Il riscaldamento globale arriva davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo

Vogliono “costringere i governi a ridurre le emissioni di gas serra“: mercoledì sei giovani portoghesi porteranno 32 Paesi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), sperando di creare un corpus giurisprudenziale che rafforzi la lotta al cambiamento climatico. Di età compresa tra gli 11 e i 24 anni, i ricorrenti hanno vissuto in prima persona gli incendi che nel 2017 hanno bruciato decine di migliaia di ettari e causato più di 100 vittime nel loro Paese. È stato un disastro che ha aumentato la loro consapevolezza del riscaldamento globale e ha fatto nascere in loro il desiderio di chiedere responsabilità. “I governi europei non riescono a proteggerci“, afferma il quindicenne André Oliveira, uno dei sei richiedenti. “Siamo in prima linea nel cambiamento climatico in Europa: anche a febbraio ci possono essere 30 gradi. E le ondate di calore sono sempre più gravi“.

Lui e i suoi compagni accusano i 27 Stati dell’Unione Europea, così come la Russia, la Turchia, la Svizzera, la Norvegia e il Regno Unito, di non limitare a sufficienza le loro emissioni di gas serra, ritenendo che ciò alimenti il riscaldamento globale e influisca sulle loro condizioni di vita e di salute. Dal punto di vista legale, i sei giovani portoghesi lamentano violazioni del “diritto alla vita” e del “diritto al rispetto della vita privata“, sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare alla luce degli impegni internazionali stabiliti nell’accordo sul clima di Parigi del 2015.

Il loro avvocato, Gerry Liston, membro dell’ONG britannica Global Legal Action Network (Glan), spera in una sentenza della CEDU “che agisca come un trattato vincolante imposto dalla Corte” agli Stati e che imponga loro “di accelerare gli sforzi per mitigare i cambiamenti climatici“. “Da un punto di vista giuridico, sarebbe una svolta“, afferma, in un momento in cui, in Europa come altrove, i tribunali sono chiamati sempre più spesso ad affrontare l’inazione climatica dei governi o le politiche inquinanti delle aziende.

A Strasburgo, dove ha sede la CEDU, il caso è preso sul serio: classificato come “prioritario“, sarà discusso anche davanti all’organo più solenne della Corte, la Grande Camera, composta da 17 giudici. “Si tratta di un caso unico“, ha dichiarato all’AFP una fonte della Corte, soprattutto in termini di “numero di Stati” coinvolti e di questioni affrontate. Negli ultimi trent’anni, la CEDU ha prodotto numerose decisioni relative all’ambiente, ad esempio sulla determinazione della responsabilità in caso di disastri naturali (inondazioni, terremoti, ecc.) o sulle conseguenze della realizzazione di progetti industriali (acciaierie, centrali nucleari, ecc.), ma questa è la prima volta che si occupa specificamente del riscaldamento globale. Ma prima di pronunciarsi sul merito, la Corte esaminerà innanzitutto la ricevibilità del ricorso, che implica il rispetto di criteri rigorosi su cui molti casi si sono arenati in passato, anche in materia ambientale. Nel caso presentato dai sei portoghesi, la questione sarà probabilmente molto dibattuta. La CEDU di solito pretende che i richiedenti abbiano esaurito i rimedi disponibili presso i tribunali nazionali prima di rivolgersi ad essa. In questo caso, tuttavia, i sei ricorrenti si sono appellati direttamente all’istituzione, sostenendo che condurre procedimenti separati in ciascuno dei 32 Stati interessati rappresenterebbe un “onere eccessivo e sproporzionato.

È un Davide contro Golia“, afferma Gearoid O Cuinn, direttore del Glan. “Si tratta di un caso senza precedenti in termini di portata e conseguenze“. Nel loro approccio, i ricorrenti hanno anche attirato l’attenzione del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, che ha inviato osservazioni alla Corte. In particolare, la commissaria ritiene che i giudici europei debbano “fornire una protezione concreta alle persone che subiscono le conseguenze del cambiamento climatico“. “Veniamo a Strasburgo con molte speranze“, afferma André Oliveira. “È ancora possibile evitare che la crisi climatica vada fuori controllo, ma il tempo sta per scadere”. La decisione della Corte non sarà annunciata prima di alcuni mesi.

Crisi climatica ‘minaccia esistenziale’: Biden all’Onu esorta all’impegno globale

E’ stata l’estate più torrida della storia. E’ stata l’estate degli incendi boschivi e dei disastri naturali, tra temperature più alte di sempre, uragani e inondazioni record. E’ stata l’estate in cui gli effetti della crisi climatica si sono resi evidenti a tutti. Una vera “minaccia esistenziale” per tutta l’umanità. A dirlo è Joe Biden, presidente degli Stati Uniti (uno dei maggiori Paesi inquinatori insieme alla Cina), dal palco della 78esima Assemblea generale delle Nazioni Uniti, che si è aperta ieri a New York. “Fin dal primo giorno della mia amministrazione, gli Usa hanno trattato la crisi climatica come la minaccia esistenziale che rappresenta, non solo per noi, ma per tutta l’umanità”, ha detto Biden citando ondate di caldo da record negli Stati Uniti e in Cina, gli incendi in Nord America ed Europa meridionale, la siccità nel Corno d’Africa e la tragica alluvione in Libia. Nel loro insieme, “queste istantanee raccontano una storia urgente di ciò che ci aspetta se non riusciamo a ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili e iniziamo a rendere il nostro mondo a prova di clima”. Per questo, per Biden, è necessario aderire “tutti insieme” allo stesso impegno per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione.

Nei giorni scorsi, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva avvertito più volte: “Siamo entrati nell’era dell’ebollizione globale” e “l’umanità è sulla sedia elettrica”. Per mercoledì 20 settembre ha convocato, sempre a New York, un summit sull’ambizione climatica, a margine dell’Assemblea Onu. Non si sa ancora chi vi parteciperà: Guterres, infatti, ha posto l’inedita condizione che solo i politici che porteranno soluzioni efficaci e concrete saranno ammessi sul palco. Per le Nazioni Unite questo vertice ‘parallelo’ rappresenta una “pietra miliare politica” per dimostrare la volontà collettiva di accelerare gli sforzi per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. In un rapporto sul clima sempre dell’Onu, pubblicato questo mese, gli esperti internazionali prevedono che le emissioni di gas serra dovrebbero raggiungere il picco nel 2025 – seguito da un netto calo in seguito – se l’umanità si ponesse la finalità di limitare il riscaldamento globale, in conformità con gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Questo fa seguito all’appello lanciato da Guterres ai Paesi – in particolare ai membri del G20 – affinché cooperino per accelerare l’azione per il clima. La lista delle cose da fare include la discussione su come passare dai combustibili fossili all’energia pulita, tagli rapidi alle emissioni e l’impegno ad agire su base scientifica. I tre pilastri fondamentali del vertice sono l’ambizione, la credibilità e l’attuazione. “Dobbiamo essere determinati ad affrontare la minaccia più immediata per il nostro futuro: il nostro pianeta surriscaldato. Le azioni stanno precipitando, il caos climatico sta battendo nuovi record, ma non possiamo permetterci lo stesso vecchio disco rotto di trovare capri espiatori e aspettare che altri si muovano per primi”, ha esordito Guterres in apertura dell’Assemblea Onu. “I paesi del G20 sono responsabili dell’80% delle emissioni di gas serra – ha aggiunto – Devono guidare“.

Nel suo discorso di apertura, Guterres ha dipinto un quadro molto cupo di un “mondo sottosopra”, dove le tensioni geopolitiche “stanno peggiorando” e il riscaldamento globale “sta minando più direttamente il nostro futuro”. Simbolo di questa “serie” di crisi, l’alluvione di Derna in Libia,triste istantanea dello stato del nostro mondo, trascinato dal torrente di disuguaglianze e ingiustizie, e paralizzato di fronte alle sfide da raccogliere“. Le migliaia di persone che hanno perso la vita “sono state vittime di diversi flagelli. Vittime di anni di conflitto. Vittime del caos climatico. Vittime di leader, che, lì e altrove, non sono riusciti a trovare la via della pace”. Tra queste, emblematica è la guerra in Ucraina. Il presidente americano Biden ha invitato tutti i paesi a “opporsi all’aggressione russa”, perché “noi e Kiev vogliamo la pace, è solo la Russia a sbarrare il cammino”. Mosca “crede che il mondo si stancherà e lascerà che brutalizzi l’Ucraina senza conseguenze” ma “se permettiamo che l’Ucraina venga smembrata, l’indipendenza delle nazioni sarà ancora garantita? La risposta è no“, ha insistito tra gli applausi del pubblico.

Un anno fa il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj era stato eccezionalmente autorizzato a parlare tramite videomessaggio. Ieri era presente di persona, oggi parteciperà a una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza mentre domani sarà a Washington per essere accolto alla Casa Bianca, giovedì.

Prima volta all’Assemblea generale dell’Onu anche per la premier italiana Giorgia Meloni che ieri ha avuto un breve scambio con il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, e con la presidente del Parlamento Ue Roberta Metsola. L’intervento della presidente del Consiglio è in programma oggi alle 19 ora locale, l’una di notte in Italia. 

L’impronta di carbonio si dimezza con lo smart working, ma conta anche lo stile di vita

L’impronta di carbonio di un lavoratore in smart working può essere inferiore del 54% rispetto a chi, invece, lavora in sede, ma gli stili di vita e le modalità di lavoro giocano un ruolo essenziale nel determinare i benefici ambientali di questa forma di occupazione. Ad analizzare la questione – divenuta di grande attualità con la pandemia – è uno studio della Cornell University e di Microsoft, pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca rivela anche che i cosiddetti lavoratori ‘ibridi’ – cioè chi sta a casa da due a quattro giorni alla settimana – possono ridurre la loro impronta di carbonio dall’11% al 29%, mentre lo smart working un solo giorno alla settimana dà risultati più trascurabili, riducendo l’impronta di carbonio solo del 2%.

“Il lavoro a distanza non è a zero emissioni di carbonio e i benefici di quello ibrido non sono perfettamente lineari”, spiega l’autore dello studio, Fengqi You, professore di ingegneria dei sistemi energetici alla Cornell. “Tutti sanno che senza pendolarismo si risparmia sull’energia dei trasporti – dice – ma ci sono sempre gli effetti dello stile di vita e molti altri fattori”.

Secondo la ricerca, i principali elementi che contribuiscono all’impronta di carbonio dei lavoratori in sede e di quelli ibridi sono gli spostamenti e l’uso dell’energia in ufficio. Questo non sorprende i ricercatori che quantificano l’impatto dello smart working sull’ambiente, ma Cornell e Microsoft hanno utilizzato i dati di un sondaggio e la modellazione per incorporare fattori a volte trascurati nel calcolo dell’impronta di carbonio, tra cui l’uso di energia residenziale, la distanza e il modo di trasporto, l’uso di dispositivi di comunicazione, il numero di membri della famiglia e la configurazione dell’ufficio, come la condivisione dei posti e le dimensioni dell’edificio.

Molte le scoperte fatte dagli autori. Intanto, gli spostamenti non pendolari, come quelli per le attività sociali e ricreative, diventano più significativi con l’aumentare del numero di giorni di lavoro a distanza. Inoltre, condividere i posti a sedere in presenza può ridurre l’impronta di carbonio del 28%. E, ancora, i lavoratori ibridi tendono a spostarsi più lontano rispetto ai lavoratori in sede a causa delle differenze nelle scelte abitative. Gli effetti del lavoro remoto e ibrido sulle tecnologie di comunicazione, come l’uso di computer, telefono e internet, invece, hanno un impatto trascurabile sull’impronta di carbonio complessiva.

“Il lavoro remoto e ibrido mostra un grande potenziale di riduzione dell’impronta di carbonio, ma quali sono i comportamenti che le aziende e altri responsabili politici dovrebbero incoraggiare per massimizzare i benefici?”, dice Longqi Yang, principal applied research manager di Microsoft e autore dello studio. “I risultati suggeriscono che le organizzazioni dovrebbero dare priorità ai miglioramenti dello stile di vita e del luogo di lavoro”.

Secondo Yang, dallo studio emerge che le aziende e i responsabili politici dovrebbero concentrarsi anche sull‘incentivazione del trasporto pubblico rispetto all’auto, sull’eliminazione degli uffici per i lavoratori a distanza e sul miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici adibiti a ufficio. “A livello globale, ogni persona, ogni Paese e ogni settore ha questo tipo di opportunità con il lavoro a distanza. Come potrebbero i benefici combinati cambiare il mondo intero? Questo è un aspetto che vogliamo davvero approfondire”, dice Yanqiu Tao, dottorando e primo autore dello studio.

Lo studio si basa su un lavoro sostenuto dalla National Science Foundation e si è avvalso di dati provenienti da Microsoft, dall’American Time Use Survey, dal National Household Travel Survey e dal Residential Energy Consumption Survey.

Le luci di New York sotto attacco da parte dei gruppi ambientalisti

Photo credit: AFP

Ogni anno, la Settimana del Clima di New York riunisce attivisti, politici e uomini d’affari per centinaia di eventi volti a riflettere su come affrontare la crisi ambientale. Ma le luci abbaglianti che rendono la “città che non dorme mai” ciò che è sono da tempo fonte di frustrazione per gli attivisti, che notano una contraddizione con lo spirito di sobrietà energetica incarnato da questo incontro. “Credo che ci sia ancora molta strada da fare prima di vedere una città illuminata per quello che è, ovvero un grossolano spreco di energia e un impatto diretto sulla natura“, ha dichiarato all’AFP Ruskin Hartley, direttore dell’International Dark-Sky Association (IDA), che si batte per mantenere i cieli bui di notte.

Secondo il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, l’illuminazione esterna negli Stati Uniti consuma abbastanza energia da alimentare 35 milioni di case per un anno. Le stime per città sono difficili da ottenere, ma è chiaro che New York è una di quelle con i risultati peggiori negli Stati Uniti, un Paese che secondo i ricercatori spreca molta più energia dell’Europa.
Mentre i partecipanti alla Settimana del clima di New York discutono di una serie di argomenti ambientali, dalla riduzione dell’impronta di carbonio degli alimenti al ruolo dell’arte nell’attivismo, dovrebbe essere affrontata anche la questione dell’inquinamento luminoso, sostiene Hartley. “Credo che le persone cerchino modi per avere un impatto rapido, data la portata della crisi che stiamo affrontando. E una delle cose più semplici che possiamo fare è guardarci intorno e vedere dove possiamo ridurre i rifiuti“, aggiunge.

Secondo le stime dell’IDA, l’illuminazione esterna visibile nello spazio è responsabile dell’1% delle emissioni annuali di gas serra. E non si tratta solo dello spreco di energia. “New York si trova lungo una rotta migratoria utilizzata da milioni di uccelli ogni anno“, ha spiegato all’AFP Dustin Partridge, responsabile di New York City Audubon, un’associazione che si batte per la protezione degli uccelli. La luce artificiale attira gli uccelli in città. Durante il giorno, si schiantano contro gli edifici perché vedono i riflessi della vegetazione nelle finestre. Di notte, invece, volano direttamente contro le finestre illuminate. “A New York, circa 250.000 uccelli muoiono ogni anno a causa di collisioni“, afferma Partridge. E la Settimana del clima cade proprio nel mezzo della migrazione autunnale. I semi che diffondono sono vitali per la salute degli ecosistemi che trattengono il carbonio dal Canada, dove iniziano il loro viaggio, fino alle varie destinazioni in Sud America.

Un’altra vittima dell’inquinamento luminoso è l’osservazione delle stelle. È proprio questo il motivo per cui è stata creata l’IDA. “La luce che ha viaggiato per milioni di anni luce viene assorbita e nascosta nell’ultimo nanosecondo. Che perdita per la società“, lamenta Hartley. Altre ricerche hanno evidenziato potenziali impatti sulla salute umana, come l’aumento dei casi di cancro, che potrebbe essere collegato all’alterazione del ritmo circadiano. E poiché la luce attira gli insetti, un documento del 2020 ha trovato un legame tra la luce artificiale e l’aumento della trasmissione del virus del Nilo occidentale, trasmesso dalle zanzare.

Nel 2021 New York ha approvato una legge che impone a tutti gli edifici di proprietà della città di spegnere le luci non essenziali dalle 23 alle 6 del mattino durante le migrazioni primaverili e autunnali. Ma questi rappresentano solo una piccola percentuale di tutti gli edifici. Una proposta di legge più recente, presentata a maggio, che estenderebbe le stesse regole agli edifici privati e industriali, è ancora all’esame dell’assemblea cittadina. I critici sottolineano che l’iconico skyline notturno di New York è essenziale per l’identità della città. Gli attivisti rispondono citando le città europee che hanno iniziato a spegnere le luci quando la maggior parte della popolazione dorme. Come Parigi, la ‘Città della Luce’.

In migliaia manifestano per il clima a New York alla vigilia dell’Assemblea Onu

Decine di migliaia di persone sono scese in strada a New York domenica, chiedendo una maggiore azione sul cambiamento climatico, due giorni prima dell’apertura ufficiale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. I dimostranti di circa 700 organizzazioni e gruppi di attivisti si sono riuniti a New York, reggendo cartelli con le scritte “Biden, metti fine ai combustibili fossili“, “I combustibili fossili ci stanno uccidendo” e “Non ho votato per gli incendi e le inondazioni“. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden fa parte della lista dei leader mondiali che parteciperanno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a partire da oggi, quando si aprirà ufficialmente martedì. “Siamo qui per chiedere all’amministrazione di dichiarare l’emergenza climatica“, ha dichiarato Analilia Mejia, direttrice del gruppo di attivisti Center for Popular Democracy.

In un rapporto delle Nazioni Unite sul clima pubblicato questo mese, gli esperti internazionali hanno affermato che le emissioni di gas a effetto serra dovrebbero raggiungere il picco nel 2025 – seguito poi da un forte calo – se l’umanità si pone l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale, in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Il Trattato di Parigi, ratificato nel 2015, ha incoraggiato un’ampia gamma di azioni a favore del clima, ma “molto resta da fare su tutti i fronti“, spiega il rapporto, che servirà da base per i lavori della COP28 che si terrà a Dubai alla fine dell’anno. Un’altra attivista, Nalleli Cobo, 22 anni, ha invitato i leader politici a “venire a casa sua” nello Stato occidentale della California e “passare la notte accanto a un pozzo di petrolio e gas“. L’attivista, che ha lavorato con la svedese Greta Thunberg per le campagne sul clima, incolpa l'”aria tossica” a cui era esposta in casa per il cancro alle ovaie che ha contratto all’età di 19 anni. “Le nostre vite sono in gioco“, ha dichiarato.

Venerdì scorso, la California ha avviato una causa contro cinque giganti del petrolio per il loro ruolo nel riscaldamento globale, accusandoli di aver causato danni per miliardi di dollari e di aver ingannato il pubblico sui rischi associati ai combustibili fossili. Durante l’Assemblea generale, mercoledì si terrà un vertice ‘Climate Ambition’ su iniziativa del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. “La storia ricorderà la loro azione o inazione“, ha dichiarato Mejia. “E se saremo fortunati, gli esseri umani saranno lì a ricordare ciò che (i leader mondiali) hanno fatto in questo vertice“.

fiume Tevere

Vita acquatica a rischio: fiumi sempre più caldi e poveri di ossigeno

I fiumi si stanno riscaldando e perdono ossigeno più velocemente degli oceani e nei prossimi 70 anni i sistemi fluviali, soprattutto nel Sud America, potrebbero attraversare periodi con livelli di ossigeno così bassi da “indurre la morte acuta” di alcune specie di pesci e minacciare la diversità acquatica in generale. E’ quanto emerge da un secondo uno studio condotto dalla Penn State University e pubblicato sulla rivista Nature Climate Change. La ricerca mostra che su circa 800 fiumi, il riscaldamento si è verificato nell’87% dei casi e la perdita di ossigeno nel 70%.

Si tratta del primo rapporto che esamina in modo completo il cambiamento di temperatura e i tassi di deossigenazione nei fiumi “e ciò che abbiamo scoperto – spiega Li Li, professore di Ingegneria civile e ambientale e tra gli autori dello studio – ha implicazioni significative per la qualità dell’acqua e la salute degli ecosistemi in tutto il mondo“.

Il team di ricerca internazionale ha utilizzato approcci di intelligenza artificiale e deep learning per ricostruire dati storicamente scarsi sulla qualità dell’acqua di quasi 800 fiumi negli Stati Uniti e nell’Europa centrale. Hanno scoperto che i corsi d’acqua si stanno riscaldando e deossigenando più velocemente degli oceani.

La temperatura dell’acqua fluviale e i livelli di ossigeno disciolto sono misure essenziali della qualità dell’acqua e della salute dell’ecosistema“, dice Wei Zhi, professore assistente di ricerca presso il Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale della Penn State e autore principale dello studio. Ma non solo. La deossigenazione e l’alta temperatura incidono anche sull’emissione di gas serra e sul rilascio di metalli tossici.

Lo studio ha rivelato che i fiumi urbani hanno mostrato il riscaldamento più rapido, mentre quelli agricoli hanno registrato il riscaldamento più lento, ma la deossigenazione più rapida. Utilizzando il modello per prevedere i tassi futuri, è emerso che in tutti i fiumi studiati i tassi di deossigenazione futuri saranno tra 1,6 e 2,5 volte superiori rispetto alla media storica.
Il rischio è che entro i prossimi 70 anni, alcune specie di pesci potrebbero estinguersi completamente.

Deforestazione

Ripristino natura in Africa? Mancano i semi per piantare nuovi alberi

Il vertice sul clima in Africa, che si è chiuso la scorsa settimana, ha messo sul piatto gli impegni per ripristinare 24 milioni di ettari di terreno degradato nel continente, attraverso la piantumazione di alberi, considerato obiettivo fondamentale a livello mondiale. C’è, però, un problema e non di poco conto: mancano i semi. Burkina Faso, Camerun, Ghana e Kenya hanno in programma di ripristinare un’enorme superficie entro il 2030, ma mentre diversi punti del piano sono pronti, resta da risolvere la questione più urgente, cioè come reperire e piantare abbastanza materiale da specie arboree autoctone come semi, piantine e talee.

Un nuovo studio ha rilevato che, nonostante la volontà politica a livello nazionale e l’importante sostegno internazionale per il ripristino della natura, i sistemi di semina – le relazioni politiche, ambientali, economiche e culturali a più livelli che fanno fiorire le specie arboree autoctone – non sono ancora del tutto pronti. In base ai risultati pubblicati su Diversity, anche molti dei settori pubblici e privati coinvolti nel ripristino non sono pienamente consapevoli delle risorse disponibili.

I quattro Paesi stanno facendo progressi sostanziali verso i loro obiettivi di riforestazione, ma rischiano di non raggiungere gli obiettivi prefissati”, spiega Chris Kettle, autore principale dello studio e ricercatore della CGIAR Initiative on Nature-Positive Solutions. “Tuttavia, questo problema può essere risolto. I nostri risultati hanno dimostrato che la domanda di materiale di specie arboree autoctone è forte, ma l’offerta è carente”, dice.

Non si tratta di una mancanza di foreste intatte da cui attingere materiale da piantare, perché è rimasta una diversità sufficiente per procurarsi in modo sostenibile almeno 100 specie arboree necessarie per un ripristino efficace. I problemi riguardano diversi aspetti. Intanto, le comunità che vivono più vicine a queste fonti di semi sono potenzialmente attori chiave, anche perché meglio di chiunque altro conoscono gli alberi autoctoni, ma il loro coinvolgimento non è strutturale, anche se potrebbe offrire posti di lavoro nelle aree rurali e “incentivi per la conservazione della biodiversità”.

Il secondo limite riguarda le ‘consuetudini’ in questo campo. Spesso i progetti di ripristino si basano su alberi non autoctoni, come il teak e il pino, coltivati per i loro prodotti legnosi o l’eucalipto, utile per la produzione di olio essenziale. In genere, però, questi alberi non favoriscono la flora e la fauna locali, e spesso comportano un’elevata richiesta di risorse idriche. Inoltre, non aiutano a ripristinare i paesaggi degradati e, anzi, rischiano di mettere in crisi gli ecosistemi. Cambiare queste pratiche, spiegano i ricercatori, è necessario per recuperare davvero gli spazi aperti.

“Lo studio evidenzia l’urgente necessità di investimenti nel settore delle sementi arboree, sia pubblici che privati, se si vuole che i sistemi di sementi soddisfino le richieste poste dagli impegni di ripristino”, chiarisce Fiona L. Giacomini, del Politecnico di Zurigo.

L’ultimo volo del bombo: a rischio estinzione 75% specie nei prossimi 40 anni

Oltre il 75% delle specie europee di bombi potrebbe essere minacciato nei prossimi 40-60 anni, a causa del degrado degli habitat e delle alterazioni del clima dovute all’attività umana. E’ quanto emerge da uno studio della Free University of Brussels, in Belgio, condotto da Guillaume Ghisbain e pubblicato questa settimana su Nature. I risultati sottolineano l’importanza delle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici per proteggere i bombi.

Circa il 90% di tutte le piante selvatiche e la maggior parte delle piante coltivate beneficiano dell’impollinazione animale. Il bombo (Bombus) è un genere di api considerato particolarmente importante per l’impollinazione delle colture nelle regioni fredde e temperate dell’emisfero settentrionale. Le trasformazioni degli habitat naturali causate dall’uomo e l’aumento della temperatura sono i fattori chiave del collasso della fauna selvatica; la comprensione della traiettoria delle popolazioni di insetti è importante per elaborare iniziative di conservazione.

Guillaume Ghisbain e colleghi hanno quantificato l’idoneità ecologica passata, presente e futura dell’Europa per i bombi. I dati osservativi coprono i periodi 1901-1970 (passato) e 2000-2014 (“oggi”) e le proiezioni sono state fatte fino al 2080. Secondo le previsioni, circa il 38-76% delle specie europee di bombi attualmente considerate non minacciate vedrà ridursi il proprio territorio ecologicamente idoneo di almeno il 30% entro il 2061-2080. In particolare, le specie degli ambienti artici e alpini potrebbero essere sull’orlo dell’estinzione in Europa, con una perdita prevista di almeno il 90% del loro territorio nello stesso periodo. Gli autori riferiscono che alcune parti della Scandinavia possono potenzialmente diventare rifugi per le specie sfollate o minacciate, anche se non è chiaro se queste regioni possano essere influenzate dai cambiamenti indotti dalle attività umane.

Gli autori sottolineano che “sono necessari ulteriori lavori per comprendere gli effetti delle variazioni su scala più fine del clima e dei cambiamenti dell’habitat“. Tuttavia, i risultati attuali evidenziano “la necessità di misure e politiche di conservazione che attenuino l’impatto umano su ecosistemi importanti“.

Dai rifiuti spaziali all’agricoltura satellitare: a Houston l’Italia che innova

Flotte di sonde aerostatiche coordinate dall’intelligenza artificiale, nanosatelliti che “danno la caccia” ai detriti spaziali, e propulsori made in Italy tra i più avanzati sul mercato. Sono alcune delle soluzioni innovative proposte dalle sei aziende italiane che stanno partecipando a Houston, in Texas, nel luogo simbolo della storia dell’esplorazione spaziale, alla prima edizione di ‘Space it Up‘, il programma di accelerazione d’impresa creato da Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, e dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), in collaborazione con la Space Foundation, la principale associazione americana che riunisce i vari stakeholder del settore aerospaziale promuovendo attività di formazione, ricerca e innovazione tecnologica.

Space it Up, al via ufficialmente il 28 agosto, segue un percorso di sei settimane. La prima con attività preparatorie da remoto, e le restanti cinque a Houston, a partire dall’evento di kick-off di che si è tenuto l’1settembre. Tutte le attività di mentorship, i workshop e i momenti di networking con l’ecosistema aerospaziale texano si tengono al The Ion Houston, il principale centro di innovazione della città. Una full immersion che culminerà con il Demo Day del 27 settembre, in cui le aziende potranno mettere a frutto il lavoro delle settimane precedenti presentando le loro soluzioni innovative ai principali stakeholder del territorio. Un’opportunità importante per stringere relazioni e accordi commerciali oltreoceano, trovare clienti o capitali.

Il programma Space it Up non si esaurisce però nell’arco di queste settimane e punta a diventare in breve tempo una piattaforma di dialogo permanente tra gli attori italiani e statunitensi del settore space-tech: questo anche grazie a uno Spazio collaborativo “phygital” che faciliterà l’incontro, lo scambio e le occasioni di business tra imprenditori, innovatori e ricercatori. La piattaforma, attiva da settembre per 365 giorni l’anno, è stata realizzata in partnership tra l’ufficio ICE della città texana e Village Insights, leader per la costruzione di community di settore.

 

Con un fatturato 2022 di 13 miliardi di euro e un export di 6,5 miliardi in crescita del 17,7% rispetto al 2021, il comparto aerospaziale italiano rappresenta oggi un settore in rapida crescita, fiore all’occhiello del Made in Italy e sempre più presente nella realizzazione di missioni internazionali. La new space economy è un driver di crescita strategica per il Paese che può vantare l’esser presenti con, principalmente, cinque poli produttivi regionali, su tutta la filiera: dalla costruzione e operazione di razzi vettori, alla costruzione di satelliti, acquisizione di dati dallo Spazio e gestione di immagini e big data. Non da meno la capacità di sviluppo del know how trasversale delle nostre aziende che potenzialmente permette loro di rispondere efficacemente a tutte le esigenze del comparto aerospaziale” spiega il Presidente dell’Agenzia Ice Matteo Zoppas.

Le aziende del comparto si rivolgono con sempre maggiore attenzione, nel processo di internazionalizzazione delle loro attività, sia verso i grandi committenti esteri, sia verso i produttori di sistemi e sottosistemi”, sostiene il Direttore Generale dell’Agenzia ICE Lorenzo Galanti. “Partecipano ai grandi saloni e air show con il supporto dell’ICE, dove hanno l’opportunità di effettuare incontri per collaborazioni produttive. Il nostro ruolo è di portare i distretti produttivi nazionali sul mercato mondiale e al contempo di invitare in Italia buyers dall’estero, per favorire il sempre maggiore inserimento del sistema aerospaziale italiano nei processi di sviluppo tecnologico del settore a livello internazionale”.

A valorizzare l’iniziativa anche la stretta collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e la partnership con Space Foundation. Tra le più importanti agenzie spaziali a livello mondiale, ASI contribuirà al programma mettendo a disposizione risorse ed expertise importanti per permettere alle aziende di competere sul mercato internazionale, mentre l’autorevolezza della Space Foundation nel panorama statunitense garantirà un punto di accesso privilegiato all’ecosistema. “Il mercato USA rappresenta un riferimento strategico per le industrie spaziali italiane e Houston uno degli epicentri. In questo contesto si delineano i più avanzati trend innovativi dello Spazio a livello globale. È anche grazie alla partnership con gli USA che la nostra industria nel passato ha avuto l’opportunità di costruire le solide competenze che abbiamo oggi. Per questo nell’ambito delle nostre iniziative per l’internazionalizzazione industriale, sosteniamo la collaborazione con ICE e abbiamo proposto il lancio di una iniziativa verticale di accelerazione per il settore Spazio che vada a beneficio di giovani imprese italiane con ottime prospettive di innovazione e crescita“, ricorda Teodoro Valente presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana. “Dalla culla del Rinascimento alle frontiere del cosmo, la tradizione di innovazioni spaziali dell’Italia non conosce limiti – fa eco Kelli Kedis Ogborn, vicepresidente per il commercio e l’imprenditoria spaziale di Space Foundation -. Con il suo patrimonio di progressi scientifici, l’Italia torna a scrivere un nuovo capitolo della storia, questa volta con un’attenzione più ampia alla collaborazione internazionale e a una crescita significativa di un ecosistema spaziale globale in evoluzione“.

importazioni petrolio

Le azioni salva-clima delle compagnie petrolifere sono in stallo. Si salva solo l’Eni

Le principali compagnie petrolifere e del gas del mondo sono ben lontane dal compiere gli sforzi necessari per limitare il riscaldamento globale e in alcuni casi hanno fatto marcia indietro rispetto ai loro impegni. E’ quanto emerge da un rapporto di Carbon Tracker che, però, assegna ai gruppi europei un punteggio più alto. “I progressi delle compagnie petrolifere e del gas nel rafforzare i loro impegni in materia di emissioni sono in fase di stallo, e la maggior parte di esse è rimasta nella stessa fascia dell’anno scorso”, spiega il think tank Carbon Tracker.

Il rapporto annuale di 36 pagine, Absolute Impact 2023, rivolto in particolare agli investitori, fa il punto sulle ambizioni climatiche delle 25 maggiori compagnie petrolifere e del gas, comprese quelle di proprietà statale. Si tratta di un settore che sarà oggetto di un intenso esame alla COP28 che si terrà a Dubai alla fine dell’anno. La Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, dove si prevede una dura battaglia sulla fine dei combustibili fossili, dovrebbe rimettere il mondo in carreggiata con l’Accordo di Parigi: limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, e se possibile a 1,5°C, rispetto all’era preindustriale.

Tuttavia, il rapporto rileva che molti piani climatici aziendali si basano su metodi che non sono stati dimostrati su larga scala, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la compensazione delle emissioni. Il rapporto rileva inoltre che “alcune aziende stanno facendo marcia indietro rispetto ai loro impegni”, come la BP, che ha abbassato l’obiettivo di riduzione della produzione di idrocarburi per il 2030 dal 40% al 25%. E la Shell, che ha annunciato che la sua produzione di petrolio rimarrà stabile fino al 2030.

“La nostra analisi mostra che le maggiori compagnie petrolifere e del gas del mondo continuano a mettere a rischio gli investitori non pianificando tagli alla produzione (di idrocarburi) in linea con l’obiettivo di Parigi di 1,5 gradi”, commenta Mike Coffin, coautore del rapporto.

Delle 25 società, “solo” l’italiana Eni ha obiettivi “potenzialmente” in linea con l’obiettivo di Parigi, secondo il think tank. TotalEnergies è al secondo posto. Ma mentre l’Eni è in cima alla classifica per il quarto anno consecutivo, la credibilità dei suoi obiettivi potrebbe essere messa in discussione “dato che dipendono dalla vendita di asset, oltre che da tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio e compensazioni di carbonio non dimostrate”, sottolinea Carbon Tracker.

“Le principali compagnie europee sono in cima alla classifica, con obiettivi sistematicamente più ambiziosi di quelli dei loro rivali nordamericani, mentre gli impegni più deboli sono stati presi da ExxonMobil e da cinque compagnie petrolifere prevalentemente statali: Aramco, la brasiliana Petrobras e le cinesi Sinopec, PetroChina e Cnooc”, riassume Carbon Tracker nella sua presentazione.

Dietro l’Eni si colloca TotalEnergies, che ha preso il posto di Repsol, ora al terzo posto, davanti a BP e Shell. Considerate “più progressiste” rispetto ai loro concorrenti, TotalEnergies, Repsol e BP hanno dichiarato obiettivi di “carbon neutrality” entro il 2050 e obiettivi intermedi entro il 2030 “ma questi scopi escludono le emissioni di alcune attività chiave”, osserva Carbon Tracker.

Circa 16 compagnie, tra cui ExxonMobil e Conoco, hanno obiettivi che coprono solo le loro emissioni operative, cioè non coprono le emissioni generate dalla combustione del petrolio e del gas che i loro clienti acquistano – circa il 90% della loro reale impronta di carbonio. Società come Shell ed Equinor hanno obiettivi molto distanti, per il 2050, “ma non obiettivi intermedi assoluti”, il che è comunque considerato un passo essenziale.

All’ultimo posto, la saudita Aramco “è l’unica azienda che limita i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni agli asset che possiede e gestisce interamente”, sottolinea Carbon Tracker, senza contare il fatto che fissa un obiettivo di riduzione solo in relazione a una traiettoria di crescita futura, riducendo di fatto i suoi sforzi.