Cingolani: “Transizione ecologica rapida, ma senza lasciare indietro nessuno”

Il percorso verso la transizione energetica, in Italia, procede nonostante la crisi legata alle forniture di gas e petrolio e la riattivazione delle miniere di carbone. Il Consiglio europeo su energia e ambiente si è concluso con risultati che lasciano ben sperare. Al rientro dalla sua missione in Lussemburgo, il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani ripercorre le tappe più salienti toccate nel corso dell’incontro. Lo fa, innanzi tutto, con una breve ma trasparente introduzione: “Questi due giorni di lavori hanno dimostrato ancora una volta che stiamo mettendo in atto molte iniziative e stiamo facendo qualcosa di unico al mondo. Le scelte che sono state prese vanno nell’auspicata direzione di una transizione ecologica rapida ma che non lascia nessuno indietro”.

Per quanto riguarda il pacchetto ‘Fit for 55‘ è stato concordato l’orientamento generale sul testo di due direttive cruciali: ‘Fonti Rinnovabili’ ed ‘Efficienza Energetica’. I ministri hanno raggiunto un accordo che impegnerà i Paesi dell’Unione a produrre almeno il 40% di energia da fonti rinnovabili entro il 2030 e di realizzare interventi di efficientamento, che permettano di ridurre il consumo di energia del 9% rispetto ai livelli previsti nel 2030.

Ridurre le emissioni è anche il motivo per cui c’è stata la conferma del phase-out per i motori a benzina e diesel entro il 2035. Una misura che, nonostante risulti appropriata per l’obiettivo di riduzione delle emissioni, preoccupa, non poco, il Paese a livello di posti di lavoro. Tuttavia, Cingolani assicura: “Per il settore automotive sono stati raggiunti importanti risultati per assicurare una transizione verso una mobilità a zero emissioni sostenibile sia dal punto di vista tecnico che socio-economico”. Infatti, in tale ambito l’Italia ha ottenuto un percorso di transizione senza strappi per garantire l’eccellenza italiana delle piccole produzioni di automobili e furgoni. “È stata inoltre raggiunta un’apertura importante per l’utilizzo di carburanti sintetici a impatto ambientale zero (o comunque molto basso) che consentono la riduzione sostanziale della Co2 anche utilizzando motori tradizionali”, la sottolineatura.

Questa soluzione ripristina il principio della neutralità tecnologica del pacchetto normativo garantendo che tutte le tecnologie possano contribuire al processo di decarbonizzazione a tutela dei paesi e le fasce più deboli che potrebbero non essere in grado di completare la transizione alla mobilità elettrica entro la data prevista, garantendo comunque la decarbonizzazione.

Dalla differenziata alla doggy bag: le nostre scelte ‘sostenibili’

Cresce l’impegno personale e l’attenzione alla sostenibilità ambientale da parte dei cittadini. Poco alla volta, quelle che prima erano accortezze saltuarie, diventano consuetudini volte a rendere il pianeta più vivibile, per noi e per le generazioni future. L’osservatorio sugli sprechi Waste Watcher creato da Last Minute Market ha condotto un’indagine internazionale sulle ‘scelte sostenibili’ prendendo in considerazione otto Paesi del mondo: Cina, Usa, Russia, Regno Unito, Canada, Germania, Spagna e Italia, con campione statistico di 8mila interviste.

Il risultato? La medaglia d’oro va alla raccolta differenziata: quasi un plebiscito che il 92% dei cittadini dichiara di realizzare ogni giorno. Segue l’attenzione alla prevenzione e riduzione degli sprechi alimentari (91%), la riduzione degli acquisti con imballaggi di plastica (90%), il consumo di cibo proveniente da allevamenti rispettosi degli animali (88%) e la riduzione dell’acquisto dei prodotti con imballaggi usa e getta (88%).

sostenibilità

LISTA DELLA SPESA

Lo studio evidenzia inoltre diverse strategie messe in atto dai consumatori del pianeta. Risulta – ad esempio – che la vecchia economia domestica non è ancora stata prevaricata dalla tecnologia. Dall’indagine diffusa da Spreco Zero emerge, infatti, che la classica lista della spesa è ancora di moda per il 70% della popolazione e che il ricorso alle app salvacibo resta un’abitudine ristretta a non più del 9% degli intervistati.

CIBO IN SCADENZA

È pratica diffusa nei Paesi europei e anglofoni l’assaggio del cibo appena scaduto, per accertarsi se sia ancora consumabile prima di gettarlo: lo fanno soprattutto spagnoli, inglesi, tedeschi e canadesi (oltre 4 cittadini su 5), a ruota seguono Italia e Stati Uniti, meno convinti di questa pratica i cinesi, solo 1 cittadino su 2.

DOGGY BAG

Gli italiani e in generale i cittadini europei sembrano piuttosto timidi e impacciati con la ‘doggy bag‘ al ristorante: la chiedono solo 4 clienti su 10 che non riescono a consumare il proprio pasto.

È emergenza oceanica, Onu: “Agire subito”

Migliaia di politici, esperti e attivisti ambientali si sono riuniti a Lisbona per sostenere l’appello delle Nazioni Unite a lavorare per preservare la fragile salute degli oceani ed evitare “effetti a cascata” che minacciano l’ambiente e l’umanità.

Purtroppo, abbiamo dato per scontato l’oceano. Attualmente stiamo affrontando quello che definirei uno stato di emergenza oceanica“, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite. “La nostra incapacità di preservare l’oceano avrà effetti a cascata“, ha sottolineato nel suo discorso di apertura della conferenza, che durerà cinque giorni, più volte rinviata a causa della pandemia.

I mari, che coprono più di due terzi della superficie del pianeta, generano metà dell’ossigeno che respiriamo e rappresentano una fonte vitale per la vita quotidiana di miliardi di persone. L’oceano svolge anche un ruolo chiave per la vita sulla Terra mitigando gli impatti dei cambiamenti climatici. Ma pagano un prezzo altissimo.

Assorbendo circa un quarto dell’inquinamento da CO2, con un aumento di emissioni del 50% negli ultimi 60 anni, il mare è diventato più acido, destabilizzando le catene alimentari acquatiche e riducendo la sua capacità di catturare sempre più gas carbonici. E, assorbendo oltre il 90% del calore in eccesso causato dal riscaldamento globale, l’oceano sta subendo potenti ondate di calore che stanno distruggendo preziose barriere coralline e diffondendo zone morte prive di ossigeno.

Abbiamo ancora poca idea dell’entità della devastazione provocata dai cambiamenti climatici sulla salute degli oceani“, ha spiegato Charlotte de Fontaubert, la principale esperta di economia blu della Banca mondiale. Al ritmo attuale, l’inquinamento da plastica triplicherà entro il 2060, raggiungendo un miliardo di tonnellate all’anno, secondo un recente rapporto dell’Ocse. Le microplastiche causano già la morte di un milione di uccelli e di oltre 100mila mammiferi marini ogni anno. I partecipanti alla riunione di Lisbona discuteranno proposte per affrontare questo problema, che vanno dal riciclaggio al divieto totale dei sacchetti di plastica.

All’ordine del giorno c’è anche il problema della pesca intensiva. “Almeno un terzo degli stock ittici selvatici è sovrasfruttato e meno del 10% dell’oceano è protetto“, ha detto Kathryn Mathews, direttrice scientifica dell’Ong americana Oceana. “I pescherecci illegali devastano impunemente le acque costiere e in alto mare“, ha aggiunto.

I dibattiti verteranno anche su una possibile moratoria volta a proteggere i fondali marini dall’attività mineraria alla ricerca di metalli rari necessari alla fabbricazione delle batterie per il fiorente settore dei veicoli elettrici. Molti ministri e alcuni capi di Stato, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, atteso giovedì, prenderanno parte alla conferenza che, però, non vuole diventare una sessione formale di negoziazione. Alcuni partecipanti coglieranno comunque l’occasione per difendere un’ambiziosa politica a favore degli oceani in vista dei due vertici cruciali che si terranno a fine anno: la conferenza delle Nazioni Unite sul clima COP27, che si svolgerà a novembre in Egitto, seguita a dicembre dalla tanto attesa conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità COP15, che si svolgerà in Canada sotto la presidenza cinese.

 

(Photo credits: CARLOS COSTA / AFP)

nucleare

Gli italiani dicono ‘no’ a gas fossile e nucleare ‘verdi’

Gas fossile e energia nucleare sono ‘verdi’? Per la maggioranza dei cittadini italiani no. Un nuovo sondaggio del Wwf mostra che solo il 29% della popolazione pensa che l’Unione Europea dovrebbe classificare l’energia nucleare come sostenibile dal punto di vista ambientale. Per quanto riguarda il gas fossile, solo il 35% ritiene che l’Ue dovrebbe assegnare a questa fonte energetica un’etichetta verde. Plebiscitario invece il sì all’energia solare (92%) e a quella eolica (88%). In particolare, in Italia, solo il 26% degli intervistati ritiene che l’energia nucleare dovrebbe essere classificata come energia ambientalmente sostenibile, mentre il 96% dei cittadini è d’accordo che l’etichetta verde sia assegnata all’energia solare e il 91% pensa altrettanto per l’eolico. Solo il 38% degli intervistati pensa che l’Unione Europea dovrebbe ritenere il gas fossile una fonte sostenibile.

Non c’è assolutamente alcun consenso pubblico per il piano della Commissione di considerare come ’sostenibili’ il gas fossile e gli impianti nucleari. Ciò che i cittadini considerano ‘verdi’ sono l’energia solare ed eolica, non i combustibili sporchi e obsoleti”, ha dichiarato Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia, lanciando un appello agli eurodeputati, ovvero quello di ascoltare il loro elettorato e di bloccare questa proposta. L’Ue sta per approvare, infatti, l’elenco di fonti di energia ‘verdi’ come parte della sua nuova guida agli investimenti, la Tassonomia Ue. Di conseguenza, c’è il forte rischio che miliardi di euro siano dirottati dall’eolico, dal solare e da altre tecnologie verdi verso il gas fossile e l’energia nucleare, di fatto rallentando ancora la transizione e con essa la sicurezza e l’indipendenza energetica. Se gli eurodeputati non respingeranno l’Atto sulla tassonomia verde, questa diventerà legge dell’Ue.

packaging

Il 98% aziende del Food investe in sostenibilità: attenzione ai packaging

Il 2021 ha segnato una forte ripresa nel settore del food, con una crescita record del 6,8%, superiore a quella del Pil (6,6%). La crescita si protrarrà anche nel 2022 e nel 2023, con tassi intorno al 4% annuo, più del doppio del Pil. È quanto emerge dal Food Industry Monitor (FIM), l’Osservatorio sul settore food realizzato dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e da Ceresio Investors. Giunto alla sua ottava edizione, l’Osservatorio è dedicato quest’anno all’analisi del rapporto tra innovazione e crescita sostenibile delle aziende alimentari, con un focus sulle aziende familiari e le specificità dei loro modelli di business.

PREZZI MATERIE PRIME

La redditività commerciale (ROS) ha raggiunto il 6,5% nel 2021, e le proiezioni indicano una sostanziale tenuta anche per 2022, nonostante le forti tensioni sui prezzi delle materie prime. La struttura finanziaria delle aziende del settore resta solida, con una lieve crescita del tasso di indebitamento. Nel 2021 le esportazioni hanno ripreso a crescere con un tasso superiore al 10%, in forte rimbalzo rispetto al -0,4% del 2020. Le esportazioni continueranno a crescere, ma a tassi molto più contenuti fino al 2023. I comparti delle farine e del caffè saranno interessati nel 2022 da una crescita a due cifre, questo anche per effetto dell’aumento dei costi delle materie prime. Faranno bene anche i comparti dell’olio, dei surgelati e del latte. Il vino crescerà del 4,8%, appena al di sotto della media settoriale. I comparti più dinamici per le esportazioni nel 2022 saranno: distillati, birra, latte e soft drink, ma anche vino e pasta fanno bene nell’export.

PERFORMANCE DI SOSTENIBILITÀ

L’analisi delle performance di sostenibilità evidenzia che il 98% delle aziende utilizza del tutto o in parte materie prime a ridotto impatto ambientale. Circa l’88% delle aziende usa in via esclusiva o prevalente packaging sostenibili. Circa il 57% ha ottenuto una o più certificazioni inerenti alla sostenibilità ambientale e il 30% circa pubblica un bilancio di sostenibilità, mediamente da almeno tre anni. “Materie prime a ridotto impatto ambientale significa che sono state prodotte secondo criteri quali il km zero o l’agricoltura biologica, con fonti di energia rinnovabile e/o packaging da materie prime riciclate. La tendenza è molto diffusa, anche se utilizzata in modo non esclusivo”, ha precisato Carmine Garzia, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio, docente di Management presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. “Se dunque il 98% delle aziende utilizza del tutto o in parte materie prime sostenibili, solo un 22% le utilizza in modo prevalente. Rispetto ai dati dello scorso anno, le imprese stanno comunque incrementando in modo significativo gli investimenti in sostenibilità”, ha aggiunto.

SOCIETÀ FAMILIARI

Le società familiari hanno un ruolo preponderante nel settore del food. Il 78% del campione di aziende analizzato è controllato da una o più famiglie. L’86% ha un Consiglio d’Amministrazione interamente composto da membri della famiglia, l’11% è caratterizzato da una composizione del CdA mista, che comprende membri esterni e interni alla famiglia; il 3% ha un CdA composto interamente da membri esterni. Solo l’8% delle imprese analizzate ha un CEO esterno alla famiglia: “Un elemento su cui riflettere – sottolinea Alessandro Santini, Head of Corporate & Investment Banking per Ceresio Investors – se si considera che circa il 65% delle aziende è attualmente gestito dalla prima generazione di imprenditori, il 30% dalla seconda e poco più del 4,5% riesce a giungere alla terza e quarta generazione. In molti casi insomma non si considerano i benefici di un modello gestionale aperto, che preveda l’affiancamento di manager esterni a membri familiari, e questo è spesso una delle cause di forte freno allo sviluppo. In taluni casi può minare la continuità familiare dell’azienda”. In generale, comunque, le aziende familiari che riescono a mantenere una guida solida e stabile hanno performance di redditività e produttività superiori a quelle con un CEO non familiare. “I dati dimostrano che la scelta vincente è un management team con membri della famiglia affiancati da manager professionisti, cosa che consentirebbe alle aziende di ottenere migliori performance di redditività (ROS) e soprattutto di costruire un profilo di sostenibilità più solido”, conclude Gabriele Corte, direttore generale di Banca del Ceresio.

gio evan

Gio Evan, cantautore green: “Condizioniamo il sistema”

Chi si immagina la vita dell’artista come un continuo ballo in maschera forse non ha mai conosciuto Gio Evan. Scrittore, poeta, cantautore, all’attivo persino una partecipazione al Festival di Sanremo. Ma la sua quotidianità è ben lontana dal glitterato mondo dello spettacolo. È fatto di spiritualità e, soprattutto, è molto ‘green’. Tanto che il cantautore vive in montagna e lì, racconta a GEA, “si pratica la tranquillità, è una terra contadina, si segue il calendario dell’agricoltura. Non ci interessa il giorno della settimana ma se piove, così non dobbiamo annaffiare, o se c’è il sole così possiamo arare. Noi pratichiamo la lentezza da ben prima che ci fosse la pandemia. E siamo contenti di continuare a esercitarla”.

Evan, però, non ha problemi a conciliare i due stili di vita. Anzi. “Quel che faccio al di fuori del mondo agricolo è che pratico arte e l’arte si sposa bene con tutto, è come un abito nero. Sono molto contento di essere un personaggio pubblico, vuol dire che c’è un interesse per persone come me che non c’entrano niente con questo ambiente. Dovrebbe essere così per tutti, più naturale”. L’indicazione del cantautore è chiara: “Bisognerebbe riavvicinarsi a una vita green, più ecosostenibile e più bella. Spesso quando vado in città vedo una marea di tristezza e penso: ‘Da quanto non vedete un bosco? Ma cavolo, vacci’. Siamo tristi perché non possiamo esercitare la natura che è fondamentale. Prendersi tempo per andare al fiume, in montagna, al mare: quello è riallacciarsi alla vita”.

E, forse anche per questo, Gio Evan non è contrario alla ‘moda’ della sostenibilità. “Certo – riflette -, c’è una strumentalizzazione. Ma la moda non è sempre un male. Anzi, a volte lascia un’impronta forte. Il sistema deve per forza seguire dove va il cliente e se tutti ci spostiamo possiamo dirigerlo. È un potere che dovremmo sfruttare di più, il sistema ci ascolterebbe”.

Il suo stile di vita, il cantautore lo porta anche nella musica. Come nel suo nuovo singolo, ‘Hopper‘, ispirato dal pittore che definisce “un perfezionista della solitudine”. Proprio come lui, che ama stare da solo in mezzo alla natura e praticare la lentezza. Ma che poi è anche bravissimo a radunare le persone che hanno la sua stessa visione. Come succederà con ‘Evanland’, il Festival Internazionale che si svolgerà al Carroponte il 1 luglio. Una giornata di workshop, incontri, laboratori, spettacoli, concerti e letture che spazieranno fra il gioco, la spiritualità, la sostenibilità e l’arte. “Perché – sintetizza Gio Evan – in un mondo dove i malvagi sono ben organizzati tra loro, occorre che i buoni si riuniscano e scendano dalle loro montagne per darsi appuntamento”.

(Photo credits: Valentina Ceccatelli)

Il coleottero giapponese minaccia la Francia

Il coleottero giapponese, un pericolo per centinaia di specie vegetali, potrebbe presto essere introdotto in Francia, ha avvertito l’Agenzia nazionale francese per la salute e la sicurezza (Anses), raccomandando una maggiore sorveglianza e vari mezzi di controllo. Il coleottero giapponese (Popillia japonica) è stato avvistato in Italia nel 2014 e in Svizzera nel 2017 e “la probabilità che entri in Francia è alta“, ha dichiarato l’Anses in un comunicato. “Questo insetto rappresenta una minaccia per centinaia di specie vegetali: l’adulto preferisce nutrirsi di foglie mentre le larve si nutrono di radici“, avverte l’Anses.

Si tratta di oltre 400 tipi di piante, tra cui “piante alimentari: prugna, mela, vite, mais, soia, fagioli, asparagi, ecc.; specie forestali, come l’acero piatto o il pioppo; piante ornamentali, ad esempio i cespugli di rose o alcune specie presenti nei prati e nei tappeti erbosi“. Per l’Anses è impossibile prevenire l’arrivo di questo coleottero in Francia. “È un insetto che si muove facilmente, le condizioni di temperatura e precipitazioni gli sono favorevoli e poiché può consumare molte specie di piante presenti sul territorio francese non avrà difficoltà a trovare fonti di cibo“, spiega Christine Tayeh, coordinatrice scientifica dell’Anses. È quindi necessario “intervenire non appena l’insetto viene individuato per la prima volta“, attraverso “trappole dotate di esche miste (una combinazione di feromoni sessuali e attrattivi floreali)” posizionate lungo il confine con i Paesi in cui è già presente e in prossimità dei punti di ingresso al territorio (porti, aeroporti, strade), sensibilizzando anche gli operatori dei settori interessati. La formula ha funzionato in Oregon e California, dice l’Anses.

In caso di rilevamento, l’Agenzia raccomanda di “delimitare una zona infestata” con una sorveglianza rafforzata e l’attuazione di diversi mezzi di controllo contro il coleottero, tra cui “la cattura di massa, l’uso di prodotti fitosanitari di sintesi e la lotta biologica“, a seconda della situazione. Anche l’irrigazione durante il periodo di deposizione delle uova o l’aratura del terreno in autunno possono essere utilizzati per ridurre la sopravvivenza delle larve e i danni alle piante. “Se tali azioni non vengono messe in campo il prima possibile dopo l’individuazione del coleottero giapponese, prevenire la sua diffusione una volta che si è insediato sul territorio può richiedere molto tempo e avere scarse possibilità di successo“, avverte l’Anses.

rifiuti smartphone

Gli smartphone inquinano quanto Paesi Bassi e Venezuela

Immaginiamo di riunire assieme tutti i 4,5 miliardi di smartphone presenti nel mondo e di misurarne in un anno l’impronta nociva sull’ambiente. Il risultato? Circa 146 milioni di tonnellate di CO2 (o CO2e, emissioni equivalenti), un quantitativo simile a quello generato da stati come i Paesi Bassi o il Venezuela. I numeri forniti da Deloitte nelle sue TMT Predictions 2022 fanno ben capire quanto operazioni all’apparenza innocue, come acquistare o utilizzare un telefonino (o un altro device elettronico), possano avere ripercussioni sull’ambiente.

Secondo il rapporto Digital Green Evolution di Deloitte, le emissioni sono collegate soprattutto alle prime fasi del ciclo di vita di uno smartphone. Ben l’83% del totale è collegato alla produzione, al trasporto e al primo anno di utilizzo. Solo l’11% delle emissioni riguarda l’utilizzo a partire dal secondo anno di vita, mentre risulta residuale l’impatto delle attività di ripristino di smartphone esistenti (4%) e i processi di fine-vita, riciclo incluso (1%). Questo scenario rende evidente che la strada maestra per ridurre l’impronta ambientale degli smartphone è quella di incidere sulla produzione, favorendo soprattutto l’utilizzo di materiali riciclati che limitino le attività di estrazione delle terre rare, particolarmente inquinanti. Fondamentale anche allungare il ciclo di vita dei prodotti, rendendo maggiormente vantaggiosa la riparazione rispetto alla sostituzione del dispositivi. E in tal senso potrà giocare un ruolo chiave l’eventuale estensione del diritto alla riparazione che attualmente non include gli smartphone e altri device quali tablet e pc portatili.

Diritto riparazione

Anche i consumatori però possono fare la loro parte, adottando comportamenti maggiormente consapevoli. Oggi la vita media degli smartphone è stimata tra i 2 e i 5 anni, ma la tendenza sembra essere quella di ritardare sempre più la sostituzione del device. Secondo Deloitte, nel 2016 due italiani su tre dichiaravano di aver acquistato nell’ultimo anno e mezzo uno smartphone, mentre nel 2021 questa quota si è abbassata a poco meno della metà. Trend simili sono stati rilevati anche in Paesi come Germania, Regno Unito, Austria e Belgio.

Questa tendenza è senza dubbio positiva per l’ambiente, anche se pare essere più legata a motivazioni di stampo economico che a un’effettiva coscienza green dei consumatori in fatto di smartphone. Sempre secondo la ricerca di Deloitte, solo il 14% di chi acquista uno smartphone considera la durata attesa del dispositivo come una caratteristica importante nella scelta del modello. Si bada molto più a caratteristiche tecniche come la durata della batteria (49%), la velocità del processore (32%), la qualità della fotocamera (27%) e la capacità della memoria (27%), piuttosto che al semplice richiamo del brand (24%). Inoltre, appena il 2% presta attenzione all’eventuale impiego di materiali riciclati. Stesse dinamiche anche per chi utilizza uno smartphone usato o ricondizionato, cioè appena il 7% dei partecipanti all’indagine Deloitte. Tra questi, solo il 9% afferma di aver compiuto questa scelta per la volontà di essere rispettosi dell’ambiente: la spinta principale invece arriva dalla maggior economicità rispetto a un cellulare nuovo e dalla possibilità di ‘ereditare’ il device da parenti o amici (41% per entrambe le motivazioni).

Simona Bonafé

Bonafé (Pd): “Riposizionamento economia e tech per transizione verde”

Il Parlamento europeo non riesce a far progredire, per ora, le proposte di riforma del mercato di certificati di emissioni (Ets) e l’introduzione di un meccanismo che possa far pagare per l’inquinamento prodotto nei processi industriali di prodotti realizzati fuori dall’Ue e poi venduti nel mercato interno. Niente è perduto, ma bisogna fare in fretta. Su questi dossier come su tutta l’agenda verde europea vanno evitati ripensamenti. “Non c’è solo la questione di voler contrastare i cambiamenti climatici, che è un’altra grande emergenza e di cui peraltro si parla troppo poco, ma c’è in gioco la competitività” dell’Europa, ricorda Simona Bonafé. Nell’intervista concessa a GEA l’europarlamentare del Pd e del gruppo S&D membro della commissione Ambiente, ricorda che la transizione verde riguarda “nuove tecnologie” e quindi “il riposizionamento” di imprese ed economia a dodici stelle, quindi torna sul voto dell’Aula su i dossier chiave dell’agenda sostenibile del’Ue.

Quanto accaduto in Parlamento dimostra che il Green Deal è più facile a dirsi che a farsi?
“Noi in Parlamento ci siamo assunti un impegno, approvato a larga maggioranza, di ridurre le emissioni del 55% entro il 2030, a cui si aggiunge l’impegno della presidente della Commissione europea di fare dell’Europa un continente carbon neutral nel 2050. Fin qui tutti ad applaudire, ma poi ahimé abbiamo visto che su due provvedimenti importanti come il meccanismo Ets, che è quello per cui chi inquina paga volendo ridurlo in estrema sintesi, e quello per l’aggiustamento del carbonio alle frontiere c’è stato un asse delle forze conservatrici di destra per abbassare l’ambizione delle proposte”.

Non c’era altra alternativa che votare contro a quel punto, giusto?
“Ricordiamo che quello che si votava era la posizione negoziale del Parlamento, in vista poi del negoziato con il Consiglio. Se si arriva a negoziare con ambizioni al ribasso, poi il risultato finale quale possiamo attenderci che sia?”

Su Ets e Cbam l’Europa ha fatto una brutta figura?
“Intanto ricordiamo che il Cbam non è stato votato. Diciamo che c’è stata la volontà di chi non ha mai creduto nel Green Deal di non far progredire questi file, adducendo motivazioni strumentali al Green deal come la guerra in Ucraina, l’inflazione. Io dico il contrario. Proprio per queste situazioni dobbiamo spingere sulle rinnovabili se vogliamo sottrarci dalla dipendenza energetica della Russia”.

L’UE può permettersi ritardi sul Green Deal? E in tal senso, è fiduciosa che ora in commissione Ambiente queste legislazioni possano trovare un’intesa politica?
“La commissione Ambiente ha già convocato i lavori per la settimana prossima, e credo che i file siano già previsti per la prossima plenaria di luglio, quindi parliamo di 15 giorni. Facendo parte della commissione mi impegnerà affinché non si perda tempo. Mi auguro che si trovi una soluzione. Come detto, mi auguro che non si annacqui il pacchetto e che non si abbassi l’ambizione delle proposte”.

Su auto e furgoni invece tutto bene. Avete già qualche indicazione sugli orientamenti del Consiglio, in vista del negoziato inter-istituzionale?
“Ecco, è vero che c’è stato un voto negativo su Ets, ma al voto c’era un altro dossier importante che era quello sulle auto e i furgoni alimentati da motori a combustione, quindi a benzina e diesel, e qui siamo riusciti a imporre lo stop dal 2035. Qui mi sembra che in Consiglio anche Stati che hanno peraltro un’industria automobilistica molto forte, e mi riferisco alla Germania, si sono attenuti a questo obiettivo. Quindi ritengo che sulle auto la posizione dell’Europa possa essere ambiziosa”.

cop27

La COP27 rischia di diventare il flop di Madrid e Glasgow

Duecento rappresentanti dei paesi di tutto il mondo si sono dati appuntamento a Bonn per preparare la COP27 che si terrà in Egitto a novembre. Quasi sei mesi per mettere a regime un appuntamento considerato fondamentale dopo il mezzo fiasco della COP26 a Glasgow e la guerra che, come sostengono in molti e come si percepisce per via induttiva, contribuirà a rallentare il già difficoltoso processo di decarbonizzazione del pianeta.

La domanda è semplice e abbastanza spontanea: ma c’è bisogno di ‘preparare’ un appuntamento così cogente addirittura sei mesi prima? La risposta è altrettanto semplice e altrettanto spontanea: sì. Perché al di là delle chiacchiere e dei buoni propositi per ripulirsi le coscienze, non tutti i Paesi hanno percepito la gravità della situazione ambientale e la necessità di frenare il riscaldamento globale. O se l’hanno capita, non la ritengono vitale. Tirate le somme, prevalgono gli interessi, le strategie di geopolitica, il desiderio di stare sempre un passo avanti rispetto al vicino della porta accanto. A Bonn si è cercato di trovare una chiave per aprire le porte della diplomazia e del buonsenso, nella speranza che il tempo faccia la sua parte.

Il pericolo che a Sharm-el-Sheikh vada in scena una replica di Madrid 2019 e di Glasow 2021 è alta, non a caso Patricia Espinoza, capo dell’agenzia Onu per il clima, ha già lanciato l’allarme. Quel monito, “servono azioni”, non può cadere nel vuoto. Altrimenti anche la Cop27 sarà un altro esercizio di stile (green) dove ciascuno farà per conto proprio e in virtù della propria sensibilità. Se l’Europa sta agendo in maniera determinata – come testimonia il pacchetto REPowerEu – altri Stati stanno frenando. L’India si era già messa di traverso alla Cop26 sul tema del carbone, la Cina è distante e poco tracciabile, gli Stati Uniti ci provano ma con prudenza, la Russia è alle prese con tali e tante grane che la questione carbon free sta in fondo alla lista delle priorità.

Gli Accordi di Parigi galleggiano sospesi, a Sharm-el-Sheikh ci sarà la revisione degli NDC, ovvero gli impegni nazionali di riduzioni delle emissioni per limitare a 1,5° l’aumento della temperatura globale. Poi dovranno essere presi in esame i sostegni per i paesi ‘fragili’ che non erano decollati alla Cop26. La speranza è che non sia tempo butto anche stavolta, Greta dirette il solito bla bla bla…