petrolio

INFOGRAFICA INTERATTIVA Petrolio, Opec: Domanda a 104,4 mln barili/giorno nel 2024, 106,2 nel 2025

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, le previsioni Opec sulla domanda globale di petrolio al 2025. Secondo il ‘World Oil Demand’ report diffuso oggi, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio stima che “la domanda di petrolio è cresciuta di ben 2,5 mb/d (milioni di barili al giorno) nel 2023, soprattutto grazie alla solida attività economica nei Paesi non Ocse, guidata da un forte rimbalzo dalle chiusure legate al Covid in Cina. Nel 2024, la crescita della domanda petrolifera mondiale dovrebbe attestarsi su un buon livello di 2,2 mb/d, raggiungendo un livello di 104,4 mb/d (105,47 mb/d nel quarto trimestre)”. In prospettiva, si prevede che la domanda mondiale di petrolio nel 2025 crescerà di 1,8 mb/d (milioni di barili giornalieri), su base annua, per raggiungere i 106,2 mb/d. L’area Ocse dovrebbe crescere di 0,1 mb/d, su base annua, mentre l’area non Ocse dovrebbe aumentare di 1,7 mb/d.

L’Arabia Saudita fa marcia indietro sui piani di aumento di capacità produttiva di petrolio

L’Arabia Saudita ha chiesto alla compagnia petrolifera nazionale Aramco di mantenere la sua capacità di produzione di petrolio a 12 milioni di barili al giorno, abbandonando i piani per aumentarla annunciati nel 2021. Aramco è il fiore all’occhiello economico del più grande esportatore di greggio al mondo, che si basa sulle sue entrate per finanziare il vasto programma di riforme del principe ereditario Mohammed bin Salmane, volto a preparare il regno del Golfo all’era post-petrolifera. “Aramco ha dichiarato in un comunicato di aver ricevuto una direttiva dal ministero dell’Energia per mantenere la sua capacità massima sostenibile a 12 milioni di barili al giorno (mbpd)”, invece dei 13 mbpd previsti, spiega una nota. Le previsioni di spesa in conto capitale saranno aggiornate quando i risultati annuali del 2023 saranno annunciati a marzo.

La monarchia petrolifera aveva annunciato l’intenzione di aumentare la propria capacità produttiva giornaliera di un milione di barili nell’ottobre 2021, nello stesso mese in cui si era impegnata a raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060, suscitando lo scetticismo degli ambientalisti. La decisione di abbandonare questo obiettivo “suggerisce che Riyad non è molto fiduciosa che il mondo avrà bisogno di tale capacità aggiuntiva e che gli investimenti necessari per raggiungere e mantenere i 13 mbpd sarebbero meglio spesi altrove“, afferma Jamie Ingram della pubblicazione specializzata Middle East Economic Survey.

All’inizio di questo mese, Aramco ha iniettato quattro miliardi di dollari nella sua società di venture capital, Aramco Ventures, aumentando il suo capitale da 3 a 7 miliardi di dollari. L’azienda punta alla neutralità delle sue operazioni entro il 2050, senza contare le emissioni prodotte dal petrolio esportato e bruciato dai suoi clienti. L’Arabia Saudita ha sempre sostenuto che un aumento degli investimenti nell’industria dei combustibili fossili è necessario per garantire la sicurezza energetica globale, in particolare in Africa. Durante la Cop28, la conferenza globale sul clima tenutasi a dicembre a Dubai, il regno è stato uno dei principali oppositori del riferimento nel testo finale alla “riduzione” o “eliminazione” dei combustibili fossili, causa del riscaldamento globale. L’accordo adottato al termine dei negoziati ha tuttavia aperto la strada al loro graduale abbandono, chiedendo una “transizione dai combustibili fossili“.

All’epoca, il ministro dell’Energia saudita Abdelaziz ben Salmane ha minimizzato l’importanza dell’accordo, affermando che non avrebbe avuto “alcun impatto” sulle esportazioni del suo Paese. L’accordo “non impone nulla” ai Paesi produttori e consente loro di ridurre le emissioni “in base ai loro mezzi e ai loro interessi“, ha dichiarato in un’intervista al canale saudita Al Arabiya Business. L’annuncio di martedì non dovrebbe avere alcun effetto immediato sulla produzione del Regno, che attualmente è ben al di sotto della sua capacità di 12 milioni di barili al giorno, con circa nove milioni di bpd. Dall’ottobre 2022, l’Arabia ha tagliato la produzione di circa due milioni di barili al giorno per sostenere i prezzi del petrolio. Questi tagli volontari e il calo dei prezzi hanno fatto sì che i profitti di Aramco scendessero del 23% nel terzo trimestre del 2023, a 32,58 miliardi di dollari, rispetto ai 42,43 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente. Nel 2022, la ripresa economica post-pandemia e l’impennata dei prezzi sulla scia dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia avevano spinto i profitti a un livello “record” di 161,1 miliardi di dollari.

Yemen - Mar rosso

Mar Rosso paralizzato ma gas e petrolio crollano per debolezza economia

Lunedì al Consiglio Affari esteri di Bruxelles si discuterà” della questione del Mar Rosso. “Con Francia e Germania stiamo formalizzando una proposta e sono ottimista sulla missione europea, a cui potrebbero partecipare anche i Paesi non Ue, per garantire il traffico mercantile“, annuncia il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, durante la conferenza stampa di presentazione della presidenza italiana del G7 alla Farnesina. “La nostra Marina militare sta già proteggendo le navi mercantili italiane, ma c’è un problema economico non secondario. Quasi il 40% del nostro Pil dipende dall’export e quindi la riduzione del traffico marittimo ci preoccupa perché siamo passati da 400 a 250 navi giorno. Sono aumentati i costi assicurativi e si allungano i tempi di percorrenza perché fare il periplo dell’Africa significa perdere 15 giorni“. Per il commissario per l’Economia, Paolo Gentiloni, in realtà “per il momento non ci sono conseguenze, e non vediamo un problema per inflazione e prezzi, ma dobbiamo monitorare perché le tensioni in questo settore, con conseguenze sui costi di trasporto, sono chiaramente molto sensibili”, ribadendo che possibili conseguenze negative per le tensioni nel mar Rosso “potrebbero materializzarsi”.

Gli attacchi Houthi alle navi, scattati a dicembre, e la risposta militare anglo-americana di questi giorni, hanno fatto sì che i transiti commerciali attraverso il Canale di Suez sono scesi al livello più basso da quando la Ever Given aveva bloccato il corso d’acqua quasi tre anni fa. Secondo i dati di Portwatch, piattaforma di dati gestita dal Fondo monetario internazionale e dall’Università di Oxford, la media mobile su sette giorni delle traversate giornaliere di Suez da parte di navi mercantili, portacontainer e petroliere è scesa a 49 domenica. Un dato in calo rispetto al picco giornaliero di 83 transiti registrato nel 2023 alla fine di giugno e inferiore alla media di sette giorni di un anno prima di 70 transiti. Le navi in massa stanno girando intorno all’Africa, passando dal capo di Buona Speranza, per arrivare dall’Asia in Europa, principalmente al porto di Rotterdam. E “fare la circumnavigazione dell’Africa invece che passare dal Canale di Suez, è ovvio che crea problemi di logistica, di tempo e di costi: i noli stano schizzando, tutto quello che viaggia avrà una spinta a rialzo dei prezzi che contrasterà le battaglie delle banche centrali per riportare l’inflazione dove siamo abituati a vederla“, commenta il presidente dell’Enel, Paolo Scaroni, ai microfoni di SkyTg24 a margine del World Economic Forum di Davos.

Sempre più aziende che esportano merci dall’Asia all’Europa spediscono via aerea anziché via nave. Normalmente, i produttori preferiscono spedire le loro merci perché è molto più economico, ma in questo momento la differenza di prezzo si è ridotta poiché gli operatori di navi portacontainer dirottano le loro navi dal Mar Rosso al Capo di Buona Speranza. Per questo la domanda di trasporto aereo sulle rotte Asia-Europa è aumentata, così come le tariffe aeree: Reuters ha riferito oggi che la tariffa per il trasporto di qualcosa dalla Cina all’Europa è aumentata del 91% questa settimana rispetto alla settimana scorsa.

Per ora gas e petrolio non sembrano però risentire di questa rivoluzione dei trasporti mondiali, nonostante il Qatar abbia annunciato che non passerà dal Mar Rosso per portare il suo Gnl e sebbene l’Europa abbia importato una media di 2,3 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi dal 1° al 17 gennaio, in calo rispetto ai 2,9 milioni di barili al giorno di dicembre, ovvero un meno 20%. Il prezzo del gas scivola di un altro 6,2% a 27,8 euro per megawattora perché l’offerta di gas liquefatto americana è notevole, in un contesto tra l’altro di stagnazione economica europea e di una riduzione dei consumi per uso domestico, mentre gli stoccaggi sono ancora pieni al 78%. Anche il petrolio continua a calare, col Wti a 71,6 dollari e il Brent a 77 dollari al barile, perché gli ultimi dati sull’inflazione occidentale è leggermente superiore alle attese e le parole dei banchieri centrali non sembrano favorire un repentino taglio del costo del denaro rafforzando così il dollaro, una tendenza che tradizionalmente indebolisce le quotazioni dell’oro nero appunto in dollari.

E poi c’è il tema della debolezza cinese. L’economia dell’ex celeste impero è cresciuta del 5,2% su base annua nel quarto trimestre del 2023, più velocemente della crescita del 4,9% nel terzo trimestre, ma inferiore alle previsioni di mercato del 5,3%. La produzione industriale è aumentata di più in quasi due anni, ma le vendite al dettaglio sono aumentate meno in tre mesi e il tasso di disoccupazione rilevato è salito ai massimi di quattro mesi. Per l’intero anno, anche l’economia è cresciuta del 5,2%, superando l’obiettivo ufficiale di circa il 5% e riprendendo da un +3% nel 2022. Escludendo gli anni della pandemia fino al 2022, la crescita del Pil nel 2023 rappresenta il ritmo più lento di crescita annuale dal 1990, per la crisi immobiliare prolungata e i consumi deboli.

Dopo la Cop28 troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale

Che la Cop 28 sia stata un fiasco o quasi un fiasco dipende solo dai punti di vista più o meno ideologici. Che molto poco si potesse pretendere da un evento che ha avuto come presidente Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato di Abu Dahbi National Oil Company (la Adnoc, principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi), era abbastanza scontato. Che la Cop28 potesse riservare un epilogo analogo alla Cop27 era persino prevedibile. Che non tutte le posizioni emerse dalla convention Onu di Dubai siano da buttare nel bidone della spazzatura un’altra evidenza sulla quale riflettere.

Dopo una decina di giorni di chiacchiere e confronti, alla fine sembra che troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale. La prima bozza di accordo non convince, gas & oil continuano a farla da padrone, i Paesi produttori non ne vogliono sapere di dare un taglio alla loro principale fonte di introiti, la progressiva dismissione dei combustibili fossili pare abbia la cadenza musicale del fado. E pure la sua tristezza. La luce in fondo al tunnel sono le rinnovabili e, forse, il nucleare. Ma tra mille eccezioni, come da dichiarazione del ministro Gilberto Pichetto Fratin per quanto riguarda la posizione dell’Italia: una fessura non un’apertura. E, comunque, siamo nell’ordine di molti anni, insomma non una soluzione immediata.

Mentre le associazioni ambientaliste si ostinano a gettare vernice verde in fiumi, lagune e fontane, il mondo prende la sua piega. La spaccatura che emerge è netta. C’è preoccupazione per l’innalzamento della temperatura planetaria e per i risultati non in linea con le prospettive delineate dall’accordo di Parigi, probabilmente adesso c’è anche minore distanza tra Europa, Usa, Cina e India, nessuno dubita sulla necessità di “fare qualcosa”, ma sono i tempi e i modi che generano lo stallo. Da un lato la Ue che pesta sull’acceleratore per velocizzare la transizione green, dall’altro i Paesi produttori e in via di sviluppo che azionano il freno. Usando la ragione e non la pancia, è inimmaginabile pensare al mondo senza gas e senza petrolio in uno spazio temporale ristretto. Sultan al-Jaber sostiene con un’iperbole che si tornerebbe alla caverne: non è così, però non è nemmeno possibile ipotizzare a breve una società spinta solo da energie rinnovabili o biocarburanti. E siccome di radicalismo si perisce, lo sforzo maggiore dovrebbe farlo il buonsenso che non produce gas serra: non tutto subito, ma nemmeno niente per sempre. Sarebbe utile conoscere, oltre alla posizione del Governo, anche quelle delle nostre aziende di bandiera: da Eni a Enel, fino a Terna e Edison, Eph, A2A. Come si pongono in questa controversia?

La fotografia scattata alla Cop28 è chiarissima: Emirati, Arabia Saudita, Iraq, Iran e Russia non vogliono abbandonare la strada dei combustibili fossili, gli Stati Uniti stanno strategicamente nel mezzo, i giganti Cina e India manco si sono fatti sentire e tirano dritto allegramente. Insieme fanno 3 miliardi di persone, oltre un terzo della popolazione mondiale. Assodato che la transizione ecologica costi cara, vanno tutelate parimenti la stabilità delle economie e la salute del pianeta. Senza la prima non c’è la seconda. Sono da evitare gli estremismi o le asticelle fissate troppo in alto. E qui l’Europa può e deve darsi una regolata perché l’era-Timmermans ha prodotto guasti e lasciato strascichi. C’era una volta l’Europa che dettava il ritmo al mondo, adesso ci sono nazioni che da sole contano più di un continente intero. E che inquinano anche di più. Prenderne coscienza non è avere meno peso geopolitico ma capire in che epoca si sta vivendo. Diceva Seneca: non possiamo dirigere il vento ma possiamo orientare le vele.

Presidente Cop28 replica alle polemiche: “Rispetto la scienza, inevitabile abbandonare combustibili fossili”

In una Cop già controversa, non si placa la bufera che si sta abbattendo sul suo presidente, l’emiratino Sultan Al Jaber. Dopo i documenti resi noti, tra gli altri, dalla Bbc, che lo accusavano di conflitto di interessi, questa volta a gettare benzina sul fuoco è un audio che lo riguarda. In uno scambio avvenuto a novembre con l’ex presidente irlandese Mary Robinson, riportato dal Guardian, Al Jaber ha affermato che l’“uscita” dai combustibili fossili è “inevitabile”, ma che “non esiste nessuno studio scientifico, nessuno scenario, secondo cui l’eliminazione dei combustibili fossili” porterà a limitare il riscaldamento globale a +1,5° gradi rispetto all’epoca preindustriale. Eppure, lo stesso presidente della Cop28, proprio durante il primo giorno della Conferenza – pur parlando una necessaria convivenza tra fonti fossili e rinnovabili durante la transizione energetica – aveva invitato i presenti a non omettere “alcun argomento” dai testi che saranno negoziati nell’arco di due settimane dai delegati di quasi 200 Paesi, quindi nemmeno i combustibili fossili.

Sultan Al Jaber è l’amministratore delegato di Adnoc, la principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti. E nasce proprio da qui il suo ruolo controverso, che nell’audio reso noto si esplicita ancora di più. “La riduzione dell’uso dei combustibili fossili e il loro abbandono sono, a mio avviso, inevitabili. È essenziale – ha detto a un evento online organizzato dall’iniziativa She Changes Climate – ma dobbiamo essere seri e pragmatici“. Con una sottolineatura ulteriore: “Mostratemi la tabella di marcia per un’uscita dai combustibili fossili che sia compatibile con lo sviluppo socio-economico, senza riportare il mondo all’età delle caverne“.

Per cercare di placare le polemiche, il presidente della Cop28 ha spiegato che rispetta le raccomandazioni scientifiche sul cambiamento climatico e ha chiesto una riduzione del 43% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030. “Siamo qui perché crediamo e rispettiamo la scienza”, ha detto. “Tutto il lavoro della Presidenza è focalizzato e centrato sulla scienza”, ha dichiarato durante una conferenza stampa, alla quale ha invitato Jim Skea, il presidente dell’Ipcc, il gruppo di esperti sul clima incaricato dalle Nazioni Unite.

Durante la conferenza stampa gli è stato chiesto della frase riportata dal Guardian, che sembra mettere in discussione ciò che l’Ipcc e altri scienziati dicono sulla necessaria riduzione dei combustibili fossili, che sono responsabili di due terzi delle emissioni attuali.“La scienza dice che dobbiamo raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2050 e che dobbiamo ridurre le emissioni del 43% entro il 2030” per limitare il riscaldamento globale a +1,5°C, l’obiettivo fissato dall’Accordo di Parigi, ha risposto, aggiungendo: “Ho detto più e più volte che la riduzione e l’uscita dai combustibili fossili è inevitabile”. “Sono sorpreso dai continui e ripetuti tentativi di minare il lavoro della Presidenza della Cop28”, ha aggiunto Sultan Al Jaber. “Questa è la prima Presidenza della Cop che invita attivamente le parti a proporre formule su tutti i combustibili fossili”, ha sottolineato l’emiratino, lamentando che i media non sono interessati a questo fatto.

importazioni petrolio

Salgono ancora i prezzi di gas e greggio. Federpetroli: “Dopo attacco Hamas a rischio forniture”

Dal primo attacco di sabato scorso da parte di Hamas a Israele, le quotazioni internazionali del gas sono aumentate vertiginosamente fino a toccare ieri 43,60 Euro/MWh con un + 15,00% in poche ore. Non diversa la situazione dei due greggi di riferimento Wti in quota 88,80 dollari/Barile e Brent in quota 89,50 dollari/Barile sulle principali Borse internazionali.

Per il presidente di FederPetroli Italia, Michele Marsiglia, “sembra un copione già visto, con un pericolo forniture estere annunciato la scorsa settimana in una diretta RAI sulla problematica dei nostri approvvigionamenti in Africa e Medio Oriente”. A largo della striscia di Gaza proseguendo lungo le coste nell’Offshore israeliano “abbiamo un grande giacimento di gas metano chiamato Leviathan che corre fino a nord tra Cipro e il Libano (quest’ultimo a sud sotto controllo di Hezbollah), parliamo di uno dei giacimenti più grandi al mondo nel Mediterraneo”. Grande riserva petrolifera già tempo fa occasione di interessi di sviluppo internazionali per la quantità di metano che dispone in produzione nei prossimi decenni.

Il giacimento in mare, dice Marsiglia, “potrebbe stravolgere gli equilibri energetici del Medio Oriente. Leviathan ha autonomia di produzione a gas metano per oltre 50 anni. L’Italia è a rischio con l’80% di approvvigionamento energetico estero (petrolio e gas). Già evidente il panico sui prezzi internazionali di benzina e gasolio con ricadute sul costo delle bollette. Attenzione alle parole su Iran e Qatar, salvaguardiamo la sicurezza dei gasdotti e dello Stretto di Hormuz”.

Israele in via precauzionale ha già bloccato la produzione del giacimento Offshore di Tamar con l’americana Chevron come operatore. “Ci troviamo a circa 90 km in mare da Haifa. Questo indotto – spiega Marsiglia – alimenta parte di Egitto ed altro gas viene trasportato in Europa”.

Secondo un’analisi di in un’analisi S&P Global Commodity Insights, l’aumento dei prezzi del petrolio a seguito dell’escalation delle tensioni geopolitiche in Medio Oriente ha iniziato a suonare come un campanello d’allarme per le raffinerie asiatiche, ma le preoccupazioni a breve termine sulle forniture sono meno preoccupanti a causa degli abbondanti flussi di merci dalla Russia e da esportatori diversi dal Golfo Persico.

L’attacco a sorpresa di Hamas contro Israele “ha riacceso il dibattito – spiega S&P – sul fatto che il petrolio superi nuovamente la soglia dei 100 dollari al barile. Hamas, un’organizzazione militare e politica, è stata collegata all’Iran in passato”.

“Le maggiori preoccupazioni dell’Asia sono le incertezze sulle forniture derivanti da potenziali interruzioni dei flussi fisici a seguito degli attacchi, nonché un possibile aumento dei prezzi. Che tipo di conclusioni trarrà Washington da questo sull’Iran sarebbe anche un fattore chiave per il mercato petrolifero globale”, ha affermato Kang Wu, responsabile della domanda globale di petrolio e di Asia Analytics di S&P Global Commodity Insights.

Conflitto in Israele pesa sui costi energetici: schizzano petrolio e gas

I prezzi del petrolio sono saliti di oltre il 4% e il prezzo del gas sul mercato di Amsterdam è arrivato a oltre 41 euro euro al megawattora. A pesare sono i timori per il conflitto in Israele, dopo che il movimento islamista palestinese Hamas ha lanciato un’offensiva a sorpresa contro Israele nel fine settimana, sollevando preoccupazioni sulle conseguenze per le forniture alla regione ricca di petrolio. Il Brent è balzato del 4,7% a 86,65 dollari e il West Texas Intermediate è salito del 4,5% a 88,39 dollari nei primi scambi asiatici. Preoccupazioni che raccoglie anche il ministro della Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, secondo il quale “bisogna essere vigili, uniti e coesi in Europa per fronteggiare questa situazione di emergenza che rischia di far esplodere altre problematiche. Mi riferisco per esempio a quella dell’energia, come accaduto per la guerra della Russia in Ucraina, per l’approvvigionamento di gas e petrolio. Da quei Paesi giungono altre risorse alla nostra Europa. Dobbiamo capire e comprendere anche se dobbiamo pensare all’autonomia strategica del nostro continente“.

L’attacco a sorpresa contro Israele e la dichiarazione di guerra al movimento islamista palestinese di domenica hanno già provocato più di 1.100 vittime e si teme un ulteriore aumento delle tensioni in Medio Oriente. “Per i mercati è decisivo se il conflitto rimarrà contenuto o si estenderà ad altre regioni, in particolare all’Arabia Saudita“, hanno dichiarato Brian Martin e Daniel Hynes, analisti dell’ANZ. “Almeno inizialmente, i mercati sembrano pensare che la situazione rimarrà limitata in termini di portata, durata e impatto sui prezzi del petrolio. Ma possiamo aspettarci una maggiore volatilità“. Questa crisi arriva in un momento in cui i prezzi del petrolio sono già alti a causa delle preoccupazioni per i tagli alla produzione da parte di Russia e Arabia Saudita. Inoltre, sta sollevando timori per il suo impatto sull’inflazione. L’aumento dei costi energetici è una delle cause principali dell’attuale impennata dei prezzi.

Il WTI e il Brent, i due benchmark globali, sono saliti brevemente di oltre il 5% sui mercati asiatici, prima di tornare al di sotto di questa soglia. Tuttavia, Stephen Innes di SPI Asset Management ha avvertito che “la storia ha dimostrato che i prezzi del petrolio tendono a guadagnare in modo sostenuto dopo le crisi in Medio Oriente“.

Venerdì i prezzi del petrolio hanno chiuso in leggero rialzo a New York, beneficiando solo marginalmente del ritorno della propensione al rischio, compensata dalle persistenti preoccupazioni sulla domanda globale e dalla parziale revoca delle restrizioni imposte dalla Russia sulle esportazioni di gasolio. Inoltre, la scorsa settimana un gruppo di lavoro dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e dei loro alleati (OPEC+) ha raccomandato di mantenere l’attuale strategia di taglio della produzione, rafforzata dai tagli sauditi e russi, al fine di sostenere i prezzi. Ha inoltre elogiato “gli sforzi dell’Arabia Saudita“, leader del gruppo, che da luglio sta tagliando volontariamente la produzione di un milione di barili al giorno. Il ministero dell’Energia saudita ha confermato che questa misura continuerà fino alla fine del 2023. La produzione del regno dovrebbe quindi attestarsi intorno ai 9 milioni di barili al giorno per i mesi di novembre e dicembre, ha aggiunto.

Anche la Russia, altro peso massimo dell’OPEC, manterrà i suoi tagli alle esportazioni di circa 300.000 barili al giorno fino a dicembre, secondo il vice primo ministro Alexander Novak. Queste decisioni si aggiungono ai tagli introdotti all’inizio di maggio e in vigore fino alla fine del 2024 da nove Paesi, tra cui Riyadh, Mosca, Baghdad e Dubai, per un totale di 1,6 milioni di barili al giorno.

Usa, stop di Biden a nuovi progetti di gas e petrolio nel nord dell’Alaska

L’amministrazione Biden ha annunciato che vieterà ogni nuovo sviluppo di progetti legati a petrolio e gas in una vasta area dell’Alaska settentrionale, in risposta alla “crisi climatica”. Questa nuova misura riguarda più di quattro milioni di ettari, una zona paragonabile a quella della Danimarca, all’interno della National Petroleum Reserve in Alaska (NPR-A), un’area naturale vitale per le popolazioni di orsi grizzly, orsi polari, caribù e centinaia di migliaia di uccelli migratori.

“L’Alaska ospita molte delle più belle meraviglie naturali degli Stati Uniti”, ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti in una nota. “Poiché la crisi climatica riscalda l’Artico a una velocità più che doppia rispetto al resto del mondo, abbiamo la responsabilità di proteggere queste preziose regioni per i secoli a venire”, ha aggiunto. Il Dipartimento degli Interni, che si occupa delle terre federali negli Stati Uniti, ha spiegato di aver cancellato sette permessi di disboscamento autorizzati dall’ex presidente Donald Trump in un’altra area protetta nel nord dell’Alaska.

Ma lo scorso marzo, l‘amministrazione del presidente democratico era stata pesantemente criticata dagli ambientalisti dopo la decisione di autorizzare un vasto progetto petrolifero del gigante statunitense ConocoPhillips in questa stessa riserva nazionale. La decisione annunciata oggi non mette in discussione questo progetto, noto come Willow, autorizzato durante il mandato di Donald Trump. Ridotto a tre zone di perforazione dalle cinque inizialmente richieste dalla compagnia, costerà tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari e dovrebbe comportare l’emissione indiretta dell’equivalente di 239 milioni di tonnellate di CO2. I gruppi ambientalisti hanno definito il progetto “un disastro” per il clima e alcuni vedono nell’annuncio di oggi un tentativo dell’amministrazione Biden di recuperare il tempo perduto.

Il nuovo piano del governo Usa vieta anche le trivellazioni in un’area di oltre un milione di ettari nel Mare di Beaufort, a nord della costa settentrionale dell’Alaska, e gli aiuti alle popolazioni indigene locali. Queste misure “sono illegali, sconsiderate, sfidano il buon senso e sono l’ultima prova dell’incoerenza della politica energetica del presidente Biden”, ha commentato la senatrice repubblicana dell’Alaska Lisa Murkowski in un comunicato stampa, denunciando la mancanza di consultazione con le comunità indigene interessate.

La democratica Mary Peltola, che rappresenta l’Alaska alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, si è detta “profondamente frustrata”, criticando l’amministrazione Biden per essere rimasta sorda alle richieste dei cittadini. Ma Biden si è scontrato anche con l’opposizione di importanti membri delle comunità indigene locali, che hanno deplorato l’impatto economico di questa misura su una regione devastata. “La nostra comunità ha lottato duramente per far sì che la pianura costiera venisse aperta alle licenze di petrolio e gas”, ha dichiarato Annie Tikluk, sindaco della città di Kaktovik, riferendosi alle sette licenze ora revocate.

Durante la sua campagna per la presidenza, Biden aveva promesso un congelamento dei permessi di sfruttamento del petrolio, promessa non mantenuta. Alcuni sottolineano che le azioni legali degli Stati repubblicani hanno limitato il suo margine di manovra su questo tema.
L’anno scorso, il presidente democratico ha anche fatto approvare un enorme piano di investimenti per il clima da 400 miliardi di dollari. Secondo uno studio pubblicato a luglio sulla rivista Science, questo piano consentirebbe di ridurre le emissioni di gas serra degli Stati Uniti dal 43 al 48% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2005, ma non di dimezzare le emissioni entro il 2030.

importazioni petrolio

Le azioni salva-clima delle compagnie petrolifere sono in stallo. Si salva solo l’Eni

Le principali compagnie petrolifere e del gas del mondo sono ben lontane dal compiere gli sforzi necessari per limitare il riscaldamento globale e in alcuni casi hanno fatto marcia indietro rispetto ai loro impegni. E’ quanto emerge da un rapporto di Carbon Tracker che, però, assegna ai gruppi europei un punteggio più alto. “I progressi delle compagnie petrolifere e del gas nel rafforzare i loro impegni in materia di emissioni sono in fase di stallo, e la maggior parte di esse è rimasta nella stessa fascia dell’anno scorso”, spiega il think tank Carbon Tracker.

Il rapporto annuale di 36 pagine, Absolute Impact 2023, rivolto in particolare agli investitori, fa il punto sulle ambizioni climatiche delle 25 maggiori compagnie petrolifere e del gas, comprese quelle di proprietà statale. Si tratta di un settore che sarà oggetto di un intenso esame alla COP28 che si terrà a Dubai alla fine dell’anno. La Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, dove si prevede una dura battaglia sulla fine dei combustibili fossili, dovrebbe rimettere il mondo in carreggiata con l’Accordo di Parigi: limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, e se possibile a 1,5°C, rispetto all’era preindustriale.

Tuttavia, il rapporto rileva che molti piani climatici aziendali si basano su metodi che non sono stati dimostrati su larga scala, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la compensazione delle emissioni. Il rapporto rileva inoltre che “alcune aziende stanno facendo marcia indietro rispetto ai loro impegni”, come la BP, che ha abbassato l’obiettivo di riduzione della produzione di idrocarburi per il 2030 dal 40% al 25%. E la Shell, che ha annunciato che la sua produzione di petrolio rimarrà stabile fino al 2030.

“La nostra analisi mostra che le maggiori compagnie petrolifere e del gas del mondo continuano a mettere a rischio gli investitori non pianificando tagli alla produzione (di idrocarburi) in linea con l’obiettivo di Parigi di 1,5 gradi”, commenta Mike Coffin, coautore del rapporto.

Delle 25 società, “solo” l’italiana Eni ha obiettivi “potenzialmente” in linea con l’obiettivo di Parigi, secondo il think tank. TotalEnergies è al secondo posto. Ma mentre l’Eni è in cima alla classifica per il quarto anno consecutivo, la credibilità dei suoi obiettivi potrebbe essere messa in discussione “dato che dipendono dalla vendita di asset, oltre che da tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio e compensazioni di carbonio non dimostrate”, sottolinea Carbon Tracker.

“Le principali compagnie europee sono in cima alla classifica, con obiettivi sistematicamente più ambiziosi di quelli dei loro rivali nordamericani, mentre gli impegni più deboli sono stati presi da ExxonMobil e da cinque compagnie petrolifere prevalentemente statali: Aramco, la brasiliana Petrobras e le cinesi Sinopec, PetroChina e Cnooc”, riassume Carbon Tracker nella sua presentazione.

Dietro l’Eni si colloca TotalEnergies, che ha preso il posto di Repsol, ora al terzo posto, davanti a BP e Shell. Considerate “più progressiste” rispetto ai loro concorrenti, TotalEnergies, Repsol e BP hanno dichiarato obiettivi di “carbon neutrality” entro il 2050 e obiettivi intermedi entro il 2030 “ma questi scopi escludono le emissioni di alcune attività chiave”, osserva Carbon Tracker.

Circa 16 compagnie, tra cui ExxonMobil e Conoco, hanno obiettivi che coprono solo le loro emissioni operative, cioè non coprono le emissioni generate dalla combustione del petrolio e del gas che i loro clienti acquistano – circa il 90% della loro reale impronta di carbonio. Società come Shell ed Equinor hanno obiettivi molto distanti, per il 2050, “ma non obiettivi intermedi assoluti”, il che è comunque considerato un passo essenziale.

All’ultimo posto, la saudita Aramco “è l’unica azienda che limita i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni agli asset che possiede e gestisce interamente”, sottolinea Carbon Tracker, senza contare il fatto che fissa un obiettivo di riduzione solo in relazione a una traiettoria di crescita futura, riducendo di fatto i suoi sforzi.

Golpe militare in Gabon: Paese ricco di petrolio e di foreste

Dopo l’annuncio della rielezione di Ali Bongo Ondimba, al potere da 14 anni, come presidente del Gabon con il 64,27% dei voti, il Paese è caduto nel caos. Una decina di militari e poliziotti ha annunciato l’annullamento delle elezioni, lo scioglimento di “tutte le istituzioni della Repubblica” e la “fine del regime“. “Tutte le istituzioni della Repubblica sono sciolte: il governo, il Senato, l’Assemblea nazionale e la Corte costituzionale. Invitiamo la popolazione a rimanere calma e serena e riaffermiamo il nostro impegno a rispettare gli impegni del Gabon nei confronti della comunità internazionale“, ha proseguito il gruppo, annunciando la chiusura delle frontiere del Paese “fino a nuovo ordine”.

Una situazione complicata per il Paese centrafricano ricco di petrolio. Il Gabon è uno dei Paesi più ricchi dell’Africa in termini di Pil pro capite (8.820 dollari nel 2022), grazie al petrolio, al legname e al manganese e a una popolazione ridotta (2,3 milioni di abitanti). È inoltre uno dei principali produttori di oro nero dell’Africa subsahariana. Secondo la Banca Mondiale, nel 2020 questa risorsa ha rappresentato il 38,5% del Pil e il 70,5% delle esportazioni. Ma l’economia, che il governo non è riuscito a diversificare a sufficienza, è ancora troppo dipendente dagli idrocarburi e un abitante su tre viveva sotto la soglia di povertà alla fine del 2022, secondo la Banca Mondiale.

Il Gabon è fondamentale anche per il suo ruolo ambientale. Questo Paese di 268.000 chilometri quadrati, coperto per l’88% da foreste, è descritto dalla Banca Mondiale come “un assorbitore netto di carbonio e un leader nelle iniziative di emissioni nette a zero“, grazie soprattutto agli sforzi compiuti per ridurre le emissioni e preservare la sua vasta foresta tropicale. Ha un ricco ecosistema. I suoi parchi nazionali ospitano specie endemiche e mammiferi emblematici come l’elefante di foresta, il gorilla, lo scimpanzé, il leopardo e diverse specie di pangolino. Il Paese ha uno dei più alti tassi di urbanizzazione del continente, con più di quattro gabonesi su cinque che vivono in città. Libreville e Port-Gentil, la capitale economica, rappresentano da sole quasi il 60% della popolazione.