, della band e del coro. Ad accompagnare la performance, un video con immagini proiettate sulla facciata del Castello di Windsor, intervallata da filmati di esibizioni di droni sopra l’Eden Project in Cornovaglia e il Wales Millennium Centre di Cardiff. La sezione si chiude con il video ‘Did You Know?‘, che sul rapporto di Re Carlo con la natura.

Anche il palco era ‘green’: progettato e costruito quasi interamente con materiale a noleggio per renderlo il più sostenibile possibile e con una illuminazione all’85% led, ad alto risparmio energetico.