Boom domanda fotovoltaico, prezzi pannelli a minimi storici: in Cina produttori in crisi

La Cina domina il mercato globale dei pannelli solari grazie a grande capacità produttiva e a prezzi ultra-competitivi. Il calo dei costi tuttavia sta diventando un boomerang per l’ex celeste impero, che nei prossimi mesi potrebbe assistere a numerosi fallimenti. Anche se la domanda solare aumenta con l’accelerazione della transizione energetica globale, il numero di produttori diminuirà nei prossimi 12-18 mesi, ha affermato Lan Tianshi, co-amministratore delegato di GCL Technology Holdings Ltd., il secondo produttore mondiale del materiale chiave polisilicio. “Il momento peggiore è arrivato”, ha aggiunto a Bloomberg, prevedendo che circa il 25% dei produttori di polisilicio saranno costretti ad abbandonare l’attività. “Questo è un test di pressione su chi può sopravvivere“. Molti produttori di energia solare vendono a prezzi prossimi ai costi di produzione e le aziende produttrici di polisilicio non annunciano più piani per costruire più fabbriche, ha sottolineato a Bloomberg. I nuovi impianti già in costruzione stanno annullando le fasi successive, mentre gli impianti completati ritardano l’inizio dell’attività.

Secondo l’autorevole Bernreuter Research l’eccesso di offerta spingerà i nuovi entranti fuori dal mercato nel 2024. L’anno prossimo il leader cinese del mercato del polisilicio Tongwei darà inizio a una fase di concorrenza spietata. “Tongwei prevede di mettere in funzione 575.000 tonnellate di nuova capacità produttiva il prossimo anno, mentre ci aspettiamo crescita del mercato di 200.000 tonnellate al massimo”, afferma Johannes Bernreuter, capo di Bernreuter Research e autore del ‘Polysilicon Market Outlook 2027’. La carenza di polisilicio nel 2021 e nel 2022 aveva fatto salire il prezzo spot fino a quasi 40 dollari al kg, attirando molti aspiranti cinesi nel settore. “Se tutte le nuove capacità venissero aumentate nel 2024, l’eccesso di offerta aumenterebbe fino a 1,4 milioni di tonnellate”, aggiunge Bernreuter. “Con i suoi bassi costi di produzione e la comprovata qualità del prodotto, Tongwei spingerà la maggior parte, se non tutti, i nuovi concorrenti fuori dal mercato”.

La crisi in Cina sembra alle porte anche se il più grande cliente dell’industria del polisilicio, il settore solare, è in rapida crescita. A differenza di altri ricercatori di mercato, Bernreuter prevede che gli impianti fotovoltaici annuali aumenteranno da 425 GW nel 2023 a 1.100 GW nel 2027, il che equivale a un tasso di crescita medio annuo del 26,8%. “I modelli previsionali tradizionali hanno per lo più sottostimato la crescita del fotovoltaico. Pertanto abbiamo adottato un approccio più aggressivo”, spiega l’analista. La rapida crescita alimenterà la forte domanda di silicio metallico, che è costituito da quarzo. “La conseguenza è inevitabile: nella seconda metà di questo decennio il quarzo per il silicio metallico scarseggerà“, prevede Bernreuter.

Nel frattempo i prezzi delle celle solari più vendute nell’attuale mercato solare, hanno continuato la loro traiettoria discendente arrivando a toccare i prezzi più bassi di sempre, secondo i dati OPIS – una società del gruppo Dow Jopnes – forniti a Pw Magazine.

inquinamento

Le emissioni di CO2 della Cina diminuiranno nel 2024 grazie alle rinnovabili

Secondo un nuovo studio, le emissioni di CO2 della Cina sono destinate a diminuire nel 2024, grazie alla crescita record della sua capacità di energia rinnovabile, che ora è sufficiente a coprire la crescente domanda del Paese. La Cina è attualmente il più grande emettitore di gas serra al mondo e prevede di raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060, respingendo le richieste di un obiettivo più ambizioso. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) stima che il Paese sarà responsabile del 45% delle emissioni di combustibili fossili tra il 2023 e il 2050. Ma la Cina sta anche costruendo capacità di energia rinnovabile a rotta di collo, con nuove installazioni solari che solo nel 2023 rappresentano il doppio della capacità totale degli Stati Uniti, secondo l’analisi del sito web britannico sul clima Carbon Brief pubblicata lunedì.

La nuova capacità aggiuntiva di energia solare, eolica, idroelettrica e nucleare nel solo 2023 genererà circa 423 terawattora (TWh) all’anno, equivalenti al consumo totale di elettricità della Francia“, si legge nel rapporto di Lauri Myllyvirta del Centre for Energy and Clean Air Research. Il massiccio aumento della capacità installata e la prevista ripresa della produzione idroelettrica dopo una prevedibile battuta d’arresto a causa della siccità “sono praticamente garantiti per ridurre la produzione di elettricità basata sui combustibili fossili e le emissioni di CO2 nel 2024”, si legge nel rapporto. Questo calo potrebbe essere sostenibile perché “il ritmo di sviluppo dell’energia a basse emissioni di carbonio è ora sufficiente non solo a fornire, ma anche a superare l’aumento medio annuo della domanda totale di elettricità in Cina“, precisa il rapporto. Questa analisi si basa su cifre ufficiali e dati commerciali.

Allo stesso tempo, però, la Cina continua ad espandere la sua capacità di produzione di energia elettrica a carbone, e il rapporto avverte che questo potrebbe portare a “uno scontro” tra gruppi di interesse divergenti. La crescita delle energie rinnovabili “minaccia gli interessi dell’industria del carbone e dei governi locali che dipendono fortemente dal settore del carbone“, avverte Carbon Brief. “Ci si può aspettare che questi attori si oppongano e ostacolino la transizione“.

Alti funzionari cinesi e statunitensi per il clima si sono incontrati questa settimana, prima dei colloqui della COP28 previsti per novembre, e hanno dichiarato di aver avuto colloqui “costruttivi“, senza fornire ulteriori dettagli.

European Chips Act

Ue avverte la Cina: “Alleanza internazionale per germanio e gallio”

L’Unione europea non si ferma. E’ decisa a giocare la partita della sostenibilità, accettando la sfida geopolitica lanciata da una Cina entrata prepotentemente nella corsa per la definizione di un nuovo modello economico-produttiva. Di fronte allo stop cinese all’export di germanio e gallio, materie prime utili alle transizioni verde e digitale, “la Commissione è in contatto con raffinatori e riciclatori internazionali e con sede nell’Ue per vedere se, se necessario, potrebbero aumentare o riprendere la produzione”. Lo assicura il commissario per il Mercato interno e l’industria, Thierry Breton, che mostra come l’Ue non sia ferma a guardare. “Ne vale la pena, poiché il gallio e il germanio sono sottoprodotti di metalli più comuni”, aggiunge. Avanti dunque con un’alleanza commerciale e industriale in salsa anti-cinese.

Forte di un territorio ricco di materie prime indispensabili e di un controllo di ciò che non è presente nel proprio sottosuolo, la Repubblica popolare chiude i rubinetti a dei flussi commerciali non casuali. Germania e gallio sono elementi utilizzati nei chip dei computer, nel settore delle telecomunicazioni, per la produzione di pannelli solari e veicoli elettrici. La Repubblica popolare cinese ha annunciato restrizioni nella vendita all’estero di queste materie prime, ma il commissario per l’Industria, Thierry Breton, ostenta ottimismo: “I materiali sono sottoprodotti e quindi il potenziale per raffinarli nell’Ue è elevato, anche a breve termine”. Come spiega, “il gallio, ad esempio, è stato prodotto nell’Ue fino al 2016, e il recupero del germanio dalle scorie è ancora in corso nell’Ue, e i progetti strategici orientati alla sua produzione potrebbero essere sostenuti dall’Ue”.

Condizionali d’ordinanza, perché a Bruxelles si è consapevoli della posta in gioco. Gallio e germanio sono stati inseriti nella lista Ue delle materie prime strategiche, versione 2023, quella dunque aggiornata. Per queste due materie prime l’esecutivo comunitario riconosce “rischi sistemici”. In particolare per il Gallio, “a causa della maggiore concentrazione della produzione globale in Cina e dell’interruzione di un’importante produzione interna”. Pechino ha iniziato a produrre solo per sé stessa, per tagliare fuori concorrenti nel nuovo business mondiale, voluto dagli europei.

Numeri alla mano, il compito che si è dato il team von der Leyen risulta tanto necessario quanto arduo. L’Ue ha un tasso di dipendenza dall’estero del 98% per quanto riguarda il gallio. Il ‘made in China’ da solo vale il 71% di questa domanda. Gli altri partner principali sono Stati Uniti (10%) e Regno Unito (9%). Diverso il mercato del germanio. Belgio e Germania riescono sia a produrre sia a lavorare, seppur in volumi insufficienti. Bisogna dunque affidarsi a Stati Uniti, Giappone e magari alle loro imprese. Perché alla fine la green economy l’Ue non potrà non farla senza un qualche contributo esterno. “Partnership strategiche potrebbero aiutare, nel medio termine, a diversificare l’offerta di gallio e germanio”, riconosce Breton. La Commissione è al lavoro. Perché non ha alternative.

idrogeno verde

Idrogeno green, Cina pronta a controllare 50% degli elettrolizzatori mondiali

Entro la fine del 2023, la Cina controllerà la metà della capacità mondiale installata di elettrolizzatori per la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio. E’ quanto emerge dall’ultima edizione della Global Hydrogen Review 2023 dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), nel quale si fa il punto sul settore. “Dopo un inizio lento, la Cina ha assunto un ruolo guida nella diffusione degli elettrolizzatori: entro la fine dell’anno, la capacità installata di elettrolizzatori in Cina dovrebbe raggiungere 1,2 Gigawatt, ovvero il 50% della capacità produttiva globale”, afferma l’Aie. 

Gli elettrolizzatori sono le apparecchiature utilizzate per la separazione industriale dell’idrogeno e dell’ossigeno all’interno della molecola d’acqua (H20) utilizzando l’elettricità, che a sua volta proviene da fonti a bassa emissione di carbonio o prive di carbonio (energia solare, eolica, idroelettrica o nucleare). Con la transizione energetica in atto, gli elettrolizzatori stanno diventando essenziali per sostituire il metodo tradizionale di produzione dell’idrogeno industriale, finora basato sul gas metano fossile (CH4), un metodo spesso legato all’industria petrolchimica, che è economico ma emette alti livelli di CO2.

Secondo l’Aie, la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio potrebbe raggiungere i 38 milioni di tonnellate entro il 2030 se tutti i progetti annunciati saranno realizzati. Tuttavia, l’Agenzia teme che l’aumento dei costi delle attrezzature dovuto all’inflazione “metta a rischio i progetti” e “riduca l’impatto del sostegno governativo”. Alcuni progetti hanno rivisto le stime dei costi iniziali fino al 50%.

Nonostante i venti contrari dell’economia, la diffusione degli elettrolizzatori sta iniziando ad accelerare. Alla fine del 2022, stima l’Aie, la capacità degli elettrolizzatori per la produzione di idrogeno ha raggiunto quasi 700 MW. Sulla base dei progetti che si trovano nelle fasi finali di finanziamento o che sono in fase di costruzione, la capacità totale potrebbe più che triplicare fino a raggiungere i 2GW entro la fine del 2023, con la Cina che, appunto, ne rappresenta la metà. Se tutti i progetti annunciati venissero realizzati, si potrebbe raggiungere un totale di 420GW entro il 2030, con un aumento del 75% rispetto alla revisione dell’Aie del 2022.

“Nel 2022, i progressi nell’uso dell’idrogeno a basse emissioni di carbonio sono molto lenti e copriranno solo lo 0,7% della domanda globale di idrogeno”, sottolinea il rapporto, “il che implica che la produzione e l’uso di idrogeno nel 2022 emetteranno 900 milioni di tonnellate di CO2 equivalente”.

La produzione annuale di idrogeno a basse emissioni potrebbe raggiungere i 38 milioni di tonnellate all’anno nel 2030, se tutti i progetti annunciati venissero realizzati, con quasi tre quarti provenienti da elettrolizzatori alimentati da energia rinnovabile e il resto da combustibili fossili con cattura, utilizzo e stoccaggio del carbonio. 

L’Aie chiede inoltre una maggiore cooperazione internazionale per “evitare la frammentazione del mercato”.

Il Green Deal non si può fare senza Cina: lo studio dell’Europarlamento

Il Green Deal europeo non può fare a meno della Cina. Il cambio di paradigma operato dalla Commissione von der Leyen produce una dipendenza, tutta nuova, da cui sottrarsi non appare possibile. Perché la repubblica popolare è troppo presente in quei settori e in quei mercati di cui l’Ue è povera eppur tanto, troppo bisognosa. Per fare della transizione verde servono terre rare, ma pure metalli quali niobio e tantalio, “essenziali per l’industria della difesa e l’energia rinnovabile in tutto il mondo”, rileva un’analisi del centro studi e ricerche del Parlamento europeo. Queste risorse sono tutte in mano cinese.

Considerando l’agenda politica europea e il contesto geopolitico internazionale, “gli impegni di neutralità climatica dell’Ue e le risposte degli Stati membri ai rischi sollevati dall’invasione russa dell’Ucraina hanno contribuito a una crescente domanda di tali metalli che dovrebbe continuare a medio termine”. Nel 2020, si ricorda nel documento, la Commissione europea ha stimato che la domanda di elementi di terre rare utilizzati nei magneti permanenti aumenterebbe di dieci volte entro il 2050. Con la Cina e le sue industrie a farla da padrone per una politica ponderata che ha permesso di conquistare vantaggio.

La Cina beneficia di un controllo schiacciante dell’estrazione e della lavorazione delle terre rare, un’industria considerata di grande importanza strategica”. Per l’Unione europea “evitare ogni cooperazione con aziende legate alla Cina potrebbe rivelarsi impossibile in un settore dominato in modo schiacciante dalla Cina”. L’unica strada percorribile, per non ritrovarsi tra le braccia del Dragone, è scegliere con cura gli investimenti e i partner. Si tratterebbe di procedere ad uno ‘screening’ delle imprese, della loro partecipazione azionaria asiatica e i lori rapporti con la Repubblica popolare cinese, presente anche nell’unico polo di lavorazione delle terre rare su suolo europeo.

L’Ue è in ritardo. Ha avviato una transizione senza essere pronta. “Gli Stati membri dell’Ue non dispongono di miniere di terre rare attive, mentre allo stesso tempo importanti progetti di estrazione di terre rare al di fuori della Cina, come quelli in Groenlandia, non sono ancora diventati operativi”. Inoltre, “anche la capacità di trasformazione europea è limitata, poiché è in gran parte concentrata in un unico impianto, vale a dire lo stabilimento Silmet in Estonia”. Ma di proprietà extra-Ue. Silmet a è di proprietà della Neo Performance Materials Corp (Npm), azienda canadese con sede a Toronto. Principale azionista di Npm è l’azienda australiana Hastings Technology Metals Ltd, attiva nel settore delle terre rare. “Wyloo Metals, di proprietà del fondo di investimento Tattarang, ha finanziato Hastings per l’acquisizione di Npm”. In questo gioco di acquisizioni e partecipazioni, “Tattarang è ancora di proprietà della famiglia dell’imprenditore minerario australiano Andrew Forrest, i cui legami con la Cina sono particolarmente estesi”. In particolare “la sua attività principale, Fortescue Metals Group, estrae ed esporta minerale di ferro in Cina, che è il mercato principale dell’azienda per questo prodotto. Forrest è stato ripetutamente collegato ai tentativi del partito-stato cinese di influenzare la politica del suo paese d’origine”.

Il dominio cinese su terre rare, niobio e tantalio si spiega anche con una politica avviata con largo anticipo, mirata e finalizzata a conquistare vantaggi. In aggiunta al suo controllo sulle risorse di terre rare, ricorda il documento, “ la Cina ha ripetutamente cercato di ottenere il controllo di importanti giacimenti all’estero, una strategia coerente con il desiderio di mantenere la leva finanziaria che la Cina ha sfruttato per fini politici controversi”. Oltre al pieno controllo della catena di approvvigionamento della Cina, il predominio del mercato globale delle terre rare “significa che il Paese può scegliere di assumere una posizione ostile nel raggiungimento degli obiettivi politici”, come dimostrato dagli eventi del 2010, quando il governo cinese ha imposto quote di esportazione al Giappone e ha interrotto le esportazioni poiché ha chiesto il rilascio di un capitano cinese detenuto per aver pescato in acque che la Cina rivendica come proprie. Se è vero che “nel 2023 i resoconti dei media hanno affermato che il governo stava prendendo in considerazione un divieto di esportazione di terre rare”, Green Deal e transizione verde europea passano per la Cina.

Cina e Russia investono 1,4 miliardi di dollari in due miniere di litio in Bolivia

Cina e Russia investiranno 1,4 miliardi di dollari per aprire due miniere di litio in Bolivia. Lo ha annunciato il governo del Paese sudamericano, che dispone di grandi quantità di questo metallo necessario per le batterie delle auto elettriche. La cinese Citic Guoan e la russa Uranium One Group, due gruppi con grandi partecipazioni statali, uniranno le forze con la società statale Yacimientos de Litio Bolivianos (YLB) per costruire due impianti di produzione di carbonato di litio, ha dichiarato il presidente boliviano Luis Arce durante un evento pubblico.

Secondo il piano presentato dal governo, Uranium One Group metterà sul piatto 578 milioni di dollari (532 milioni di euro) per un impianto nel deserto di sale di Pastos Grandes, mentre Citic Guoan investirà 857 milioni di dollari (789 milioni di euro) per un progetto simile nel deserto di sale di Uyuni. Entrambi i siti si trovano nel dipartimento sud-occidentale di Potosi. Il ministero boliviano degli Idrocarburi e dell’Energia ha dichiarato che “ogni complesso avrà una capacità produttiva di 25.000 tonnellate metriche all’anno“. I lavori inizieranno entro tre mesi. I rappresentanti delle tre parti erano presenti alla firma del contratto.

A gennaio, il governo boliviano ha firmato un altro accordo con il consorzio cinese CBC per due fabbriche di batterie al litio, per un valore di almeno un miliardo di dollari (920 milioni di euro). Il litio è un metallo essenziale per la produzione di batterie per veicoli elettrici e ibridi e per altri tipi di sistemi di accumulo di energia. È diventato una risorsa strategica in vista della necessità di rendere il settore automobilistico più ecologico, anche se il riciclaggio delle batterie usate è ancora un problema.

La Bolivia stima che nel deserto di sale di Uyuni siano disponibili 21 milioni di tonnellate di litio e sostiene che si tratti del più grande giacimento al mondo. Tuttavia, il Paese sudamericano fatica a sfruttare le sue immense riserve per ragioni geografiche e topografiche, ma anche per tensioni politiche e mancanza di know-how. Il ministero degli Idrocarburi e dell’Energia ha dichiarato a gennaio che prevede di esportare litio per un valore di 5 miliardi di dollari (4,6 miliardi di euro) entro il 2025, che supererebbe le entrate generate dal gas naturale, la principale fonte di reddito della Bolivia nel 2022 con 3,4 miliardi di dollari (3,1 miliardi di euro).

Meloni: “Sfida del clima non gravi sulla nostra economia, l’aumento dei tassi ricetta semplicistica”

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha parlato alla Camera in vista del Consiglio europeo di domani e venerdì, trattando tutti i temi più caldi di questo periodo, dalla guerra Ucraina-Russia al Mes, dal Piano Mattei per l’Africa alla transizione ecologica, dalla decisione della Bce di alzare ulteriormente i tassi alla dipendenza dalla Cina. Quasi 40 minuti di intervento per dettare la linea del governo italiano a Bruxelles.

LA MIA AFRICA – Meloni ha detto che “molti stati europei hanno dimostrato interesse e apprezzamento per il Piano Mattei per l’Africa”. Che non è solo una strategia energetica: “Si fa strada l’approccio che mira a superare la contrapposizione tra movimenti primari e secondari – ha precisato -. Se non si affronta a monte l’immigrazione illegale, è impossibile stabilire una politica di asilo giusta ed efficace. Una società come la nostra non può lasciare agli schiavisti dei nostri giorni il potere di decidere chi entra e chi esce dall’Europa. Un approccio che colpisce i più deboli e i più fragili. Questo cambio di passo significa mantenere alta l’attenzione ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo e dell’Africa, coniugando lotta ai trafficanti con politiche di sviluppo”. E ancora: “L’Italia ha presentato un documento di posizione per il rilancio del partenariato su energia, migrazione e transizione verde con il Vicinato Sud, auspichiamo che si possa tenere un vertice con i leader dei paesi interessanti sotto la presidenza spagnola”. Sulla Tunisia ha aggiunto: “Mi sono personalmente impegnata con le recenti missioni per mantenere alta l’attenzione sulla stabilità, fondamentale per la sicurezza del Mediterraneo e dell’Unione europea”.

SICUREZZA NUCLEARE – L’Ucraina continuerà ad avere il massimo sostegno da parte dell’Italia ma “dopo l’atto criminale dell’esplosione della diga di Nova Kachovka, temiamo che anche per la centrale di Zaporizhzhia possa essere usata come strumento di guerra”, è l’allarme lanciato dalla premier, precisando che il governo “sostiene pienamente gli sforzi del direttore generale dell’Aiea Rafael Grossi per garantire la sicurezza nucleare“. L’Italia, assicura Meloni, sarà “protagonista” nella ricostruzione dell’Ucraina devastata dal conflitto con la Russia.

FONDO SOVRANO E TRANSIZIONE VERDE – “Lo Step è uno strumento che è anche un primo passo per un Fondo europeo di Sovranità, fondamentale per affrontare con risorse adeguate sfide come le transizioni verde e digitale, la difesa, la salute. Sfide che ci impegneranno nei prossimi decenni”, ha evidenziato la presidente del Consiglio. La lotta al cambiamento climatico è prioritaria, però “non possiamo affrontare questa sfida gravando solo ed esclusivamente sulle nostre economia, la Cina deve essere coinvolta”, ha detto Meloni. Che proprio sulla Cina ha voluto precisare che “il disaccoppiamento tra l’economia europea e quella cinese se da un lato non è percorribile, dall’altro è necessario ridurre il rischio, sostenere con forza la competitività del nostro sistema produttivo per non cadere in deleteri legami di dipendenza”. E’ ineludibile il fatto che “la Cina è un interlocutore imprescindibile, ma il nostro rapporto vuole essere equilibrato”.

ATTACCO ALLA BCE – “L’inflazione è tornata a colpire l’economia, è un’odiosa tassa occulta che colpisce soprattutto i meno abbienti. È giusto combatterla con decisione ma la semplicistica ricetta dell’aumento dei tassi intrapresa dalla Bce non appare agli occhi di molti la strada più corretta”, ha picchiato duro Meloni. “L’aumento dei prezzi non è figlio di un’economia che cresce troppo velocemente, è figlio di fattori endogeni. Primo tra tutti la crisi energetica. Non si può non considerare il rischio che l’aumento costante dei tassi sia una cura più dannosa della malattia”, ha concluso.

Servono 100 trilioni per arrivare al Net Zero nel 2050, Cina protagonista

Bank New York Mellon Investment Management, in collaborazione con Fathom Consulting, ha pubblicato recentemente una nuova ricerca, ‘Una guida per gli investitori verso lo zero netto entro il 2050’, che mostra che l’economia globale è significativamente in ritardo rispetto ai tempi previsti nel raggiungimento degli obiettivi zero netto del 2050, ma può colmare il divario con 100 trilioni di dollari di investimento ‘verde’. Secondo, invece, le stime dell’Ocse per avere almeno il 66% di probabilità di contenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia dei 2°C, saranno necessari investimenti per oltre 103.500 miliardi di dollari nel periodo che va dal 2016 al 2030, con un aumento di quelli per il clima di circa il 590% l’anno rispetto alle cifre attuali. Sebbene gli investimenti verdi siano in crescita, la ricerca di BNY Mellon evidenzia che saranno necessarie più azioni da parte di governi, asset allocator e società per facilitare la transizione verso lo zero netto. Questi 100 trilioni di dollari rappresentano circa il 15% dell’investimento globale totale nei prossimi 30 anni, o circa il 3% del prodotto interno lordo globale nello stesso periodo.

Le sole società dell’S&P 500 americano dovranno spendere circa 12 trilioni di dollari di investimenti verdi entro il 2050 per rimanere in linea. Detto così, sono cifre talmente alte, che non rendono l’idea della mole di investimenti per arrivare all’obiettivo del 2050. Tuttavia qualsiasi investimento sarà più veloce e più sostenuto, anche a livello pubblico, se il target sarà redditizio. In questo senso fa gioco un nuovo rapporto dell’Università di Oxford, in base al quale il passaggio dai combustibili fossili all’energia rinnovabile potrebbe far risparmiare al mondo ben 12.000 miliardi di dollari entro il 2050. Da dove arriva questa cifra? Il calcolo di Oxford è empirico e parte dal fatto che il costo della sola energia solare è crollato dell’80% dal 2010 e che le rinnovabili nel loro insieme sono state la fonte di energia più economica al mondo nel 2020.

In questa direzione è interessante notare come, nel 2022 siano stati investiti nel mondo 1,1 trilioni di dollari in tecnologie a basse emissioni di carbonio. Un numero record, oltre mille miliardi, che ormai ha eguagliato i fondi a sostegno di combustibili fossili. Quasi tutti i settori hanno raggiunto un nuovo picco, tra cui rinnovabili, stoccaggio di energia, trasporto elettrificato, calore elettrificato, cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), idrogeno e materiali sostenibili. Solo gli investimenti nell’energia nucleare sono rimasti sostanzialmente invariati. Tirano le rinnovabili, con 495 miliardi di dollari impegnati, +17% rispetto all’anno precedente. Ma il vero e proprio boom è legato al trasporto elettrificato, che include la spesa per i veicoli elettrici e le infrastrutture associate, avvicinatosi a 466 miliardi di dollari (+54% su base annua).

Se però andiamo a vedere quali Paesi hanno beneficiato maggiormente di investimenti, i dati di BNEF mostrano che è la Cina ad aver attratto più i fondi della transizione energetica con 546 miliardi di dollari, circa la metà del totale. Gli Stati Uniti sono al secondo posto con 141 miliardi, anche se l’intera Ue ha ricevuto 180 miliardi. A livello di singoli Paesi la Germania ha mantenuto il suo terzo posto mondiale, mentre il Regno Unito è sceso al quinto superato dalla Francia.

Washington Consensus, la ricetta di Sullivan per la globalizzazione

Gli Usa e i loro alleati occidentali secondo Sullivan, consigliere per la sicurezza del Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ,devono partire dagli errori e dai punti deboli della globalizzazione per superarli creando nuovi equilibri. In particolare non è più possibile pensare a una crescita economica svincolata dalla sicurezza strategica. Ciò vale sia per la globalizzazione del futuro e i suoi scambi commerciali ma anche per l’ambientalismo, che deve cessare di essere una religione neopagana e fare i conti con la realtà.

Inoltre la crescita deve avere al centro l’industria le cui produzioni, specie quelle più strategiche, non possono essere delocalizzate; e deve essere inclusiva, cioè capace di portare benessere agli strati sociali più vasti. Ancora, occorre trovare sostegni e supporti di ogni tipo per i Paesi a basso e medio reddito cercando di colmare il più possibile il gap economico e infrastrutturale. La ricetta di Sullivan, che esprime in realtà la visione di un Presidente democratico alle prese con un mondo sempre più multipolare, ma anche più caotico, mostra la fiducia (e l’ambizione) dei ‘liberal’ americani in un mondo migliore, e la convinzione che ciò che chiamiamo Occidente, e cioè gli Usa e i suoi alleati, siano capaci di migliorare il mondo, di difendere le istituzioni democratiche, di allargare sempre di più il benessere dei popoli e anche di quelle fasce di lavoratori che sono stati duramente colpiti dai processi di globalizzazione. Si tratta di una visione positiva e a suo modo ottimista che contrasta con il pessimismo cosmico di osservatori e politologi soprattutto ma non solo europei (si veda ad esempio Lucio Caracciolo sull’ultimo numero di Limes “il bluff globale”) che vedono una crisi irreversibile dell’egemonia americana e occidentale e l’avvento ingovernabile di caos a livello planetario.

La positività della visione di Sullivan e quindi della presidenza americana sta non solo nella lucidità dell’analisi sulle insufficienze del passato ma anche nel fatto che le proposte sono concrete e strutturate e segnalano, dopo quasi un decennio di basso profilo internazionale sia pure per ragioni diverse delle due presidenze di Obama Trump, un ritorno della politica americana alla grande politica internazionale  e allo sforzo di occuparsi del destino del globo con una visione attiva o proattiva.

Dell’analisi di Sullivan sulle insufficienze della globalizzazione ci siamo occupati nel numero precedente.  Oggi vediamo di esaminare e dare conto delle proposte.

Gli obbiettivi sono chiari:

  • Ricostruire capacità industriale perduta e costruire nuova capacità nei settori di punta: conduttori, biotecnologie, intelligenza artificiale.
  • Costruire sicurezza strategica attraverso catene di approvvigionamento diversificate e resilienti, per evitare dipendenze da paesi non amici.
  • Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione verso un’energia pulita ma che sia sostenibile non solo ambientalmente ma anche economicamente e socialmente.

Il perseguimento di questi obbiettivi non comporta scelte protezionistiche o autarchiche, ma un approccio completamente diverso allo scambio e ai commerci internazionali.

L’Occidente non deve rinunciare alla liberalizzazione dei mercati ma bisogna perseguire accordi commerciali più moderni non solo basati sul livello delle tariffe doganali ma capaci di produrre risultati più generali di politica economica quali: la sicurezza delle catene di approvvigionamento, la creazione di buoni posti di lavoro che sostengano le famiglie, la garanzia della sicurezza e dell’affidabilità delle infrastrutture digitali, la promozione di una giusta e equa transizione energetica.

Un esempio di questi nuovi accordi è rappresentato dall’Indo Pacific Economic Framework, negoziato con 13 Paesi dell’area Indo-pacifica e volto a garantire l’accelerazione della transizione energetica, l’equità fiscale, la lotta contro la corruzione, standard elevati per accordi tecnologici e catene di approvvigionamento più resilienti.

L’approccio volto a connettere commercio e clima trova un’importante espressione nell’accordo globale su acciaio e alluminio che gli Usa stanno negoziando con l’Unione Europea, il cosiddetto Global Sustainable Steel.

Questo accordo dovrebbe affrontare contemporaneamente il tema delle emissioni climalteranti e della loro intensità e quello dell’l’eccesso di capacità produttiva che affligge storicamente i due settori. È necessario un forte intervento riformatore sulle regole del WTO (l’Organizzazione del Commercio mondiale) per garantire il perseguimento dei fini per cui è nato: concorrenza leale, apertura, trasparenza e stato di diritto. Pratiche e politiche non di mercato di numerosi Stati aderenti minacciano questi valori fondamentali. Per questo gli Usa e molti paesi occidentali stanno lavorando per riformare il sistema commerciale multilaterale in modo che vada a beneficio dei lavoratori, che tenga conto dei legittimi interessi di sicurezza nazionale, che promuova una transizione energetica giusta e equa.

Vi è poi l’enorme tema della mobilitazione di ingenti risorse economiche e finanziarie a favore delle economie dei Paesi emergenti.

Gli Usa e la Ue hanno avviato un grande sforzo per far evolvere le banche multilaterali di sviluppo in modo che siano all’altezza delle necessità dell’oggi. Fondo Monetario InternazionaleBanca Mondiale, Banche regionali devono ampliare i loro bilanci per affrontare le sfide del nostro tempo: cambiamento climatico, pandemie, fragilità dei territori, conflitti.

Contemporaneamente all’evoluzione delle banche multilaterali di sviluppo è stato lanciato un grande piano per colmare il divario infrastrutturale nei paesi a basso e medio reddito. Gli Usa mobiliteranno centinaia di miliardi di dollari per finanziare infrastrutture energetiche, fisiche e digitali da qui alla fine del decennio e per aiutare i Paesi, specie africani, indebitati pesantemente con la Cina in anni in cui l’Occidente è stato completamente assente da quel contesto strategico.

Infine, una considerazione sulla Cina.

Sullivan ribadisce, come fatto recentemente da Ursula von der Leyen, che gli Usa sono per il de-risking, cioè per ridurre le dipendenze strategiche dall’estero per le catene di approvvigionamento, e per la diversificazione, non per l’interruzione dei rapporti economici e commerciali con la Cina, cosa che sarebbe del tutto impossibile.

Il tema è il controllo sulle tecnologie che potrebbero alterare l’equilibrio militare, cioè la necessità di assicurarsi che le tecnologie statunitensi e occidentali non vengano usate contro gli Usa e il resto dell’Occidente.

Quindi, nessuno pensa all’ interruzione dei rapporti di scambio con la Cina: tutto l’Occidente continua e continuerà ad avere rapporti commerciali e di investimento molto consistenti con il gigante asiatico; non si tratta di cercare il confronto o il conflitto, ma di gestire la concorrenza in modo responsabile cooperando con la Cina laddove è possibile.

Questo il pensiero della presidenza democratica americana. Come si diceva, è una buona notizia, perché segna il ritorno degli Stati Uniti d’America, dopo anni di confusione e di incertezze, alla grande politica internazionale.

L’unico interrogativo che è lecito porsi è se questa impostazione consentirà a Biden di essere riconfermato presidente per il secondo mandato. In caso contrario con la vittoria di Trump o di altro candidato repubblicano tutto verrebbe rimesso in discussione.

Questa è la vera ragione per la quale l’Unione Europea, sia pur sempre nel quadro di una confermata amicizia e solidarietà euro-atlantiche, dovrebbe accelerare sulle politiche e sulle spese di sicurezza e di difesa comune e sulle politiche industriali, cercando di rimettere al centro dell’agenda l’industria, la sua innovazione, i suoi effetti sociali oltre che economici.

Italia in uscita dalla Via della seta cinese. Ma anche Pechino non fa investimenti green da noi

Se mi trovassi a dover firmare il rinnovo di quel memorandum domani mattina, difficilmente vedrei le condizioni politiche”, aveva dichiarato Giorgia Meloni all’agenzia di stampa taiwanese Cna a settembre, riferendosi al rinnovo previsto nel 2024 della Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della seta cinese, siglata nel 2019 a Roma tra Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio della maggioranza gialloverde, e il leader asiatico Xi Jinping. “Spero che il tempo serva a Pechino per ammorbidire i suoi toni e fare qualcosa di concreto verso il rispetto della democrazia, dei diritti umani e della legalità internazionale”, aveva poi sottolineato l’attuale premier, criticando aspramente le tensioni a Taiwan causate dall’ex celeste impero. E oggi Bloomberg rivela come l’Italia abbia “segnalato agli Stati Uniti che intende ritirarsi da un controverso patto di investimenti con la Cina entro la fine dell’anno”. Meloni avrebbe rassicurato il presidente della Camera americano, Kevin McCarthy, durante l’incontro a Roma della scorsa settimana. Nonostante non sia stata presa una decisione definitiva, tuttavia il “governo sta favorendo un’uscita dal suo ruolo nella massiccia Belt and Road Initiative della Cina“, secondo i presenti ai colloqui citati da Bloomberg. “I consiglieri diplomatici della capo del governo stanno ancora discutendo sui dettagli e sui tempi di una decisione, temendo ritorsioni economiche da parte cinese” – continua ancora Bloomberg – e probabilmente “nulla sarà reso pubblico prima dell’inizio del vertice dei leader del G7 a Hiroshima, in Giappone, il 19 maggio”, cioè la prossima settimana. Da tempo – come scriveva Politico.com – “gli alti funzionari di entrambe le sponde dell’Atlantico si aspettano che Meloni segnali la direzione che Roma prenderà”.

La partecipazione all’alleanza, che consta di 19 intese istituzionali e 10 accordi commerciali, senza una disdetta ufficiale si rinnoverebbe automaticamente nel marzo 2024. Disdetta che deve arrivare ufficialmente dunque entro dicembre, tre mesi prima del rinnovo. La Belt and Road Initiative cinese ha finanziato 900 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali nel mondo. In Italia però i risultati non sono stati soddisfacenti. Nel 2022 le esportazioni verso la Cina sono state pari a 16,4 miliardi di euro, rispetto ai 13 miliardi di euro del 2019. Le importazioni dalla Cina sono invece volate a 57,5 miliardi di euro dai 31,7 miliardi di quattro anni fa. Francia e Germania, che non fanno parte della Via della Seta, hanno esportato molto di più a Pechino dell’Italia. Proprio questo timido beneficio all’economia tricolore dovrebbe essere usato come motivo per sancire l’uscita dalla Via della seta, pur tenendo ovviamente aperte le porte a scambi commerciali.

D’altronde gli stessi investimenti diretti cinesi in Europa hanno raggiunto il minimo decennale di soli 7,9 miliardi di euro nel 2022, in calo del 22% rispetto al 2021. La diminuzione – secondo un recentissimo report di Rhodium – riporta gli investimenti cinesi al livello del 2013. La mancanza di attività cinesi di fusione e acquisizione (M&A) è stata la ragione principale della discesa. Solo gli investimenti green cinesi in Europa sono aumentati del 53%, superando i flussi di M&A per la prima volta dal 2008, trainati dalle fabbriche di batterie per veicoli elettrici. L’88% però è confluito in appena quattro Paesi, ovvero le economie europee dei ‘tre grandi’ (Regno Unito, Francia e Germania) e l’Ungheria. Italia esclusa. Anche i cinesi dunque sembrano non aver più tanto interesse a portare la loro seta nel nostro Paese.