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Petrolio ai minimi da quasi 4 anni. Tabarelli: “Una buona notizia in questa crisi”

Il prezzo dell’oro nero sta diventando sempre più rosso. Meno 15% in una settimana, quasi -30% nei confronti dello stesso periodo di un anno fa. I future sul greggio WTI hanno invertito i guadagni precedenti e sono scesi a 61 dollari al barile così come quelli del Brent riscendendo a 64,5 dollari e attestandosi al minimo da aprile 2021, dopo che le speculazioni su una pausa di 90 giorni della nuova politica tariffaria statunitense si sono rivelate false. Il precedente rimbalzo, che ha visto i prezzi del Wti texano salire brevemente sopra i 63 dollari, è stato guidato dalle speranze di un ritardo nell’implementazione completa delle tariffe prevista per mercoledì. Una volta chiarito come falso, i mercati hanno rapidamente ritracciato.

Gli investitori rimangono tesi in mezzo all’elevata volatilità, con timori che l’escalation della guerra commerciale possa frenare la crescita globale e indebolire la domanda di energia. Ad aumentare l’incertezza, Trump ha minacciato di imporre una nuova tariffa del 50% sulle importazioni cinesi se Pechino non riuscirà a revocare i suoi dazi di ritorsione, aumentando il rischio di un rallentamento globale. Nel frattempo, i recenti tagli dei prezzi di Saudi Aramco e l’inaspettato aumento della produzione dell’Opec+ continuano a pesare sulle prospettive.

“I prezzi del petrolio hanno avuto la loro settimana peggiore da ottobre 2023, con gli asset rischiosi colpiti dai dazi reciproci del presidente Usa e dalle ritorsioni che abbiamo iniziato a vedere nei loro confronti”, hanno affermato Warren Patterson, responsabile della strategia sulle materie prime di ING, e Ewa Manthey, stratega delle materie prime. La Cina ha reagito ai maxi dazi Usa imponendo dazi del 34% su tutte le importazioni dagli Stati Uniti a partire dal 10 aprile, inasprendo ulteriormente le tensioni commerciali mentre l’economia globale crolla. “Nonostante molti paesi esercitino moderazione sui dazi reciproci, nella speranza di negoziare con gli Stati Uniti, Pechino non sta prendendo la cosa sottogamba. I dazi ‘occhio per occhio’ del 34% sugli Stati Uniti […] sono un netto cambiamento nella posizione di Pechino, che rende chiaro che la Cina non cederà”, ha affermato Vishnu Varathan, amministratore delegato di Mizuho.

I prezzi del greggio statunitense sono anche scesi sotto il livello psicologico di 60 dollari al barile, poiché Saudi Aramco ha ridotto di 2,3 dollari al barile i differenziali di prezzo di vendita ufficiali per l’Asia di maggio per i suoi tipi di greggio, raggiungendo il minimo degli ultimi quattro mesi a causa delle crescenti probabilità di recessione, hanno affermato gli analisti. “Le prospettive rimangono piacevolmente negative con la possibilità di un ulteriore calo verso il livello di 50 dollari/barile. I recuperi dei prezzi potrebbero essere interessanti opportunità di vendita di titoli di punta”, ha affermato un analista senior di Swissquote Bank, come riportato da S&P Global Commodity Insights.

Il tonfo degli ultimi giorni del petrolio ha tirato giù anche le quotazioni del gas, col Ttf europeo oggi sotto di quasi l’1,5% a 35,8 euro per megawattora. Un crollo, quello appunto di petrolio e gas, che rappresenta “una notizia positiva per la bolletta energetica italiana. Si tratta del primo meccanismo di aggiustamento efficiente in quello che ho definito il ‘delirio dell’energia’ dopo tre anni di guerra. Il mercato comincia a mettere a posto l’economia, dopo questa follia dei dazi”, ha commentato a GEA Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. Secondo alcune analisi tuttavia i produttori americani farebbero fatica da competere con un petrolio Wti sceso a 60 dollari al barile dopo l’annuncio di dazi americani e di controdazi da parte della Cina. Certo, ha aggiunto Tabarelli, “qualcuno dice che con questi prezzi bassi i petrolieri americano non ce la fanno, però vedo che c’è anche un eccesso di pessimismo… sicuramente è difficile competere, ma nel 2015-2016 il prezzo del greggio Wti è sceso anche a 30-40 dollari. Si diceva che doveva sparire l’industria del fracking, poi però è diventata sempre più efficiente e più brava… ora potrebbe diventare ancora più forte”.

Il Codacons comunque mette in evidenza che “il prezzo del petrolio crolla sui mercati internazionali, ma in Italia i listini alla pompa di benzina e gasolio rimangono elevati e non seguono l’andamento delle quotazioni petrolifere” e annuncia azioni legali a tutela degli automobilisti. Rispetto ai picchi registrati nel 2025, il greggio risulta oggi deprezzato del 23%, col Wti che passa dai 78 dollari al barile di metà gennaio agli attuali 60 dollari, mentre il Brent è sceso da 82 dollari di gennaio agli attuali 63 dollari – spiega il Codacons – Nello stesso periodo, tuttavia, il prezzo della benzina alla pompa è passato da una media al self di 1,823 euro al litro agli attuali 1,764 euro, con una riduzione di appena -3,2%.

L’Algeria e la la Libia sono i primi fornitori italiani di gas e petrolio

La Libia è tornata a essere il principale fornitore di petrolio dell’Italia a 14 anni dallo scoppio della prima guerra civile: copre il 21,5% delle importazioni nazionali di greggio. Un ritorno che segna una netta inversione rispetto al crollo registrato nel 2011 e che racconta molto della nuova geografia energetica del nostro Paese, ridefinita dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

È infatti a partire dal 2022 che l’Unione Europea ha accelerato la corsa per ridurre la dipendenza da Mosca e diversificare le fonti di approvvigionamento. Per un Paese come l’Italia, privo di risorse naturali significative e fortemente legato alle importazioni, trovare nuovi equilibri è diventato cruciale. Così, accanto alla Libia per il petrolio, è l’intero Nord Africa a guadagnare un ruolo strategico anche nell’ottica del Piano Mattei, che ha come obiettivo proprio il consolidamento dei rapporti con i Paesi di quest’area. Nella mappa realizzata da GEA elaborando i dati del Global energy monitor si possono vedere proprio i giacimenti di gas e petrolio dell’area e, più in generale, di tutta l’Europa.

Come emerge dai dati pubblicati dal Ministero dell’ambiente della sicurezza energetica, l’Algeria è il nostro primo fornitore di gas tramite gasdotto: ha fornito 21 miliardi di metri cubi di gas al nostro Paese attraverso il punto di ingresso di Mazara del Vallo con una crescita del 12% rispetto al 2023 (il 35% delle importazioni italiane). Un incremento che si contrappone al crollo verticale delle forniture russe transitate da Tarvisio: dai picchi di 3 miliardi di metri cubi al mese del 2021 si è passati a soli 165 milioni a novembre 2024. La Libia, invece, ha un ruolo molto più marginale sul gas: attraverso il punto di ingresso di Gela ha fornito 1,4 miliardi di metri cubi (2,3% sul totale).

Ma il riassetto energetico italiano non si limita al Mediterraneo. A guadagnare terreno è anche il gas naturale liquefatto (GNL) proveniente dagli Stati Uniti. Solo nel primo semestre del 2024, Washington ha esportato in Europa 35 miliardi di metri cubi di GNL, consolidando la propria posizione di fornitore chiave. E non mancano pressioni politiche: a dicembre, il presidente Donald Trump è tornato alla carica con un post su Truth Social, invitando l’Unione Europea a colmare «il suo enorme deficit» attraverso acquisti massicci di petrolio e gas americani.

In questo scenario instabile e in continua evoluzione, l’Italia cerca di mettere al sicuro il proprio sistema energetico puntando sulle infrastrutture: rigassificatori come quelli di Piombino e Cavarzere assumono un ruolo sempre più centrale, insieme al potenziamento delle dorsali che collegano il Sud del Paese ai principali snodi del Nord. Tuttavia, la corsa alle alternative non elimina le vulnerabilità. Guerre, tensioni e una crescente competizione globale per le risorse rendono ogni equilibrio provvisorio.

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Ecco perché la ‘flotta fantasma’ russa è un pericolo per il Mar Baltico

Navi cisterna obsolete e in cattive condizioni, appartenenti alla “flotta fantasma” della Russia, potrebbero da un momento all’altro causare una marea nera nelle acque poco profonde del Baltico. “Il rischio di una fuoriuscita di petrolio esiste da molti anni” in questo mare, ma “la flotta fantasma russa lo ha aumentato considerevolmente”, spiega all’AFP Mikko Hirvi, capo di un’unità della guardia di frontiera finlandese – la Sicurezza marittima – responsabile di rispondere alle minacce all’ambiente marino. Da più di due anni tengono d’occhio la flotta fantasma russa che opera nel Golfo di Finlandia, la baia più orientale del Baltico, confinante con l’Estonia a sud e la Russia a est. Anche Lettonia, Lituania, Polonia, Germania, Svezia e Danimarca circondano questo mare poco profondo, collegato all’Oceano Atlantico solo da uno stretto tra Svezia e Danimarca.

Le autorità finlandesi la definiscono come un insieme di petroliere vecchie e tecnicamente difettose mai viste nel Baltico prima che la Russia invadesse l’Ucraina nel 2022. Operano senza assicurazione occidentale e con equipaggi inesperti delle condizioni invernali. Il numero di navi della flotta ombra è esploso dal 2022, dopo che le sanzioni dell’Ue e dell’Occidente hanno preso di mira le esportazioni russe di petrolio nel tentativo di prosciugare le casse della Russia.

“Stimiamo che ogni settimana 70-80 petroliere cariche lascino i porti russi per trasportare petrolio attraverso il Golfo di Finlandia. Di queste, circa 30-40 navi appartengono alla flotta fantasma”, afferma Mikko Hirvi. Secondo un rapporto della Kiev School of Economics, sono state identificate circa 430 navi in tutto il mondo. “Gran parte naviga nello Stretto di Danimarca, poiché la Russia dipende fortemente dai suoi porti baltici per le esportazioni, in particolare di petrolio greggio”, sottolinea Yevgeniy Golovchenko, professore di scienze politiche all’Università di Copenhagen.

Alcune di queste navi sono state coinvolte nel danneggiamento di diversi cavi sottomarini, con esperti e politici che accusano la Russia di orchestrare una “guerra ibrida”. Queste petroliere nascondono sempre più spesso i dati relativi alla loro posizione disturbando il Gps e disabilitando l’Ais, osserva Hirvi. L’Ais è un sistema di localizzazione globale che le navi utilizzano per fornire informazioni sull’identificazione e il posizionamento al fine di evitare collisioni. “Disattivano il sistema per nascondere le loro visite in Russia e aggirare le sanzioni”, dice il funzionario finlandese. “Il rischio di incidenti è elevato”.

Queste navi operano spesso sotto la bandiera di Paesi come Gabon, Liberia e Isole Cook e visitano i porti petroliferi russi di Primorsk, Ust-Luga, Vyssotsk e San Pietroburgo. Alcune trasportano più di 100.000 tonnellate di petrolio, il che significa che una collisione o un incaglio potrebbero causare la fuoriuscita di migliaia di tonnellate di greggio, con conseguenze fatali per i fragili ecosistemi locali. In caso di incidente al largo delle coste danesi, “lo scenario più probabile è che i contribuenti danesi dovranno pagare per ripulire” il mare, osserva Golovchenko, poiché queste navi non hanno un’assicurazione adeguata per le fuoriuscite di petrolio.

Di fronte ai rischi creati da questa flotta fantasma, all’inizio di febbraio l’autorità marittima danese ha annunciato che avrebbe intensificato i controlli sulle petroliere. In quanto acque internazionali, gli stretti danesi sono soggetti al diritto di libero passaggio, e qualsiasi misura che impedisca a queste navi di entrare o uscire dal Mar Baltico richiede un equilibrio tra gli obblighi del diritto internazionale e la volontà politica, osserva Golovchenko.

Petrolio, gas, difesa e commercio: ecco perché l’Artico fa gola al mondo

Il ghiaccio marino si scioglie e la voglia di Artico esplode. L’America di Donald Trump, i Paesi nordici, la Russia di Vladimir Putin e anche la Cina sono impegnati in una competizione per l’influenza su questo territorio, mentre si rivela il potenziale economico e il valore strategico della regione polare. “Si dice che l’Artico nel suo complesso contenga il 25% delle riserve mondiali non scoperte di idrocarburi convenzionali”, spiega Mikaa Blugeon-Mered, docente di geopolitica a Sciences Po, riferendosi a un rapporto del Servizio geologico statunitense (USGS). Ed è, quindi, facile intuire il perché delle ambizioni geopolitiche ed economiche sul territorio da parte del resto del mondo.

Il riscaldamento globale sta causando un rapido scioglimento dei ghiacci polari nell’Artico, che sta stimolando l’attività economica, compreso il turismo, nonostante l’ambiente inospitale. Secondo l’osservatorio Copernicus, l’Artico europeo è la regione che si riscalda più rapidamente al mondo.

I Paesi confinanti cercano di accedere al petrolio, al gas e ai minerali che abbondano sotto la superficie, oltre che alle vaste riserve ittiche della zona. Per quanto riguarda il Passaggio a Nord-Est, una rotta marittima al largo delle coste della Siberia che è diventata gradualmente praticabile a causa del riscaldamento globale, promette di far risparmiare tempo – da una a due settimane – e carburante per collegare l’Europa e l’Asia rispetto alla rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez.

Ma l’Artico ha anche implicazioni militari. “Da un punto di vista geopolitico, la regione è centrale. Per gli aerei e i missili, la via più breve tra (…) la Russia e gli Stati Uniti passa attraverso l’Oceano Artico. È anche un’area dove ci sono molti sottomarini che pattugliano e dove i russi hanno le loro più grandi basi militari”, spiega Njord Wegge, professore dell’Accademia militare norvegese.

Una “linea di faglia” che sta stuzzicando l’appetito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale ha espresso a gran voce il suo progetto di annettere l’enorme isola artica della Groenlandia. Sabato ha promesso che gli Stati Uniti “prenderanno” il territorio autonomo danese. Come, però, non è ancora chiaro.

La fine della Guerra Fredda ha inaugurato un’era di cooperazione tra gli otto Stati costieri: Norvegia, Danimarca (attraverso il territorio autonomo della Groenlandia), Svezia, Finlandia, Russia, Stati Uniti, Canada e Islanda. Ma il Consiglio Artico, che riunisce questi Paesi dal 1996, ha perso la sua capacità di azione, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

“La linea di demarcazione è di tipo militare, poiché sette degli otto Paesi della regione artica sono membri della NATO”, sottolinea Blugeon-Mered. Oltre il 50% delle coste artiche è russo e Mosca sfrutta l’area da decenni. Secondo una raccolta di dati compilata da questo ricercatore, oltre l’80% del gas russo e il 60% del petrolio sono prodotti nell’Artico. Per Max Bergmann, del think tank americano CSIS, è la Russia a rappresentare la più grande minaccia per gli Stati Uniti. “La minaccia è rappresentata dalla continua militarizzazione dell’Artico da parte della Russia e dalla nostra scarsa presenza”, dice l’esperto. Tuttavia, il ricercatore non approva l’espansionismo di Donald Trump, che considera “inutile”. A suo avviso, “prendere la Groenlandia (…) sovrastima la minaccia alla sicurezza nazionale”. “L’unico motivo per possedere la Groenlandia sarebbe quello di avere accesso a minerali” come le terre rare utilizzate nella transizione energetica e presenti in grandi quantità sull’isola danese, ritiene, ma il presidente “ha firmato decreti per fermare la transizione”.

L’Unione europea non è indifferente ai piani di Trump per la Groenlandia. Diversi leader hanno espresso le loro preoccupazioni negli ultimi giorni. Ad aggravare le tensioni regionali, la Cina, un altro attore importante ma non rivierasco nell’Artico, sta avanzando la sua posizione nella regione. “I russi non hanno altra scelta che collaborare con la Cina (…) il principale acquirente a lungo termine delle risorse dell’Artico russo”, analizza Blugeon-Mered, riferendosi alle perdite commerciali di Mosca in Europa dall’inizio della guerra in Ucraina.

Washington non vede di buon occhio il crescente potere di Pechino nell’Artico. A luglio, il Pentagono ha messo in guardia contro una maggiore cooperazione sino-russa nella regione. Mentre la Russia ha rafforzato la sua presenza militare nell’Artico riaprendo e modernizzando diverse basi e campi d’aviazione abbandonati dalla fine dell’era sovietica, la Cina ha iniettato fondi nell’esplorazione e nella ricerca polare. “Mentre i russi cedono spazio alla Cina, la Cina penetra di fatto. E per gli americani, siano essi repubblicani o gran parte dei democratici, questo è percepito come un rischio”, spiega Blugeon-Mered.

Effetto Trump su petrolio e Gnl: il greggio cala, il gas ritorna a 50 euro

Il giorno il giuramento di Trump e il giorno dopo le promesse del neo presidente degli Stati Uniti su petrolio e gas – “trivelleremo, baby, trivelleremo” e “esporteremo il nostro gas in tutto il mondo” – i mercati navigano a vista. Greggio e gas prendono direzioni opposte, ma il sottofondo non è dei più accomodanti. C’è come la sensazione che tutto possa succedere.

I contratti futures sul petrolio Brent hanno registrato oscillazioni intorno ai 79 dollari al barile, in calo dell’1% dopo la discesa di ieri, a seguito dell’annuncio di Trump riguardo l’intenzione di aumentare la produzione di petrolio e gas negli Stati Uniti, dichiarando un’emergenza nazionale. Un’importante misura proposta da Trump prevede l’introduzione di tariffe del 25% sulle importazioni provenienti da Canada e Messico, che entreranno in vigore il 1° febbraio. Questa proposta ha contribuito a smorzare le aspettative di un rallentamento nelle politiche commerciali, ma la decisione di rimandare l’introduzione di imposte sulle importazioni cinesi ha mantenuto i mercati in un’incertezza relativa. Oltre alle tariffe commerciali, gli investitori seguono con attenzione anche la possibilità che l’amministrazione Trump imponga nuove sanzioni contro importanti esportatori di petrolio come Russia, Iran e Venezuela. Parallelamente, comunque, un calo del rischio geopolitico ha contribuito a contenere le oscillazioni dei prezzi, soprattutto dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha portato a un accordo sul rilascio degli ostaggi.

Sul fronte del gas naturale, i prezzi in Europa sono tornati con un balzo di quasi il 3% fino a 50 euro per megawattora. I flussi di gas naturale russo attraverso l’Ucraina sono stati interrotti all’inizio dell’anno, dopo che i due governi non sono riusciti a raggiungere un accordo, ma sebbene l’International Energy Agency abbia osservato che questa interruzione non rappresenti un rischio immediato per la sicurezza dell’approvvigionamento dell’Ue, si prevede un aumento delle importazioni di Gnl in Europa, con stime che indicano un incremento di oltre il 15% nel 2025. Attualmente, i livelli di stoccaggio del gas dell’Ue si aggirano intorno al 60% della capacità totale, con gli esperti che suggeriscono che la situazione potrebbe comportare una maggiore dipendenza dalle importazioni di Gnl nei prossimi anni. Anche perché, come ha riportato Bloomberg, Trump ha invitato l’Europa ad acquistare il suo gas, o saranno dazi.
Sul fronte americano, va infine specificato, che per i trader la revoca della moratoria sulle nuove licenze per le esportazioni di gas naturale liquefatto potrebbe aprire la strada a nuovi permessi, con un impatto potenzialmente positivo sulla domanda di Gnl da parte dell’Europa e dell’Asia. Magari a prezzi più bassi.

 

Kamala Harris più green di Biden ma con loro la produzione Usa di petrolio è da record

Dopo l’annuncio di Joe Biden di rinunciare alla candidatura alle presidenziali Usa e il suo endorsement a Kamala Harris come possibile sostituta alla guida dei Democratici, la stessa attuale vicepresidente ha dichiarato la sua intenzione di vincere la nomination. Diversi esponenti democratici, tra cui Bill e Hillary Clinton e il Congressional Black Caucus, si sono affrettati a sostenerla. Tuttavia, restano molte incognite. Potrebbero emergere degli sfidanti, portando a una Convention Dem contestata o mediata. Tra i nomi in lizza potrebbero esserci il governatore dell’Illinois, JB Pritzker, e quello del Kentucky, Andy Beshear. Ma anche dalla scelta del vicepresidente, nel tradizionale ticket che punta alla Casa Bianca, si potrà intuire quale sarà la politica in caso di vittoria alle elezioni di novembre. Uno dei temi chiave riguarda l’energia e il clima.

Trump ha ripetutamente promesso che sotto la sua futura amministrazione gli Stati Uniti “perforeranno, tesoro, perforeranno”. Il programma del Partito Repubblicano approvato dai delegati della convention il 15 luglio include un paragrafo sulla politica energetica, in cui si promette di “liberare l’energia americana eliminando le restrizioni alla produzione energetica americana”. E la scelta da parte di Trump del senatore repubblicano JD Vance dell’Ohio come suo compagno di corsa sembra in linea con gli obiettivi dell’ex presidente di invertire molte delle politiche energetiche e climatiche dell’amministrazione Biden.

I membri dell’American Petroleum Institute sostengono ampiamente l’agenda energetica di Trump, ha affermato il Ceo dell’Api, Mike Sommers, alla Republican National Convention del 15 luglio, secondo un rapporto di MarketWatch. Tuttavia, Sommers ha anche espresso alcune preoccupazioni sui piani di Trump di aumentare le tariffe sulle importazioni, che potrebbero avere un impatto sulle esportazioni di greggio e prodotti raffinati statunitensi.

Kamala Harris, in qualità di vicepresidente, ha invece spesso agito come portavoce dell’Inflation Reduction Act che ha spinto sulle rinnovabili e delle priorità climatiche dell’amministrazione Biden, sia in patria che all’estero. L’anno scorso ha sostituito il presidente al vertice sul clima Cop28, annunciando che gli Stati Uniti avrebbero contribuito con 3 miliardi di dollari a un fondo per gli aiuti climatici ai Paesi in via di sviluppo. Durante la sua campagna presidenziale del 2019, Harris aveva un’agenda climatica più ambiziosa di quella di Biden, proponendo una tassa sul carbonio e 10 trilioni di dollari di spesa pubblica e privata per il clima, oltre a impegnarsi a vietare il fracking, cioè la perforazione delle rocce a caccia di greggio o gas. Posizioni che avevano provocato attacchi repubblicani quando Biden la scelse come sua compagna di corsa.

Al Senato Harris aveva poi sponsorizzato progetti di legge sull’equità climatica e sostenuto la tribù Sioux di Standing Rock nel tentativo di chiudere l’oleodotto Dakota Access. Come procuratore generale della California, precedentemente, aveva intentato cause contro le società di combustibili fossili, perseguito una società di oleodotti per una perdita di petrolio e indagato sulla Exxon Mobil per “aver ingannato il pubblico sul cambiamento climatico”. Il suo impegno in materia di giustizia ambientale e la sua opposizione alle trivellazioni offshore e al fracking indicano insomma che, se diventasse presidente, potrebbe adottare un approccio più aggressivo di Biden contro l’industria petrolifera. Anche se in realtà, al di là dei proclami, durante l’amministrazione Biden-Harris la produzione di petrolio e gas ha raggiunto livelli record.

Fra i possibili vice di Kamala, vanno ricordati il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, anche lui ex procuratore generale dello stato, periodo durante il quale ha intrapreso azioni legali sul clima, inclusa una causa del 2018 contro l’amministrazione Trump per mancato controllo delle emissioni di metano. Il suo ufficio ha anche intentato accuse penali contro diverse società per crimini ambientali. Come governatore, Shapiro sostiene il “fracking responsabile” e ha proposto di sostituire l’adesione della Pennsylvania alla Regional Greenhouse Gas Initiative con un programma autonomo di tariffazione del carbonio. Ha anche chiesto alle società di servizi pubblici di acquistare la metà della loro elettricità da fonti prive di emissioni di carbonio entro il 2035.

Il segretario dei trasporti degli Stati Uniti, Pete Buttigieg, ha invece avuto un ruolo chiave nell’attuazione della legge bipartisan sulle infrastrutture del 2021 e ha frequentemente rappresentato l’amministrazione Biden nei dibattiti sull’agenda climatica. Ha sottolineato l’importanza del settore dei trasporti nella lotta al cambiamento climatico e il suo potenziale come soluzione. Tuttavia, ha ricevuto critiche per la sua gestione del deragliamento di un treno tossico a East Palestine, in Ohio, visitando il luogo solo dopo quasi tre settimane.

Urso torna dalla Libia con accordo su energia, materie prime e rinnovabili

Photo credit: Mimit

 

Italia e Libia coopereranno anche su transizione ecologica e digitale. Dalla sua missione a Tripoli il ministro delle Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, torna con la sigla sulla dichiarazione congiunta con il ministro dell’Industria e dei Minerali del Governo di Unità nazionale dello Stato della Libia, Ahmed Ali Abouhisa, per promuovere iniziative di collaborazione economica e industriale nei campi dell’energia, delle materie prime critiche e della tecnologia green. “I nostri Paesi hanno numerosi punti di complementarità sul piano economico e industriale“, commenta il responsabile del Mimit. Spiegando che proprio per questo motivo “una cooperazione sempre più stretta rappresenta un valore aggiunto sia per l’Unione europea sia per il continente africano, così come prevede il Piano Mattei“.

L’accordo, infatti, prevede la facilitazione degli investimenti diretti e delle iniziative congiunte tra le imprese di Italia e Libia, attraverso lo scambio di informazioni e conoscenze nel campo della ricerca, dell’innovazione applicata all’industria manifatturiera e la formazione di nuove competenze. “I nostri Paesi hanno una storica cooperazione nel settore energetico che intendiamo rafforzare, soprattutto nell’energia rinnovabile e al suo trasporto attraverso i cavi di interconnessione tra i Paesi – continua Urso -. L’attenzione alle fonti rinnovabili emerge anche alla luce del fatto che l’Italia diventerà presto il primo produttore europeo di pannelli fotovoltaici di nuova generazione con lo stabilimento di 3Sun di Catania“. Il ministro, poi, parlando come ospite d’onore alla Conferenza internazionale per l’industria e la tecnologia di Tripoli, ha allargato gli orizzonti: “Tra i nostri Paesi c’è un fondamentale partenariato strategico che si può rafforzare nel settore del gas e del petrolio, ma ancora di più nel settore minerario e dell’energia rinnovabile in questa fase storica dell’Italia e dell’Europa, della Libia e del Mediterraneo“.

Nell’accordo è prevista la cooperazione anche nel settore minerario, in particolare sull’approvvigionamento di materie prime critiche. Ragion per cui Roma è pronta “a mettere a disposizione il suo know-how ingegneristico e imprenditoriale per avviare sinergie che possano guardare ad accordi di collaborazione win-win, volti all’estrazione e alla lavorazione in Libia, a beneficio di entrambe le nazioni e in piena coerenza con la legge sulle materie prime critiche italiana che approderà tra poche settimane in Consiglio dei ministri“.

L’Italia, inoltre, sosterrà anche i progetti libici per la realizzazione delle interconnessioni con l’Europa per il trasporto di elettricità da fonti rinnovabili, di cui la nazione nordafricana ha necessità di sviluppare infrastrutture dedicate. Fattore che passa anche dallo sviluppo dell’economia digitale, e in questo senso “la Libia può essere anche un attore prioritario“. Inoltre, aggiunge Urso, “l’Italia nel suo ruolo di presidente di turno del G7 ha voluto dare particolare attenzione al continente africano. La trasformazione digitale è uno straordinario strumento per avvicinare l’Africa agli obiettivi di sviluppo sostenibile“.

Nel corso del colloquio bilaterale, Urso e Ali Abouhisa hanno toccato anche il tema della siderurgia, soffermandosi sui possibili investimenti delle imprese italiane in Libia e del trasferimento di competenze nella tecnologia digitale, anche attraverso l’AI Hub per lo sviluppo sostenibile in cooperazione con l’Undp, come indicato nella dichiarazione ministeriale del vertice G7 dei ministri dell’Industria, Tecnologia e Digitale del marzo scorso. Il responsabile del Mimit ricorda anche le prospettive italiane, perché il nostro Paese “sta diventando leader nella produzione mondiale di pannelli solari di ultima generazione“, grazie “alla fabbrica del gruppo Enel 3Sun Gigafactory in Sicilia, a Catania, che sarà la più grande fabbrica di pannelli solari d’Europa producendo pannelli fotovoltaici bifacciali ad altissima prestazione con una capacità produttiva di tre GW all’anno è una tecnologia d’avanguardia unica al mondo“.

Ecco come il sughero può liberare il mare dal petrolio

Le fuoriuscite di petrolio sono disastri mortali per gli ecosistemi oceanici. Possono avere un impatto duraturo sui pesci e sui mammiferi marini per decenni e creare scompiglio nelle foreste costiere, nelle barriere coralline e nel territorio circostante. Per disgregare il petrolio vengono spesso utilizzati disperdenti chimici, che però spesso aumentano la tossicità del processo. In Applied Physics Letters, pubblicato da AIP Publishing, i ricercatori della Central South University, della Huazhong University of Science and Technology e della Ben-Gurion University of the Negev hanno utilizzato il trattamento laser per trasformare del comune sughero in un potente strumento per il trattamento delle fuoriuscite di petrolio.

L’idea era quella di creare una soluzione non tossica ed efficace per la pulizia del petrolio utilizzando materiali a bassa impronta di carbonio, ma la decisione di provare il sughero è stata frutto di una scoperta sorprendente. “Abbiamo scoperto per caso che la bagnabilità del sughero lavorato con il laser cambiava in modo significativo, acquisendo proprietà superidrofobiche (che respingono l’acqua) e superoleofile (che attirano l’olio)”, riferisce l’autore Yuchun He. Ecco allora che, combinando questi risultati con i vantaggi ecologici e riciclabili del sughero “abbiamo pensato di utilizzarlo per la pulizia delle maree nere”, spiega il secondo autore Kai Yin.

Il sughero si ricava dalla corteccia delle querce da sughero, che possono vivere per centinaia di anni. Questi alberi possono essere raccolti ogni sette anni circa, rendendo il sughero un materiale rinnovabile. Quando la corteccia viene rimossa, gli alberi amplificano la loro attività biologica per sostituirla e aumentano il loro stoccaggio di carbonio, quindi la raccolta del sughero contribuisce a mitigare le emissioni.

Il sughero raccoglie l’olio senza assorbire l’acqua, per cui è possibile estrarre l’olio ed eventualmente riutilizzarlo.

La strage dei coralli a 14 anni dal disastro della Deepwater Horizon

A distanza di quasi 14 anni dal disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, i coralli delle acque profonde del Golfo del Messico sono ancora in sofferenza. A rivelarlo sono gli scienziati dell’Ocean Sciences Meeting di New Orleans. Il confronto delle immagini di oltre 300 coralli nell’arco di 13 anni – la più lunga serie temporale finora realizzata – rivela che in alcune aree la loro salute continua a diminuire ancora oggi.

Il 20 aprile 2010 cominciò un massiccio sversamento di petrolio in mare in seguito a un incidente riguardante il pozzo Macondo a oltre 1.500 m di profondità. Fino al 4 agosto milioni di barili di petrolio raggiunsero le acque di fronte a Louisiana, Mississippi, Alabama e Florida, oltre alla frazione più pesante del petrolio che ha formato grossi ammassi sul fondale marino. È stato il disastro ambientale più grave della storia americana. Una chiazza di petrolio grande quanto la Virginia ha ricoperto la superficie dell’oceano. Sebbene la fuoriuscita sia stata visibile soprattutto in superficie, gli impatti ecologici negativi si sono estesi a centinaia di metri sotto l’acqua.

Nel corso di 13 anni, le comunità di coralli hanno avuto un recupero limitato e alcune addirittura continuano a diminuire. “Abbiamo sempre saputo che gli organismi di acque profonde impiegano molto tempo per riprendersi, ma questo studio lo dimostra davvero”, spiega Fanny Girard, biologa marina dell’Università delle Hawaii di Mānoa che ha guidato il lavoro. “Anche se in alcuni casi la salute dei coralli sembrava essere migliorata, è stato scioccante vedere che gli individui più pesantemente colpiti stanno ancora lottando, e persino deteriorandosi, un decennio dopo”.

Pochi mesi dopo il disastro un team interdisciplinare di ricercatori ha effettuato un’indagine sul fondo dell’oceano a una distanza compresa tra i 6 e i 22 chilometri dalla testa del pozzo per registrare i danni. A circa 7 miglia di distanza e a 1.370 metri di profondità, hanno trovato una fitta foresta di coralli Paramuricea che sembravano malati. “Questi coralli erano ricoperti da un materiale marrone”, dice Girard. I test hanno dimostrato che il fango conteneva tracce di una combinazione di petrolio e disperdenti chimici. Alcuni mesi dopo, i ricercatori hanno trovato altri due siti di corallo a 1.580 metri e 1.875 metri di profondità che erano danneggiati in modo simile.
Ogni anno, dal 2010 al 2017, gli scienziati hanno visitato questi tre siti per monitorare i danni, misurare i tassi di crescita e notare l’eventuale recupero dei coralli, nell’ambito di un’ampia iniziativa volta a comprendere meglio gli impatti sull’ecosistema e a migliorare la nostra capacità di rispondere a future fuoriuscite di petrolio. L’analisi dei siti è proseguita anche nel 2022 e nel 2023 e le immagini raccolte hanno mostrato ancora segni di stress dovuti al petrolio.

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INFOGRAFICA INTERATTIVA Petrolio, Opec: Domanda a 104,4 mln barili/giorno nel 2024, 106,2 nel 2025

Nell’infografica INTERATTIVA di GEA, le previsioni Opec sulla domanda globale di petrolio al 2025. Secondo il ‘World Oil Demand’ report diffuso oggi, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio stima che “la domanda di petrolio è cresciuta di ben 2,5 mb/d (milioni di barili al giorno) nel 2023, soprattutto grazie alla solida attività economica nei Paesi non Ocse, guidata da un forte rimbalzo dalle chiusure legate al Covid in Cina. Nel 2024, la crescita della domanda petrolifera mondiale dovrebbe attestarsi su un buon livello di 2,2 mb/d, raggiungendo un livello di 104,4 mb/d (105,47 mb/d nel quarto trimestre)”. In prospettiva, si prevede che la domanda mondiale di petrolio nel 2025 crescerà di 1,8 mb/d (milioni di barili giornalieri), su base annua, per raggiungere i 106,2 mb/d. L’area Ocse dovrebbe crescere di 0,1 mb/d, su base annua, mentre l’area non Ocse dovrebbe aumentare di 1,7 mb/d.