Avanza la guerra commerciale di Trump: da domani dazi a Canada, Messico e Cina

La Casa Bianca imporrà i dazi annunciati da Donald Trump sui prodotti provenienti da Canada, Messico e Cina a partire da domani, 1 febbraio.

Domani il Presidente imporrà dazi del 25% sul Messico, del 25% sul Canada e del 10% sulla Cina per il Fentanyl illegale che Pechino produce e permette di distribuire nel nostro Paese”, ha annunciato la portavoce, Karoline Leavitt.

Trump giovedì ha anche ribadito la minaccia di imporre dazi “al 100%” ai Brics se questo blocco di 10 Paesi (Brasile, Russia, India, Cina, ecc.) farà a meno del dollaro nel commercio internazionale.

Secondo Oxford Economics, se queste tariffe venissero applicate, l’economia statunitense perderebbe 1,2 punti percentuali di crescita e il Messico potrebbe precipitare in recessione. Per Wendong Zhang, professore della Cornell University, lo shock non sarebbe così forte per gli Stati Uniti, ma lo sarebbe senza dubbio per Canada e Messico. “In un simile scenario, Canada e Messico possono aspettarsi una contrazione del Pil rispettivamente del 3,6% e del 2%, e gli Stati Uniti dello 0,3%”, ha affermato. Anche Pechino “soffrirebbe di un’escalation dell’attuale guerra commerciale, ma allo stesso tempo beneficerebbe (delle tensioni tra Stati Uniti), Messico e Canada”.

Durante la campagna elettorale, il candidato repubblicano aveva dichiarato di voler imporre dazi doganali dal 10% al 20% su tutti i prodotti importati negli Stati Uniti, e addirittura dal 60% al 100% sui prodotti provenienti dalla Cina. All’epoca l’obiettivo era quello di compensare finanziariamente i tagli alle tasse che avrebbe voluto attuare durante il suo mandato. Dopo la sua elezione, il tono è cambiato. Piuttosto che uno strumento per compensare il calo delle entrate fiscali, le tariffe sono diventate, come durante il suo primo mandato, un’arma brandita per forzare i negoziati e ottenere concessioni. Trump ha spiegato che i dazi sarebbero una risposta all’incapacità del Messico di contenere il flusso di droga, in particolare di fentanyl, e di migranti verso gli Stati Uniti. Il suo candidato alla carica di Segretario al Commercio, Howard Lutnick, lo ha definito un “atto di politica interna” volto “semplicemente a far chiudere le frontiere”, durante l’udienza di conferma al Congresso di martedì.

La presidente messicana Claudia Sheinbaum è stata piuttosto ottimista mercoledì: “Non pensiamo che accadrà. Ma se dovesse accadere, abbiamo un piano”. Nonostante tutto, ci sono preoccupazioni, soprattutto per il settore agricolo, che esporta molto negli Stati Uniti. “Quasi l’80% delle nostre esportazioni è destinato a questo Paese e, in ogni caso, tutto ciò che potrebbe causare uno shock ci preoccupa”, ha ammesso martedì all’AFP Juan Cortina, capo del Consiglio nazionale dell’agricoltura. Da parte canadese, la possibilità di dazi è servita a mettere in evidenza la crisi politica che stava già logorando il governo del Primo Ministro Justin Trudeau, ora dimissionario. Il ministro canadese della Pubblica sicurezza, David McGuinty, si è recato a Washington giovedì per presentare i contorni di un piano di rafforzamento della sicurezza al confine tra Canada e Stati Uniti. Howard Lutnick è stato molto chiaro martedì: “So che si stanno muovendo rapidamente”, ha detto riferendosi ai due Paesi. “Se faranno la cosa giusta, non ci saranno tariffe”.

Petrolio, gas, difesa e commercio: ecco perché l’Artico fa gola al mondo

Il ghiaccio marino si scioglie e la voglia di Artico esplode. L’America di Donald Trump, i Paesi nordici, la Russia di Vladimir Putin e anche la Cina sono impegnati in una competizione per l’influenza su questo territorio, mentre si rivela il potenziale economico e il valore strategico della regione polare. “Si dice che l’Artico nel suo complesso contenga il 25% delle riserve mondiali non scoperte di idrocarburi convenzionali”, spiega Mikaa Blugeon-Mered, docente di geopolitica a Sciences Po, riferendosi a un rapporto del Servizio geologico statunitense (USGS). Ed è, quindi, facile intuire il perché delle ambizioni geopolitiche ed economiche sul territorio da parte del resto del mondo.

Il riscaldamento globale sta causando un rapido scioglimento dei ghiacci polari nell’Artico, che sta stimolando l’attività economica, compreso il turismo, nonostante l’ambiente inospitale. Secondo l’osservatorio Copernicus, l’Artico europeo è la regione che si riscalda più rapidamente al mondo.

I Paesi confinanti cercano di accedere al petrolio, al gas e ai minerali che abbondano sotto la superficie, oltre che alle vaste riserve ittiche della zona. Per quanto riguarda il Passaggio a Nord-Est, una rotta marittima al largo delle coste della Siberia che è diventata gradualmente praticabile a causa del riscaldamento globale, promette di far risparmiare tempo – da una a due settimane – e carburante per collegare l’Europa e l’Asia rispetto alla rotta tradizionale attraverso il Canale di Suez.

Ma l’Artico ha anche implicazioni militari. “Da un punto di vista geopolitico, la regione è centrale. Per gli aerei e i missili, la via più breve tra (…) la Russia e gli Stati Uniti passa attraverso l’Oceano Artico. È anche un’area dove ci sono molti sottomarini che pattugliano e dove i russi hanno le loro più grandi basi militari”, spiega Njord Wegge, professore dell’Accademia militare norvegese.

Una “linea di faglia” che sta stuzzicando l’appetito del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale ha espresso a gran voce il suo progetto di annettere l’enorme isola artica della Groenlandia. Sabato ha promesso che gli Stati Uniti “prenderanno” il territorio autonomo danese. Come, però, non è ancora chiaro.

La fine della Guerra Fredda ha inaugurato un’era di cooperazione tra gli otto Stati costieri: Norvegia, Danimarca (attraverso il territorio autonomo della Groenlandia), Svezia, Finlandia, Russia, Stati Uniti, Canada e Islanda. Ma il Consiglio Artico, che riunisce questi Paesi dal 1996, ha perso la sua capacità di azione, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

“La linea di demarcazione è di tipo militare, poiché sette degli otto Paesi della regione artica sono membri della NATO”, sottolinea Blugeon-Mered. Oltre il 50% delle coste artiche è russo e Mosca sfrutta l’area da decenni. Secondo una raccolta di dati compilata da questo ricercatore, oltre l’80% del gas russo e il 60% del petrolio sono prodotti nell’Artico. Per Max Bergmann, del think tank americano CSIS, è la Russia a rappresentare la più grande minaccia per gli Stati Uniti. “La minaccia è rappresentata dalla continua militarizzazione dell’Artico da parte della Russia e dalla nostra scarsa presenza”, dice l’esperto. Tuttavia, il ricercatore non approva l’espansionismo di Donald Trump, che considera “inutile”. A suo avviso, “prendere la Groenlandia (…) sovrastima la minaccia alla sicurezza nazionale”. “L’unico motivo per possedere la Groenlandia sarebbe quello di avere accesso a minerali” come le terre rare utilizzate nella transizione energetica e presenti in grandi quantità sull’isola danese, ritiene, ma il presidente “ha firmato decreti per fermare la transizione”.

L’Unione europea non è indifferente ai piani di Trump per la Groenlandia. Diversi leader hanno espresso le loro preoccupazioni negli ultimi giorni. Ad aggravare le tensioni regionali, la Cina, un altro attore importante ma non rivierasco nell’Artico, sta avanzando la sua posizione nella regione. “I russi non hanno altra scelta che collaborare con la Cina (…) il principale acquirente a lungo termine delle risorse dell’Artico russo”, analizza Blugeon-Mered, riferendosi alle perdite commerciali di Mosca in Europa dall’inizio della guerra in Ucraina.

Washington non vede di buon occhio il crescente potere di Pechino nell’Artico. A luglio, il Pentagono ha messo in guardia contro una maggiore cooperazione sino-russa nella regione. Mentre la Russia ha rafforzato la sua presenza militare nell’Artico riaprendo e modernizzando diverse basi e campi d’aviazione abbandonati dalla fine dell’era sovietica, la Cina ha iniettato fondi nell’esplorazione e nella ricerca polare. “Mentre i russi cedono spazio alla Cina, la Cina penetra di fatto. E per gli americani, siano essi repubblicani o gran parte dei democratici, questo è percepito come un rischio”, spiega Blugeon-Mered.

Terremoto di magnitudo 6.8 in Tibet: almeno 126 morti e 188 feriti

Un potente terremoto nella regione himalayana del Tibet, nel sud-ovest della Cina, ha causato la morte di almeno 126 persone, il ferimento di 188 e il crollo di molti edifici, ed è stato avvertito fino al vicino Nepal. Il sisma di magnitudo 6.8 ha colpito la cittadina di Dingri, non lontano dal confine sino-nepalese, alle 09.05 ora locale, secondo l’agenzia nazionale cinese per i terremoti (CENC). Secondo il Servizio geologico degli Stati Uniti (USGS) la magnitudo è stata di 7.1. I video trasmessi dalla televisione di Stato cinese CCTV mostrano case bianche ad alta quota con muri squarciati e tetti crollati, con pietre sparse sul terreno. Altri filmati della CCTV mostrano veicoli sepolti sotto i mattoni e clienti che fuggono da un supermercato mentre il terremoto fa cadere a terra i prodotti dagli scaffali. I vigili del fuoco in uniforme arancione sono arrivati sul luogo del disastro, tra le macerie e vicino ai sopravvissuti e agli anziani avvolti nelle coperte, secondo i video delle telecamere a circuito chiuso. “Le scosse sono state fortemente avvertite nella città di Dingri e nei dintorni e molti edifici sono crollati vicino all’epicentro”, ha riferito la CCTV.

Nella piccola città di Lhatsé, i video geotaggati dall’AFP mostrano detriti sparsi davanti ai ristoranti di una strada. L’epicentro si trova a circa 370 km a sud-ovest della capitale regionale Lhasa, secondo i dati del CENC. China News ha riferito che le autorità locali stavano visitando vari comuni della township di Dingri “per valutare l’impatto del terremoto”. Le autorità hanno inviato3400 soccorritori e più di 340 operatori sanitari, oltre aiuti di emergenza, tra cui tende di cotone, piumini e altre attrezzature per aiutare la popolazione a far fronte al clima rigido, ha dichiarato l’agenzia. Le temperature sono di circa -8°C durante il giorno e potrebbero scendere a -18°C durante la notte, secondo l’Ufficio meteorologico nazionale cinese.

Il cantone di Dingri ha una popolazione di circa 62.000 abitanti e si trova non lontano dal versante cinese del Monte Everest. Il presidente cinese Xi Jinping ha invitato a fare “ogni sforzo per effettuare le operazioni di ricerca e salvataggio e per curare i feriti”, secondo quanto riportato dalla CCTV. “Bisogna fare ogni sforzo per ridurre al minimo le perdite di vite umane” e “trasferire le persone colpite” dal disastro, ha dichiarato. Sebbene i terremoti siano comuni nella regione, quella di martedì è stata la scossa più forte registrata nel raggio di 200 chilometri negli ultimi cinque anni, secondo il CENC.

IL CORDOGLIO INTERNAZIONALE. L’Unione Europea, attraverso a commissaria per l’Uguaglianza, la Preparazione e la gestione delle crisi, Hadja Lahbib, ha annunciato di essere pronta a “fornire assistenza alle popolazioni colpite, se richiesto”. Molti i messaggi di solidarietà giunti da tutto il mondo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha scritto al presidente cinese, inviando “le più sincere condoglianze del popolo italiano e le espressioni dei miei personali sentimenti di cordoglio”. “La Repubblica italiana è vicina al lutto dell’amico popolo cinese e, in particolare, al dolore delle famiglie di quanti hanno perso la vita a causa del sisma – ha aggiunto il Capo dello Stato -. Auguriamo ai feriti un pronto e completo ristabilimento, con il pensiero rivolto anche all’importante sforzo che stanno compiendo in queste ore le squadre di soccorso. In spirito di amicizia e partecipe solidarietà”. Anche il Dalai Lama ha espresso la sua “profonda tristezza”  per quanto accaduto e ha offerto le sue preghiere “a tutti coloro che hanno perso la vita e auguro una pronta guarigione a tutti coloro che sono stati feriti”, ha scritto il leader politico e spirituale dei tibetani in esilio in una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio. Un breve messaggio è stato inviato a Xi Jinping anche dal presidente russo Valdimir Putin: “La Russia condivide il dolore di coloro che hanno perso persone care e amici a causa di questa catastrofe naturale”, ha detto, porgendo le sue “sincere condoglianze” a Xi per “le tragiche conseguenze”.

I PRECEDENTI. In Nepal, il terremoto, avvertito in particolare nella capitale Kathmandu, ha colpito le zone intorno a Namche e Lobuche, molto vicine al campo base dell’Everest. “Qui la scossa è stata piuttosto forte, tutti sono svegli ma al momento non siamo a conoscenza di danni”, ha detto Jagat Prasad Bhusal, un funzionario della regione di Namche, nel nord-est del Nepal. L’Himalaya si trova sulla linea di faglia tra la placca tettonica indiana e quella eurasiatica e registra una regolare attività sismica. Nel 2015, un terremoto di magnitudo 7.8 ha ucciso quasi 9.000 persone e ne ha ferite oltre 22.000, distruggendo più di 500.000 case. Un terremoto nel dicembre 2023 ha ucciso 148 persone e lasciato migliaia di persone senza casa nella provincia cinese nord-occidentale di Gansu.
È stato il terremoto più letale in Cina dal 2014, quando più di 600 persone sono state uccise nella provincia sud-occidentale dello Yunnan. Nel maggio 2008, un potentissimo terremoto di magnitudo 7.9 ha causato 87.000 morti o dispersi nella provincia sud-occidentale del Sichuan. Il disastro è stato uno shock nazionale.

Cina leader mondiale pure nella produzione di mele e pere. La Ue perde colpi

Non solo nell’industria o nell’auto. La Cina è leader anche nella produzione di mele e pere. Secondo le previsioni diffuse dall’Usda, il Dipartimento Agricoltura americano, la produzione mondiale di mele per il 2024/25 è prevista in calo di quasi 350.000 tonnellate, raggiungendo i 84 milioni, a causa delle perdite nell’Unione Europea, negli Stati Uniti, in Turchia e in Russia, che compensano ampiamente l’aumento della produzione in Cina. Le esportazioni sono previste in calo di meno di 100.000 tonnellate, a 6,1 milioni, con una riduzione delle spedizioni dagli Stati Uniti e dall’Iran che annulla l’aumento delle esportazioni dalla Cina. La produzione cinese è prevista in aumento di 1,5 milioni di tonnellate, raggiungendo i 48 milioni, mentre quella della Ue è stimata in calo di 1,1 milioni di tonnellate, a quota 11 milioni, per la scarsa impollinazione e delle gelate primaverili dannose in Polonia, il principale produttore. Le esportazioni sono previste stabili a 950.000 tonnellate, nonostante il calo della produzione, grazie alla ripresa delle spedizioni verso l’Egitto, dopo il minimo di sei anni dello scorso anno. Le importazioni sono previste in aumento di quasi il 40%, a 350.000 tonnellate, per compensare il calo della produzione.

La produzione mondiale di pere per 2024/25 è invece prevista in aumento di quasi 400.000 tonnellate, raggiungendo i 25,9 milioni. E pure in questo caso la crescita della Cina compenserà ampiamente le perdite legate alle condizioni meteorologiche negli Stati Uniti. La produzione cinese è prevista in aumento di 350.000 tonnellate, per un totale di 20,2 milioni, grazie a un raccolto abbondante nella principale regione produttrice di Hebei: sesto anno consecutivo di crescita, nonostante la diminuzione delle superfici coltivate a causa di ritorni negativi, l’invecchiamento degli agricoltori e le politiche governative che mirano a convertire i frutteti in coltivazioni di cereali. Anche in Europa la produzione salirà di circa 60.000 tonnellate, per un totale di 1,9 milioni, poiché la ripresa in Italia compensa ampiamente i cali legati al clima e alle malattie in Belgio, Paesi Bassi e Spagna. Tuttavia, la produzione rimane al di sotto della media degli ultimi cinque anni.

L’Usda americano ha infine analizzato le prospettive per la prossima stagione dell’uva da tavola. La produzione mondiale è prevista in aumento di quasi 1 milione di tonnellate, arrivando a 28,9 milioni, poiché i maggiori volumi in Cina, India e Stati Uniti compensano ampiamente le perdite nell’Unione Europea. La produzione nell’ex celeste impero è stimata in crescita di 700.000 tonnellate, arrivando a 14,2 milioni, grazie alle nuove varietà e alle condizioni climatiche favorevoli che portano a rendimenti più elevati. Calerà invece di 200mila tonnellate, arrivando a quota 1,1 milioni, la produzione nell’Unione Europea, il livello più basso da almeno 20 anni, poiché in Italia la raccolta è stata danneggiata da escursioni termiche e piogge abbondanti, mentre la Grecia ha vissuto una siccità durante la raccolta estiva.

In Europa le batterie costano il 48% in più che in Cina. Anfia: “Pechino è elefante nella stanza”

Il 2024 segna una tappa significativa per l’industria delle batterie, con i prezzi dei pacchi batteria agli ioni di litio che hanno registrato il calo annuale più grande dal 2017. Secondo l’analisi di BloombergNEF, i prezzi sono scesi del 20% rispetto al 2023, raggiungendo un minimo storico di 115 dollari per kilowattora. Questo declino è il risultato di diversi fattori, tra cui la sovracapacità nella produzione di celle, le economie di scala, i bassi prezzi dei metalli e dei componenti, e l’adozione di batterie al litio-ferro-fosfato (LFP), un’alternativa più economica. A ciò si aggiunge anche un rallentamento nella crescita delle vendite di veicoli elettrici, che hanno visto una domanda più moderata rispetto agli ultimi anni.

Negli ultimi due anni, infatti, i produttori di batterie hanno espanso la capacità produttiva con l’aspettativa di una crescente domanda, soprattutto nel settore dei veicoli elettrici e degli accumulatori fissi. Tuttavia, l’offerta ha superato la domanda, con 3,1 terawattora di capacità di produzione di celle di batteria a livello globale, ben oltre la domanda prevista per il 2024. Sebbene la domanda sia cresciuta annualmente in vari settori, quella dei veicoli elettrici – principale motore della domanda di batterie – è aumentata meno rapidamente, mentre il mercato degli accumulatori fissi, in particolare in Cina, ha visto una forte espansione.

Nel dettaglio, il prezzo delle batterie per veicoli elettrici ha raggiunto i 97 dollari/kWh, scendendo per la prima volta sotto la soglia dei 100 dollari/kWh, e anche se in Cina i veicoli elettrici hanno ormai raggiunto la parità di prezzo con quelli a combustione, in molti altri mercati, le auto elettriche sono ancora più costose. BloombergNEF prevede che nei prossimi anni altre categorie di veicoli raggiungeranno la parità di prezzo grazie alla crescente disponibilità di batterie a basso costo, un fenomeno che inizialmente è stato più evidente in Cina, dove i prezzi medi dei pacchi batteria sono scesi a 94 dollari/kWh, rispetto ai 31% e 48% più alti negli Stati Uniti e in Europa, rispettivamente. Le ragioni di questa disparità vanno ricercate nell’immaturità di questi mercati, nei costi di produzione più elevati e nei volumi più bassi, con la Cina che ha beneficiato di una concorrenza molto forte che ha spinto i prezzi al ribasso. BNEF prevede una ulteriore diminuzione globale dei prezzi di circa 3 dollari/kWh entro il 2025.

Nel contesto europeo, le problematiche legate alla transizione energetica e alla competitività del settore automotive sono state al centro dell’assemblea pubblica di Anfia, a Roma. Tra i temi trattati, è stato enfatizzato il bisogno di lavorare su due piani distinti e interdipendenti: a livello europeo, attraverso il supporto al piano del governo italiano per la decarbonizzazione entro il 2035, e a livello nazionale, con misure immediate per supportare le imprese del settore, come la riduzione del costo dell’energia, incentivi alla ricerca e misure per i veicoli commerciali leggeri. Roberto Vavassori, presidente di Anfia, ha definito la Cina “l’elefante nella stanza. Nel 2000 in Cina venivano prodotti 2 milioni di veicoli, quasi tutti da joint-venture con partner occidentali. Ora i poco meno di 30 milioni sono in gran parte prodotti da case locali, alle quali, tra l’altro, molti Costruttori occidentali fanno la corte per stringere accordi o di tecnologia o di produzione, soprattutto per i powertrain elettrici o per software per ADAS e Infotainment. E oltre a ciò – ha aggiunto – vi sono già importanti investimenti diretti di gruppi cinesi in Costruttori europei di veicoli, e anche di componenti. La penetrazione di veicoli cinesi sui mercati europei è in continua ascesa, Italia inclusa, ed è opinione generale che i dazi attualmente in vigore debbano lasciare il posto ad un sistema di convivenza che non consenta al gigante asiatico di asfaltare in pochi anni l’insieme industriale e di ricerca europeo nel settore dell’automotive”, ha concluso Vavassori.

Cina, il consumo di carbone raggiungerà il picco nel 2025

Il consumo di carbone in Cina, il più grande emettitore di gas serra al mondo, dovrebbe raggiungere un picco nel 2025 prima di diminuire grazie agli sforzi di Pechino per sviluppare fonti energetiche più pulite. Più della metà (52%) degli esperti interpellati in un rapporto pubblicato dai think tank Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) e International Society for Energy Transition Studies (ISETS) prevede che il consumo di carbone in Cina raggiungerà il picco il prossimo anno.

“Raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio in un’economia in rapida crescita come quella cinese non è un’impresa da poco, ma i notevoli sforzi del Paese stanno iniziando a dare i loro frutti”, spiega Xunpeng Shi, presidente dell’ISETS. I permessi di costruzione per le centrali elettriche a carbone sono diminuiti dell’83% nella prima metà del 2024 e nello stesso periodo non sono stati approvati nuovi progetti di acciaio a base di carbone.

Negli ultimi anni, gli esperti sono diventati sempre più ottimisti sulla capacità della Cina di ridurre le emissioni di gas serra, con Pechino che ha raggiunto gli obiettivi di energia eolica e solare con sei anni di anticipo rispetto al previsto. Nonostante questo, c’è ancora “poca chiarezza sulla traiettoria delle emissioni cinesi”, dice Lauri Myllyvirta, analista senior del CREA. Questo lascia aperta la porta a un aumento delle emissioni fino al 2030 e a una riduzione “molto lenta” in seguito, aggiunge.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, quest’anno la produzione di energia elettrica a carbone dovrebbe aumentare nuovamente in Cina, anche se al ritmo più basso da quasi un decennio, e la crescita del consumo energetico continua a superare quella del Pil. “La Cina dovrà accelerare ulteriormente la diffusione delle energie rinnovabili o orientare lo sviluppo economico verso una direzione meno energivora”, dichiara Myllyvirta.

La Cina si è impegnata a raggiungere il picco delle sue emissioni di carbonio entro il 2030 e a diventare neutrale entro il 2060. L’Accordo di Parigi del 2015, che la Cina ha firmato, prevede che tutte le parti presentino ogni cinque anni un piano d’azione sul clima per ridurre le emissioni a livello nazionale, noto come contributo nazionale determinato (NDC) e Pechino dovrà presentare il suo aggiornato entro febbraio del prossimo anno.

Trump lancia offensiva commerciale contro Cina, Canada e Messico: “Aumento dei dazi anche del 200%”

A poche settimane dalla sua rielezione e a un mese e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, Trump lancia l’offensiva commerciale contro la Cina, il Canada e il Messico, con l’obiettivo di aumentare i dazi. “Il 20 gennaio, in uno dei miei primi ordini esecutivi, firmerò tutti i documenti necessari per imporre tariffe del 25% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti da Messico e Canada”, scrive il presidente eletto in un post sul social network Truth. “Questa tassa rimarrà in vigore fino a quando le droghe, in particolare il fentanyl, e tutti gli immigrati clandestini non fermeranno questa invasione del nostro Paese”, aggiunge.

In un altro post, annuncia un aumento del 10% delle tasse doganali, oltre a quelle già in vigore e a quelle aggiuntive che potrebbe decidere, su “tutti i numerosi prodotti che arrivano negli Stati Uniti dalla Cina”. Trump sottolinea di aver spesso sollevato il problema dell’afflusso di droga, in particolare del fentanyl – uno dei principali responsabili della crisi degli oppiacei negli Stati Uniti – con i leader cinesi, che avevano promesso di punire severamente i “trafficanti”, “fino alla pena di morte”. “Ma non hanno mai dato seguito alla promessa”, accusa il presidente eletto.

Le ragioni di sicurezza nazionale possono essere invocate per derogare alle regole stabilite dall’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), ma i Paesi sono generalmente cauti nell’utilizzare questa eccezione come strumento regolare di politica commerciale.

L’aumento dei dazi doganali, che durante la campagna elettorale ha spesso descritto come la sua “espressione preferita”, è una delle chiavi della futura politica economica di Trump, che non teme di rilanciare le guerre commerciali, in particolare con la Cina, iniziate durante il suo primo mandato. All’epoca, aveva giustificato questa politica con il deficit commerciale tra i due Paesi e con quelle che considerava pratiche commerciali sleali, accusando Pechino di “rubare” la proprietà intellettuale. E la Cina si è vendicata con tariffe che hanno avuto conseguenze dannose soprattutto per gli agricoltori americani. L’amministrazione di Joe Biden ha mantenuto alcuni dazi sui prodotti cinesi e ne ha imposti di nuovi su altre.

E poco dopo le dichiarazioni di Trump, è arrivata la replica di Pechino. “Nessuno vincerà una guerra commerciale”, sottolinea il portavoce della diplomazia cinese Liu Pengyu. “La Cina ritiene che il commercio e la cooperazione economica tra Cina e Stati Uniti siano per natura reciprocamente vantaggiosi”.

Non è mancata nemmeno la reazione del Canada. Il governo di Justin Trudeau assicura che le relazioni tra i due Paesi sono “equilibrate e reciprocamente vantaggiose, soprattutto per i lavoratori americani”, anche se non manca un velato avvertimento: il Canada, ricorda a Trump l’esecutivo, è “essenziale per l’approvvigionamento energetico” degli Stati Uniti. Qui, dove il 75% delle esportazioni è destinato proprio agli Usa, le parole di Trump agitano gli animi. Il premier del Québec, François Legault, definisce l’annuncio “un rischio enorme” per l’economia canadese. Il suo omologo della Columbia Britannica, David Eby, ritiene che “Ottawa debba rispondere con fermezza”. Il Messico, invece, “non ha motivo di preoccuparsi”, assicura (e rassicura) la presidente Claudia Sheinbaum. I tre Paesi sono legati da trent’anni da un accordo di libero scambio, rinegoziato su pressione di Donald Trump durante il suo primo mandato.

Wendy Cutler, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute, un think tank americano, ritiene che la capacità dei due vicini degli Usa “di ignorare le minacce del presidente eletto sia limitata”, tanto sono dipendenti da lui. Ma l’analista William Reinsch sottolinea che il loro accordo sarà comunque rinegoziato nel 2026: “questa è una classica mossa di Trump, minacciare e poi negoziare”.

La nomina a Segretario al Commercio di Howard Lutnick, amministratore delegato della banca d’affari Cantor Fitzgerald e critico nei confronti della Cina, avvenuta la scorsa settimana, conferma la volontà del presidente eletto di cercare di piegare i partner commerciali per ottenere accordi migliori e delocalizzare la produzione negli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la Cina, Trump ha promesso tariffe fino al 60% su alcuni prodotti e addirittura del 200% sulle importazioni di veicoli assemblati in Messico. Punta anche a reintrodurre dazi doganali del 10-20% su tutti i prodotti che entrano negli Stati Uniti e l’Unione Europea si è già detta “pronta a reagire” in caso di nuove tensioni commerciali.

Usa 2024, Meloni sente Musk: “Amico Elon risorsa importante”. Ma aleggia spettro dazi

Il giorno dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, Giorgia Meloni sente anche “l‘amico Elon Musk” che, dopo essere stato cruciale in campagna elettorale, nell’amministrazione del tycoon dovrebbe ricoprire un ruolo di primo piano. “Sono convinta che il suo impegno e la sua visione potranno rappresentare un’importante risorsa per gli Stati Uniti e per l’Italia, in uno spirito di collaborazione volto ad affrontare le sfide future“, scrive la premier su X, il social del patron di Tesla. La frase fa da commento a una foto in cui i due sorridono e si abbracciano, in una delle visite di Musk a Palazzo Chigi.

Occhi puntati sui dazi ai prodotti italiani per il vicepremier Antonio Tajani, che continua a dirsi sicuro dell’amicizia con gli Stati Uniti: “Il governo italiano e la nuova amministrazione americana sapranno lavorare insieme per proteggere i nostri popoli“, scandisce sulle colonne del Corriere della Sera, mentre è impegnato nel viaggio in Cina con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
La partnership tra i due Paesi non cambieranno, garantisce, perché “i rapporti fra Stati Uniti e Italia sono talmente profondi, complessi e importanti che nulla potrebbe indebolirli“. Trump però, ammette il vicepremier, ha vinto la sua sfida con messaggi che “promettono un cambiamento radicale“.

L’incubo dei dazi aleggia, perché con questi l’imprenditore vorrebbe ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti con l’estero, alzandoli del 10% o addirittura del 20. Con la Cina si è parlato anche di dazi del 60% su tutti i loro prodotti. Ma anche per Paesi europei esportatori netti (Germania, Francia, Italia, Olanda) la nuova amministrazione vorrebbe queste penalizzazioni. “Dovremo evitare uno scontro“, chiosa il ministro degli Esteri, che punta al dialogo, perché l’interscambio Ue-Usa nel 2023 ha sfiorato gli 850 miliardi di euro, con un saldo commerciale a favore dell’Europa di 156 miliardi di euro.

La sola Italia ha avuto nel 2023 un saldo positivo di 40 miliardi di euro: “L’export è la vita stessa dell’Italia – ricorda Tajani -. Trump ha sempre dimostrato di guardare con occhio attento all’Italia, già in passato ha fatto scelte diverse per noi rispetto ad altri Paesi“.

L’elezione di Trump è una sfida di “alto profilo” per quanto riguarda la politica industriale e commerciale per l’Europa, fa eco il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, perché prevede “accentuerà quello che ha già fatto Biden nei confronti della Cina“. Se Biden ha aumentato i dazi alle auto elettriche cinesi al 100%, osserva Urso “verosimilmente questo accadrà sempre più in altri settori“, costringendo nel contempo l’Europa a riesaminare da subito la sua politica industriale e commerciale “come a nostro avviso deve fare”.

Da Pechino arriva l’invito di Xi Jinping alla collaborazione e al “rispetto reciproco” e quello, ancora più esplicito, della portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning: “Come questione di principio – avverte -, vorrei ribadire che non ci sarebbero vincitori in una guerra commerciale, che non sarebbe nemmeno positiva per il mondo”.

Auto, nel 2023 Ue ha importato il 48% di mezzi elettrici da Cina

Nel 2023 i primi 3 Paesi extra-Ue da cui l’Ue ha importato auto elettriche sono stati la Cina, con 9,7 miliardi di euro (corrispondenti al 48% del totale delle importazioni di auto elettriche), seguita dalla Corea del Sud (4,3 miliardi di euro) con una quota percentuale del 21% e dal Regno Unito (2,1 miliardi di euro) con una quota del 10%. I primi 3 principali Paesi extra-Ue per esportazioni sono stati invece il ​​Regno Unito e gli Stati Uniti, con una quota ciascuno del 24% (rispettivamente 7,1 miliardi di euro e 6,9 ​​miliardi di euro), seguiti dalla Norvegia con l’11% (3,1 miliardi di euro). Lo riferisce uno studio di Eurostat riportato nell’infografica INTERATTIVA di GEA.

Auto, Ue rende definitivi dazi su import elettriche cinesi ma si continua a trattare

La Commissione europea ha deciso: sulle auto elettriche cinesi importate nell’Unione europea i dazi compensativi diventano definitivi. Pur “rimanendo impegnato a trovare una soluzione negoziata“, come ricordano da giorni e settimane da Palazzo Berlaymont, l’esecutivo Ue ha concluso oggi la sua indagine anti-sovvenzioni, che ha rilevato che la filiera dei veicoli elettrici a batteria (Bev) in Cina beneficia di sovvenzioni ingiuste che stanno causando una minaccia di danno economico ai produttori dell’Ue.

Per questo motivo, l’esecutivo Ue impone dazi compensativi definitivi sulle importazioni di veicoli elettrici a batteria (Bev) dalla Cina per un periodo di cinque anni. Le tariffe, che si aggiungeranno a quelle già esistenti del 10%, entreranno in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. “Parallelamente, l’Ue e la Cina continuano a lavorare per trovare soluzioni alternative compatibili con l’Omc che sarebbero efficaci nell’affrontare i problemi identificati dall’indagine. La Commissione rimane inoltre aperta a negoziare impegni sui prezzi con singoli esportatori, come consentito dalle norme dell’Ue e dell’Omc”, riporta una nota ufficiale.

A partire dall’entrata in vigore delle misure, i produttori esportatori cinesi inclusi nel campione saranno soggetti a dazi compensativi. Nello specifico, si tratta del 17% per BYD; del 18,8% per Geely; del 35,3% per SAIC. Le altre società che hanno collaborato saranno soggette a un dazio del 20,7%, mentre a tutte le altre società che non l’hanno fatto saranno imposte tariffe del 35,3%. A seguito di una richiesta motivata di esame individuale, a Tesla verrà assegnato un dazio del 7,8%. I dazi definitivi saranno riscossi a partire dall’entrata in vigore e la Commissione monitorerà che non vengano elusi. “Ogni produttore esportatore che ha collaborato ed è soggetto al dazio medio del campione, o che è un nuovo esportatore, ha il diritto di richiedere una revisione accelerata per stabilire un’aliquota di dazio individuale“, precisa ancora la Commissione. Inoltre, “gli importatori possono richiedere un rimborso se ritengono che il loro produttore esportatore non sia sovvenzionato o se il margine di sovvenzione è inferiore ai dazi pagati dagli importatori. Tale richiesta deve essere debitamente comprovata e supportata dalle rispettive prove“.

Le misure adottate saranno valide per un periodo di 5 anni, a meno che non venga avviata una revisione della scadenza prima. “L’Ue rimane il campione mondiale del commercio aperto, equo e basato sulle regole. Accogliamo con favore la concorrenza, anche nel settore dei veicoli elettrici, ma deve essere sostenuta dall’equità e da condizioni di parità“, ha evidenziato il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis. “Adottando queste misure proporzionate e mirate dopo un’indagine rigorosa, stiamo difendendo pratiche di mercato eque e la base industriale europea. Parallelamente, rimaniamo aperti a una possibile soluzione alternativa che sarebbe efficace nell’affrontare i problemi identificati e compatibile con l’Omc“, ha puntualizzato.

La decisione di oggi arriva dopo mesi di negoziati per tentare di trovare una soluzione amichevole e concordata con Pechino. Ma se a parole le due parti hanno più volte evidenziato la volontà di raggiungerla, nei fatti i tentativi sono andati a vuoto. Con Bruxelles ferma sul punto, ora, ma anche preoccupata per l’attuale procedimento anti-dumping cinese contro il brandy e per le azioni avviate su carne di maiale e latticini, che la parte Ue ritiene infondate.