Clima, Ue verso nuovo obiettivo di riduzione emissioni al 2040

Dopo il 2030, prima del 2050. La Commissione europea si prepara a stabilire un nuovo obiettivo per la riduzione delle emissioni al 2040, come tappa intermedia per la neutralità climatica (con zero nuove emissioni nette) entro la metà del secolo.

L’esecutivo europeo ha aperto una consultazione pubblica fino al 23 giugno per raccogliere i commenti e presentare una comunicazione, orientativamente nel primo trimestre del 2024, per stabilire un obiettivo climatico per il 2040 a livello comunitario. Bruxelles precisa che la comunicazione in questione sarà supportata da “un’approfondita valutazione d’impatto”, che sarà alla base di un progetto di legge che fisserà l’obiettivo intermedio per il 2040.

Dopo aver presentato il Green Deal nel 2019, l’Unione europea ha poi adottato nel 2021 la Legge europea sul clima rendendo giuridicamente vincolante l’obiettivo di raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050 e di tagliare le emissioni del 55% (rispetto ai livelli registrati nel 1990) entro il 2030, come tappa intermedia per la neutralità climatica. L’accordo in Ue sulla prima Legge climatica impegna tra le altre cose Bruxelles a stabilire un nuovo obiettivo climatico intermedio per il 2040 (da fissare nei prossimi anni) e un bilancio indicativo previsto per i gas a effetto serra dell’Unione per il periodo 2030-2050, ovvero quante emissioni nette di gas serra possono essere emesse in quell’arco temporale senza mettere a rischio gli impegni dell’Unione.

Dopo il 2050, si parla di emissioni negative: ovvero non potranno più esserci nuove emissioni, ma rimarranno quelle già presenti. Senza un traguardo climatico per il 2040, “l’Ue rischierebbe di mancare il proprio obiettivo climatico europeo per il 2050 e potrebbe compromettere la propria capacità di stimolare le azioni per il clima a livello internazionale”, si legge nel documento che accompagna la consultazione pubblica lanciata da Bruxelles.

La tempistica delle discussioni per l’obiettivo climatico dell’Ue per il 2040 è strettamente legata al ciclo di ambizione quinquennale dell’accordo sul clima di Parigi del 2015, che ha fissato l’impegno a limitare aumenti di temperatura entro i 1,5°C. Si prevede che tutte le parti dell’accordo inizino quest’anno a riflettere sul prossimo obiettivo nel contesto del processo delle Nazioni Unite, per poi comunicarlo prima della COP29 (29° Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che si terrà nel 2025. La Commissione europea spiega che i risultati della consultazione pubblica saranno analizzati e riassunti in una “dettagliata relazione di valutazione d’impatto”, che sarà verificata da un organismo indipendente, il comitato per il controllo normativo. La valutazione finale terrà conto anche del parere del comitato consultivo scientifico europeo e costituirà la base per una comunicazione sulla valutazione dell’obiettivo per il 2040 che dovrà essere approvata dal collegio dei commissari. Saranno poi gli Stati membri dell’Ue e il Parlamento europeo a decidere sul nuovo obiettivo climatico dell’Ue per il 2040.

Gli uomini inquinano più delle donne: colpa dello stile di vita

Le donne hanno stili di vita che emettono in media meno gas serra degli uomini, ma sono più vittime del cambiamento climatico, secondo il parere di un’economista. “Se a prima vista può sembrare che il cambiamento climatico (di cui i gas serra sono in gran parte responsabili, ndr) colpisca tutta la popolazione allo stesso modo, gli studi evidenziano le disparità di genere nei comportamenti che causano le emissioni di gas serra e nelle conseguenze degli sconvolgimenti climatici”, si legge in una nota di Oriane Wegner citata dal quotidiano Libération e che sarà pubblicata integralmente sul sito della Banque de France.

Specializzata in economia del clima presso questa istituzione, la Wegner si basa su uno studio svedese del 2021 per affermare che “le voci di consumo degli uomini sono la fonte di un 16% in più di gas serra in media” rispetto a quelle delle donne. La differenza si spiega con la propensione degli uomini a consumare beni e servizi che emettono di più, come i carburanti. Anche la dieta potrebbe giocare un ruolo, nella misura in cui “una dieta meno ricca di carne genera una minore quantità di emissioni“. Secondo un sondaggio Ifop del maggio 2021, due terzi dei vegetariani in Francia (67%) sono donne.

Nel 2021, gli uomini single hanno emesso in media dieci tonnellate di gas serra, contro poco più di 8 tonnellate delle donne single, anche se la spesa dei primi è superiore di “appena il 2%” a quella delle seconde. Tuttavia, se il genere è un criterio “rilevante” per spiegare le disparità in termini di emissioni, “il livello di reddito gioca spesso un ruolo più importante“, avverte Oriane Wegner. Di fronte alle conseguenze del cambiamento climatico, uomini e donne non sono uguali. Secondo una ricerca delle Nazioni Unite citata da Wegner, l’80% delle persone allontanate dalle proprie case a causa di eventi meteorologici estremi sono donne, e negli Stati Uniti, dopo l’uragano Katrina del 2005, sono morte più donne che uomini. “Le politiche pubbliche nazionali e i quadri d’azione internazionali potrebbero trarre beneficio dal prendere in considerazione le interazioni tra genere e ambiente per rafforzare la loro efficacia e la loro articolazione con gli obiettivi di giustizia climatica“, conclude l’autrice.

Nel Piano strategico 2023-2026 di Eni sicurezza energetica, transizione e meno emissioni

Sicurezza energetica, riduzione delle emissioni e investimenti nella tecnologia più “rivoluzionaria. Sono alcuni dei pilastri su cui si fonda il Piano strategico 2023-2026 di Eni, presentato oggi dall’amministratore delegato, Claudio Descalzi, e dalla presidente, Lucia Calvosa. Per raggiungere gli obiettivi l’azienda mette sul piatto 37 miliardi di euro nel quadriennio (di cui 9,5 miliardi solo nel 2023), ben il 15% in più rispetto al Piano precedente. Con una spesa destinata alle attività zero e low carbon pari a circa il 25% degli investimenti. Perché l’attenzione alla transizione ecologica è palpabile, al punto che Eni conferma gli obiettivi di riduzione delle emissioni: -35% entro il 2030, -80% al 2040, per poi arrivare a net zero entro il 2050.

Non solo, perché le stime sulle nuove fonti di energia prevedono che la capacità di generazione rinnovabile di Plenitude aumenterà a oltre 7 Gigawatt entro il 2026, per poi superare i 15 Gw entro il 2030. Nel frattempo, tra i target c’è anche quello di raddoppiare i punti di ricarica entro il 2026. Non a caso la previsione è che l’Ebitda di Plenitude aumenti per il 2026 di tre volte rispetto al 2022. Restando sulle stime, in base allo scenario delineato, la società genererà un flusso di cassa prima del capitale circolante di oltre 17 miliardi di euro nel 2023 e di oltre 69 miliardi di euro nel corso del Piano, con un aumento del 25% nel 2026 rispetto al 2023. Questo consentirà di finanziare gli investimenti e potenziare la remunerazione agli azionisti, mantenendo il leverage tra il 10-20%.

Numeri ambiziosi che guardano in prospettiva. Ma anche il recente passato non è affatto male, visto che l’utile netto realizzato nel 2022 è di 13,3 miliardi di euro: un aumento di 9 miliardi rispetto all’anno precedente. Mentre l’utile operativo adjusted di gruppo nell’esercizio 2022 è addirittura di 20,4 miliardi, raddoppiato rispetto al 2021. Risultati che fanno esultare Descalzi: “Quelli operativi e finanziari che abbiamo raggiunto sono stati eccellenti”, con un occhio attento al green. “Nel 2022 ci siamo fortemente impegnati non solo nel progredire nei nostri obiettivi di sostenibilità ambientale, ma anche nel garantire la sicurezza energetica all’Italia e quindi all’Europa, costruendo una diversificazione geografica e delle fonti energetiche”. Restando sul tema, l’ad sottolinea anche “il progresso nei piani di decarbonizzazione”, con Plenitude che ha raggiunto “2,2 Gw di capacità rinnovabile, il doppio dello scorso anno, e sarà affiancata dalla neo costituita Eni Sustainable Mobility nel portare avanti il piano di azzeramento delle emissioni dei clienti”.

La base di lavoro è fatta, ora però va risolto il nodo del rinnovo dei board. Perché Eni è in scadenza questa primavera, ma ancora non c’è un’indicazione precisa da parte del governo, azionista di riferimento col Mef, sul futuro di Descalzi. Il manager glissa: “Quello che voglio io non conta nulla, perché non sono io a decidere”. Incalzato dai cronisti, l’ad fa un piccolissimo passo in più: “Il Piano l’ho fatto io, ma nessuno è indispensabile. Eni è forte. Può fare anche senza di me? Sì. A tutti piacerebbe guidare la macchina, ma se ciò non accade va avanti lo stesso”. Non risponde nemmeno alle fonti leghiste che a inizio settimana chiedevano un cambio di passo nella governance delle due principali partecipate: “Non ho commenti, non li voglio fare attraverso i giornali. Parlerò con chi lo ha detto o mi parleranno loro”, taglia corto Descalzi.

Che preferisce piuttosto concentrarsi sulle sfide di Eni. “L’urgenza di raggiungere la sostenibilità ambientale e il mix energetico sono sempre più priorità”, ma questo deve camminare di pari passo con “sicurezza energetica e sostenibilità economica”. Inoltre sono fondamentali la “diversificazione geografica delle fonti e il mix energetico diverso nel tempo, mettendo in campo tecnologie all’avanguardia”. Anzi, l’amministratore delegato puntualizza: “La nostra strategia si basa su una incessante attenzione alle nuove tecnologie”, anche in chiave decarbonizzazione.

Sul gas, poi, spiega che “la situazione degli stoccaggi è migliore di quello che si poteva aspettare, perché siamo partiti da oltre il 94%: questo ha fatto sì che si arrivasse ora al 64% circa”, dunque “la probabilità è che, se il clima continuasse così, avremo il doppio del gas stoccato rispetto all’anno scorso, forse potremmo finire anche sopra il 50%, ma queste sono tutte probabilità”. Di una cosa è sicuro Descalzi: “Tutti stiamo monitorando cosa accadrà a marzo, aprile, maggio, giugno e luglio: vogliamo vedere se abbiamo tutte le infrastrutture per riempire le riserve. Del rigassificatore di Piombino ne abbiamo bisogno, è essenziale, non c’è scelta altrimenti non arriverà il gas in Italia”.

Sul piano del governo di fare dell’Italia l’hub europeo del gas, poi, ha un’idea precisa. E’ fattibile, ma con “omogeneità di tariffe e regole per il gas in tutta Europa” e infrastrutture che colleghino il sud al nord, ma prima di tutto “bisogna capire se effettivamente l’Europa ci sta, se ci sono capitali da mettere nelle infrastrutture e che tempi ci sono per queste infrastrutture”. Restando in campo continentale, alla domanda se il price cap sia il motivo per cui è calato il prezzo del gas risponde positivamente: “Dà un segnale agli speculatori che esiste un limite, andava fatto molto prima”. Anzi, “doveva essere fatto subito”.

Lo smart working fa bene all’ambiente: 600 chili di CO2 in meno all’anno per lavoratore

Il lavoro a distanza permette di evitare l’emissione di circa 600 chilogrammi di anidride carbonica all’anno per lavoratore (-40%) con notevoli risparmi in termini di tempo (circa 150 ore), distanza percorsa (3.500 km) e carburante (260 litri di benzina o 237 litri di gasolio). È quanto emerge dallo studio ENEA sull’impatto ambientale dello smart working a Roma, Torino, Bologna e Trento nel quadriennio 2015-2018, pubblicato sulla rivista internazionale Applied Sciences. “Nel nostro Paese circa una persona su due possiede un’autovettura, vale a dire 666 auto ogni 1000 abitanti, un dato che pone l’Italia al secondo posto in Europa per il più alto tasso di motorizzazione, dopo il Lussemburgo”, spiega Roberta Roberto, ricercatrice ENEA del Dipartimento Tecnologie energetiche e fonti rinnovabili e co-autrice dell’indagine, insieme ai colleghi di altri settori dell’Agenzia Bruna Felici, Alessandro Zini e Marco Rao.

In Italia i trasporti sono responsabili di oltre il 25% delle emissioni totali nazionali di gas ad effetto serra e quasi tutte (93%) provengono dal trasporto su gomma, con le automobili a fare la parte del ‘leone’ (70%). “Il lavoro agile e tutte le altre forme di lavoro a distanza, tra cui lo smart working, hanno dimostrato di poter essere un importante strumento di cambiamento in grado non solo di migliorare la qualità di vita professionale e personale, ma anche di ridurre il traffico e l’inquinamento cittadino e di rivitalizzare intere aree periferiche e quartieri considerati dormitorio”, aggiunge Roberto.

In base alle risposte di un campione di 1.269 lavoratori agili di PA nelle quattro città prese in esame, che negli spostamenti casa-lavoro usano il mezzo privato a combustione interna, ogni giorno di lavoro a distanza permetterebbe di evitare 6 kg di emissioni dirette in atmosfera di CO2 e risparmiare 85 megajoule (MJ) di carburante pro capite. Ma i benefici ambientali non si fermano qui: l’analisi ha evidenziato una riduzione anche di ossidi di azoto a persona al giorno (dai 14,8 g di Trento ai 7,9 g di Torino), monossido di carbonio (da 38,9 g di Roma a 18,7 g di Trento) e PM10 (da 1,6 g di Roma a 0,9 g di Torino), PM2,5 (da 1,1 g di Roma e Trento a 0,6 g di Torino). Inoltre, per gli spostamenti extra-lavorativi nei giorni di smart working il 24,8% del campione dichiara di aver optato per modalità più sostenibili (mezzi pubblici, a piedi o in bicicletta), l’8,7% ha modificato le proprie scelte in favore del mezzo privato, mentre il 66,5% non ha cambiato le proprie opzioni di mobilità.

Abbiamo scelto queste quattro città per due motivi: il primo riguarda le loro peculiarità legate al territorio e al profilo storico che fanno supporre impatti diversificati sulla mobilità urbana, mentre il secondo – e anche il più pratico – risiede nell’alto numero di risposte al questionario che abbiamo ricevuto dai dipendenti pubblici di queste quattro città che in media lavorano da casa 2 giorni a settimana”, sottolinea Bruna Felici, ricercatrice ENEA dell’Unità Studi, Analisi e Valutazioni. Dai dati raccolti emerge che in media il campione percorre 35 km al giorno per una durata di 1 ora e 20 minuti. Roma si conferma la città più critica, con un tempo di percorrenza medio di 2 ore, probabilmente a causa delle maggiori distanze (1 lavoratore romano su 5 percorre più di 100 km al giorno) e del traffico più intenso. Infatti, nella capitale gli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro e studio sono circa 420 mila mentre ogni persona trascorre nel traffico 82 ore all’anno.

Circa la metà del campione dichiara di viaggiare esclusivamente con mezzi di trasporto privati a motore ​(47% in auto e 2% su due ruote), mentre il 17% viaggia esclusivamente con i mezzi pubblici e il 16% con un mix di trasporto pubblico/privato. Trento risulta la città con il maggior ricorso a mezzi privati a combustione interna negli spostamenti casa-lavoro (62,9%), seguita da Roma (54,4%), Bologna (44,9%) e Torino (38,2%).

La mobilità privata offre soluzioni flessibili in termini di risparmio di tempo e autonomia di movimento, soprattutto per chi ha figli in età scolare. Il trasporto pubblico, invece, viene scelto principalmente in un’ottica di risparmio denaro o in caso di mancanza di parcheggi”, conclude Alessandro Zini, ricercatore ENEA dell’Unità Studi, Analisi e Valutazioni.

Luca de Meo

Auto, Acea boccia Euro7: Costi troppo elevati per guadagni ambientali minimi

Una lettera aperta, rivolta ai leader europei in vista della presentazione del piano industriale Green, per chiedere di mettere in atto una politica ambiziosa e strutturata per il settore automobilistico, in grado di competere con quelle di altre regioni del mondo. A pubblicarla Luca de Meo, presidente dell’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili (Acea) e amministratore delegato del Gruppo Renault, preoccupato per l’erosione della competitività dell’industria europea sulla scena mondiale. “La nostra industria ha goduto a lungo di un vantaggio competitivo lungo tutta la catena del valore dei veicoli con motore a combustione interna“, spiega de Meo. “Questo non sarà più il caso dei veicoli elettrici, almeno nel breve periodo. I nostri concorrenti hanno molte carte in mano che noi non abbiamo ancora, in particolare a monte della catena di fornitura dei veicoli elettrici a batteria. Inoltre, il loro sostegno da parte delle autorità nazionali e locali è stato massiccio e sta ancora aumentando in Cina e negli Stati Uniti“, aggiunge.

Ma il tema che sta maggiormente a cuore all’Acea, che chiede che il regolatore parli “con una voce coordinata, tenendo conto dei ritmi specifici dell’industria, della ricerca e degli investimenti”, è la proposta Euro 7 sulle emissioni inquinanti. Secondo l’Acea, questa “impone vincoli irrealistici all’industria e rallenterebbe persino la spinta alla decarbonizzazione”. Si tratterebbe di una misura, in sintesi, che costringerebbe i costruttori a investire miliardi di euro in tecnologie a fronte di guadagni ambientali minimi. “La conformità all’Euro 7 comporterebbe un aumento dei costi che potrebbe dissuadere i clienti dall’acquistare queste nuove auto“, ammonisce de Meo. “Questo potrebbe allungare la vita del parco auto: le auto più vecchie, con emissioni più elevate, rimarrebbero più a lungo sulle strade“, aggiunge. “Noi sosteniamo che potremmo ottenere un rapporto costi-benefici di gran lunga migliore se riorientassimo gli ingenti investimenti che l’Euro 7 richiederebbe verso l’elettrificazione, rendendo i veicoli elettrici più accessibili e sviluppando tecnologie a zero emissioni per migliorare il parco auto“. Senza contare il “dannoso impatto industriale, economico, politico e sociale”, con, secondo i calcoli di de Meo, “il rischio significativo di mettere a repentaglio i posti di lavoro di 300.000 persone se la transizione non viene gestita in modo corretto”.

Considerata la risposta dell’Ue all’Inflaction Reduction Act Usa, l’Acea ritiene che il piano industriale Green europeo – se attuato con successo – potrebbe essere un primo passo per contribuire a mantenere gli investimenti nell’Ue, salvaguardando il libero scambio in tutto il mondo. Il settore spera inoltre che la legge sulle materie prime critiche rafforzi la capacità nazionale di estrarre, raffinare e lavorare le materie prime, oltre a migliorarne la sicurezza dell’approvvigionamento. In caso contrario, i produttori di autoveicoli dell’Ue continueranno ad essere notevolmente svantaggiati rispetto alle loro controparti di altre regioni, avverte l’Acea.

Enea jet

Primi test su jet militari: con biocarburanti -40% di emissioni inquinanti

Per la prima volta in Italia è stato sperimentato l’uso di miscele di biocombustibile e cherosene su un jet militare, ottenendo una riduzione fino al 40% delle emissioni inquinanti complessive. A calcolare questo taglio è stato uno studio pubblicato sulla rivista internazionale Toxics, che indaga anche l’impatto complessivo sulla salute e l’ambiente di questi nuovi carburanti avio. La ricerca è stata condotta da ricercatori ENEA, in collaborazione con Aeronautica Militare, nell’ambito dell’accordo di cooperazione in materia di utilizzo di biocombustibili nel settore dell’aviazione, che coinvolge anche Cnr e ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica.

I test sono stati condotti su due diverse miscele contenenti il 13% e il 17% di biocombustibile nel corso di diverse prove motore con velivolo a terra, all’aeroporto militare di Pratica di Mare, vicino Roma. Il risultato? Le due miscele a base di biocarburanti hanno fatto registrare per tutte le prove una riduzione media del 20% – e fino al 40% per medi regimi di potenza motore – delle emissioni di black carbon, ossia il carbonio elementare. Ma, allo stesso tempo, spiega Antonella Malaguti, ricercatrice Enea, “abbiamo rilevato l’aumento fino al 30% del biossido di azoto e della quantità di particelle totali emesse, in particolare delle nanoparticelle“.

La ricerca, però, è andata oltre e ha studiato le risposte biologiche dei polmoni ai prodotti di combustione attraverso test in vitro. Lo studio, sottolinea il ricercatore Maurizio Gualtieri, “apre scenari rilevanti per la determinazione del potenziale rischio per l’uomo”. I test, infatti, hanno evidenziato una maggiore deposizione di particelle fini e ultrafini sia nel sistema cellulare sia a livello polmonare, anche se questo incremento, puntualizza Gualtieri “non deve ascriversi in maniera prioritaria alla componente bio delle miscele di carburante“. L’esposizione del corpo umano alle emissioni, insomma, “innesca processi ossidanti acuti a livello cellulare che, associati ai dati di deposizione polmonare, fanno scattare un campanello di attenzione sugli effetti di esposizioni ripetute a queste emissioni nel corso del tempo“.

I risultati di questa campagna di test e sperimentazioni rappresentano un passo importante nell’ambito degli studi in corso per ridurre l’impatto sul clima dell’aviazione, che rappresenta uno dei settori maggiormente interessati al tema delle emissioni e su cui si sta concentrando sempre di più l’attenzione della comunità internazionale e del mondo della ricerca. I dati dell’Air Transport Action Group (Atag) dicono che nel 2019 (ormai anno di riferimento pre-pandemico), i voli aerei globali hanno prodotto qualcosa come 915 milioni di tonnellate di CO2, ovvero il 2,1% delle emissioni totali causate dagli esseri umani. L’aviazione pesa inoltre per il 12% sul totale delle emissioni generate dai trasporti (al primo posto, con il 74%, c’è quello stradale). “Per ridurre l’impatto del settore aereo sul clima serve, quindi, un grande sforzo nello sviluppo e nella sperimentazione di carburanti da fonti rinnovabili per sostituire, parzialmente o totalmente, i combustibili fossili attualmente utilizzati, ma senza perdere di vista i potenziali effetti sulla salute dell’uomo, come dimostra il nostro studio”, concludono Malaguti e Gualtieri.

Photo credits: ENEA

Serve il nucleare per uscire dalla crisi e continuare a decarbonizzare

La grave crisi energetica provocata in Europa dall’invasione dell’Ucraina da parte russa e dalla conseguente ‘guerra del gas’, che ha privato il nostro continente dell’approvvigionamento energetico più a buon mercato, mostra con grande evidenza l’incapacità, i conflitti di interesse e lo stato di confusione dell’Europa rispetto a una situazione così complessa. In particolare mostra tutti i suoi limiti l’approccio estremista e tutto ideologico alla transizione energetica e alla lotta contro il climate change: ‘rinnovabili, rinnovabili, rinnovabili’ il motto declinato per anni dalla Commissione Europea senza una visione olistica capace di tener conto anche dell’economia e del destino dei sistemi industriali del continente.

Un approccio simile prevede che quando le Istituzioni Comunitarie parlano di processi di decarbonizzazione intendono e regolano soltanto le politiche a favore delle energie rinnovabili, demandando ai Paesi membri le politiche relative alle altre tecnologie di decarbonizzazione con ciò stesso ritenendole meno importanti. Da più parti ci si pone la domanda se sia giusto che le famiglie e l’economia europea, che sono responsabili di meno del 10% delle emissioni di CO2 nel mondo, e la sua industria, che di tali emissioni è responsabile per meno della metà di quel 10%, siano messe in ginocchio da una visione estremista e unilaterale come quella che si è citata.

In realtà appare sempre più chiaro che il tema della decarbonizzazione è inscindibilmente connesso a quello dell’approvvigionamento energetico, e che un argomento così delicato non può consentire estremismi ideologici pena una gravissima crisi dei sistemi industriali del continente. Le imprese devono poter accedere all’energia a prezzi accessibili perché se ciò non sarà possibile vi saranno o chiusure dolorosissime o un altrettanto doloroso esodo di industrie chiave verso Paesi nei quali l’energia è affidabile e a buon mercato. Ciò significa che bisogna essere capaci a tenere in equilibrio tre esigenze ugualmente fondamentali: ambiente e lotta al climate change attraverso processi di decarbonizzazione; economicità degli approvvigionamenti energetici per garantire la competitività dei sistemi industriali; sicurezza di questi approvvigionamenti.

Le energie rinnovabili (fotovoltaico ed eolico in particolare) non possono bastare perché sono intermittenti, non programmabili, e coprono solo una parte temporalmente contenuta dei fabbisogni energetici di un Paese o di un continente. Banalizzando, coprono solo le ore in cui c’è il sole e soffia il vento, che grosso modo (anche sommate come se non ci fossero sovrapposizioni tra le ore di sole e quelle in cui soffia il vento, il che non è) non arrivano ad un terzo delle ore in cui c’è bisogno di energia.

Faccio sempre l’esempio di un grande impianto energivoro come un’acciaieria a forno elettrico. Le ore annuali di esercizio sono circa 8000, le energie rinnovabili in Italia ne coprono a mala pena 2000-2500. E per le altre 5500-6000 ore? È evidente che l’industria energivora di base (siderurgia, chimica, carta, cemento, ceramica, vetro ecc.) per coprire queste ore non coperte dalle rinnovabili ha bisogno di energia di base, base load, decarbonizzata. Energia stabile, continua, possibilmente a costi contenuti.

Ci sono solo due tecnologie che soddisfano questa esigenza: le centrali a gas con l’applicazione delle tecnologie CCUS (Carbon Capture Utilization and Storage) e il nucleare. Le batterie e gli accumuli non sono capaci di far funzionare grandi impianti energivori come i forni elettrici. Entrambe queste tecnologie, CCUS e nucleare, sono state per anni scartate e messe all’indice dall’estremismo ideologico ambientalista che ha influenzato non poco moltissime nazioni europee, Germaniae Italia in testa, e la Commissione europea.

È parso chiaro a tutti, sulla base dei dati forniti al convegno, che se si vuole uscire dall’emergenza innescata dalla più grave crisi energetica mai vista, che in Europa ha il suo epicentro, e contemporaneamente si vuole proseguire sulla strada della decarbonizzazione non si può fare a meno del nucleare.

Perché il nucleare? Per quattro motivi come ha sostenuto con forza Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare.

  1. Perché già oggi è la prima fonte non carbonica del sistema energetico europeo. Verità nascosta da una lunga retorica falsificatrice (specie nel nostro Paese ) che ha raccontato di un presunto declino del nucleare, il quale pesa invece per il 25% della generazione elettrica del continente, con 122 centrali operative e consente di lanciare ambiziosissimi programmi di decarbonizzazione.
  1. Perché il nucleare è una fonte energetica continuativa che dà energia per tutte le 8760 ore dell’anno è ed una fonte totalmente decarbonizzata. 
  2. Perché il nucleare è l’unica fonte decarbonizzata che può riuscire a far fronte all’evoluzione dei nostri sistemi, segnati da una sempre maggiore penetrazione degli usi elettrici. E inoltre è la fonte contrassegnata dalla più bassa volatilità e dalla più alta costanza nei costi operativi e di gestione. 
  3. Infine perché il nucleare è la tecnologia non carbonica subito disponibile e caratterizzata dalla più massiccia articolazione di tipologie di impianti ad alta tecnologia e con i maggiori requisiti di sicurezza, efficienza e innovatività tra tutti gli impianti energetici. 

In particolare negli ultimi venti anni la tecnologia ha fatto passi enormi in termini di sicurezza, efficienza e economicità, arrivando a quello che si chiama ‘nucleare di terza generazione’ e si prevede di arrivare a fine del prossimo decennio a quella che viene chiamata ‘quarta generazione’

Amazon lancia quattro hub di micromobilità in Italia

Quattro nuovi hub di micromobilità in Italia per supportare consegne dell’ultimo miglio più sostenibili, in grado di migliorare la qualità dell’aria, alleviare la congestione del traffico e ridurre l’inquinamento acustico nei centri urbani. Ad avviare l’operazione è Amazon che con l’impiego di cargo scooter elettrici a zero emissioni allo scarico ha lanciato i quattro hub a Milano, Napoli, Genova e Bologna. “I trasporti sono una componente fondamentale della strategia di Amazon per raggiungere zero emissioni nette di CO2 entro il 2040, impegno che abbiamo assunto con il Climate Pledge”, ha commentato Gabriele Sigismondi, Country Director, Amazon Logistics Italia. “Questi hub di micromobilità consentono di aumentare l’efficienza delle nostre strutture esistenti e della flotta di veicoli elettrici dei nostri fornitori, e stanno già trasformando il modo in cui vengono effettuate le consegne ai clienti nelle aree a elevata densità”, ha aggiunto.

Gli hub di micromobilità sono depositi di dimensioni contenute e ubicati in posizioni centrali. Nelle città europee tradizionalmente a elevata densità, gli hub consentono di utilizzare nuovi metodi di consegna, come i cargo scooter elettrici a tre ruote, le cargo bike e le consegne a piedi, per portare i pacchi ai clienti in modo più sostenibile. Gli hub di micromobilità permettono di togliere dalla strada i tradizionali van per le consegne, alleviando la congestione del traffico nei centri urbani e migliorando la qualità dell’aria.

A Milano, oltre il 25% dei pacchi in Area C (zona a traffico limitato) viene consegnato dai fornitori di servizi di consegna di Amazon Logistics con cargo scooter elettrici a zero emissioni allo scarico grazie all’hub di Rogoredo, e la quota continuerà a crescere nel 2023. A Napoli, il 60% dei pacchi nella zona a traffico limitato viene consegnato attraverso cargo scooter elettrici. L’hub di micromobilità di Genova permette ai fornitori di servizi di consegna di Amazon Logistics di consegnare il 100% dei pacchi con cargo scooter elettrici nella zona a traffico limitato. Il più recente hub di micromobilità di Amazon si trova a Bologna e contribuirà a ridurre ulteriormente le emissioni di CO2 nella città. L’hub consentirà infatti di consegnare nel 2023 il 100% dei pacchi nella zona a traffico limitato della città utilizzando cargo scooter elettrici a tre ruote al posto dei tradizionali van. Amazon ha già lanciato hub di micromobilità in più di 20 città europee e prevede di raddoppiare il numero delle città coinvolte entro la fine del 2025.

L’azienda è impegnata a promuovere l’utilizzo di una serie di metodi di consegna alternativi, tra cui i van elettrici, al fine di ridurre le emissioni di CO2 nei tragitti dell’ultimo miglio, fino alla soglia di casa dei clienti. In Italia, nel 2021, Amazon ha consegnato ai propri clienti più di 7 milioni di pacchi impiegando veicoli elettrici a zero emissioni allo scarico, mentre in Europa i pacchi sono stati oltre 100 milioni. Inoltre, più di 3.000 van elettrici in tutta Europa sono già impiegati per le consegne Amazon, e, come parte del suo investimento di 1 miliardo di euro per supportare l’elettrificazione della rete dei propri fornitori, l’azienda prevede ne verranno impiegati oltre 10.000 entro il 2025.

L’impegno di Amazon per raggiungere zero emissioni nette di CO2 entro il 2040 va oltre il settore dei trasporti e si estende anche all’approvvigionamento da fonti rinnovabili, alla sostenibilità degli edifici e ad altre aree delle nostre attività. In qualità di maggiore acquirente aziendale di energia rinnovabile a livello globale, Amazon conta oggi oltre 100 progetti di energia rinnovabile in Europa, di cui 20 in Italia. Questi includono 17 siti alimentati da impianti fotovoltaici su tetto e 3 parchi solari off-site per una capacità produttiva complessiva di 106MW. Alla fine del 2021, l’azienda ha raggiunto un approvvigionamento dell’85% da fonti rinnovabili in tutte le sue attività ed è vicina all’obiettivo di alimentare tutte le sue attività con il 100% di energia rinnovabile entro il 2025.

strade

Trasporti responsabili di un quarto delle emissioni di CO2

Viaggiare inquina. Secondo i dati pubblicati dall’Emissions Database for Global Atmospheric Research (EDGAR), nel 2020 il mondo dei trasporti è stato responsabile di circa un quinto del totale delle emissioni di CO2 a livello globale, arrivate a sfiorare i 36 miliardi di tonnellate. Dai numeri emerge anche il peso preponderante dei trasporti su strada in termini di inquinamento: auto, mezzi pesanti, autobus, veicoli commerciali e moto/scooter arrivano assieme al 78% delle emissioni generate dal settore. A seguire ci sono i mezzi marittimi (11%), gli aerei (8%) e i mezzi su rotaia (appena il 3%).

Il quadro si conferma simile, se non peggiore, restringendo l’analisi alla sola Unione europea. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea), attualmente i trasporti sono la fonte di circa un quarto delle emissioni di CO2 e la quota legata a veicoli su strada arriva a toccare il 71,7%, precedendo la navigazione (14,1%) e l’aviazione (13,4%). Non solo: a preoccupare è il trend legato al comparto mobilità, opposto a quello di tutti gli altri principali macrosettori. L’Eea, nel suo Transport and environment report 2021 evidenzia come le politiche in materia di clima ed energia nell’Ue hanno portato, tra il 2000 e il 2019, a riduzioni significative delle emissioni di gas serra in campi come la produzione di energia, l’industria manifatturiera, l’edilizia e l’agricoltura. Nei trasporti invece le emissioni totali di gas serra sono aumentate di oltre un terzo nello stesso lasso di tempo, mentre considerando soltanto i veicoli su strada il balzo è del 28%.

La situazione è senza dubbio destinata a migliorare nei prossimi anni, anche se con un ritmo quasi certamente non sufficiente per raggiungere i target di decarbonizzazione fissati da Bruxelles. In particolare, secondo la Commissione Ue le emissioni di CO2 dei trasporti saranno ancora superiori del 3,5% nel 2030 rispetto al 1990 e diminuiranno solo del 22% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. Cifre ben lontane da quanto previsto nel Green Deal europeo dove, pur non essendo fissati obiettivi specifici per settore, si parlava della necessità di una riduzione del 90% delle emissioni di gas a effetto serra dai trasporti entro il 2050 (rispetto al 1990) per arrivare al traguardo complessivo della neutralità climatica nell’Ue. Non stupisce quindi la messa al bando, dopo mesi di trattative, in tutta l’Ue delle automobili a combustione a partire dal 2035. Anche perché, sempre secondo i dati dell’Eea riferiti al 2019, le automobili sono il mezzo di mobilità meno pulito, arrivando a produrre il 60,6% di tutte le emissioni del comparto trasporti.

La situazione italiana collima solo in parte con quella comunitaria, mostrando alcune peculiarità significativa del nostro paese. La quota dei trasporti sul totale di emissioni di gas serra si è attestata nel 2019 (dati dell’Ispra) al 25,2%, in linea quindi con il contesto complessivo dell’Ue. In Italia però si nota l’ancora più netta preponderanza del trasporto su strada dal quale deriva addirittura il 92,6% dell’inquinamento. Decisamente ridotto l’impatto della navigazione (4,3%) e dell’aviazione (2,3%), praticamente inesistente quello dei mezzi su rotaia (0,1%). Numeri che fotografano perfettamente l’eccessiva dipendenza dell’Italia nei confronti del trasporto su gomma e l’attuale arretratezza in tema di intermodalità gomma-ferro. Con un problema in più: il peso preponderante, rispetto a altri Paesi, dei carburanti fossili, con i consumi di gasolio e benzina che rappresentano circa l’88% del consumo totale su strada.

Per quanto riguarda il trend, le emissioni di gas serra dei trasporti in Italia sono aumentate del 3,2% tra il 1990 e il 2019, mentre quelle del trasporto su strada sono salite leggermente di più (+3,9%). Anche nel nostro Paese però sono attesi miglioramenti significativi, favoriti sia dalle politiche più green in tema di trasporti sia dall’evoluzione tecnologica. Secondo Ispra, nel 2030 le emissioni di CO2 da trasporto su strada diminuiranno del 39% rispetto al 1990, passando da circa 97 a 59 milioni di tonnellate: una tendenza, questa, nettamente migliore rispetto a quella complessiva dell’Ue. Entro il 2050 il calo proseguirà fino a raggiungere i 22 milioni di tonnellate.

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Il futuro green per i voli aerei è (per ora) nell’olio di cucina usato

Se la rivoluzione elettrica nell’automotive è già realtà, e persino le compagnie da crociera stanno seguendo la rotta verso la sostenibilità, c’è da chiedersi quando decollerà il primo aereo eco-friendly. Non si tratterebbe solo di una sfida tecnologica o di piani aziendali per migliorare la reputazione ambientale. Ma di una necessità. Al di là dei toni allarmistici, i dati dell’Air Transport Action Group (Atag) dicono che nel 2019 (ormai anno di riferimento pre-pandemico), i voli aerei globali hanno prodotto qualcosa come 915 milioni di tonnellate di CO2, ovvero il 2,1% delle emissioni totali causate dagli esseri umani. L’aviazione pesa inoltre per il 12% sul totale delle emissioni generate dai trasporti (al primo posto, con il 74%, c’è quello stradale). Dovrebbero bastare anche solo questi dati per spingere le compagnie aeree e le istituzioni a tracciare una rotta che obblighi il settore ad una svolta green. Ma c’è di più, considerando il proverbiale rapporto costi/benefici. Un volo passeggeri infatti registra mediamente una capienza vicina all’83%, molto di più di altri sistemi di trasporto. In più i combustibili alternativi, in particolare quelli per aerei sostenibili (Saf, sustainable aviation fuel), sono stati identificati come ottimi candidati per aiutare a raggiungere gli obiettivi climatici del settore. Nella fattispecie, Atag ha fissato al 2050 il limite per raggiungere quota zero emissioni. Mancano poco meno di tre decenni ma il piano appare già ambizioso, considerando il settore. Eppure l’industria aeronautica ha già investito globalmente oltre 1 trilione di dollari dal 2009 per migliorare le proprie flotte e dotarle di mezzi più efficienti. Tale adeguamento ha consentito di risparmiare almeno 80 milioni di tonnellate di CO2. Aumentano inoltre di anno in anno gli investimenti in ricerca e sviluppo. Non solo sulle forniture tecnologiche, ma anche nel campo dei carburanti: i primi test per bio-carburanti destinati all’aviazione sono cominciati nel 2008. Da allora è stato dimostrato che le fonti derivate da Saf come alghe, jatropha o olii di scarto di origine bio (come l’olio da cucina usato) riducono l’impronta di carbonio del carburante per aerei fino all’80%.

SCARTI PREZIOSI. Attualmente il carburante più utilizzato sui voli commerciali è il jet fuel, a base di cherosene (derivato del petrolio più conveniente ed efficiente dell’Avgas, la benzina avio). Ma alcune compagnie aeree, tra cui i colossi Klm, Boeing e Lufhtansa, hanno già cominciato a miscelare il Saf con combustibile fossile per alcuni voli di prova. La sostituzione completa del carburante da qui al 2050 avverrà ovviamente in modo graduale, anche perché la capacità di produzione disponibile nel mondo è molto limitata. Secondo l’Organizzazione internazionale dell’Aviazione civile (Icao), nel 2021 sono stati prodotti circa 5 milioni di tonnellate di Saf a fronte di un fabbisogno annuo mondiale di oltre 140 milioni di tonnellate. Senza contare che il Saf è almeno 2-3 volte più costoso del carburante tradizionale. La stessa Icao ha promosso lo schema Corsia (Carbon Offsetting and Reduction Scheme for International Aviation), per la regolazione delle emissioni di CO2 dall’aviazione civile tramite utilizzo del Saf. Prevede tre fasi (le prime due 2022-2023 e 2024-2026 a partecipazione volontaria, la terza obbligatoria per tutti gli Stati partecipanti dal 2027 al 2035). Finora 107 Paesi hanno adottato lo schema (Italia compresa), e dal 2023 tale numero dovrebbe salire a 114.

LE ALTERNATIVE. Le rotte che l’industria aeronautica può percorrere verso la sostenibilità sono diverse. Almeno sulla carta. Considerando la tecnologia, l’approdo più immediato sarebbe sull’elettrico, il che significherebbe azzerare di netto le e missioni nocive. Troppo bello per essere vero? Dipende. Al momento il problema più grosso è lo stoccaggio delle batterie, troppo pesanti e ingombranti per garantire viaggi di media e lunga percorrenza e soprattutto per imbarcare centinaia di passeggeri o tonnellate di merce. Le sperimentazioni in corso prevedono per ora viaggi mediamente brevi per 4-5 persone. Quanto all’idrogeno, sarebbe la soluzione più conveniente dal punto di vista ambientale, ma anche qui l’ostacolo da superare è l’ingombro di stoccaggio sui velivoli, 3-4 volte superiore di quello del carburante tradizionale. Ciò nonostante, Airbus ha già annunciato di voler inaugurare il primo aereo a idrogeno entro il 2035. Nel frattempo, l’Europa spinge sulla svolta sostenibile. Con il piano ReFuelEU Aviation inserito nel pacchetto sul ‘Fit for 55’, la Commissione Ue intende aumentare almeno all’85% la quota di combustibili sostenibili entro il 2050, includere idrogeno ed elettricità nei mix di biocarburanti e dar vita a un fondo per l’aviazione sostenibile così da incoraggiare gli investimenti in tecnologie a zero emissioni.