Innovativo e attento all’ambiente, è ‘griffato’ Italia il nuovo palazzo della City di Shanghai

Un palazzo di 16 piani caratterizzato da una lunga rampa da 1 chilometro in corten posizionata nella facciata ovest che costituisce un percorso di accesso ai vari piani, mentre due rampe a ovest e sud-est conducono ai garage sotterranei. Con queste caratteristiche è stata inaugurata a Shanghai la nuova sede dell’East China Electronic Power Design Institute, progettato dallo studio fiorentino di Archea Associati guidato dall’achistar Marco Casamonti, autore tra le altre cose del Viola Park, della cantina Antinori nel Chianti Fiorentino recentemente considerata la più bella del mondo, del nuovo stadio nazionale e della torre di Tirana, e che sta ultimando il Kiss bridge in Vietnam.

Il progetto mira a integrare le varie funzioni all’interno di un unico blocco in cui tutte le esigenze funzionali sono centralizzate, rendendo il progetto più economico ed efficiente. L’intervento ha voluto rispettare la scena esistente e rispondere alle caratteristiche del sito, tenendo conto del paesaggio urbano e dei requisiti di pianificazione generale. L’immobile si affaccia su due strade principali della città di Shanghai: Wuning Road a est e Zhongshan North Road (Inner Ring Elevated) a sud, posizione che gli conferisce il potenziale per diventare un punto di riferimento cittadino.

Il progetto mantiene due ingressi su Wuning Road utilizzati uno come accesso principale e l’altro come entrata secondaria per il traffico veicolare e pedonale. Elemento caratterizzante dell’intero edificio è una lunga rampa (1 km) in corten posizionata nella facciata ovest che costituisce un percorso di accesso ai vari piani, mentre due rampe a ovest e sud-est conducono ai garage sotterranei. L’edificio si sviluppa su sedici livelli fuori terra per una superficie di 50mila metri quadrati e due piani interrati di 25mila metri quadrati, per un totale di 75mila mq.

I primi piani ospitano molteplici funzioni: reception, sale riunioni, area espositiva, palestra, sala conferenze, archivio. I piani intermedi sono open space destinati ad aree di lavoro, mentre gli ultimi piani sono adibiti a uffici direzionali e sale riunioni. Il tetto, invece, ha funzione più ricreativa grazie alla presenza di un piccolo bar e di un giardino.

 

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Acciaio cinese invade America Latina, persi migliaia di posti di lavoro. Chiesto aumento dazi

L’industria siderurgica dell’America Latina sta affrontando il dumping cinese che sta inondando il suo mercato mettendo a rischio molti posti di lavoro. In risposta, le acciaierie, talvolta sull’orlo del fallimento, chiedono tasse sulle importazioni. L’anno scorso, dieci milioni di tonnellate di acciaio cinese hanno invaso l’America Latina, con un aumento del 44% rispetto all’anno precedente. Vent’anni fa, la Cina ne esportava qui solo 85.000 tonnellate.

Negli ultimi due decenni, la Cina ha aumentato la sua quota del mercato mondiale dell’acciaio dal 15% al 54%, secondo l’Associazione latinoamericana dell’acciaio (Alacero). Le preoccupazioni per la sovraccapacità dell’industria siderurgica cinese sono aumentate anche in seguito al forte rallentamento del settore edilizio, che ha liberato prodotti per l’esportazione. “La Cina è troppo presente in America Latina”, lamenta Alejandro Wagner, direttore esecutivo di Alacero. “Nessuno è contrario al commercio tra Paesi, ma a patto che si parli di commercio equo”, ha dichiarato all’AFP.

Durante una recente visita in Cina, il Segretario del Tesoro statunitense Janet Yellen ha espresso preoccupazione per la “sovrapproduzione” cinese e ha affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno” che il mondo sia inondato di prodotti cinesi venduti in perdita. Nel 2018, gli Stati Uniti hanno imposto dazi doganali aggiuntivi del 25% sull’acciaio cinese. Le industrie cilene e brasiliane vorrebbero seguire l’esempio.

La principale acciaieria cilena, Huachipato, con 2.700 dipendenti diretti e 20.000 subappaltatori, ha presentato una richiesta formale alla Commissione cilena anti-distorsione. Situata a Talcahuano, 500 chilometri a sud di Santiago, ha annunciato la graduale sospensione delle sue attività, sopraffatte dall’acciaio cinese venduto in Cile al 40% in meno rispetto a quello locale. La commissione ha trovato “prove sufficienti a sostegno dell’esistenza di dumping” da parte della Cina e ha raccomandato un prelievo del 15%, che Huachipato ha considerato “insufficiente”.

“Non stiamo chiedendo sussidi o salvataggi. Huachipato ha la capacità di essere redditizia in un ambiente competitivo”, ha dichiarato il suo direttore, Jean Paul Sauré. La decisione di imporre misure di protezione non è facile. Il Cile ha firmato un accordo di libero scambio con la Cina nel 2006, che lo espone a possibili ritorsioni commerciali.

Anche in Brasile, il maggior produttore di acciaio della regione, la situazione è preoccupante. Secondo l’Istituto Aco, l’anno scorso le importazioni dalla Cina sono aumentate del 50% e la produzione è diminuita del 6,5%. Gerdau, uno dei maggiori datori di lavoro di acciaio del gigante sudamericano, ha già licenziato 700 lavoratori. L’ultimo di questi, a febbraio, ha lasciato l’impianto di Pindamonhangaba a San Paolo, a causa del “difficile scenario che il mercato brasiliano deve affrontare a causa delle condizioni predatorie delle importazioni di acciaio cinesi”, ha dichiarato l’azienda. I produttori di acciaio brasiliani chiedono anche tariffe del 25%, come quelle imposte dal Messico su 205 tipi di prodotti siderurgici, per allinearle a quelle degli Stati Uniti, il loro principale partner commerciale.

L’acciaio rappresenta l’1,4% del Pil messicano e genera 700.000 posti di lavoro. Secondo i dati ufficiali, il 77,5% delle esportazioni è destinato agli Stati Uniti.

In America Latina, l’acciaio genera 1,4 milioni di posti di lavoro, altamente specializzati e difficili da riqualificare. L’impatto a breve termine sulla regione dipenderà dall’adozione da parte della Cina di misure per ridurre il suo “surplus” di produzione e, a livello locale, da iniziative per ridurre le importazioni di acciaio, ha dichiarato all’AFP José Manuel Salazar-Xirinachs, segretario esecutivo della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (ECLAC).

Forti acquisti sulle materie prime industriali: il mercato punta su stimoli dalla Cina

Commodities industriali di fuoco. I prezzi salgono nella scommessa che la Cina, primo consumatore mondiale di materie prime, annunci nuovi stimoli dopo un dato deludente sulle esportazioni di marzo. Il petrolio torna sui massimi da 7 mesi, l’oro aggiorna i record storici, l’argento corre verso 30 dollari l’oncia, il rame si avvicina ai top da due anni. Ma salgono anche zinco e nichel, senza contare il rally delle materie prime agricole come caffè e cacao, iper comprate anche per motivi climatici.

Le esportazioni cinesi sono scese del 7,5% su base annua a 279,68 miliardi di dollari a marzo, invertendo nettamente la rotta rispetto al +5,6% del mese precedente. Un dato peggiore delle previsioni di mercato che vedevano un calo del 3%. Nei primi tre mesi dell’anno, le esportazioni sono cresciute invece dell’1,5% su base annua raggiungendo 807,5 miliardi di dollari. Tra i partner commerciali, le esportazioni cumulative per il primo trimestre sono state nettamente inferiori verso Unione Europea (-5,7%), Corea del Sud (-9,8%) e Australia (-8,9%) mentre si sono contratte in misura minore rispetto al Stati Uniti (-1,3%). Anche l’export è calato dell’1,9%, anche questa una percentuale sotto le stime.

Il mercato, di fronte a questi dati, scommette dunque su uno stimolo economico in Cina, che compenserebbe l’impatto di un dollaro forte visto che la Federal Reserve non è intenzionata a tagliare i tassi d’interesse dato che l’inflazione sale da 3 mesi consecutivi negli Usa. I futures del rame salgono di oltre il 2% a 4,34 dollari per libbra, testando livelli visti l’ultima volta quasi due anni prima anche a causa delle preoccupazioni sull’offerta. I prezzi dello zinco crescono di quasi il 3% a 2.840 dollari la tonnellata, segnando un rialzo superiore al 10% mensile e toccando il livello più alto in quasi un anno. E ancora forti acquisti su palladio e platino, legati all’automotive.

L’argento invece torna ai fasti d’epoca pandemica, appesantito da una forte domanda anche industriale e un’offerta che stenta a tenere il passo. L’oro fa invece un altro percorso, tocca i 2400 dollari l’oncia, per i forti acquisti delle banche centrali in attesa di un taglio dei tassi, che prima o poi dovrebbe arrivare secondo il mercato indebolendo il valore reale delle monete, e per le tensioni geopolitiche.

Oro bene rifugio, ma di questi tempi anche il petrolio è comprato complice l’aria di guerra e l’ancora forte domanda globale, I futures del Brent aumentano di quasi il 2% a oltre 91 dollari al barile con la prospettiva di un conflitto più ampio in Medio Oriente. Israele si starebbe preparando per un attacco diretto da parte dell’Iran nelle prossime 24-48 ore, poiché Teheran aveva precedentemente promesso di reagire contro un sospetto attacco israeliano alla sua ambasciata in Siria. Infine gli ultimi round di colloqui per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas non hanno prodotto risultati.

La ripresa delle materie prime potrebbe ora riaccendere l’inflazione e rovinare così i piani delle banche centrali, che ipotizzano tagli al costo del denaro da giugno in poi.

Trilaterale Italia-Francia-Germania, Urso: “Passare a un’economia Ue dei produttori”

Sostegno mirato alle imprese, soprattutto Pmi, meno burocrazia e più competitività per non perdere la sfida con Cina e Usa. Dalla nuova riunione trilaterale Italia-Francia-Germania si delinea in maniera ancora più definita l’idea di politica industriale per l’Europa post elezioni. A Parigi i tre ministri che nei rispettivi governi gestiscono la delega rinforzano la partnership e concordano sulla necessità di andare avanti con la doppia transizione, ecologica e digitale, seppur con meno vincoli rispetto al Green Deal originario, e sulla “necessità di un’azione urgente per sbloccare il potenziale tecnologico e innovativo delle imprese europee“. Noi “non vorremo che l’Europa, da continente della tecnologia e dello sviluppo diventasse un museo all’aria aperta“, spiega il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, al termine dell’incontro. Sottolineando che occorre “passare da un’economia dei consumatori a un’economia dei produttori“, perché “in questi anni abbiamo sviluppato e incentivato i consumi e questo è andato sempre più questo a beneficio dei prodotti e delle imprese di altri continenti, che non rispondono alle nostre stesse regole in termini di standard ambientali e sociali, quindi spesso anche attraverso concorrenza sleale“.

Ben venga, dunque, anche la proposta del ministro dell’Economia, delle Finanze e della Sovranità industriale e digitale della Francia, Bruno Le Maire: una sorta di ‘preferenza’ alle imprese continentali negli appalti Ue. Anche se non è l’unica soluzione che incontra il favore dell’Italia: “Abbiamo detto con chiarezza ai nostri colleghi che condividiamo tutte quelle misure che possono consentire di passare dall’Europa dei consumatori all’Europa dei produttori. Quindi, a una politica industriale che tuteli, rafforzi e rilanci il sistema delle imprese europee“, spiega ancora Urso. Aggiungendo che “questo lo si può fare con misure come quella proposta da Le Maire, ma anche con il nuovo focus della Commissione Ue per accertare se c’è concorrenza sleale e dumping nella vendita di macchine elettriche cinesi” o “con i criteri di qualità, come stiamo facendo noi in Italia, sugli incentivi pubblici per realizzare impianti fotovoltaici ai fini dell’autoconsumo”. Dunque, “da questo punto di vista il governo è neutrale sugli strumenti da utilizzare, ma ben consapevole di quale sia la rotta da determinare per il continente europeo“.

Il ministro federale tedesco dell’economia e dell’azione per il clima, Robert Habeck, parla di “tecnologie innovative, come le biotecnologie e le tecnologie verdi nell’industria eolica, solare e di trasformazione, che sono fondamentali per la crescita economica. La neutralità climatica e la nostra sovranità tecnologica nel prossimo futuro e necessitano quindi di un ambiente favorevole agli investimenti – sottolinea -. Il nostro scambio ha anche sottolineato la necessità di maggiori sinergie europee nelle nostre industrie della difesa, che a mio avviso è fondamentale“.

Tra le soluzioni studiate al vertice di Parigi c’è quella sulla semplificazione e accelerazione delle autorizzazioni e l’accesso ai programmi di finanziamento europei e agli aiuti di Stato, in particolare per le pmi, eliminando le sovrapposizioni normative e riducendo gli obblighi di rendicontazione “ben oltre l’obiettivo della Commissione Ue del 25%. O ancora “incrementare gli investimenti pubblici e privati per rafforzare l’innovazione, la produttività e la competitività” e portare a compimento, con successo, la doppia transizione. Con un “sostegno mirato alle imprese dei settori industriali più strategici“. In questo senso, dunque, vanno rafforzati i finanziamenti dell’Ue per i beni pubblici europei e le infrastrutture e coinvolgendo maggiormente la Banca europea per gli investimenti. Ma serve anche un “ampio mix di nuove risorse proprie“, con un’Unione europea capace di “finanziare progetti tecnologici di innovazione, in particolare per le tecnologie pulite e net zero, l’intelligenza artificiale dai chip alla capacità di calcolo e ai modelli di grandi dimensioni, i semiconduttori e la cybersicurezza“.

Altro punto rilevante, messo nero su bianco nella dichiarazione congiunta finale, riguarda la necessità di “applicare meglio, approfondire e rafforzare il mercato unico per sfruttare appieno i vantaggi dell’integrazione economica europea, garantendo regole comuni e una forte supervisione, nonché l’applicazione delle norme, in particolare per i prodotti importati“. L’obiettivo, infatti, è “garantire una concorrenza efficace nel mercato unico e affrontare adeguatamente i problemi strutturali della concorrenza nel contesto globale, in particolare nei settori che hanno una dimensione internazionale e sono di grande importanza per l’economia generale dell’Ue“. Urso, Le Maire e Habeck, infine, auspicano “un controllo efficace delle fusioni che impedisca le ‘acquisizioni killer’ con certezza giuridica e chiedono un’attuazione e un monitoraggio approfonditi della legge sui mercati digitali“.

 

Photo credit: account X Adolfo Urso

Il mercato cinese al centro della rivoluzione globale delle auto elettriche

La Cina è il più grande mercato al mondo per le auto elettriche, settore altamente competitivo, conteso tra produttori affermati e nuovi arrivati come il gigante dell’elettronica Xiaomi, che questa settimana ha lanciato il suo primo veicolo elettrico. Di tutti i nuovi veicoli elettrici acquistati nel mondo lo scorso dicembre, il 69% è stato venduto in Cina. Secondo Ryastad quest’anno il mercato globale raggiungerà 17,5 milioni di auto elettriche, di cui 11,5 milioni in Cina, ovvero il 65%. La spettacolare ascesa di questi produttori ha alimentato la sfida di Pechino alle potenze automobilistiche tradizionali: l’anno scorso, ad esempio, la Cina ha superato il Giappone come primo esportatore mondiale di automobili.

BYD – ‘Biyadi’ in cinese e acronimo di ‘Build Your Dreams’ in inglese – è il principale produttore cinese nella nicchia dei veicoli elettrici. Fondata nel 1995, si è specializzata nella progettazione e produzione di batterie, prima di diventare il campione indiscusso in Cina e il principale concorrente di Tesla. Lo scorso anno è stato il primo produttore al mondo a superare il traguardo simbolico dei 5 milioni di veicoli elettrici prodotti. Nel quarto trimestre del 2023, ha superato il gruppo di Elon Musk come maggior venditore di veicoli elettrici al mondo. BYD gode di vantaggi in termini di costi grazie alle sue forti capacità nella catena di fornitura, in particolare nell’immagazzinamento dell’energia. Molti colossi automobilistici stranieri, tra cui Tesla e BMW, dipendono da BYD per le loro batterie.

Chi sono gli altri attori? Dei 129 marchi cinesi di auto elettriche, solo 20 sono riusciti a raggiungere una quota di mercato nazionale pari o superiore all’1%, secondo i dati compilati da Bloomberg. BYD ha una quota di mercato di quasi il 33%, seguita da Tesla con oltre l’8%. Al terzo posto, con il 5,8% del mercato, si trova Wuling, che produce il modello elettrico più venduto in Cina fino ad oggi, una piccola auto a due porte chiamata Hongguang Mini. Completano il gruppo Geely e il produttore di SUV elettrici Li Auto, oltre a XPeng e NIO. L’offerta per i clienti cinesi è altrettanto variegata: dagli autobus alle berline e roadster di lusso, passando per le city car entry-level e di fascia media. Ma anche i giganti tecnologici cinesi vogliono una fetta della torta delle auto elettriche, un mercato che vale miliardi di dollari. Huawei, che è soggetta a sanzioni statunitensi a causa dei suoi presunti legami con le agenzie di sicurezza cinesi, negli ultimi anni ha sviluppato auto elettriche che fanno ampio uso delle tecnologie sviluppate dal gruppo. Anche il gigante cinese di internet Baidu sta lavorando a un modello, con particolare attenzione alla guida autonoma. E giovedì Xiaomi, il terzo produttore di smartphone al mondo, entra nella mischia.

L’abbondanza di modelli offerti da produttori che hanno investito somme considerevoli nel corso degli anni ha portato a una guerra dei prezzi in Cina. Secondo gli analisti, tuttavia, è probabile che il processo di consolidamento del mercato continui, dato che alcune aziende falliscono, si fondono o cercano acquirenti per le loro tecnologie e i loro asset. Inoltre, i sussidi all’acquisto sono stati gradualmente eliminati dal governo, dopo che un sostegno significativo aveva incoraggiato la crescita del settore.

Come hanno reagito le potenze tradizionali? L’ascesa fulminea dell’industria cinese dei veicoli elettrici ha sollevato preoccupazioni a Bruxelles e a Washington, in particolare per quanto riguarda i sussidi cinesi alle auto elettriche. A settembre, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla questione, impegnandosi a difendere l’industria europea dalla concorrenza sleale. Pechino, da parte sua, ha presentato questa settimana una denuncia all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) contro i sussidi concessi dagli Stati Uniti al settore dei veicoli a nuova energia, accusando Washington di concorrenza sleale.

autostrade

Nel 2024 un auto elettrica su 4 venduta in Europa sarà prodotta in Cina

Secondo una nuova analisi di Transport & Environment (T&E), quasi un quinto (19,5%) dei veicoli elettrici venduti in Europa l’anno scorso è stato prodotto in Cina (in Italia il 23%); la quota è destinata a raggiungere un quarto (25%) nel 2024. La previsione giunge mentre l’Ue sta valutando l’opportunità di imporre una maggiorazione sulle tariffe per l’import di auto made in China, col fine di bilanciare i sussidi che l’industria cinese già riceve da Pechino. Secondo T&E, l’aumento della produzione di auto elettriche di massa e maggiori investimenti per creare una supply chain di batterie in Europa sono l’unico modo, per le case automobilistiche dell’Ue, di competere con i marchi cinesi. Ma un aumento delle tariffe avrebbe come ulteriore effetto quello di stimolare i competitor internazionali a localizzare in Europa la loro produzione.

Mentre le importazioni in Europa dalla Cina sono state in gran parte costituite da auto Tesla, Dacia e BMW, T&E prevede che i marchi cinesi potrebbero raggiungere l’11% del mercato europeo dei veicoli elettrici nel 2024 e il 20% nel 2027. Questa proiezione conservativa presuppone una crescita lineare della quota di mercato degli OEM cinesi sulla base delle vendite degli ultimi due anni, anche se BYD da sola punta al 5% del mercato europeo delle auto elettriche entro il 2025.

Andrea Boraschi, direttore di T&E Italia, ha dichiarato: “I dazi spingeranno le case automobilistiche a localizzare la produzione di veicoli elettrici in Europa, e questo è potenzialmente un bene per l’occupazione e le competenze che vogliamo far crescere tra i lavoratori. Ma non proteggeranno a lungo l’industria dell’automotive europea. Le aziende cinesi costruiranno fabbriche nel vecchio continente e quando ciò accadrà la nostra industria dovrà essere pronta a raccogliere la sfida“.

L’aumento al 25% delle tariffe Ue su tutte le importazioni di veicoli dalla Cina, secondo l’analisi di T&E, renderebbe le berline e i SUV di medie dimensioni di Pechino più costosi dei loro equivalenti europei, favorendo la produzione locale. I SUV compatti e le auto più grandi importate dalla Cina, con tale tariffa, dovrebbero rimanere leggermente più economici. Tuttavia, secondo T&E, l’Ue in prospettiva non dovrebbe puntare a proteggere le proprie case automobilistiche da una concorrenza significativa, limitando così l’offerta di auto elettriche a prezzi accessibili per gli europei. È fondamentale che una tariffa più elevata sia accompagnata da una spinta normativa per aumentare la produzione di veicoli elettrici in Europa; e di questa spinta dovrebbero essere parte gli obiettivi di elettrificazione delle flotte di auto aziendali entro il 2030, oltre all’obiettivo concordato del 100% di auto zero emissioni nel 2035.

Ma anche gli investimenti nelle batterie agli ioni di litio sono a rischio, poiché le celle prodotte in Cina costano almeno il 20% in meno rispetto all’Europa e i produttori di batterie cinesi sono in vantaggio sia in termini di tecnologia che di catene di fornitura. Anche gli Stati Uniti stanno attirando gli investimenti nella produzione di batterie grazie a generosi sussidi. T&E ritiene che siano necessarie misure industriali – come sussidi per la produzione pulita e circolare e obiettivi ‘Made in EU’ – per stimolare la produzione locale di celle. Poiché nessuna di queste misure è attualmente in vigore, si dovrebbe prendere in considerazione un aumento anche per le tariffe relative all’import di celle delle batterie. Rispetto agli Stati Uniti e alla Cina, l’UE ha attualmente le tariffe più basse.

Andrea Boraschi ha dichiarato: “Le batterie sono i nuovi pannelli solari. La Cina è in vantaggio e le sue aziende statali hanno un’enorme sovraccapacità produttiva. Se vogliamo davvero avere una catena di fornitura di batterie diversificata e resiliente in Europa, dobbiamo svilupparla ora o potremmo non avere una seconda possibilità“.

L’anno del Drago parte bene in Cina che diventa sempre più pericolosa

L’anno del Drago parte bene in Cina per l’industria. I dati di gennaio e febbraio, a cavallo del capodanno lunare, hanno superato le previsioni in diversi settori chiave, indicando una crescita superiore alle attese. Ad esempio, le vendite al dettaglio hanno registrato un +5,5%, oltre le stime, mentre la produzione industriale ha segnato un solido incremento del 7%, evidenziando una robusta attività manifatturiera. Allo stesso modo, gli investimenti in immobilizzazioni hanno superato le aspettative degli analisti, segnalando una fiducia nel mercato e un impegno nel lungo termine da parte delle imprese. Tuttavia, non tutto è stato positivo, poiché il settore immobiliare ha subito una flessione del 9% rispetto all’anno precedente, evidenziando ancora una volta il punto debole di Pechino.

Per quanto riguarda le nuove costruzioni residenziali in base alla superficie, la contrazione si è ampliata addirittura al -30,6% su base annua da inizio anno. E il valore di vendita degli immobili residenziali nuovi è calato del 32,7% su base annua da inizio anno. La pesantezza del mattone frena le potenzialità di crescita. Il portavoce dell’Ufficio nazionale di statistica, Liu Aihua, ha avvertito che la domanda interna rimane insufficiente, indicando che potrebbero essere necessarie ulteriori misure per stimolare la spesa dei consumatori e sostenere la crescita economica. Riparte comunque anche il turismo interno, che sembra aver registrato una crescita rispetto all’anno precedente e ai livelli pre-pandemici del 2019. Tuttavia, il capo economista cinese di Nomura ha osservato che nonostante questa crescita, la spesa turistica media per viaggio è ancora inferiore ai livelli pre-pandemici, indicando che potrebbero essere necessari ulteriori sforzi per stimolare completamente il settore turistico.

E’ l’industria dunque che tiene alta la bandiera cinese. Per settore, le principali aree di forza sono state individuate nella categoria “computer, comunicazioni e altre apparecchiature elettroniche”, che è cresciuta del 14,6% anno su anno. Anche la produzione di attrezzature per i trasporti ha registrato ottimi risultati, con un aumento dell’11%. Numeri che migliorano il commercio estero. Le esportazioni cinesi hanno sorpreso positivamente, registrando un +7,1% nei primi due mesi dell’anno, mentre le importazioni sono aumentate del 3,5%, superando entrambe le previsioni degli esperti. Questo potrebbe indicare una domanda estera robusta per il Made in China, il che potrebbe contribuire a sostenere ulteriormente la crescita del Paese nel corso dell’anno. Secondo i dati doganali, la Cina, il più grande importatore mondiale di Gnl, ha aumentato le sue importazioni di gas liquefatto del 19,3% nel periodo gennaio-febbraio rispetto allo stesso periodo dell’anno

INFOGRAFICA INTERATTIVA Commercio, import ed export dell’Ue con la Cina

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, su dati Eurostat, è illustrato l’andamento degli scambi commerciali tra l’Ue e la Cina. Nel 2023 il deficit commerciale di merci dell’UE con Pechino si è attestato a 291 miliardi di euro, inferiore di 106 miliardi di euro rispetto al 2022 (-27%). Tra il 2013 e il 2023, il deficit commerciale variava tra 104 miliardi di euro nel 2013 e 397 miliardi di euro nel 2022, il valore più alto del decennio. Nel 2023, la Cina è stata il più grande partner per le importazioni di beni dell’UE (20,5% del totale delle importazioni extra-UE) ed è stato il terzo più grande partner per le esportazioni di beni dell’UE (8,8% del totale delle esportazioni extra-UE).

Gozzi: “L’Occidente non può lasciare il continente africano alla Cina e alla Russia”

Nell’editoriale della scorsa settimana ragionando sulle prospettive economiche del 2024 e cercando di collocarle all’interno di un quadro più strutturale di medio-lungo periodo ho evidenziato i ritardi e le debolezze dell’Europa rispetto alle altre grandi aree economiche del mondo (USA, Cina e in prospettiva India).

Ho scritto che, a mio giudizio, questa debolezza relativa parte da una degenerazione culturale (la presunzione di pensare che “siamo i più bravi di tutti” e quindi regole, regole, regole) e da un declino industriale e demografico: tra le prime 10 aziende del mondo non ce n’è neppure una europea, e la popolazione del nostro continente invecchia a ritmi impressionanti con tutto ciò che ne consegue in termini economici e sociali.

La situazione che si è creata rischia di spiazzare definitivamente l’Unione Europea e i suoi sogni di gloria, relegandola al ruolo di attore minore nelle dinamiche mondiali.

Dinanzi a un quadro del genere, che mi pare difficilmente contestabile, può essere utile cercare di definire una prospettiva strategica ed economica non velleitaria per l’Europa all’interno della quale collocare l’Italia.

Mi sono divertito ad usare per questo esercizio uno dei modelli classici della teoria d’impresa: forze/debolezze, minacce/opportunità. Pur consapevole dei limiti di un’applicazione del genere non a singole imprese ma a sistemi economici globali, sono convinto che la provocazione possa servire.

Ho due convinzioni radicate che hanno sostenuto la mia riflessione e che voglio sviluppare. La prima vede inscindibilmente legate le prospettive economiche e industriali del nostro continente alle dimensioni geo-strategica e della sicurezza. La seconda è che, poiché il tema del Mediterraneo si imporrà sempre di più nei prossimi anni, vi è un ruolo importantissimo che l’Italia può giocare partendo non solo dalla sua collocazione geografica ma anche da un dato culturale e di vicinanza alle popolazioni del Sud e dell’Est.
Ma procediamo con ordine.

Come detto la situazione di oggi è che l’Europa, per differenziale negativo di crescita e per minore tasso di innovazione tecnologica della sua economia industriale, è indietro rispetto ad USA e Cina; ciò in particolare in quelle aree che sono coperte da protezione brevettuale come intelligenza artificiale, biotecnologie, aero-spazio, e in parte farmaceutica e vaccini. Oggi si trova in terza posizione ma in pochi anni rischia, con la travolgente crescita indiana, di diventare quarta. Se le cose continuano così il declino e la marginalizzazione mi appaiono francamente inevitabili.

Dall’altro lato, in termini geo-strategici e di sicurezza la posizione europea è super delicata. Pressata com’è a est dal neo-imperialismo russo e a sud, nel Mediterraneo e nel Golfo, dall’affacciarsi di nuove potenze e nuovi protagonisti come Turchia e Iran, nonostante una spesa militare sì ingente (oltre 200 miliardi di euro l’anno ) ma del tutto scoordinata e quindi inutile alla creazione di campioni industriali europei, non può fare a meno dell’ombrello protettivo USA come è successo negli ultimi 70 anni.

Le due guerre in corso in Ucraina e in Israele testimoniano ciò in maniera solare. In base a questi due assunti le debolezze europee sono dunque evidenti: spiazzamento competitivo economico, industriale e demografico; fragilità geo-strategica e della sicurezza.

Abbiamo per contro punti di forza? Certamente almeno due: un grande mercato, anzi il più grande e ricco mercato del mondo (almeno per ora) non a caso concupito da economie non europee, ed un sistema di valori e istituzioni democratici saldo (sempre almeno per or ) e garante di diritti economici, sociali e civili che non ha eguali al mondo e che, non a caso, attira grandi flussi migratori.

Se si condivide questa analisi, e se per un attimo si lascia da parte la retorica europeista che crede di risolvere i problemi dell’oggi e di domani mattina con la stanca riproposizione di un modello ideale di Stati Uniti d’Europa difficile da attuare nel breve periodo, con un’unica politica estera, un sistema di difesa comune fuori dalla Nato, ed una transizione energetica tutta ideologica e destinata, se portata avanti così, a desertificare industrialmente il continente senza incidere per nulla sul climate change a livello mondiale, nella situazione data non restano molte strade da percorrere.

L’unica, riconoscendo onestamente l’impossibilità di rimanere soli, è perseguire con forza la realizzazione di una grande area di cooperazione euro-atlantica che veda in un’alleanza geostrategica, militare, economica e industriale USA/UE l’unica prospettiva realisticamente possibile in un mondo nel quale si registra una convergenza antioccidentale negli altri protagonisti.

All’interno di quest’area, che deve ovviamente coinvolgere alleati asiatici e ‘pacifici’ (in primis Giappone, Corea del Sud e Australia) vanno individuate complementarietà e sinergie economiche e industriali che possono esprimere una forza esponenziale.

Un’idea per gli amici di Aspen: sarebbe bello che due grandi centri di ricerca economica e industriale, uno statunitense l’altro europeo, iniziassero a studiare quali potrebbero essere i terreni industriali di questa possibile collaborazione. Tu fai questo, io faccio quello, tu investi lì io investo là, in un disegno coordinato e unitario soprattutto in tutte le aree del de-risking e cioè in tutte le aree industriali sensibili a questioni di sicurezza strategica: di nuovo, intelligenza artificiale, microprocessori, biotecnologie, farmaceutica e vaccini e aero-spazio.

Per le esperienze industriali maturate a livello internazionale ho visto molte volte opportunità e grandi potenzialità in questa ipotesi di cooperazione euro-atlantica. Basti ricordare nel settore automotive la straordinaria vicenda FIAT/Chrysler e il genio di Marchionne. Ma ci sono altre importanti aree di dialogo e possibile cooperazione industriale con gli USA.

Come siderurgici italiani abbiamo molto insistito, ad esempio, sulla necessità di accogliere la proposta dell’Amministrazione Biden di un’area di libero scambio Stati Uniti ed Europa estesa a Canada e Messicoper l’acciaio e l’alluminio, con l’eliminazione del dazio del 25% a suo tempo introdotto da Trump sulle importazioni di questi prodotti negli Usa. L’unica condizione richiesta dagli americani è che questo dazio possa essere mantenuto nei confronti di quei Paesi, fuori dall’area di libero scambio, che praticano unfair-trade, a partire dalla Cina.

L’ideologismo mercatista della Commissione Europea e le ambiguità della Germania, che di fatto rifiuta ogni provvedimento daziario nei confronti della Cina, hanno impedito questo accordo. L’Europa, nel non cogliere questa opportunità, ha fatto un grave errore ed ha mostrato la sua insipienza. Un’eventuale vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del novembre 2024 renderebbe tutto maledettamente più difficile.

E ancora: sulla definizione di green steel, e cioè sulle caratteristiche di processo e intrinseche che deve avere l’acciaio verde, la posizione italiana è molto più vicina a quella dell’Associazione dei siderurgici statunitensi che a quella di Eurofer (l’organizzazione dei siderurgici europei a cui aderisce anche l’italiana Federacciai).

Questa comunanza deriva dall’oggettivo fatto che la stragrande maggioranza dell’acciaio prodotto sia in Usa che in Italia è da forno elettrico e rottame quindi già largamente decarbonizzato.

I nostri amici americani di Nucor (la prima siderurgia Usa con oltre 24 milioni di tonnellate di acciaio prodotte ogni anno e che per più di 12 anni è stata socia di Duferco negli impianti italiani) produce acciaio da forno con utilizzo di rottame e di DRI (direct reduction iron). Nucor dispone di due grandi impianti di DRI (identici a quelli che dovrebbero essere installati a Taranto) uno in Lousiana e l’altro a Trinidad. Certamente l’esperienza di questo grande gruppo americano, amico dell’Italia, pur senza coinvolgimenti diretti sarebbe preziosissima per il processo di decarbonizzazione dell’Ilva e per il suo rilancio.

Una stretta cooperazione economica e industriale tra Stati Uniti d’America e Europa darebbe tra l’altro un sostrato e una ancor più grande giustificazione al permanere di una stretta alleanza militare della Nato di cui l’Europa non può fare a meno per la sua sicurezza. Cosa ne sarebbe stato dell’Ucraina senza gli aiuti militari degli Usa e del Regno Unito?

Allargando il ragionamento dall’economico e industriale ai temi strategici e della sicurezza il ruolo dell’Italia in uno schema del genere diventa importantissimo. Vediamo perché.

Nei prossimi anni la divisione con il Nord Africa si andrà attenuando e il baricentro europeo, oggi tutto concentrato sull’asse franco-tedesco, si abbasserà spostandosi verso il Mediterraneo.

In questo contesto la posizione geografica dell’Italia, che è sostanzialmente una gigantesca piattaforma logistica proiettata verso il Sud e l’Est; l’internazionalizzazione della sua economia e la sua capacità culturale, di empatia e di dialogo con i Paesi della sponda adriatica e del Nord Africa costituiscono un formidabile patrimonio non solo per noi ma per l’Occidente tutto.

L’Italia può e deve diventare il ‘traduttore’ dei valori civili, democratici, istituzionali dell’Occidente per quei Paesi che sono alla ricerca del benessere e di un riscatto economico ma anche di una via verso il progresso democratico. Grazie al solido ancoraggio atlantico mantenuto anche dal Governo Meloni e alla capacità di dialogo che ci contraddistingue possiamo svolgere questo ruolo molto meglio di altri Paesi europei il cui passato coloniale è molto più ingombrante del nostro.

Ci vuole un approccio al tempo stesso dialogante ma anche molto più sofisticato di quello usato dall’occidente nelle vicende recenti delle cosiddette ‘primavere arabe’ e della crisi libica; un approccio che la politica estera italiana e la sua diplomazia sono capaci di esprimere.

Il piano Mattei, a partire dalle iniziative in campo in Tunisia: la linea di connessione elettrica che Terna sta per realizzare; la disponibilità degli industriali energivori italiani a partecipare con il loro consorzio Interconnector al finanziamento della linea e alla realizzazione di impianti di energia rinnovabile e di produzione di idrogeno verde in quel Paese; l’iniziativa sull’acqua che grandi aziende italiane come Acea e Fisia potrebbero intraprendere; un primo accordo per la messa a disposizione dell’industria italiana di 4000 lavoratori tunisini opportunamente formati può diventare davvero un nuovo modello di intervento in Africa basato su una cooperazione concreta e fattiva.

Una delle grandi direttrici dello sviluppo mondiale nei prossimi 20 anni sarà in Africa.

L’Occidente non può lasciare il continente africano alla Cina e alla Russia, che vi opera con i mercenari della Wagner per proteggere clepto-dittature autoctone. L’Italia, se pensa in grande, può giocare una partita fondamentale. Abbiamo tutto per farlo, dobbiamo concentrarci su quella che gli americani chiamano execution.

Dopo la Cop28 troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale

Che la Cop 28 sia stata un fiasco o quasi un fiasco dipende solo dai punti di vista più o meno ideologici. Che molto poco si potesse pretendere da un evento che ha avuto come presidente Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato di Abu Dahbi National Oil Company (la Adnoc, principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi), era abbastanza scontato. Che la Cop28 potesse riservare un epilogo analogo alla Cop27 era persino prevedibile. Che non tutte le posizioni emerse dalla convention Onu di Dubai siano da buttare nel bidone della spazzatura un’altra evidenza sulla quale riflettere.

Dopo una decina di giorni di chiacchiere e confronti, alla fine sembra che troveremo carbone (fossile) sotto l’albero di Natale. La prima bozza di accordo non convince, gas & oil continuano a farla da padrone, i Paesi produttori non ne vogliono sapere di dare un taglio alla loro principale fonte di introiti, la progressiva dismissione dei combustibili fossili pare abbia la cadenza musicale del fado. E pure la sua tristezza. La luce in fondo al tunnel sono le rinnovabili e, forse, il nucleare. Ma tra mille eccezioni, come da dichiarazione del ministro Gilberto Pichetto Fratin per quanto riguarda la posizione dell’Italia: una fessura non un’apertura. E, comunque, siamo nell’ordine di molti anni, insomma non una soluzione immediata.

Mentre le associazioni ambientaliste si ostinano a gettare vernice verde in fiumi, lagune e fontane, il mondo prende la sua piega. La spaccatura che emerge è netta. C’è preoccupazione per l’innalzamento della temperatura planetaria e per i risultati non in linea con le prospettive delineate dall’accordo di Parigi, probabilmente adesso c’è anche minore distanza tra Europa, Usa, Cina e India, nessuno dubita sulla necessità di “fare qualcosa”, ma sono i tempi e i modi che generano lo stallo. Da un lato la Ue che pesta sull’acceleratore per velocizzare la transizione green, dall’altro i Paesi produttori e in via di sviluppo che azionano il freno. Usando la ragione e non la pancia, è inimmaginabile pensare al mondo senza gas e senza petrolio in uno spazio temporale ristretto. Sultan al-Jaber sostiene con un’iperbole che si tornerebbe alla caverne: non è così, però non è nemmeno possibile ipotizzare a breve una società spinta solo da energie rinnovabili o biocarburanti. E siccome di radicalismo si perisce, lo sforzo maggiore dovrebbe farlo il buonsenso che non produce gas serra: non tutto subito, ma nemmeno niente per sempre. Sarebbe utile conoscere, oltre alla posizione del Governo, anche quelle delle nostre aziende di bandiera: da Eni a Enel, fino a Terna e Edison, Eph, A2A. Come si pongono in questa controversia?

La fotografia scattata alla Cop28 è chiarissima: Emirati, Arabia Saudita, Iraq, Iran e Russia non vogliono abbandonare la strada dei combustibili fossili, gli Stati Uniti stanno strategicamente nel mezzo, i giganti Cina e India manco si sono fatti sentire e tirano dritto allegramente. Insieme fanno 3 miliardi di persone, oltre un terzo della popolazione mondiale. Assodato che la transizione ecologica costi cara, vanno tutelate parimenti la stabilità delle economie e la salute del pianeta. Senza la prima non c’è la seconda. Sono da evitare gli estremismi o le asticelle fissate troppo in alto. E qui l’Europa può e deve darsi una regolata perché l’era-Timmermans ha prodotto guasti e lasciato strascichi. C’era una volta l’Europa che dettava il ritmo al mondo, adesso ci sono nazioni che da sole contano più di un continente intero. E che inquinano anche di più. Prenderne coscienza non è avere meno peso geopolitico ma capire in che epoca si sta vivendo. Diceva Seneca: non possiamo dirigere il vento ma possiamo orientare le vele.