Da Trump ‘guerra commerciale’: Cina, Canada e Messico preparano contromisure a dazi

E’ di fatto una guerra commerciale quella avviata da Donald Trump: Pechino, Ottawa e Messico hanno lanciato misure di ritorsione contro i dazi doganali punitivi imposti da Washington, descritti come una decisione “stupida” dal premier canadese Justin Trudeau. I nuovi dazi del governo degli Stati Uniti stanno facendo aumentare notevolmente i prezzi dei beni che attraversano il confine, dagli avocado alle magliette alle automobili. Le importazioni dal Canada e dal Messico sono ora tassate al 25% mentre salgono al 10% gli idrocarburi canadesi. I prodotti cinesi saranno colpiti da dazi doganali aggiuntivi del 20% rispetto alla tassazione in vigore prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Il Canada ha risposto “immediatamente” applicando tariffe mirate del 25% su alcuni prodotti americani, la cui portata verrà ampliata nel corso del mese, ha spiegato Trudeau ricordando che la misura americana avrebbe danneggiato entrambe le economie e in particolare i portafogli degli americani. “L’obiettivo di Trump è quello di far crollare l’economia canadese” e poi “parlare di annettere” il Paese, ha aggiunto Trudeau. Dal social Truth gli ha risposto Trump:  “Per favore spiegate al governatore Trudeau che se decide dazi di ritorsione contro gli Stati Uniti, le nostre tariffe reciproche aumenteranno immediatamente dello stesso ammontare”.

Risposte arrivano anche da Pechino che ha annunciato tariffe del 10 e del 15 percento su una serie di prodotti agricoli provenienti dagli Stati Uniti, che vanno dal pollo alla soia. Questa risposta, tuttavia, resta di poco inferiore all’offensiva americana, che riguarda tutti i prodotti cinesi che entrano negli Stati Uniti. Pechino ha comunque presentato un nuovo reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro gli Stati Uniti. “Le misure fiscali unilaterali degli Stati Uniti violano gravemente le norme del Wto e minano le fondamenta della cooperazione economica e commerciale tra Cina e Stati Uniti”, ha affermato il Ministero del Commercio cinese in una nota, aggiungendo di essere “fortemente insoddisfatto e fermamente contrario” ai dazi. “La Cina, in conformità con le norme del Wto, proteggerà fermamente i suoi legittimi diritti e interessi e sosterrà l’ordine economico e commerciale internazionale”, ha aggiunto la dichiarazione del Ministero del Commercio.

Dal Messico la presidente Claudia Sheinbaum ha promesso ritorsioni “doganali e non doganali” per la decisione di Donald Trump. La leader ha intenzione di chiarirne il contenuto domenica e di parlare prima con il presidente americano, “probabilmente giovedì”.

Donald Trump – che può giustificare l’imposizione di nuovi dazi doganali solo per decreto con un’emergenza legata alla sicurezza nazionale – accusa i tre Paesi di non combattere a sufficienza il traffico di fentanyl, una droga dagli effetti devastanti negli Stati Uniti. Ma “se le aziende si stabiliscono negli Stati Uniti, non avranno dazi doganali!!!”, ha affermato ancora Trump.

Dal canto suo l’Unione europea “deplora profondamente” la decisione degli Stati Uniti con dazi che “rischiano di perturbare il commercio mondiale” e “minacciano la stabilità economica su entrambe le sponde dell’Atlantico”. “L’Ue si oppone fermamente alle misure protezionistiche che minano il commercio aperto ed equo. Chiediamo agli Stati Uniti di riconsiderare il loro approccio e di lavorare per una soluzione cooperativa e basata su regole che vadano a vantaggio di tutte le parti”, ha dichiarato Olof Gill, portavoce della Commissione europea per il commercio. Questi fazi “rischiano di perturbare il commercio mondiale, danneggiare i principali partner economici e creare inutili incertezze in un momento in cui la cooperazione internazionale è più cruciale che mai”, ha risposto Olof Gill. “Il Messico e il Canada non sono solo alleati stretti dell’Ue, ma anche partner economici vitali”, ha sottolineato. “Questi Dazi minacciano le catene di approvvigionamento profondamente integrate e i flussi di investimenti”, ha aggiunto il portavoce.

Per il momento, l’inquilino della Casa Bianca non ha intenzione di fermarsi qui, nonostante i crescenti timori negli Stati Uniti circa l’impatto sulle imprese e sul potere d’acquisto delle famiglie. Sono in programma altre tasse sulle importazioni statunitensi, in particolare su acciaio e alluminio. “Poi arrivano le automobili, i farmaci, i semiconduttori, i prodotti forestali e agricoli e, più in generale, tutti i paesi esportati dall’Unione Europea… Come ha indicato il presidente durante la campagna, potrebbero esserci variazioni di prezzo nel breve termine, ma nel lungo termine saranno completamente diversi”, ha dichiarato il Segretario al Commercio americano, Howard Lutnick, sul canale CNBC. “Avremo la migliore America possibile, un bilancio in pareggio, i tassi di interesse crolleranno”, ha assicurato.

Avanza la guerra commerciale di Trump: da domani dazi a Canada, Messico e Cina

La Casa Bianca imporrà i dazi annunciati da Donald Trump sui prodotti provenienti da Canada, Messico e Cina a partire da domani, 1 febbraio.

Domani il Presidente imporrà dazi del 25% sul Messico, del 25% sul Canada e del 10% sulla Cina per il Fentanyl illegale che Pechino produce e permette di distribuire nel nostro Paese”, ha annunciato la portavoce, Karoline Leavitt.

Trump giovedì ha anche ribadito la minaccia di imporre dazi “al 100%” ai Brics se questo blocco di 10 Paesi (Brasile, Russia, India, Cina, ecc.) farà a meno del dollaro nel commercio internazionale.

Secondo Oxford Economics, se queste tariffe venissero applicate, l’economia statunitense perderebbe 1,2 punti percentuali di crescita e il Messico potrebbe precipitare in recessione. Per Wendong Zhang, professore della Cornell University, lo shock non sarebbe così forte per gli Stati Uniti, ma lo sarebbe senza dubbio per Canada e Messico. “In un simile scenario, Canada e Messico possono aspettarsi una contrazione del Pil rispettivamente del 3,6% e del 2%, e gli Stati Uniti dello 0,3%”, ha affermato. Anche Pechino “soffrirebbe di un’escalation dell’attuale guerra commerciale, ma allo stesso tempo beneficerebbe (delle tensioni tra Stati Uniti), Messico e Canada”.

Durante la campagna elettorale, il candidato repubblicano aveva dichiarato di voler imporre dazi doganali dal 10% al 20% su tutti i prodotti importati negli Stati Uniti, e addirittura dal 60% al 100% sui prodotti provenienti dalla Cina. All’epoca l’obiettivo era quello di compensare finanziariamente i tagli alle tasse che avrebbe voluto attuare durante il suo mandato. Dopo la sua elezione, il tono è cambiato. Piuttosto che uno strumento per compensare il calo delle entrate fiscali, le tariffe sono diventate, come durante il suo primo mandato, un’arma brandita per forzare i negoziati e ottenere concessioni. Trump ha spiegato che i dazi sarebbero una risposta all’incapacità del Messico di contenere il flusso di droga, in particolare di fentanyl, e di migranti verso gli Stati Uniti. Il suo candidato alla carica di Segretario al Commercio, Howard Lutnick, lo ha definito un “atto di politica interna” volto “semplicemente a far chiudere le frontiere”, durante l’udienza di conferma al Congresso di martedì.

La presidente messicana Claudia Sheinbaum è stata piuttosto ottimista mercoledì: “Non pensiamo che accadrà. Ma se dovesse accadere, abbiamo un piano”. Nonostante tutto, ci sono preoccupazioni, soprattutto per il settore agricolo, che esporta molto negli Stati Uniti. “Quasi l’80% delle nostre esportazioni è destinato a questo Paese e, in ogni caso, tutto ciò che potrebbe causare uno shock ci preoccupa”, ha ammesso martedì all’AFP Juan Cortina, capo del Consiglio nazionale dell’agricoltura. Da parte canadese, la possibilità di dazi è servita a mettere in evidenza la crisi politica che stava già logorando il governo del Primo Ministro Justin Trudeau, ora dimissionario. Il ministro canadese della Pubblica sicurezza, David McGuinty, si è recato a Washington giovedì per presentare i contorni di un piano di rafforzamento della sicurezza al confine tra Canada e Stati Uniti. Howard Lutnick è stato molto chiaro martedì: “So che si stanno muovendo rapidamente”, ha detto riferendosi ai due Paesi. “Se faranno la cosa giusta, non ci saranno tariffe”.

Trump lancia offensiva commerciale contro Cina, Canada e Messico: “Aumento dei dazi anche del 200%”

A poche settimane dalla sua rielezione e a un mese e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump lancia l’offensiva commerciale contro la Cina, il Canada e il Messico, con l’obiettivo di aumentare i dazi. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre tariffe del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti da Messico e Canada”, scrive il presidente eletto in un post sul social network Truth. “Questa tassa rimarrà in vigore fino a quando le droghe, in particolare il fentanyl, e tutti gli immigrati clandestini non fermeranno questa invasione del nostro Paese”, aggiunge.

In un altro post, annuncia un aumento del 10% delle tasse doganali, oltre a quelle già in vigore e a quelle aggiuntive che potrebbe decidere, su “tutti i numerosi prodotti che arrivano negli Stati Uniti dalla Cina”. Trump sottolinea di aver spesso sollevato il problema dell’afflusso di droga, in particolare del fentanyl – uno dei principali responsabili della crisi degli oppiacei negli Stati Uniti – con i leader cinesi, che avevano promesso di punire severamente i “trafficanti”, “fino alla pena di morte”. “Ma non hanno mai dato seguito alla promessa”, accusa il presidente eletto.

Le ragioni di sicurezza nazionale possono essere invocate per derogare alle regole stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ma i Paesi sono generalmente cauti nell’utilizzare questa eccezione come strumento regolare di politica commerciale.

L’aumento dei dazi doganali, che durante la campagna elettorale ha spesso descritto come la sua “espressione preferita”, è una delle chiavi della futura politica economica di Trump, che non teme di rilanciare le guerre commerciali, in particolare con la Cina, iniziate durante il suo primo mandato. All’epoca, aveva giustificato questa politica con il deficit commerciale tra i due Paesi e con quelle che considerava pratiche commerciali sleali, accusando Pechino di “rubare” la proprietà intellettuale. E la Cina si è vendicata con tariffe che hanno avuto conseguenze dannose soprattutto per gli agricoltori americani. L’amministrazione di Joe Biden ha mantenuto alcuni dazi sui prodotti cinesi e ne ha imposti di nuovi su altre.

E poco dopo le dichiarazioni di Trump, è arrivata la replica di Pechino. “Nessuno vincerà una guerra commerciale”, sottolinea il portavoce della diplomazia cinese Liu Pengyu. “La Cina ritiene che il commercio e la cooperazione economica tra Cina e Stati Uniti siano per natura reciprocamente vantaggiosi”.

Non è mancata nemmeno la reazione del Canada. Il governo di Justin Trudeau assicura che le relazioni tra i due Paesi sono “equilibrate e reciprocamente vantaggiose, soprattutto per i lavoratori americani”, anche se non manca un velato avvertimento: il Canada, ricorda a Trump l’esecutivo, è “essenziale per l’approvvigionamento energetico” degli Stati Uniti. Qui, dove il 75% delle esportazioni è destinato proprio agli Usa, le parole di Trump agitano gli animi. Il premier del Québec, François Legault, definisce l’annuncio “un rischio enorme” per l’economia canadese. Il suo omologo della Columbia Britannica, David Eby, ritiene che “Ottawa debba rispondere con fermezza”. Il Messico, invece, “non ha motivo di preoccuparsi”, assicura (e rassicura) la presidente Claudia Sheinbaum. I tre Paesi sono legati da trent’anni da un accordo di libero scambio, rinegoziato su pressione di Donald Trump durante il suo primo mandato.

Wendy Cutler, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute, un think tank americano, ritiene che la capacità dei due vicini degli Usa “di ignorare le minacce del presidente eletto sia limitata”, tanto sono dipendenti da lui. Ma l’analista William Reinsch sottolinea che il loro accordo sarà comunque rinegoziato nel 2026: “questa è una classica mossa di Trump, minacciare e poi negoziare”.

La nomina a Segretario al Commercio di Howard Lutnick, amministratore delegato della banca d’affari Cantor Fitzgerald e critico nei confronti della Cina, avvenuta la scorsa settimana, conferma la volontà del presidente eletto di cercare di piegare i partner commerciali per ottenere accordi migliori e delocalizzare la produzione negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la Cina, Trump ha promesso tariffe fino al 60% su alcuni prodotti e addirittura del 200% sulle importazioni di veicoli assemblati in Messico. Punta anche a reintrodurre dazi doganali del 10-20% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti e l’Unione Europea si è già detta “pronta a reagire” in caso di nuove tensioni commerciali.

La Cina avvia un’indagine antidumping sui semi di colza canadesi

La Cina ha annunciato martedì l’avvio di un’indagine antidumping sui semi di colza canadesi, come apparente ritorsione per gli ingenti dazi imposti da Ottawa sui veicoli elettrici cinesi importati. Alla fine di agosto, il primo ministro canadese Justin Trudeau ha annunciato una sovrattassa del 100% sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi a partire da ottobre, in nome di una presunta “concorrenza sleale”. Ha inoltre dichiarato che Ottawa avrebbe imposto una sovrattassa del 25% sulle importazioni cinesi di acciaio e alluminio a partire dal 15 ottobre.

In una nota di oggi, il ministero del Commercio cinese ha dichiarato che “aprirà un’indagine antidumping sui semi di colza importati dal Canada”. In realtà, l’indagine riguarda principalmente la “canola”, una pianta affine alla colza e prodotta in Canada. Viene utilizzata principalmente come olio alimentare. Secondo Pechino, le esportazioni di colza canadese in Cina “sono aumentate in modo significativo”, per un valore di 3,47 miliardi di dollari (3,14 miliardi di euro) nel 2023, con prezzi che “hanno continuato a scendere”. Per il ministero, gli esportatori canadesi sono quindi “sospettati di dumping” sul mercato cinese. Questa pratica consiste nel vendere all’estero a prezzi inferiori a quelli del mercato interno, distorcendo così la concorrenza.

“Colpite dalla concorrenza sleale canadese, le industrie cinesi legate alla colza continuano a subire perdite”, ha sottolineato il ministero, che sta valutando di portare la questione all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). La Cina “adotterà tutte le misure necessarie per difendere i diritti e gli interessi legittimi” delle sue aziende.

Le relazioni tra Ottawa e Pechino sono ai ferri corti da diversi anni, in particolare dalla crisi di Huawei e dall’arresto nel 2018 di Meng Wanzhou, il direttore finanziario del gruppo cinese, seguito dall’incarcerazione in Cina di due cittadini canadesi.

Gli Stati Uniti e l’Unione europea (Ue) hanno inoltre imposto dazi doganali rispettivamente del 100% e fino al 36% sui veicoli elettrici cinesi. Bruxelles ritiene che i prezzi siano artificialmente bassi a causa di sussidi statali che distorcono il mercato e danneggiano la competitività dei produttori europei.

Trans Mountain: il nuovo controverso oleodotto canadese entra in servizio

La fine di una saga: il nuovo oleodotto Trans Mountain, che collega il Canada centrale alla costa occidentale, entrerà ufficialmente in servizio oggi dopo anni di ritardi e senza essere riuscito a cancellare le polemiche. Si tratta del primo grande oleodotto da decenni a essere costruito in Canada, quarto esportatore mondiale di greggio. L’oleodotto esistente si estende per 1.150 km tra la provincia di Alberta e la Columbia Britannica a ovest. È entrato in servizio negli anni ’50 e trasporta circa 300.000 barili al giorno. Due volte più grande, il nuovo oleodotto triplicherà la capacità con stazioni di pompaggio e terminali aggiuntivi e un nuovo complesso portuale a Burnaby, vicino a Vancouver, sulla costa del Pacifico. Soprattutto, permetterà di esportare di più, in particolare verso l’Asia.

A lungo voluta dalla potente industria petrolifera dell’Alberta, ma criticata dagli ambientalisti e da alcune comunità aborigene della regione, l’espansione dell’oleodotto Trans Mountain ha provocato un tumulto negli ultimi anni. Le manifestazioni e le azioni legali contro il progetto si sono moltiplicate dopo che nel 2018 il governo di Justin Trudeau ha annunciato la nazionalizzazione di questo oleodotto “strategico” per 4,5 miliardi di dollari canadesi (3 miliardi di euro). Per George Hoberg, esperto di risorse naturali presso l’Università della British Columbia, la costruzione dell’oleodotto è stata “un colpo molto grave” ai tentativi di riconciliazione del governo Trudeau con le comunità aborigene, una delle sue priorità da quando è salito al potere nel 2015.

È anche una decisione che non è piaciuta agli ambientalisti, che sottolineano il rischio di fuoriuscite di petrolio a seguito dell’aumento del traffico navale e le conseguenze per le popolazioni di orche del Pacifico, in pericolo di estinzione. Il successo del progetto rappresenta “una grande vittoria per l’Alberta, ma una grande perdita per gli ambientalisti preoccupati per la crisi climatica e per le possibili fuoriuscite dall’oleodotto stesso o dalle petroliere in navigazione nelle acque canadesi”, conclude Hoberg. Inoltre, l’estensione dell’oleodotto è “completamente in contraddizione” con l’impegno del governo di ridurre le emissioni di gas serra del Paese del 40-45% entro il 2030, afferma Jean-Philippe Sapinski, professore di studi ambientali all’Università di Moncton (est).

Il Canada è tra i primi 10 paesi al mondo per emissioni di gas serra e ha uno dei più alti tassi di emissioni pro capite. Tuttavia, il cambiamento climatico è una questione che preoccupa sempre di più i canadesi, che negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con eventi meteorologici estremi, la cui intensità e frequenza sono aumentate a causa del riscaldamento globale. Nel 2023 il Paese ha vissuto la peggiore stagione di incendi della sua storia. “Se puntiamo a una vera transizione ecologica, questo progetto è controproducente”, osserva Sapinski.

C’è un altro aspetto che sta facendo discutere in Canada: il costo finale del progetto. Sebbene non sia ancora noto, sembra che si tratti di un’incredibile cifra di 34 miliardi di dollari canadesi (23,2 miliardi di euro), rispetto ai 7,4 miliardi di euro previsti all’inizio del progetto nel 2017. Già nel 2022, il responsabile del bilancio del Parlamento aveva giudicato il progetto una “perdita” finanziaria per il Canada, in quanto la sua costruzione sarebbe costata più di quanto valesse. In termini energetici, l’arrivo della nuova versione dell’oleodotto sul mercato mondiale “non cambierà l’equilibrio geopolitico”, dominato dalla Russia e dal Medio Oriente, ha dichiarato all’AFP Pierre-Olivier Pineau, professore alla HEC di Montréal. Tuttavia, secondo l’esperto di politica energetica, “toglierà un po’ di potere al Medio Oriente e offrirà nuove opzioni dal Nord America“, creando “ulteriore concorrenza” per i produttori canadesi.

G7, Meloni in Usa e Canada: Piano Mattei e Ia sul tavolo

Ucraina, Medio Oriente e Indo-Pacifico. Ma anche attenzione all’Africa, per costruire un “partenariato vantaggioso per tutti“, secondo il modello del Piano Mattei, e alle sfide che l‘intelligenza artificiale impone. Sono le priorità della presidenza italiana del G7, che Giorgia Meloni si prepara a presentare a Joe Biden, domani a Washington, e a Justin Trudeau sabato a Toronto.

La visita segue la missione in Giappone di inizio febbraio, in cui la premier italiana ha raccolto il testimone della presidenza del G7 da Fumio Kishida, e la prima riunione dei leader sotto la presidenza italiana che si è svolta in videoconferenza da Kiev il 24 febbraio. Sarà proprio il Canada, nel 2025, a prendere la presidenza del G7 dall’Italia.

In entrambi gli incontri, assicurano fonti italiane, si parlerà anche delle “relazioni bilaterali di eccellenza, in tutti i settori“, tra l’Italia e gli Stati Uniti e tra l’Italia e il Canada, oltre che delle prospettive di un loro “ulteriore rafforzamento“.

Con Biden, nel dettaglio, le relazioni bilaterali hanno come base la dichiarazione congiunta adottata durante la prima visita di Meloni a Washington, il 27 luglio scorso. Negli Stati Uniti c’è una presenza di una comunità italo-americana numerosa e bene integrata: si parla di oltre 20 milioni di persone, alle quali si aggiungono più di 325mila italiani residenti negli Stati Uniti. Nel 2023 Washington è stato il terzo mercato di destinazione dell’export italiano, con un interscambio di circa 102 miliardi di dollari (con surplus di 44 a favore dell’Italia), e presenze di imprese italiane in ogni settore economico-industriale, inclusi quello della difesa e quello aerospaziale.

Con il Canada, Roma ha già relazioni commerciali e di investimento forti, con economie complementari, che fanno leva sulle piccole e medie imprese. Il Paese è un partner importante per l’Italia, con un interscambio di circa 12 miliardi di euro fra gennaio e novembre 2023 (+1,1% sull’anno precedente). La bilancia commerciale è favorevole all’Italia (+4,2 miliardi nei primi 11 mesi del 2023) e c’è un elevato livello di complementarietà, con la specializzazione manifatturiera e di innovazione in Italia da un lato l’abbondanza di materie prime in Canada dall’altro. Importante anche qui è il ruolo della comunità di origine italiana: 1,6 milioni di persone circa, per metà residenti nell’Ontario.

Entrambi i colloqui saranno insomma occasione di confronto sulle principali questioni internazionali: in primo luogo l’aggressione russa all’Ucraina e il “continuo sostegno a Kiev” che l’Italia intende ribadire. Poi, la situazione in Medio Oriente e la prevenzione di una escalation regionale con il “sostegno umanitario a Gaza“, spiegano le fonti, e la sicurezza e la stabilità nel Mar Rosso. Sulla cooperazione con il Continente africano si parlerà di Piano Mattei, nella prospettiva, trapela, di “verificare opportunità di collaborazione in aree di comune interesse“. Al centro pure la sicurezza delle catene di approvvigionamento e il coordinamento transatlantico rispetto alle sfide e alle opportunità poste dalla Cina. Leader al lavoro anche per preparare il prossimo vertice Nato, che si terrà proprio a Washington dal 9 all’11 luglio, in occasione del 75esimo anniversario dell’Alleanza atlantica.

Canada, la grande fuga dagli incendi di Yellowknife: migliaia di evacuati

(Photo Credit: Ottawa Fire Service (Twitter – X)

 

Migliaia di persone affollano il piccolo aeroporto di Yellowknife, mentre una lunga fila di auto intasa l’unica autostrada per sfuggire agli incendi boschivi che minacciano una delle più grandi città dell’estremo nord del Canada.

Più di 20.000 persone devono essere evacuate dalla capitale dei Territori del Nord-Ovest (NWT), minacciata da un vasto incendio incontrollato a circa quindici chilometri dalle sue mura.

Giovedì sono stati utilizzati dieci voli per evacuare circa 1.500 residenti e oggi sono previsti almeno 22 voli da Yellowknife. Le autorità territoriali stimano di poter evacuare per via aerea circa un quarto dei residenti e non escludono la possibilità di continuare anche sabato.

Continueremo fino a quando non riusciremo a portare tutti fuori da Yellowknife“, assicura Jennifer Young, dei servizi di emergenza del NWT.
L’autostrada era completamente paralizzata“, racconta all’AFP Julie Downes, residente a Yellowknife, fuggita mercoledì con il marito e i loro tre cani.
Noi abitanti del nord siamo rifugiati del cambiamento climatico“, spiega, con la voce tremante, aggiungendo che mercoledì dall’autostrada erano visibili diversi incendi “grandi come case“.

La vicina Alberta, a Sud, si sta nel frattempo mobilitando allestendo centri di evacuazione, il più vicino dei quali si trova a 1.150 chilometri da Yellowknife. Dalla primavera il Canada sta vivendo una stagione di incendi da record. Negli ultimi anni, il Paese ha dovuto fare i conti con eventi meteorologici estremi, la cui intensità e frequenza sono aumentate a causa del riscaldamento globale.

Più della metà della popolazione dei Territori del Nord-Ovest è sottoposta a ordini di evacuazione e molte altre comunità del Paese, in particolare nella Columbia Britannica, sono sottoposte a ordini di evacuazione o in stato di allerta.
La città di West Kelowna, nel centro della provincia, ha dichiarato lo stato di emergenza nella tarda serata di giovedì a causa di un incendio boschivo che si sta avvicinando pericolosamente.
Si prevede che i forti venti renderanno le prossime 48 ore “estremamente imprevedibili” in questa provincia, ha dichiarato il ministro per la Gestione delle emergenze e la preparazione al clima, Bowinn Ma.
Giovedì il primo ministro canadese Justin Trudeau ha interrotto la sua vacanza con la famiglia sulla costa occidentale per tenere una riunione d’emergenza con i ministri e gli alti funzionari.
Trudeau “ha chiesto ai ministri di lavorare con i loro partner nel settore delle telecomunicazioni per garantire l’accesso continuo ai servizi essenziali per i canadesi colpiti”, ha dichiarato il suo ufficio in un comunicato

Canada, foresta boreale divorata da incendi: 8 mln ettari in fumo, 100mila sfollati

Photo credit: AFP

 

Da Est a Ovest, il Canada è flagellato dagli incendi, anche se non si è ancora raggiunto il culmine dell’estate. Nessuna provincia è stata risparmiata, nemmeno il Québec o la Nuova Scozia, che di solito non vengono colpite.

Imprevedibile“, “gigantesco“, “fuori dal comune“: centinaia di vigili del fuoco arrivati da tutto il mondo a dare una mano nella lotta ai roghi che stanno divorando la foresta boreale.

Le cifre sono sconcertanti: ieri nel Paese bruciavano 490 incendi, più della metà dei quali erano considerati fuori controllo. All’inizio della stagione, all’inizio di maggio, è stata l’Alberta, nella parte occidentale del Paese, a catturare tutte le preoccupazioni, trovandosi rapidamente di fronte a una situazione senza precedenti. Poi, poche settimane dopo, la Nuova Scozia, provincia atlantica dal clima molto mite, e il Quebec sono stati a loro volta coinvolti in mega-incendi. Oggi il Quebec è la provincia più colpita, con 112 incendi attivi.

In tutto, più di 100.000 persone sono state sfollate. La soglia dei sei milioni di ettari bruciati è stata superata il 19 giugno, appena una settimana fa. Martedì scorso era stata quasi raggiunta la soglia degli otto milioni di ettari, un’area equivalente all’intera Austria. Solo in Quebec sono stati bruciati 1,3 milioni di ettari, contro una media di meno di 10.000 negli ultimi dieci anni. L’area bruciata in 25 giorni supera già la superficie totale bruciata negli ultimi 20 anni messi insieme.

Le emissioni di carbonio causate dagli incendi hanno già superato il record annuale canadese, secondo l’osservatorio europeo Copernicus. Queste 160 megatonnellate di carbonio rilasciate nell’atmosfera rappresentano l’equivalente di circa 590 milioni di tonnellate di CO2, ovvero l’88% delle emissioni annuali di gas serra del Canada nel 2021. Gli incendi canadesi del 2023 rappresentano attualmente più del 10% delle emissioni globali di carbonio prodotte dagli incendi boschivi del 2022 (1.455 megatonnellate).

La foresta brucia sottoterra con le radici e l’incendio può attecchire in luoghi che non ci si aspetterebbe mai. È molto imprevedibile e può ricominciare molto rapidamente“, spiega Eric Florès da Abitibi-Témiscamingue, regione nel nord del Quebec che è stata duramente colpita dai roghi e in cui sono stati dispiegati un centinaio di vigili del fuoco francesi.

È un compito difficile e faticoso: “è come lavorare con una formica, andiamo metro per metro“. Dopo essere stati scaricati da un elicottero, spesso i pompieri devono percorrere diversi chilometri nella fitta foresta con attrezzature pesanti e ingombranti sulle spalle, tra fumi densi e nocivi, un nugolo di zanzare e mosche nere.

Qui a volte ci sono muri di fiamme larghi 100 metri, alti il doppio degli alberi“, riferisce Florès. Si tratta di incendi che a volte sono 100 volte più grandi di quelli che i vigili del fuoco sono abituati a gestire. “C’è molto fumo nel Paese e non solo, ma non sorprende, quando si vede quanta foresta sta bruciando”, aggiunge Godefroy, militare francese dislocato in Quebec.

È incredibile la rapidità con cui si può passare dal carbone ardente alle fiamme nel giro di pochi secondi“, racconta Joseph Romero, un vigile del fuoco costaricano dislocato ad Alberta, nel Canada occidentale.
Questo anno eccezionale dà un’idea delle sfide che attendono il Canada in futuro, dal momento che il cambiamento climatico sta aumentando la frequenza e l’intensità degli incendi nelle foreste boreali. L‘anello verde che circonda l’Artico – in Canada, naturalmente, ma anche in Alaska, Siberia e Nord Europa – è vitale per il futuro del pianeta.

Qui c’è uno strato di 20-30 cm di combustibile sul terreno, che rende l’incendio più difficile da controllare. L’incendio scoppia sotto il combustibile e può estendersi per diversi chilometri“, spiega David Urueña, vigile del fuoco spagnolo giunto in Quebec come supporto.

È in parte questo humus, caratteristico della foresta boreale, a spiegare i grandi pennacchi di fumo che hanno invaso il cielo canadese per diverse settimane e che negli ultimi giorni hanno raggiunto gli Stati Uniti e persino l’Europa.

Brucia il Canada: il fumo raggiunge New York. La Grande Mela avvolta nella nebbia arancione

(Photocredit: AFP)

Nebbia arancione e aria irrespirabile. I segni degli incendi che stanno devastando il Canada hanno raggiunto la città di New York, rendendo la visibilità così difficile da costringere l’Agenzia per l’aviazione civile degli Stati Uniti (Faa) a tenere a terra diversi aerei. La Statua della Libertà e i grattacieli di Manhattan sono avvolti da una spessa coltre di nebbia e per le strade sono ricomparse le mascherine, proprio come durante la pandemia. Il governo degli Usa ha invitato i cittadini più fragili dal punto di vista della salute a “prendere precauzioni” di fronte al deterioramento della qualità dell’aria. Sono più di 100 milioni gli americani interessati dalle allerte sulla qualità dell’aria a causa del fumo, in modo particolare nella zona nord orientale del Paese, da Chicago ad Atlanta. “Un altro segno preoccupante di come la crisi climatica stia influenzando le nostre vite”, ha detto la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre.

Dopo le province canadesi di Alberta (ovest) e Nova Scotia (est), tocca al Quebec essere colpito da incendi “mai visti”: sono quasi 140 quelli attualmente attivi, di cui quasi un centinaio ritenuti fuori controllo, secondo la Società per la protezione delle foreste dagli incendi (Sopfeu). E non sono previste piogge significative fino a lunedì sera. “Con il personale di cui disponiamo attualmente, possiamo coprire circa 40 incendi contemporaneamente”, ha affermato il governatore della provincia, François Legault.

Il Quebec ha schierato centinaia di persone sul campo. Con gli aiuti internazionali, compresi i cento vigili del fuoco dalla Francia che dovrebbero arrivare entro venerdì, la provincia spera di aumentare la sua forza lavoro a 1.200 persone. “Centinaia di vigili del fuoco americani sono appena arrivati ​​in Canada e altri sono in arrivo”, ha annunciato in serata il primo ministro canadese Justin Trudeau, dopo l’incontro con il presidente americano Joe Biden. Quest’ultimo “ha ordinato alla sua squadra di schierare tutti i mezzi antincendio federali che possono aiutare rapidamente” a combattere gli incendi, ha riferito la Casa Bianca.

Più di 20.000 canadesi – di cui 10mila solo in Quebec – sono già stati evacuati. La provincia francofona ha registrato 443 incendi dall’inizio dell’anno, contro una media di 200 nello stesso periodo negli ultimi dieci anni.

La situazione è considerata eccezionale anche dalle autorità in termini di numero di ettari bruciati in questo periodo dell’anno. Il Canada nel suo complesso sta vivendo un anno senza precedenti: sono stati registrati circa 2.300 incendi boschivi e sono bruciati circa 3,8 milioni di ettari, un totale ben al di sopra della media degli ultimi decenni.

Canada, freno all’estrazione dai fondali marini per preservare l’ecosistema

Il governo canadese ha annunciato giovedì che non permetterà l’estrazione dai fondali marini negli oceani nazionali senza una “rigorosa struttura normativa“. L’annuncio è stato fatto nella giornata conclusiva del Quinto Congresso Internazionale sulle Aree Marine Protette a Vancouver. “Il Canada non dispone attualmente di un quadro giuridico nazionale che consenta l’estrazione dai fondali marini e, in assenza di una solida struttura normativa, non consentirà l’estrazione dai fondali marini nelle aree sotto la sua giurisdizione“, hanno dichiarato in una nota congiunta i ministri delle Risorse naturali, degli Oceani e della Pesca. “È così che garantiremo la salute dei nostri ecosistemi oceanici per le generazioni a venire“, ha aggiunto il ministro dell’Ambiente Steven Guilbeault, aggiungendo che “proteggere il 30% dei nostri oceani deve essere più di un semplice slogan“.

Ottawa ha anche annunciato questa settimana la creazione di una nuova Area marina protetta del Pacifico per preservare una striscia di costa marina di 10 milioni di ettari che si estende dalla cima dell’isola di Vancouver al confine tra Canada e Alaska. Firmato con diverse popolazioni indigene, il piano è anche una componente necessaria dell’obiettivo del Canada di proteggere il 30% della sua terra e del suo oceano entro il 2030. Un impegno fondamentale assunto dai Paesi di tutto il mondo in occasione del Vertice sulla biodiversità di Montreal dello scorso dicembre. “Questo piano è un passo importante per far progredire sia la conservazione dell’ambiente marino che la riconciliazione con le popolazioni indigene“, ha dichiarato Hussein Alidina, esperto di aree marine del WWF Canada. “Dobbiamo ora rivolgere rapidamente la nostra attenzione all’attuazione di queste aree marine protette e fare ciò che è necessario per renderle una realtà“, ha aggiunto.

La regione ospita oltre 64 specie di pesci, 70 specie di uccelli marini, 30 specie di mammiferi marini, tra cui orche, lontre marine e delfini, e 52 specie di invertebrati come molluschi, ricci di mare, polpi e altro.Le nostre nazioni hanno una solida esperienza nel dimostrare che la conservazione guidata dagli indigeni funziona per la natura e per le persone“, ha dichiarato Dallas Smith, portavoce della First Nations Coalition for Responsible Fish Management. “Mentre affrontiamo le sfide urgenti della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico, questo è il modello di cui il mondo ha bisogno ora“, ha aggiunto.