

Nessuna agenda politica per il clima, scarsa pianificazione all’adattamento, distruzione dell’atmosfera a causa delle operazioni militari – che aggiungono sostanze tossiche e rifiuti pericolosi al suolo, all’aria e all’acqua – ma anzi, investimenti sui combustibili fossili e una narrazione autoreferenziale che porta a raccontare, ad esempio, quanto sia ‘bello’ lo scioglimento dei ghiacci artici perché consente di viaggiare senza troppi disagi. Debra Javeline, professoressa associata di Scienze politiche all’Università di Notre Dame, è l’autrice principale di uno studio dedicato al rapporto tra la Russia e il cambiamento climatico, dal quale emerge un quadro decisamente preoccupante. La ricerca è stata condotta insieme a un gruppo di esperti del Ponars (Program on New Approaches to Research and Security in Eurasia), che hanno analizzato l’agricoltura, gli affari internazionali, il cambiamento dell’Artico, la salute pubblica, la società civile e la governance.
I ricercatori hanno scoperto che la Russia sta già soffrendo per una serie di impatti del cambiamento climatico – nonostante le dichiarazioni del governo – ed è mal preparata a mitigare o ad adattarsi alla nuova situazione. Inoltre, mentre il resto del mondo si sta convertendo alle fonti di energia rinnovabili, il governo russo, dipendente dai combustibili fossili, non è disposto o pronto a fare piani alternativi per il Paese. E mentre Mosca continua a condurre una guerra ad alta intensità di carbonio in Ucraina, rimane “sempre più isolata dalla comunità internazionale e dai suoi sforzi per ridurre le emissioni di gas serra”, scrivono gli esperti.
Il motivo di preoccupazione sta nel fatto che la Russia non solo è considerata il Paese più grande del mondo, occupando più della metà delle coste dell’Oceano Artico, ma si sta anche riscaldando quattro volte più velocemente della Terra ed è uno dei principali emettitori di gas serra. Gli impatti ambientali già in atto includono inondazioni, ondate di calore, siccità e incendi che colpiscono non solo le comunità, ma anche l’agricoltura, la silvicoltura e le risorse idriche.
Il riscaldamento globale, poi, ha avuto un’enorme influenza sul permafrost russo, che ora si sta scongelando a ritmi allarmanti. Quello che una volta era considerato un terreno stabile ora si sta spostando causando danni enormi. Lo studio ha evidenziato un aumento delle inondazioni, delle frane, dello sprofondamento del terreno che sostiene le infrastrutture esistenti, con conseguenti crepe nelle fondamenta e compromissione dei rifugi.
Secondo gli studiosi del Ponars, tuttavia, la leadership russa interpreta questi impatti climatici in modo autoreferenziale e incoraggia i cittadini ad accettarli come benefici. Ad esempio, mentre gli scienziati mettono in guardia dalle temperature estreme e dalla diminuzione del ghiaccio marino, il governo pubblicizza una rotta artica per tutto l’anno e un clima complessivamente più vivibile. Inoltre, le politiche per ridurre la vulnerabilità di alcune regioni agli impatti climatici sono limitate, e in generale la pianificazione dell’adattamento è scarsa e l’attuazione degli adattamenti effettivi ancora di più. Inoltre, “nessun leader politico di primo piano si fa promotore di un’agenda per il clima”, dicono gli esperti, e “chi occupa le più alte posizioni di potere o sta in silenzio o è negazionista”.
Infine, l’invasione dell’Ucraina ha aggravato l’emergenza climatica. “Il disastro umanitario è della massima importanza, ma il danno collaterale è l’intensa distruzione dell’atmosfera”, osservano i ricercatori. La guerra ha portato danni irreparabili al clima globale a causa dell’aumento delle emissioni militari, che, dicono i ricercatori, hanno assunto la forma di “diversi milioni di tonnellate extra di anidride carbonica equivalente”.
Nell’editoriale della scorsa settimana ragionando sulle prospettive economiche del 2024 e cercando di collocarle all’interno di un quadro più strutturale di medio-lungo periodo ho evidenziato i ritardi e le debolezze dell’Europa rispetto alle altre grandi aree economiche del mondo (USA, Cina e in prospettiva India).
Ho scritto che, a mio giudizio, questa debolezza relativa parte da una degenerazione culturale (la presunzione di pensare che “siamo i più bravi di tutti” e quindi regole, regole, regole) e da un declino industriale e demografico: tra le prime 10 aziende del mondo non ce n’è neppure una europea, e la popolazione del nostro continente invecchia a ritmi impressionanti con tutto ciò che ne consegue in termini economici e sociali.
La situazione che si è creata rischia di spiazzare definitivamente l’Unione Europea e i suoi sogni di gloria, relegandola al ruolo di attore minore nelle dinamiche mondiali.
Dinanzi a un quadro del genere, che mi pare difficilmente contestabile, può essere utile cercare di definire una prospettiva strategica ed economica non velleitaria per l’Europa all’interno della quale collocare l’Italia.
Mi sono divertito ad usare per questo esercizio uno dei modelli classici della teoria d’impresa: forze/debolezze, minacce/opportunità. Pur consapevole dei limiti di un’applicazione del genere non a singole imprese ma a sistemi economici globali, sono convinto che la provocazione possa servire.
Ho due convinzioni radicate che hanno sostenuto la mia riflessione e che voglio sviluppare. La prima vede inscindibilmente legate le prospettive economiche e industriali del nostro continente alle dimensioni geo-strategica e della sicurezza. La seconda è che, poiché il tema del Mediterraneo si imporrà sempre di più nei prossimi anni, vi è un ruolo importantissimo che l’Italia può giocare partendo non solo dalla sua collocazione geografica ma anche da un dato culturale e di vicinanza alle popolazioni del Sud e dell’Est.
Ma procediamo con ordine.
Come detto la situazione di oggi è che l’Europa, per differenziale negativo di crescita e per minore tasso di innovazione tecnologica della sua economia industriale, è indietro rispetto ad USA e Cina; ciò in particolare in quelle aree che sono coperte da protezione brevettuale come intelligenza artificiale, biotecnologie, aero-spazio, e in parte farmaceutica e vaccini. Oggi si trova in terza posizione ma in pochi anni rischia, con la travolgente crescita indiana, di diventare quarta. Se le cose continuano così il declino e la marginalizzazione mi appaiono francamente inevitabili.
Dall’altro lato, in termini geo-strategici e di sicurezza la posizione europea è super delicata. Pressata com’è a est dal neo-imperialismo russo e a sud, nel Mediterraneo e nel Golfo, dall’affacciarsi di nuove potenze e nuovi protagonisti come Turchia e Iran, nonostante una spesa militare sì ingente (oltre 200 miliardi di euro l’anno ) ma del tutto scoordinata e quindi inutile alla creazione di campioni industriali europei, non può fare a meno dell’ombrello protettivo USA come è successo negli ultimi 70 anni.
Le due guerre in corso in Ucraina e in Israele testimoniano ciò in maniera solare. In base a questi due assunti le debolezze europee sono dunque evidenti: spiazzamento competitivo economico, industriale e demografico; fragilità geo-strategica e della sicurezza.
Abbiamo per contro punti di forza? Certamente almeno due: un grande mercato, anzi il più grande e ricco mercato del mondo (almeno per ora) non a caso concupito da economie non europee, ed un sistema di valori e istituzioni democratici saldo (sempre almeno per or ) e garante di diritti economici, sociali e civili che non ha eguali al mondo e che, non a caso, attira grandi flussi migratori.
Se si condivide questa analisi, e se per un attimo si lascia da parte la retorica europeista che crede di risolvere i problemi dell’oggi e di domani mattina con la stanca riproposizione di un modello ideale di Stati Uniti d’Europa difficile da attuare nel breve periodo, con un’unica politica estera, un sistema di difesa comune fuori dalla Nato, ed una transizione energetica tutta ideologica e destinata, se portata avanti così, a desertificare industrialmente il continente senza incidere per nulla sul climate change a livello mondiale, nella situazione data non restano molte strade da percorrere.
L’unica, riconoscendo onestamente l’impossibilità di rimanere soli, è perseguire con forza la realizzazione di una grande area di cooperazione euro-atlantica che veda in un’alleanza geostrategica, militare, economica e industriale USA/UE l’unica prospettiva realisticamente possibile in un mondo nel quale si registra una convergenza antioccidentale negli altri protagonisti.
All’interno di quest’area, che deve ovviamente coinvolgere alleati asiatici e ‘pacifici’ (in primis Giappone, Corea del Sud e Australia) vanno individuate complementarietà e sinergie economiche e industriali che possono esprimere una forza esponenziale.
Un’idea per gli amici di Aspen: sarebbe bello che due grandi centri di ricerca economica e industriale, uno statunitense l’altro europeo, iniziassero a studiare quali potrebbero essere i terreni industriali di questa possibile collaborazione. Tu fai questo, io faccio quello, tu investi lì io investo là, in un disegno coordinato e unitario soprattutto in tutte le aree del de-risking e cioè in tutte le aree industriali sensibili a questioni di sicurezza strategica: di nuovo, intelligenza artificiale, microprocessori, biotecnologie, farmaceutica e vaccini e aero-spazio.
Per le esperienze industriali maturate a livello internazionale ho visto molte volte opportunità e grandi potenzialità in questa ipotesi di cooperazione euro-atlantica. Basti ricordare nel settore automotive la straordinaria vicenda FIAT/Chrysler e il genio di Marchionne. Ma ci sono altre importanti aree di dialogo e possibile cooperazione industriale con gli USA.
Come siderurgici italiani abbiamo molto insistito, ad esempio, sulla necessità di accogliere la proposta dell’Amministrazione Biden di un’area di libero scambio Stati Uniti ed Europa estesa a Canada e Messicoper l’acciaio e l’alluminio, con l’eliminazione del dazio del 25% a suo tempo introdotto da Trump sulle importazioni di questi prodotti negli Usa. L’unica condizione richiesta dagli americani è che questo dazio possa essere mantenuto nei confronti di quei Paesi, fuori dall’area di libero scambio, che praticano unfair-trade, a partire dalla Cina.
L’ideologismo mercatista della Commissione Europea e le ambiguità della Germania, che di fatto rifiuta ogni provvedimento daziario nei confronti della Cina, hanno impedito questo accordo. L’Europa, nel non cogliere questa opportunità, ha fatto un grave errore ed ha mostrato la sua insipienza. Un’eventuale vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del novembre 2024 renderebbe tutto maledettamente più difficile.
E ancora: sulla definizione di green steel, e cioè sulle caratteristiche di processo e intrinseche che deve avere l’acciaio verde, la posizione italiana è molto più vicina a quella dell’Associazione dei siderurgici statunitensi che a quella di Eurofer (l’organizzazione dei siderurgici europei a cui aderisce anche l’italiana Federacciai).
Questa comunanza deriva dall’oggettivo fatto che la stragrande maggioranza dell’acciaio prodotto sia in Usa che in Italia è da forno elettrico e rottame quindi già largamente decarbonizzato.
I nostri amici americani di Nucor (la prima siderurgia Usa con oltre 24 milioni di tonnellate di acciaio prodotte ogni anno e che per più di 12 anni è stata socia di Duferco negli impianti italiani) produce acciaio da forno con utilizzo di rottame e di DRI (direct reduction iron). Nucor dispone di due grandi impianti di DRI (identici a quelli che dovrebbero essere installati a Taranto) uno in Lousiana e l’altro a Trinidad. Certamente l’esperienza di questo grande gruppo americano, amico dell’Italia, pur senza coinvolgimenti diretti sarebbe preziosissima per il processo di decarbonizzazione dell’Ilva e per il suo rilancio.
Una stretta cooperazione economica e industriale tra Stati Uniti d’America e Europa darebbe tra l’altro un sostrato e una ancor più grande giustificazione al permanere di una stretta alleanza militare della Nato di cui l’Europa non può fare a meno per la sua sicurezza. Cosa ne sarebbe stato dell’Ucraina senza gli aiuti militari degli Usa e del Regno Unito?
Allargando il ragionamento dall’economico e industriale ai temi strategici e della sicurezza il ruolo dell’Italia in uno schema del genere diventa importantissimo. Vediamo perché.
Nei prossimi anni la divisione con il Nord Africa si andrà attenuando e il baricentro europeo, oggi tutto concentrato sull’asse franco-tedesco, si abbasserà spostandosi verso il Mediterraneo.
In questo contesto la posizione geografica dell’Italia, che è sostanzialmente una gigantesca piattaforma logistica proiettata verso il Sud e l’Est; l’internazionalizzazione della sua economia e la sua capacità culturale, di empatia e di dialogo con i Paesi della sponda adriatica e del Nord Africa costituiscono un formidabile patrimonio non solo per noi ma per l’Occidente tutto.
L’Italia può e deve diventare il ‘traduttore’ dei valori civili, democratici, istituzionali dell’Occidente per quei Paesi che sono alla ricerca del benessere e di un riscatto economico ma anche di una via verso il progresso democratico. Grazie al solido ancoraggio atlantico mantenuto anche dal Governo Meloni e alla capacità di dialogo che ci contraddistingue possiamo svolgere questo ruolo molto meglio di altri Paesi europei il cui passato coloniale è molto più ingombrante del nostro.
Ci vuole un approccio al tempo stesso dialogante ma anche molto più sofisticato di quello usato dall’occidente nelle vicende recenti delle cosiddette ‘primavere arabe’ e della crisi libica; un approccio che la politica estera italiana e la sua diplomazia sono capaci di esprimere.
Il piano Mattei, a partire dalle iniziative in campo in Tunisia: la linea di connessione elettrica che Terna sta per realizzare; la disponibilità degli industriali energivori italiani a partecipare con il loro consorzio Interconnector al finanziamento della linea e alla realizzazione di impianti di energia rinnovabile e di produzione di idrogeno verde in quel Paese; l’iniziativa sull’acqua che grandi aziende italiane come Acea e Fisia potrebbero intraprendere; un primo accordo per la messa a disposizione dell’industria italiana di 4000 lavoratori tunisini opportunamente formati può diventare davvero un nuovo modello di intervento in Africa basato su una cooperazione concreta e fattiva.
Una delle grandi direttrici dello sviluppo mondiale nei prossimi 20 anni sarà in Africa.
L’Occidente non può lasciare il continente africano alla Cina e alla Russia, che vi opera con i mercenari della Wagner per proteggere clepto-dittature autoctone. L’Italia, se pensa in grande, può giocare una partita fondamentale. Abbiamo tutto per farlo, dobbiamo concentrarci su quella che gli americani chiamano execution.
La Russia ha ricominciato con azioni destinate a diffondere il “terrore energetico” in Ucraina con l’avvicinarsi dell’inverno. A lanciare l’allarme è il primo ministro ucraino, Denys Shmyhal.
“La fase del terrore energetico è già iniziata”, ha dichiarato il premier durante un forum economico, citato dall’agenzia di stampa Interfax-Ucraina. “Lo possiamo vedere nella distruzione delle infrastrutture energetiche” e nei “primi attacchi” contro le sottostazioni elettriche “nelle ultime due settimane”, ha aggiunto.
Il premier ucraino ritiene, però, che il Paese sia meglio preparato rispetto all’inverno precedente, quando gli attacchi di Mosca alle infrastrutture energetiche hanno regolarmente gettato milioni di persone nel buio e nel freddo. “Siamo molto più preparati e forti dell’anno scorso”, ha sottolineato, grazie soprattutto alla fornitura di sistemi di difesa aerea occidentali. “L’inverno sarà sicuramente duro, non certo più facile dell’ultimo”, ma “sappiamo cosa sta facendo il nemico e quali sfide ci attendono”, ha aggiunto Shmygal.
Quasi ogni notte, la Russia bombarda le città ucraine con missili e droni kamikaze. Giovedì, una nuova salva di oltre 40 missili da crociera ha ucciso tre persone a Kherson, nel sud, e ne ha ferite sette nella capitale, Kiev. Sebbene la maggior parte dei missili sia stata abbattuta, alcuni hanno colpito infrastrutture civili, secondo le autorità ucraine.
Per la prima volta in sei mesi, gli impianti energetici nell’ovest e nel centro del Paese sono stati danneggiati dagli attacchi russi, causando interruzioni di corrente in diverse regioni, ha riferito il fornitore ucraino Ukrenergo su Telegram.
La Cina produce molto ma non esporta, la Russia domina il commercio e detta le regole: una panoramica del mercato del grano, cereale essenziale per il pane, che solo una decina di Paesi al mondo è in grado di esportare.
Semola, farina o pane: “Tutti mangiano il grano, ma non tutti sono in grado di produrlo“, sintetizzava l’economista francese Bruno Parmentier, autore di ‘Nourrir l’humanité’, nel luglio 2022.
Frutto dei climi temperati, nato in Mesopotamia, il grano tenero consumato oggi da miliardi di esseri umani può diventare un vettore di guerra, quando manca o la sua mobilità è ostacolata.
Ad agosto, l‘International Grain Council (IGC), che riunisce i principali Paesi importatori ed esportatori del mondo, ha previsto una produzione mondiale di grano di 784 milioni di tonnellate nel 2023-24, in leggero calo del 2,4% rispetto all’anno precedente.
Solo una decina di Paesi produce abbastanza da poter esportare: la Cina, di gran lunga il maggior produttore mondiale con 138 milioni di tonnellate nel 2022-23, importa ancora più di 10 milioni di tonnellate all’anno per nutrire i suoi 1,4 miliardi di abitanti, tenendo sempre a disposizione un’enorme scorta.
Dopo un raccolto record di 92-100 milioni di tonnellate nel 2022-23, a seconda delle fonti, la Russia è “sulla buona strada per avere il secondo miglior raccolto di sempre“, secondo Sébastien Poncelet, specialista del mercato dei cereali di Agritel (gruppo Argus media), che prevede circa 90 milioni di tonnellate.
In quanto primo esportatore mondiale, con 46 milioni di tonnellate nel 2022-23 secondo le stime dell’USDA, la Russia da sola potrebbe rappresentare un quarto del commercio mondiale di grano quest’anno. Dietro Mosca, i principali esportatori sono il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti, che dovrebbero scendere sotto i 20 milioni di tonnellate, il livello più basso degli ultimi 50 anni, e la Francia. L’Ucraina, che prima della guerra stava per diventare il terzo esportatore mondiale, dovrebbe esportare solo 10 milioni di tonnellate, secondo l’USDA.
Secondo Sébastien Abis, ricercatore associato presso l’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), dal 2018 la Turchia è il principale cliente di grano della Russia, seguita dall’Egitto: questi due Paesi rappresentano il 40% delle esportazioni russe. Seguono Iran e Siria. L’esperto sottolinea che il grano russo sta facendo progressi costanti sul mercato delle esportazioni e si sta ritagliando uno spazio tra i clienti tradizionali, dall’Europa occidentale al Maghreb e all’Africa subsahariana.
Secondo l’Istituto africano per gli studi sulla sicurezza (ISS), nel 2020 il commercio totale tra Russia e Africa ammontava a circa 14 miliardi di dollari, rispetto ai 295 miliardi di dollari con l’Unione europea, ai 254 miliardi di dollari con la Cina e ai 65 miliardi di dollari con gli Stati Uniti. Inizialmente incentrato su energia e armi, questo commercio si è esteso sempre più alle materie prime agricole, in particolare al grano.
Sebbene il grano non sia un alimento base nella maggior parte dell’Africa, rimane un’importante fonte di calorie in molti Paesi, in particolare nei centri urbani, dove la mancanza di pane può portare rapidamente a rivolte.
Secondo uno studio dell’IFPRI (International Food Policy Research Institute), tra il 2019 e il 2021, il grano destinato all’Africa subsahariana rappresenterà in media circa il 18% delle esportazioni annuali totali di questo cereale da parte della Russia. I volumi, pur non essendo enormi, non sono insignificanti: 3,9 milioni di tonnellate di grano russo nel 2022-23 (poco meno del 20% delle importazioni di grano della regione, ma in calo rispetto ai 4,5 milioni di tonnellate del 2021-22).
La Russia, che ha intensificato le promesse di forniture a basso costo all’Africa, “non ha compensato” il calo delle esportazioni ucraine, che si sono più che dimezzate a 701.000 tonnellate nel 2022-23, sottolinea lo studio. Il Corno d’Africa, la Liberia e il Madagascar sono tra i Paesi più dipendenti dalle importazioni di grano russo.
Fine degli accordi del Mar Nero. La Russia ha annunciato di non essere disposta a rinnovare l’intesa – in scadenza il 17 luglio – sull’esportazione di grano ucraino, cruciale per le forniture alimentari mondiali. E la conferma è arrivata a poche ore dall’attacco ucraino che ha parzialmente distrutto per la seconda volta il ponte strategico che collega la Russia alla penisola di Crimea, annessa nel 2014.
Firmata nel luglio 2022 con Russia e Ucraina sotto l’egida della Turchia – Paese facilitatore – e delle Nazioni Unite e già rinnovata due volte, la ‘Black Sea Grains Initiative’ mira ad alleviare il rischio di carestia nel mondo assicurando, nonostante la guerra, l’immissione sul mercato di prodotti agricoli ucraini. Garantendo la sicurezza del traffico merci nel Mar Nero in partenza dai porti ucraini, l’accordo, che richiede l’ispezione delle navi da parte dei rappresentanti dei quattro firmatari, ha consentito l’esportazione di quasi 33 milioni di tonnellate sin dal suo inizio, il 1 agosto 2022, principalmente grano e mais.
Ma il Cremlino ha ignorato gli appelli che si sono moltiplicati negli ultimi giorni per il rinnovo dell’accordo, spiegando che la decisione “è definitiva”. Tuttavia, il ministero degli Esteri, ha rilanciato la palla: “se le capitali occidentali apprezzano davvero l’iniziativa del Mar Nero“, allora dovrebbero prendere “seriamente” in considerazione “l’adempimento dei loro obblighi e rimuovere effettivamente i fertilizzanti e i prodotti alimentari russi dalle sanzioni”. Solo quando si otterranno “risultati concreti, e non promesse e rassicurazioni”, la Russia sarà pronta a prendere in considerazione il ripristino dell’accordo. E il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è detto convinto che il suo “amico Putin” voglia ripensarci.
Immediata la replica dell’Onu, che attraverso il Segretario generale Antonio Guterres, ha spiegato che “centinaia di milioni di persone stanno affrontando la fame” e saranno proprio loro a “pagare il prezzo” dello stop all’accordo. Per Save the children saranno “milioni di bambini in più in tutto il mondo” a soffrire maggiormente.
L’ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, ha accusato Mosca di “prendere in ostaggio l’umanità“, mentre la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, insieme a Londra, Parigi e Berlino, ha definito “cinica” la decisione russa e ha spiegato che l’Unione europea “sta lavorando per garantire la sicurezza alimentare per le persone vulnerabili del mondo e le corsie di solidarietà continueranno a portare i prodotti agroalimentari dall’Ucraina ai mercati globali”.
La questione, ha invece assicurato il titolare della Farnesina, Antonio Tajani, sarà affrontata al vertice sulla sicurezza alimentare che si terrà a Roma il 24 luglio, ma in ogni caso “siamo già al lavoro per soluzioni alternative”. E per la premier, Giorgia Meloni, la decisione della Russia di interrompere l’accordo del grano “è l’ulteriore prova su chi è amico e chi è nemico dei paesi più poveri”. “Riflettano – ha detto – i leader di quelle nazioni che non vogliono distinguere tra aggredito e aggressore. Usare la materia prima che sfama il mondo come un’arma è un’altra offesa contro l’umanità”.
L’Ucraina, da parte sua, ha dichiarato di voler continuare a esportare il suo grano attraverso il Mar Nero, con o senza la firma dell’accordo da parte di Mosca. “Non abbiamo paura”, ha detto il presidente Volodymyr Zelensky.
Sul fronte economico, con la mancata proroga dell’accordo, mancheranno dai mercati mondiali 32,8 milioni di tonnellate di grano, mais e olio di girasole che sono partiti dai porti Ucraini del Mar Nero nell’anno di attuazione dell’intesa. Secondo i dati elaborati da Coldiretti, l’intesa è stata “anche per fronteggiare il pericolo carestia in quei 53 Paesi dove secondo l’Onu, la popolazione spende almeno il 60% del proprio reddito per l’alimentazione. Un pericolo quindi anche per la stabilità politica proprio mentre si moltiplicano le tensioni sociali ed i flussi migratori, anche verso l’Italia”.
Cina e Russia investiranno 1,4 miliardi di dollari per aprire due miniere di litio in Bolivia. Lo ha annunciato il governo del Paese sudamericano, che dispone di grandi quantità di questo metallo necessario per le batterie delle auto elettriche. La cinese Citic Guoan e la russa Uranium One Group, due gruppi con grandi partecipazioni statali, uniranno le forze con la società statale Yacimientos de Litio Bolivianos (YLB) per costruire due impianti di produzione di carbonato di litio, ha dichiarato il presidente boliviano Luis Arce durante un evento pubblico.
Secondo il piano presentato dal governo, Uranium One Group metterà sul piatto 578 milioni di dollari (532 milioni di euro) per un impianto nel deserto di sale di Pastos Grandes, mentre Citic Guoan investirà 857 milioni di dollari (789 milioni di euro) per un progetto simile nel deserto di sale di Uyuni. Entrambi i siti si trovano nel dipartimento sud-occidentale di Potosi. Il ministero boliviano degli Idrocarburi e dell’Energia ha dichiarato che “ogni complesso avrà una capacità produttiva di 25.000 tonnellate metriche all’anno“. I lavori inizieranno entro tre mesi. I rappresentanti delle tre parti erano presenti alla firma del contratto.
A gennaio, il governo boliviano ha firmato un altro accordo con il consorzio cinese CBC per due fabbriche di batterie al litio, per un valore di almeno un miliardo di dollari (920 milioni di euro). Il litio è un metallo essenziale per la produzione di batterie per veicoli elettrici e ibridi e per altri tipi di sistemi di accumulo di energia. È diventato una risorsa strategica in vista della necessità di rendere il settore automobilistico più ecologico, anche se il riciclaggio delle batterie usate è ancora un problema.
La Bolivia stima che nel deserto di sale di Uyuni siano disponibili 21 milioni di tonnellate di litio e sostiene che si tratti del più grande giacimento al mondo. Tuttavia, il Paese sudamericano fatica a sfruttare le sue immense riserve per ragioni geografiche e topografiche, ma anche per tensioni politiche e mancanza di know-how. Il ministero degli Idrocarburi e dell’Energia ha dichiarato a gennaio che prevede di esportare litio per un valore di 5 miliardi di dollari (4,6 miliardi di euro) entro il 2025, che supererebbe le entrate generate dal gas naturale, la principale fonte di reddito della Bolivia nel 2022 con 3,4 miliardi di dollari (3,1 miliardi di euro).
Le sanzioni dell’Unione europea contro la Russia funzionano, ma meno di quanto la stessa Unione potesse auspicare. Perché “il volume delle esportazioni russe di petrolio, il suo principale prodotto di esportazione, è effettivamente aumentato nonostante le sanzioni dell’Ue e del G7”. La Banca centrale europea fa il punto della situazione e il risultato di questa valutazione condotta dagli esperti di Francoforte mostra una Federazione russa molto attiva e con le casse ancora piene. Certo, il Cremlino ha dovuto modificare i listini vendendo il greggio scontato, a 48 dollari al barile (prezzi aggiornati a febbraio 2023) rispetto agli 83 dollari al barile per il Brent, ma vendendo di più a meno si riducono le perdite, che non sono poche.
Sulla scia dell’aggressione all’Ucraina e delle conseguenti sanzioni Ue “la Russia ha gradualmente ridotto i flussi di gas naturale verso l’Europa”. Il risultato è che a febbraio 2023 “le importazioni di gas dalla Russia verso l’Europa sono risultate inferiori del 90% rispetto alla loro media storica”. Un ‘vuoto’ commerciale colmato cambiando acquirenti. Mosca “ha reindirizzato i flussi dall’Europa verso la Cina e la Turchia, nonché verso nuovi partner commerciali in India, Africa e Medio Oriente”. Così facendo si continua a vendere quel greggio che gli europei hanno deciso di non chiedere più.
Diverso il capitolo relativo al gas naturale. Qui le esportazioni tramite gasdotto “si sono dimostrate più difficili da reindirizzare, poiché richiedono ampie infrastrutture per esportare verso destinazioni più lontane”. Per cui, a vendo chiuso i suoi gasdotti verso l’Europa, la Russia è stata “solo parzialmente” in grado di compensare le esportazioni di gas aumentando i flussi di gasdotto verso la Cina e vendendo più gas naturale liquefatto (Gnl) al mercato mondiale. “Complessivamente, le esportazioni di gas russo nel 2022 sono state inferiori di circa il 25% rispetto al 2021”. Emerge comunque un dato: le risorse naturali energetiche russe alimentano l’economia cinese, con ciò che ne deriva per la concorrenza internazionale e mondiale, oltre che per i finanziamenti della macchina da guerra di Putin.
Gli esperti della Banca centrale europea continuano a ritenere che ad ogni modo le prospettiva di crescita di lungo periodo siano, per la Russia, “ridotte”. Ma fin qui il Paese ha saputo rispondere alla sanzioni dell’Ue grazie in particolare alla Cina e, in maniera minore, l’India.
Per non farci prendere in contropiede e per non dover vivere un’estate con l’angoscia di non farcela, l’Italia ha cominciato con largo anticipo le procedute di ristoccaggio del gas. Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha già allertato l’Arera e le aziende di stoccaggio per accelerare le pratiche. Si parla di controflusso e si è fissato un target a 1,4 miliardi di metri cubi. Intanto, al 12 marzo, lo stoccaggio italiano è al 56,90%, lievemente sopra la media Ue (56,50%), comunque nella parte bassa della classifica europea in cui la Francia occupa l’ultimo posto con poco più del 32%.
In attesa che cominci a funzionare il rigassificatore di Piombino (la Golar Tundra è in navigazione verso il Tirreno) e distribuisca il gnl, nella speranza che il Piano Mattei pubblicizzato dalla premier Giorgia Meloni passi dallo stadio della progettualità a quello della pratica (ma non può essere una soluzione immediata), continuiamo ad abbeverarci dai soliti osti: Algeria, Azerbaijan, Norvegia, Libia e Russia. Intanto il prezzo del gas è in lenta discesa ma, immaginiamo, appena tutti i paesi riprenderanno a stoccare un rincaro ci sarà. Lieve, pontificano gli esperti.
E’ per questo che, saggiamente, il governo ha pensato bene di anticipare le operazioni e mettere al sicuro il prossimo inverno. Va detto che il Mase ha potuto contare sull’esperienza e le buone pratiche introdotte da Roberto Cingolani, ex ministro della Transizione ecologica, e dall’esecutivo di Mario Draghi. Quel ministro e quel presidente del Consiglio, costretti a fronteggiare una emergenza grave ed improvvisa, si erano industriati per fare in maniera che l’Italia non rimanesse prima al caldo (già l’effetto condizionatori) e poi al gelo, fatto salvo che questo inverno – ormai all’epilogo – è stato particolarmente clemente con le temperature e non c’è stato il temutissimo termosifone selvaggio.
Cingolani – che del governo Meloni è un consulente esterno – ha tracciato la rotta sfruttando un bagaglio di competenze (nazionali e internazionali) enorme e una credibilità totale. Se adesso tutto funziona e la crisi energetica ci ha toccato ma non travolto, il merito è soprattutto suo, perché ha saputo guardare oltre ‘l’oggi per domani’. Gli va dato pieno merito, come va sottolineato il profilo basso scelto dall’ex ministro per non creare ingorghi istituzionali ed eventuali malumori. Pichetto Fratin, che è stato viceministro dello Sviluppo economico con Giancarlo Giorgetti, ha raccolto quella grassa eredità e, intelligentemente, non si è scostato dal solco ormai tracciato e performante. Esempi: è andato a Bruxelles e ha raccolto i mesi di lavoro ai fianchi fatto da Draghi & Cingolani sul price cap, poi si è posizionato sulla ‘vexata quaestio’ delle auto a motore endotermico e adesso ha agito in contropiede per gli stoccaggi. Gioco di squadra?
Il rinnovo dell’accordo sul grano si complica. Sergei Lavrov inizia a preparare il terreno per un nuovo braccio di ferro con la comunità internazionale a pochi giorni dalla scadenza del patto che ha permesso la ripresa delle esportazioni di cereali dai porti ucraini, nonostante l’offensiva di Mosca.
“Se l’accordo è attuato a metà, allora la questione della sua estensione diventa piuttosto complicata“, è l’affondo del ministro degli Esteri russo, secondo il quale le clausole destinate a favorire la Federazione non sarebbero state attuate “affatto“.
La ‘Black Sea Grain Initiative’, il nome ufficiale dell’accordo, deriva da un patto siglato il 22 luglio che ha contribuito ad alleviare la crisi alimentare globale causata dall’attacco russo all’Ucraina. Vitale per le forniture alimentari globali, l’accordo è stato rinnovato a metà novembre per i quattro mesi invernali e scade il 18 marzo.
Il prossimo 13 marzo a Ginevra si tengono nuove consultazioni sull’accordo, al quale parteciperà anche la delegazione interdipartimentale russa, con i rappresentanti delle Nazioni Unite. Ieri il segretario generale, Antonio Guterres, ha lanciato un nuovo monito da Kiev: estendere l’accordo è “cruciale“, ha ricordato, invitando a “creare le condizioni per utilizzare al meglio l’infrastruttura di esportazione“. L’intesa ha permesso di sbloccare 23 milioni di tonnellate di grano dai porti ucraini. L’accordo “ha contribuito ad abbassare il costo globale del cibo e ha fornito un’assistenza cruciale alle persone che stanno pagando un prezzo pesante per questa guerra, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo“, ha precisato il capo delle Nazioni Unite.Il grano e i fertilizzanti ucraini e russi sono “essenziali per la sicurezza alimentare globale e per i prezzi dei prodotti alimentari“, in un contesto di inflazione diffusa in molti Paesi del mondo.
Martedì l’Ucraina ha invocato l’impegno della comunità internazionale per mantenere aperte le rotte marittime del Mar Nero e, al vertice del G20 di inizio marzo, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha cercato la mediazione con la Russia nel tentativo di far andare avanti i negoziati. Mosca, da parte sua, sostiene che la parte dell’accordo che avrebbe dovuto consentirle di esportare fertilizzanti senza le sanzioni occidentali non viene pienamente rispettata. “I nostri colleghi occidentali, gli Stati Uniti e l’Unione Europea, dicono pateticamente che non ci sono sanzioni su cibo e fertilizzanti, ma questa non è una posizione onesta“, scandisce Lavrov. Di fatto, spiega, “le sanzioni vietano alle navi russe che trasportano Grano e fertilizzanti di entrare nei porti appropriati e vietano alle navi straniere di entrare nei porti russi per prendere questi carichi”. “Il prezzo dell’assicurazione per le navi – fa sapere – è quadruplicato a causa delle sanzioni“.