Servono 100 trilioni per arrivare al Net Zero nel 2050, Cina protagonista

Bank New York Mellon Investment Management, in collaborazione con Fathom Consulting, ha pubblicato recentemente una nuova ricerca, ‘Una guida per gli investitori verso lo zero netto entro il 2050’, che mostra che l’economia globale è significativamente in ritardo rispetto ai tempi previsti nel raggiungimento degli obiettivi zero netto del 2050, ma può colmare il divario con 100 trilioni di dollari di investimento ‘verde’. Secondo, invece, le stime dell’Ocse per avere almeno il 66% di probabilità di contenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia dei 2°C, saranno necessari investimenti per oltre 103.500 miliardi di dollari nel periodo che va dal 2016 al 2030, con un aumento di quelli per il clima di circa il 590% l’anno rispetto alle cifre attuali. Sebbene gli investimenti verdi siano in crescita, la ricerca di BNY Mellon evidenzia che saranno necessarie più azioni da parte di governi, asset allocator e società per facilitare la transizione verso lo zero netto. Questi 100 trilioni di dollari rappresentano circa il 15% dell’investimento globale totale nei prossimi 30 anni, o circa il 3% del prodotto interno lordo globale nello stesso periodo.

Le sole società dell’S&P 500 americano dovranno spendere circa 12 trilioni di dollari di investimenti verdi entro il 2050 per rimanere in linea. Detto così, sono cifre talmente alte, che non rendono l’idea della mole di investimenti per arrivare all’obiettivo del 2050. Tuttavia qualsiasi investimento sarà più veloce e più sostenuto, anche a livello pubblico, se il target sarà redditizio. In questo senso fa gioco un nuovo rapporto dell’Università di Oxford, in base al quale il passaggio dai combustibili fossili all’energia rinnovabile potrebbe far risparmiare al mondo ben 12.000 miliardi di dollari entro il 2050. Da dove arriva questa cifra? Il calcolo di Oxford è empirico e parte dal fatto che il costo della sola energia solare è crollato dell’80% dal 2010 e che le rinnovabili nel loro insieme sono state la fonte di energia più economica al mondo nel 2020.

In questa direzione è interessante notare come, nel 2022 siano stati investiti nel mondo 1,1 trilioni di dollari in tecnologie a basse emissioni di carbonio. Un numero record, oltre mille miliardi, che ormai ha eguagliato i fondi a sostegno di combustibili fossili. Quasi tutti i settori hanno raggiunto un nuovo picco, tra cui rinnovabili, stoccaggio di energia, trasporto elettrificato, calore elettrificato, cattura e stoccaggio del carbonio (CCS), idrogeno e materiali sostenibili. Solo gli investimenti nell’energia nucleare sono rimasti sostanzialmente invariati. Tirano le rinnovabili, con 495 miliardi di dollari impegnati, +17% rispetto all’anno precedente. Ma il vero e proprio boom è legato al trasporto elettrificato, che include la spesa per i veicoli elettrici e le infrastrutture associate, avvicinatosi a 466 miliardi di dollari (+54% su base annua).

Se però andiamo a vedere quali Paesi hanno beneficiato maggiormente di investimenti, i dati di BNEF mostrano che è la Cina ad aver attratto più i fondi della transizione energetica con 546 miliardi di dollari, circa la metà del totale. Gli Stati Uniti sono al secondo posto con 141 miliardi, anche se l’intera Ue ha ricevuto 180 miliardi. A livello di singoli Paesi la Germania ha mantenuto il suo terzo posto mondiale, mentre il Regno Unito è sceso al quinto superato dalla Francia.

Washington Consensus, la ricetta di Sullivan per la globalizzazione

Gli Usa e i loro alleati occidentali secondo Sullivan, consigliere per la sicurezza del Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ,devono partire dagli errori e dai punti deboli della globalizzazione per superarli creando nuovi equilibri. In particolare non è più possibile pensare a una crescita economica svincolata dalla sicurezza strategica. Ciò vale sia per la globalizzazione del futuro e i suoi scambi commerciali ma anche per l’ambientalismo, che deve cessare di essere una religione neopagana e fare i conti con la realtà.

Inoltre la crescita deve avere al centro l’industria le cui produzioni, specie quelle più strategiche, non possono essere delocalizzate; e deve essere inclusiva, cioè capace di portare benessere agli strati sociali più vasti. Ancora, occorre trovare sostegni e supporti di ogni tipo per i Paesi a basso e medio reddito cercando di colmare il più possibile il gap economico e infrastrutturale. La ricetta di Sullivan, che esprime in realtà la visione di un Presidente democratico alle prese con un mondo sempre più multipolare, ma anche più caotico, mostra la fiducia (e l’ambizione) dei ‘liberal’ americani in un mondo migliore, e la convinzione che ciò che chiamiamo Occidente, e cioè gli Usa e i suoi alleati, siano capaci di migliorare il mondo, di difendere le istituzioni democratiche, di allargare sempre di più il benessere dei popoli e anche di quelle fasce di lavoratori che sono stati duramente colpiti dai processi di globalizzazione. Si tratta di una visione positiva e a suo modo ottimista che contrasta con il pessimismo cosmico di osservatori e politologi soprattutto ma non solo europei (si veda ad esempio Lucio Caracciolo sull’ultimo numero di Limes “il bluff globale”) che vedono una crisi irreversibile dell’egemonia americana e occidentale e l’avvento ingovernabile di caos a livello planetario.

La positività della visione di Sullivan e quindi della presidenza americana sta non solo nella lucidità dell’analisi sulle insufficienze del passato ma anche nel fatto che le proposte sono concrete e strutturate e segnalano, dopo quasi un decennio di basso profilo internazionale sia pure per ragioni diverse delle due presidenze di Obama Trump, un ritorno della politica americana alla grande politica internazionale  e allo sforzo di occuparsi del destino del globo con una visione attiva o proattiva.

Dell’analisi di Sullivan sulle insufficienze della globalizzazione ci siamo occupati nel numero precedente.  Oggi vediamo di esaminare e dare conto delle proposte.

Gli obbiettivi sono chiari:

  • Ricostruire capacità industriale perduta e costruire nuova capacità nei settori di punta: conduttori, biotecnologie, intelligenza artificiale.
  • Costruire sicurezza strategica attraverso catene di approvvigionamento diversificate e resilienti, per evitare dipendenze da paesi non amici.
  • Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione verso un’energia pulita ma che sia sostenibile non solo ambientalmente ma anche economicamente e socialmente.

Il perseguimento di questi obbiettivi non comporta scelte protezionistiche o autarchiche, ma un approccio completamente diverso allo scambio e ai commerci internazionali.

L’Occidente non deve rinunciare alla liberalizzazione dei mercati ma bisogna perseguire accordi commerciali più moderni non solo basati sul livello delle tariffe doganali ma capaci di produrre risultati più generali di politica economica quali: la sicurezza delle catene di approvvigionamento, la creazione di buoni posti di lavoro che sostengano le famiglie, la garanzia della sicurezza e dell’affidabilità delle infrastrutture digitali, la promozione di una giusta e equa transizione energetica.

Un esempio di questi nuovi accordi è rappresentato dall’Indo Pacific Economic Framework, negoziato con 13 Paesi dell’area Indo-pacifica e volto a garantire l’accelerazione della transizione energetica, l’equità fiscale, la lotta contro la corruzione, standard elevati per accordi tecnologici e catene di approvvigionamento più resilienti.

L’approccio volto a connettere commercio e clima trova un’importante espressione nell’accordo globale su acciaio e alluminio che gli Usa stanno negoziando con l’Unione Europea, il cosiddetto Global Sustainable Steel.

Questo accordo dovrebbe affrontare contemporaneamente il tema delle emissioni climalteranti e della loro intensità e quello dell’l’eccesso di capacità produttiva che affligge storicamente i due settori. È necessario un forte intervento riformatore sulle regole del WTO (l’Organizzazione del Commercio mondiale) per garantire il perseguimento dei fini per cui è nato: concorrenza leale, apertura, trasparenza e stato di diritto. Pratiche e politiche non di mercato di numerosi Stati aderenti minacciano questi valori fondamentali. Per questo gli Usa e molti paesi occidentali stanno lavorando per riformare il sistema commerciale multilaterale in modo che vada a beneficio dei lavoratori, che tenga conto dei legittimi interessi di sicurezza nazionale, che promuova una transizione energetica giusta e equa.

Vi è poi l’enorme tema della mobilitazione di ingenti risorse economiche e finanziarie a favore delle economie dei Paesi emergenti.

Gli Usa e la Ue hanno avviato un grande sforzo per far evolvere le banche multilaterali di sviluppo in modo che siano all’altezza delle necessità dell’oggi. Fondo Monetario InternazionaleBanca Mondiale, Banche regionali devono ampliare i loro bilanci per affrontare le sfide del nostro tempo: cambiamento climatico, pandemie, fragilità dei territori, conflitti.

Contemporaneamente all’evoluzione delle banche multilaterali di sviluppo è stato lanciato un grande piano per colmare il divario infrastrutturale nei paesi a basso e medio reddito. Gli Usa mobiliteranno centinaia di miliardi di dollari per finanziare infrastrutture energetiche, fisiche e digitali da qui alla fine del decennio e per aiutare i Paesi, specie africani, indebitati pesantemente con la Cina in anni in cui l’Occidente è stato completamente assente da quel contesto strategico.

Infine, una considerazione sulla Cina.

Sullivan ribadisce, come fatto recentemente da Ursula von der Leyen, che gli Usa sono per il de-risking, cioè per ridurre le dipendenze strategiche dall’estero per le catene di approvvigionamento, e per la diversificazione, non per l’interruzione dei rapporti economici e commerciali con la Cina, cosa che sarebbe del tutto impossibile.

Il tema è il controllo sulle tecnologie che potrebbero alterare l’equilibrio militare, cioè la necessità di assicurarsi che le tecnologie statunitensi e occidentali non vengano usate contro gli Usa e il resto dell’Occidente.

Quindi, nessuno pensa all’ interruzione dei rapporti di scambio con la Cina: tutto l’Occidente continua e continuerà ad avere rapporti commerciali e di investimento molto consistenti con il gigante asiatico; non si tratta di cercare il confronto o il conflitto, ma di gestire la concorrenza in modo responsabile cooperando con la Cina laddove è possibile.

Questo il pensiero della presidenza democratica americana. Come si diceva, è una buona notizia, perché segna il ritorno degli Stati Uniti d’America, dopo anni di confusione e di incertezze, alla grande politica internazionale.

L’unico interrogativo che è lecito porsi è se questa impostazione consentirà a Biden di essere riconfermato presidente per il secondo mandato. In caso contrario con la vittoria di Trump o di altro candidato repubblicano tutto verrebbe rimesso in discussione.

Questa è la vera ragione per la quale l’Unione Europea, sia pur sempre nel quadro di una confermata amicizia e solidarietà euro-atlantiche, dovrebbe accelerare sulle politiche e sulle spese di sicurezza e di difesa comune e sulle politiche industriali, cercando di rimettere al centro dell’agenda l’industria, la sua innovazione, i suoi effetti sociali oltre che economici.

Italia in uscita dalla Via della seta cinese. Ma anche Pechino non fa investimenti green da noi

Se mi trovassi a dover firmare il rinnovo di quel memorandum domani mattina, difficilmente vedrei le condizioni politiche”, aveva dichiarato Giorgia Meloni all’agenzia di stampa taiwanese Cna a settembre, riferendosi al rinnovo previsto nel 2024 della Belt and Road Initiative, la cosiddetta Via della seta cinese, siglata nel 2019 a Roma tra Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio della maggioranza gialloverde, e il leader asiatico Xi Jinping. “Spero che il tempo serva a Pechino per ammorbidire i suoi toni e fare qualcosa di concreto verso il rispetto della democrazia, dei diritti umani e della legalità internazionale”, aveva poi sottolineato l’attuale premier, criticando aspramente le tensioni a Taiwan causate dall’ex celeste impero. E oggi Bloomberg rivela come l’Italia abbia “segnalato agli Stati Uniti che intende ritirarsi da un controverso patto di investimenti con la Cina entro la fine dell’anno”. Meloni avrebbe rassicurato il presidente della Camera americano, Kevin McCarthy, durante l’incontro a Roma della scorsa settimana. Nonostante non sia stata presa una decisione definitiva, tuttavia il “governo sta favorendo un’uscita dal suo ruolo nella massiccia Belt and Road Initiative della Cina“, secondo i presenti ai colloqui citati da Bloomberg. “I consiglieri diplomatici della capo del governo stanno ancora discutendo sui dettagli e sui tempi di una decisione, temendo ritorsioni economiche da parte cinese” – continua ancora Bloomberg – e probabilmente “nulla sarà reso pubblico prima dell’inizio del vertice dei leader del G7 a Hiroshima, in Giappone, il 19 maggio”, cioè la prossima settimana. Da tempo – come scriveva Politico.com – “gli alti funzionari di entrambe le sponde dell’Atlantico si aspettano che Meloni segnali la direzione che Roma prenderà”.

La partecipazione all’alleanza, che consta di 19 intese istituzionali e 10 accordi commerciali, senza una disdetta ufficiale si rinnoverebbe automaticamente nel marzo 2024. Disdetta che deve arrivare ufficialmente dunque entro dicembre, tre mesi prima del rinnovo. La Belt and Road Initiative cinese ha finanziato 900 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali nel mondo. In Italia però i risultati non sono stati soddisfacenti. Nel 2022 le esportazioni verso la Cina sono state pari a 16,4 miliardi di euro, rispetto ai 13 miliardi di euro del 2019. Le importazioni dalla Cina sono invece volate a 57,5 miliardi di euro dai 31,7 miliardi di quattro anni fa. Francia e Germania, che non fanno parte della Via della Seta, hanno esportato molto di più a Pechino dell’Italia. Proprio questo timido beneficio all’economia tricolore dovrebbe essere usato come motivo per sancire l’uscita dalla Via della seta, pur tenendo ovviamente aperte le porte a scambi commerciali.

D’altronde gli stessi investimenti diretti cinesi in Europa hanno raggiunto il minimo decennale di soli 7,9 miliardi di euro nel 2022, in calo del 22% rispetto al 2021. La diminuzione – secondo un recentissimo report di Rhodium – riporta gli investimenti cinesi al livello del 2013. La mancanza di attività cinesi di fusione e acquisizione (M&A) è stata la ragione principale della discesa. Solo gli investimenti green cinesi in Europa sono aumentati del 53%, superando i flussi di M&A per la prima volta dal 2008, trainati dalle fabbriche di batterie per veicoli elettrici. L’88% però è confluito in appena quattro Paesi, ovvero le economie europee dei ‘tre grandi’ (Regno Unito, Francia e Germania) e l’Ungheria. Italia esclusa. Anche i cinesi dunque sembrano non aver più tanto interesse a portare la loro seta nel nostro Paese.

Industria eolica in crisi, colpa di Cina e burocrazia

Il produttore danese di turbine eoliche Vestas ha registrato perdite per 1,5 miliardi nel 2022 e i ricavi sono calati del 7% rispetto al 2021. E “nel 2023 prevediamo alti livelli di inflazione lungo tutta la filiera, mentre la riduzione degli impianti eolici influirà negativamente sui ricavi e sulla redditività”, avvertiva pochi mesi fa la società, riferendosi al lento processo di ottenimento dei permessi in Europa e negli Stati Uniti. L’acquisizione di ordini fermi di Siemens Gamesa, altro big dell’eolico, è diminuita del 35% su base annua a 1,61 miliardi di euro, con riduzioni avvertite in tutte e tre le divisioni: onshore, offshore e servizi. Negli ultimi tre mesi del 2022 aveva registrato una perdita di 884 milioni, per un aumento dei guasti delle componenti delle sue turbine eoliche installate onshore e offshore, innescando disposizioni di garanzia più elevate che hanno finito per affliggere anche Vestas. Numeri preoccupanti che non lasciano presagire un lieto fine in vista degli obiettivi climatici, di un aumento delle rinnovabili a tappe forzate verso il 2030.

Siemens Gamesa e Vestas operano in perdita e denunciano la crescente concorrenza cinese, che vanta una posizione di vantaggio sulle materie prime come le terre rare, necessarie per fabbricare i magneti montati nelle turbine eoliche. Durante il recente WindEurope Annual Event 2023 di Copenaghen, i rappresentanti dell’industria eolica hanno lamentato di essere stati colpiti dall’aumento dei prezzi delle materie prime, dall’instabilità globale causata dall’invasione russa dell’Ucraina e dall’aumento dei tassi di interesse. “In combinazione, questo è un mix piuttosto potente in termini di un ambiente commerciale stimolante”, ha affermato Anders Hangeland, vicepresidente di Equinor, la società energetica norvegese, secondo quanto riporta Euractiv.com. “Resi e guadagni sono sotto pressione lungo tutta la catena di approvvigionamento sia per gli sviluppatori che per i fornitori”.

Per questo il mondo dell’eolico chiede aiuto alle autorità europee e nazionali. “È tempo di accelerare l’autorizzazione dei progetti eolici. L’autorizzazione è il principale collo di bottiglia per l’espansione dell’energia eolica. Attualmente 80 GW di energia eolica sono bloccati nell’autorizzazione in tutta Europa. REPowerEU ha apportato miglioramenti. Lo sviluppo dell’energia eolica è ora di interesse pubblico prioritario. REPowerEU ha anche proposto utili modifiche ai permessi ambientali e ha definito scadenze chiare per l’autorizzazione. Questi cambiamenti devono ora essere applicati a livello nazionale e locale”, aggiunge WindEurope.

“La filiera dell’energia eolica è in difficoltà, troppo piccola quella europea. Gli investimenti in nuovi parchi eolici sono diminuiti nel 2022, così come gli ordini di turbine. E la Ue ha installato solo la metà del nuovo vento di cui ha bisogno per raggiungere gli obiettivi. Il Net Zero Industry Act dell’Ue – aggiunge Windeurope – vuole aumentare la capacità produttiva europea di turbine eoliche a 36 GW/anno. Ciò significa investimenti in stabilimenti esistenti e nuovi. Ma significa anche investimenti in infrastrutture di supporto come reti, porti, navi e nella forza lavoro qualificata necessaria per garantire che la transizione energetica sia veramente made in Europe”. E poi il Vecchio Continente “deve raddoppiare il tasso di investimenti annuali nella sua rete elettrica. Non ha senso produrre elettroni rinnovabili se non possono raggiungere le persone e le imprese che hanno bisogno di energia”.

Per Sven Utermöhlen, Ceo Offshore Wind di Rwe, bisogna “potenziare la catena di fornitura eolica offshore europea su larga scala. Ciò di cui abbiamo bisogno è un piano d’azione mirato e progetti di aste eoliche offshore che riflettano i costi. Solo con il giusto quadro di investimento l’eolico offshore può creare posti di lavoro preziosi in futuro e fornire elettricità a basso prezzo a lungo termine”. E Javier Rodriguez Diez, Executive Vice President e Cso di Vestas Wind Systems, conclude: “È ora di accelerare le autorizzazioni. Più progetti eolici consentiti possono stimolare investimenti su larga scala, mentre autorizzazioni più rapide per l’industria e le infrastrutture possono accelerare la crescita”.

Xi Jinping

Terzo mandato per Xi Jinping: sfida ‘green’ cinese al 2030

Dallo scorso ottobre è segretario del Pcc per la terza volta consecutiva. Ora, Xi Jinping, sempre per la terza volta di fila, è anche presidente della Repubblica popolare cinese e capo delle forze armate. Lo ha eletto il Parlamento di Pechino con una votazione unanime: 2.952 voti favorevoli, zero contrari, zero astenuti).  Il leader 69enne aveva già ottenuto a ottobre una proroga di cinque anni ai vertici del Partito Comunista e della commissione militare del Partito, le due posizioni di potere più importanti in Cina. L’unico candidato, Xi Jinping, è stato riconfermato per lo stesso mandato a capo dello Stato.
Le sue sfide rimangono numerose alla testa della seconda economia mondiale, tra il rallentamento della crescita, il calo della natalità e anche l’immagine internazionale della Cina che si è fortemente deteriorata negli ultimi anni. Non da ultima, resta la sfida della transizione green di uno dei Paesi più inquinati e inquinanti del mondo.

I rapporti tra Pechino e Washington sono ai minimi termini, con molte controversie, da Taiwan al trattamento dei musulmani uiguri, alla rivalità tecnologica Anche questa settimana Xi Jinping ha condannato la “politica di contenimento, accerchiamento e repressione contro la Cina” messa in atto da “Paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti”. Una tensione che si riverbera anche sui reciproci impegni a difesa del clima e nella riduzione delle emissioni.
Sulla scena energetica globale, la Cina dipende pesantemente dalle importazioni energetiche di petrolio e gas. A livello nazionale, in poco più di un anno la Cina ha subito due gravi interruzioni di corrente: una volta a causa di stranezze nella progettazione del mercato energetico locale e un’altra la scorsa estate a causa della siccità e delle ondate di calore legate ai cambiamenti climatici. Il carbone è ampiamente visto come una risposta a breve termine a tali problemi.

Per quanto riguarda le energie rinnovabili, la Cina è stata a lungo il più grande produttore di energia idroelettrica, eolica e solare fotovoltaica. Anche di fronte alle preoccupazioni sulla loro variabilità, l’accumulo di energia eolica e solare in Cina è in fase di accelerazione: nel 2021 sono stati aggiunti oltre 100 GW di energia eolica e solare, molto più di quanto ottenuto da qualsiasi altro paese. Di fatto, il 40 percento della nuova energia solare immessa a livello globale nel 2021 proviene dalla Cina. L’obiettivo dichiarato dal paese per il 2030 per quanto riguarda l’eolico e il solare è di un totale di 1.200 GW, cifra che supera di gran lunga la capacità di generazione elettrica totale dell’Europa odierna. Già alla fine del 2020 disponeva di oltre 500 GW di energia prodotta da queste fonti e i piani quinquennali provinciali in materia intendono aggiungere oltre 850 GW entro il 2025.

Per decenni, la Repubblica popolare cinese, scottata dal caos politico e dal culto della personalità durante il regno (1949-1976) del suo leader e fondatore Mao Tse-tung, aveva promosso un governo più collegiale ai vertici del potere. In virtù di questo modello, i predecessori di Xi Jinping, ovvero Jiang Zemin e poi Hu Jintao, avevano rinunciato ciascuno al proprio posto di presidente dopo dieci anni in carica. Xi ha posto fine a questa regola abolendo il limite di due mandati presidenziali nella Costituzione nel 2018, consentendo allo stesso tempo di sviluppare intorno a lui un nuovo culto della personalità. Xi Jinping diventa così il leader supremo a rimanere al potere più a lungo nella recente storia cinese.

Dopo le auto elettriche la Cina diventa leader anche nel gas liquefatto

La Cina è leader nella transizione elettrica, possedendo la maggior quantità di materie prime necessarie per produrre le batterie, ma sta diventando anche il Paese numero uno nei trasporti e nei contratti di gas liquefatto, quello che passa dai rigassificatori, che si propone come la soluzione al crollo delle forniture russe via gasdotto. Pechino inoltre è esportatore di diesel verso l’Europa, soprattutto dopo le pesanti sanzioni alla Russia. Le mosse dell’Europa, tra blocco all’import energetico di Mosca e accelerazione verso le auto elettriche, sembrano così individuare nell’ex celeste impero il nostro prossimo primo fornitore, con relativi pro e contro.

La Cina continua a dominare la classifica globale della catena di fornitura di batterie agli ioni di litio di BloombergNEF (BNEF), terzo anno consecutivo, sia per il 2022 che per le sue proiezioni per il 2027, grazie al continuo supporto alla domanda di veicoli elettrici e investimenti in materie prime. La Cina ospita attualmente il 75% di tutta la capacità di produzione di celle della batteria e il 90% della produzione di anodi ed elettroliti. L’aumento dei prezzi del litio ha anche portato a maggiori investimenti nelle raffinerie di carbonati e idrossidi nel Paese, rendendolo il principale raffinatore di metalli per batterie a livello globale, quanto mai necessari per la diffusione di veicoli elettrici. E sempre i dati di BNEF mostrano che è ancora la Cina ad aver attratto più fondi della transizione energetica con 546 miliardi di dollari, circa la metà del totale del 2022.

Pechino sta rapidamente diventando anche la forza dominante nel mercato del gas naturale liquefatto, con gli acquirenti cinesi che rappresentano il 40% dei recenti contratti di GNL a lungo termine tra gli attori globali, come scrive il quotidiano giapponese Nikkei. Il principale gruppo energetico cinese Sinopec Group ha raggiunto un accordo di 27 anni con QatarEnergy di proprietà statale alla fine dello scorso anno per acquistare 4 milioni di tonnellate di GNL all’anno e le importazioni dovrebbero iniziare intorno al 2026. In qualità di cliente chiave, la Cina sta anche negoziando per investire in un imponente progetto del Qatar per espandere la produzione di gas liquefatto. Una società energetica cinese del settore privato, ENN Group, ha firmato un contratto lo scorso anno con Energy Transfer, con sede in Texas, per l’acquisto di 2,7 milioni di tonnellate di GNL all’anno per 20 anni. ENN ha aumentato il suo accordo di acquisto con NextDecade, anch’esso con sede in Texas, a 2 milioni di tonnellate all’anno per 20 anni. Inoltre – sottolinea Nikkei – NextDecade ha accettato di fornire 1 milione di tonnellate di GNL all’anno a China Gas Holdings, il cui principale azionista è un veicolo di investimento controllato dalla città di Pechino. Le importazioni inizieranno negli ultimi anni ’20. Nel corso del 2021 e del 2022, la Cina ha chiuso contratti di acquisto di GNL a lungo termine per un valore di quasi 50 milioni di tonnellate all’anno, riferisce la società di ricerca europea Rystad Energy. Pechino ha triplicato la portata degli acquisti attraverso contratti a lungo termine in soli due anni, rispetto al volume annuale di circa 16 milioni di tonnellate dal 2015 al 2020.

In attesa della transizione, l’Europa intanto continua a correre col diesel. E proprio l’embargo sui prodotti russi sta spingendo Mosca a svendere il proprio gasolio soprattutto a India e Cina, i quali esportano a loro volta in Europa a prezzi più bassi.

Vertice Mattarella-Wang Yi: rilancio dell’export Italia-Cina e appello per porre fine alla guerra

Un incontro per riavvicinare la Cina al mondo occidentale. A Roma, il consigliere di Stato e direttore dell’Ufficio della Commissione centrale per gli Affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese, Wang Yi, è stato ricevuto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Quirinale, assieme al vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, con il quale aveva già avuto un lungo colloquio il giorno prima alla Farnesina.

Al capo dello Stato Wang Yi spiega che questo giro nelle capitali arriva dopo che la Cina è uscita dalla ragnatela del Covid, con l’intento di rilanciare lo sviluppo del proprio Paese. E l’Italia ha un’antica consuetudine culturale con la Cina. I rapporti sono anche commerciali, infatti nel corso del colloquio viene fatto accenno alla Via della Seta, ovvero quel pacchetto di accordi sottoscritti dall’allora governo gialloverde con Pechino che scadranno nel mese di marzo del prossimo anno, ma che si rinnoveranno (automaticamente) alla fine del 2023. Il capo della diplomazia cinese, comunque, ha garantito che la sua nazione intende raddoppiare la collaborazione con il nostro Paese. Non solo con le importazioni dalla Cina, ma anche per implementare le esportazioni dei prodotti italiani.

Tra i temi toccati nel faccia a faccia tra Mattarella e Wang Yi non è ovviamente mancata l’Ucraina. Il presidente della Repubblica, secondo quanto si apprende, ha invitato la Cina a far valere la propria influenza su Mosca per arrivare a alla pace. Dall’inizio del conflitto scatenato dalla Russia, ormai, sono già passati dodici mesi e i negoziati sono ancora fermi.
Una richiesta arrivata anche dal vicepremier, Antonio Tajani. Come lo stesso ministro degli Esteri ammette ai microfoni di ‘Radio Anch’io’, su Radio Rai1, spiegando come è andato l’incontro con Wang Yi in Farnesina del giorno prima. “Ho chiesto di esercitare tutta la forza che un grande Paese quale la Cina ha nei confronti della Russia, affinché venga a più miti consigli, si sieda al tavolo di pace per garantire l’indipendenza dell’Ucraina ma soprattutto per porre fine alla guerra che ormai dura da un anno“. Non solo, perché al capo della diplomazia cinese “ho anche detto quali sono le nostre idee, da dove si dovrebbe cominciare” a costruire la pace. Innanzitutto “creare una zona neutra attorno a Zaporizhzhia, dove si trova la centrale nucleare – spiega Tajani -. Poi, occorre rafforzare i corridoi per il trasporto dei cereali, che sono indispensabili alla popolazione africana“.

Il vice presidente del Consiglio racconta che Wang Yi “ha usato molte parole di pace”, oltre ad avergli preannunciato che il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, “farà un discorso per la pace in occasione del primo anniversario della guerra”. Sottolineando che il diplomatico “ha insistito sul fatto che la Cina vuole la pace” e “Pechino ha una grande influenza su Mosca”.

L’Italia, dunque, conferma l’impegno per Kiev anche a livello diplomatico. Sul piano pratico, infatti, il nostro Paese è molto attivo: “Abbiamo inviato 100 tonnellate di materiale elettrico perché la popolazione civile non passasse l’inverno al gelo”, chiarisce ancora Tajani. Rivendicando di aver “sempre incoraggiato la Turchia perché facesse la mediazione” per lo sblocco dei corridoi del grano. Con la Cina, però, c’è da risolvere anche la questione legata al rinnovo degli accordi per la Via della seta. Ma per quello c’è ancora tempo fino alla fine dell’anno: “Stiamo valutando la situazione – conclude Tajani -, il governo deciderà il da farsi al momento opportuno”.

In Svezia il più grande giacimento di terre rare in Europa: essenziali per transizione ‘green’

Il più vasto ‘deposito conosciuto’ di terre rare in Europa. Si trova nella regione mineraria di Kiruna, nell’estremo nord della Svezia, ed è stato scovato dal gruppo minerario LKAB. Oltre un milione di tonnellate che fanno ben sperare verso una maggiore autonomia del Vecchio Continente ansioso di ridurre la sua dipendenza dalla Cina per i metalli essenziali per la transizione verde. “Questo è il più grande deposito conosciuto di elementi di terre rare nella nostra parte del mondo, e potrebbe diventare un elemento importante per la produzione delle materie prime fondamentali assolutamente cruciali per la transizione verde“, ha infatti dichiarato Jan Moström, CEO dell’azienda svedese.

Al momento resta ancora da stabilire l’esatta estensione del deposito ma, secondo le stime attuali, rappresenterebbe meno dell’1% delle riserve mondiali, stimate finora in 120 milioni di tonnellate dall’US Geological Survey. La scoperta è comunque una buona notizia per un’Unione Europea la cui industria ha bisogno di metalli per fabbricare veicoli elettrici o più turbine eoliche. Attualmente, il 98% delle terre rare utilizzate nell’Ue viene importato dalla Cina, che ha quindi un monopolio virtuale nel settore.

Il nostro fabbisogno di terre rare da solo aumenterà di cinque volte entro il 2030“, aveva affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione lo scorso settembre. “Dobbiamo evitare di ritrovarci di nuovo in una situazione di dipendenza, come per petrolio e gas“, aveva avvertito, annunciando per l’occasione lo sviluppo di un regolamento europeo sulle materie prime critiche.

Nei suoi sforzi per frenare il riscaldamento globale, l’Ue ha anche posto fine alle vendite di nuove auto a benzina e diesel a partire dal 2035, da sostituire con modelli elettrici. “L’elettrificazione, l’autosufficienza e l’indipendenza dell’Ue nei confronti di Russia e Cina partiranno dalla questa miniera“, ha affermato la vicepremier svedese e ministra dell’Economia e dell’energia, Ebba Busch. Oltre ai magneti permanenti delle turbine eoliche e delle auto elettriche, alcuni di questi metalli rari sono utilizzati nella composizione di schermi televisivi, droni o persino dischi rigidi.
Per sostituire gli idrocarburi e raggiungere la neutralità del carbonio nel 2050, l’Ue avrà bisogno di 26 volte più terre rare entro quella data rispetto ad oggi, ha calcolato l’Università KU Leuven.
E non è un caso che l’annuncio di LKAB, un gruppo pubblico, si avvenuto durante una visita a Kiruna della delegazione della Commissione Europea. A breve termine, Busch ha sottolineato l’importanza per l’Ue di “diversificare” l’origine delle sue importazioni. “Ma a lungo termine, non possiamo fare affidamento esclusivamente su accordi commerciali“, ha detto.

Tuttavia, secondo LKAB, resta da percorrere “un lungo cammino” prima che il giacimento possa essere sfruttato. Alla domanda sulla data prevista, l’ad Moström ha risposto che dipenderà dalla richieste delle case automobilistiche e dalla velocità di ottenimento delle necessarie autorizzazioni che, secondo la sua esperienza, richiedono “tra i 10 e i 15 anni“. “Sono fiducioso che questo avrà un impatto considerevole” per ridurre la dipendenza dalla Cina, ha spiegato, stimando che il giacimento di Kiruna consentirebbe di fabbricare “una parte significativa” dei magneti utilizzati nei motori delle auto elettriche prodotte in Europa entro il 2035.

La Svezia aveva già un deposito di questo tipo, ma più piccolo, a Norra Kärr, nel sud del paese, attualmente inutilizzato. In Europa, comunque, non esiste alcuna miniera di terre rare.

merce contraffatta - pericolo per ambiente

Arriva il Black Friday, pericolo per ambiente su merce contraffatta

Le merci contraffatte fioriscono sul web durante il Black Friday, che è già iniziato in alcuni negozi, e questo rappresenta un problema non solo per i consumatori, ma anche per l’ambiente. E’ l’avvertimento lanciato dall’Unione dei Produttori (Unifab), un’associazione impegnata nella lotta contro il commercio di questi prodotti. In un comunicato, Unifab, che rappresenta più di 200 aziende in Francia, avverte che “offerte allettanti e promozioni insolite sono una manna dal cielo per venditori senza scrupoli che non esitano ad abusare dei consumatori vendendo loro prodotti contraffatti“. Questi articoli contraffatti sono “sinonimo di pericoli per la salute e la sicurezza, l’ambiente e l’economia“, prosegue la dichiarazione.
Le merci contraffatte non sono generalmente riciclabili e hanno un’impronta di carbonio “disastrosa” dovuta al fatto che vengono trasportate dai Paesi in cui sono prodotte – in particolare dalla Cina – e alla “moltiplicazione dei viaggi per coprire le tracce”. “La loro produzione è all’origine di massicci scarichi di prodotti tossici nell’ambiente“, aggiunge l’associazione.

Il commercio della contraffazione va a beneficio della “criminalità organizzata e delle reti mafiose” e, secondo Unifab, comporta la perdita di 6,7 miliardi di euro all’anno in vendite dirette in Francia. Questo rappresenta “1,34 miliardi di euro di tasse perse e 38.000 posti di lavoro persi ogni anno”. “In un momento in cui l’80% dei giovani europei si preoccupa di preservare il pianeta (secondo uno studio condotto dall’istituto ObSoCo per Greenpeace France nel febbraio 2022, ndr), acquistare prodotti contraffatti equivale ad avallare ciò che condanniamo e mette a repentaglio gli sforzi comuni che dobbiamo compiere per proteggere l’ambiente“, ha dichiarato Christian Peugeot, presidente di Unifab.

In Francia, nel 2020, il 37% dei consumatori ha acquistato prodotti contraffatti pensando di acquistare prodotti autentici, secondo Unifab. Questa percentuale raggiunge il 43% tra i giovani di 15-24 anni. Tradizione americana che si sta radicando in tutta Europa, il Black Friday porta ogni anno a un picco di consumi durante l’ultimo fine settimana di novembre, con promozioni che si protraggono almeno fino al lunedì successivo, noto come ‘Cyber Monday’.

 

 

Photo credit: Afp

Cop27/Imago

Le tensioni tra Usa-Cina mettono a repentaglio l’esito di Cop27

Le tese relazioni tra Pechino-Washington potrebbero indurre la Cina a trattenersi dal prendere nuovi impegni sul clima, nonostante la crescente pressione internazionale sul più grande emettitore mondiale di gas serra. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è atteso al vertice della COP27 in corso a Sharm el-Sheikh, mentre è certa l’assenza del suo omologo cinese Xi Jinping. La cooperazione tra i due Paesi più inquinanti è stata fondamentale per realizzare progressi in quasi 30 anni di negoziati sul clima sotto l’egida delle Nazioni Unite, in particolare per portare allo storico accordo di Parigi del 2015. Ma a oggi le relazioni si sono inasprite sulle spinta delle crescenti tensioni legate a Taiwan. L’esito della COP27 è quindi incerto, visto che la Cina è stata uno dei principali attori nel successo dell’accordo di Parigi. Si susseguono dunque, da parte della comunità internazionale, gli appelli affinché Pechino e Washington si assumano la propria responsabilità sui cambiamenti climatici: dall’Egitto, il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto loro in particolare di essere “davvero presenti”. Xi Jinping ha già preso due grossi impegni negli ultimi anni: la Cina raggiungerà il picco delle emissioni di carbonio entro il 2030 e sarà carbon neutral entro il 2060. Queste misure si stanno rivelando cruciali per raggiungere l’obiettivo dell’accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C (l’aspirazione è 1,5°C) rispetto ai livelli preindustriali. Visti gli impegni attuali, è aumentata dunque la pressione sui principali inquinatori per andare oltre le loro promesse.