Trump show all’Onu: “Cambiamento climatico più grande bufala mai raccontata”

Il cambiamento climatico? “Una truffa, la più grande bufala mai raccontata”. Le politiche green? “Una follia”. L’impronta di CO2? “Non esiste”. In quasi un’ora di discorso senza contradditorio – a fronte dei 15 minuti concessi agli altri capi di Stato e di governo – è dal Palazzo di Vetro dell’Onu – in occasione dell’80esima Assemblea generale delle Nazioni Unite – che l’uragano Donald Trump fa piazza pulita di decenni di ricerche, progetti, politiche internazionali e accordi. Il climate change, per il repubblicano, non esiste affatto e, anzi, agire per contrastarlo significa, soprattutto per l’Europa, “continuare ad autoinfliggersi delle ferite”. La posizione di The Donald in tema ambientale è sempre stata chiara, ma mai in un discorso pubblico aveva messo sul piatto tutto ciò che ruota intorno al clima, dalle politiche energetiche alla salute, dalla manifattura alla Cina, passando per l’Accordo di Parigi al petrolio e al carbone “buono e pulito”.

L’assunto di base è evidente: “Il cambiamento climatico è la più grande truffa mai perpetrata al mondo” da un gruppo di “stupidi”, nel quale rientrano anche le “Nazioni Unite”. Il riscaldamento del pianeta, insomma, è “una bufala”, ed è per questo che “mi sono ritirato dal falso accordo di Parigi sul clima, dove tra l’altro l’America stava pagando molto più di ogni altro paese”. Mettere in campo azioni per non superare +1,5°C è, per Trump, troppo. Il presidente Usa fa un esempio legato all’attualità. Recenti ricerche hanno stimato che il caldo abbia causato almeno 175mila vittime solo in Europa. Negli Usa, invece, si registrano “circa 1.300 decessi all’anno” per la stessa ragione. “Ma dato che il costo” dell’energia “è così elevato” nel Vecchio Continente, “non si può accendere l’aria condizionata. Tutto in nome della finzione di fermare la bufala del riscaldamento globale”. In sostanza per il repubblicano, “l’intero concetto globalista di chiedere alle nazioni industrializzate di successo di infliggersi dolore e sconvolgere radicalmente le loro intere società deve essere respinto totalmente”.

Gli sforzi messi in campo dall’Europa, dalle organizzazioni internazionali, dal mondo delle imprese, dalle Cop sono “una follia”. L’effetto principale di queste “brutali politiche energetiche verdi non è stato quello di aiutare l’ambiente, ma di ridistribuire l’attività manifatturiera e industriale dai paesi sviluppati che seguono le folli regole imposte ai paesi inquinanti che le infrangono e stanno facendo fortuna”. Favorire, quindi, in primis, la Cina, che ora produce “più CO2 di tutte le altre nazioni sviluppate del mondo”.

Quindi, sulla scia dell’ormai celebre ‘Drill, baby drill’, il presidente Usa stronca ogni apertura verso le rinnovabili perché “sono costose da gestire. Sono un grandissimo scherzo”. Per l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie), invece, il 96% delle nuove energie rinnovabili ha un costo di produzione inferiore rispetto ai combustibili fossili. Meglio ripiegare sul “carbone pulito”, che “ci permette di fare qualsiasi cosa”, sul “gas” e sul “petrolio”, dal momento “che ne abbiamo più di ogni altro Paese al mondo”. E poco importa se poco prima il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, aveva parlato di una crisi climatica che “sta accelerando”, sottolineando che “il futuro dell’energia pulita non è più una promessa lontana. È già qui. Nessun governo, industria o interesse particolare può fermarlo. Ma alcuni ci stanno provando”. Appunto.

Dal palco, di fronte a centinaia di delegazioni internazionali, Trump fa la sua predica: “Se non usciamo da questo scherzo che io chiamo il green, non avremo scampo. I vostri paesi non ce la faranno”. Gli Stati Uniti, ne è certo, sono invece “in una nuova età dell’oro”.

“Alcuni passaggi” del lunghissimo discorso del leader Usa convincono la premier Giorgia Meloni, il cui intervento all’Onu è previsto per domani alle 20 (orario di New York). “Sono d’accordo sul fatto che un certo approccio ideologico al Green Deal abbia finito per non rendersi conto che stava minando la competitività dei nostri sistemi e quindi ci sono dei passaggi di Trump che ho assolutamente condiviso”, dice in un punto stampa a margine dell’Assemblea.

Città parco e housing sociale: le proposte del Wwf per città a prova di clima estremo

Le città sono uno snodo chiave per comprendere e affrontare il cambiamento climatico. Non solo sono tra le principali responsabili della crisi climatica, ma ne subiscono anche gli effetti più gravi: ondate di calore, siccità prolungate, alluvioni improvvise. E, per le città costiere, anche l’innalzamento del livello del mare. Tra città metropolitane e comuni, le aree urbane sono responsabili in Italia del 75% delle emissioni globali di carbonio, a fronte di una occupazione della superficie terrestre pari al 3% (ANCI).

Dai dati statistici europei rappresentati dall’Ispra su danni economici e perdite umane, nel periodo che va dal 1980 al 2022, l’Italia si posiziona al terzo posto della classifica europea in termini di pericolosità degli eventi climatici estremi che hanno colpito le nostre città e le persone che ci vivono. La crisi climatica provoca anche notevoli pericoli dal punto di vista della salute, dagli effetti diretti delle ondate di calore a un aumento delle zoonosi e delle malattie trasmesse dai diversi vettori.

Nelle 4 città più popolose d’Italia (Roma, Milano, Napoli e Torino) le tabelle grafiche del Cmcc (Centro Euromediterraneo cambiamenti climatici) mostrano “chiaramente l’intensificarsi del riscaldamento globale nel corso del tempo”. In occasione di Urban Nature, il festival della natura in città giunto alla sua nona edizione, il Wwf lancia un report dal titolo ‘Adattamento alla crisi climatica in ambito urbano: ripensare le città come sistemi viventi di natura e persone’, grazie alla collaborazione di esperte ed esperti di impatto della crisi climatica e gestione urbanistica, sanitaria, ambientale, sociale e di governance dell’adattamento.

Nel documento si ribadisce come il benessere, ma anche la salute e la sicurezza delle persone nei prossimi anni dipenderanno da come si deciderà di gestire negli spazi urbani la convivenza con la natura. Si tratta di una raccolta di contributi di professionisti del mondo scientifico e accademico, che hanno costruito un’analisi su come favorire anche nelle città italiane una transizione verde urbana.

“Adattare le città al rischio climatico – si legge nel report – non è più un’opzione, ma una necessità. Dobbiamo ammorbidire gli impatti, creare zone cuscinetto, rendere i nostri insediamenti più resilienti, capaci di rispondere con una ‘logica vegetale’. È il principio delle nature-based solutions: alla forza della natura si risponde con la natura stessa”.

Tra le proposte emerse dal report spicca la creazione, anche in Italia, di Città Parco Nazionali, aree urbane dove gli spazi verdi e le aree naturali fanno parte di scelte consolidate e si favorisce la diffusione di azioni sostenibili anche in funzione di una crescita della biodiversità. La prima città del mondo ad istituirsi come National Park City è stata Londra nel luglio 2019, seguita da Adelaide nel 2021, Breda nel 2022 e Chattanooga nel 2023. Attualmente sono decine le realtà urbane che intendono seguire il loro percorso, tra le quali Southampton, Glasgow e Rotterdam.

Un altro obiettivo è la creazione di un Housing sociale climaticamente adattivo. Si propone cioè di integrare criteri di adattamento climatico e coesione sociale nelle politiche abitative, progettando alloggi e quartieri che favoriscano resilienza e relazioni sociali, attraverso standard obbligatori per l’efficienza energetica, con una attenzione particolare ad un percorso partecipativo dal basso. “Viviamo in una grande contraddizione: – afferma Mariagrazia Midulla, Responsabile Clima ed Energia Wwf Italiamentre di clima si parla sempre meno nel dibattito pubblico, la crisi climatica desta sempre maggiori preoccupazioni sia tra gli scienziati, sia tra i cittadini. Gli impatti colpiscono i territori sempre più frequentemente e intensamente ma non sono uguali per tutti: purtroppo chi ha meno ed è più vulnerabile, di solito vive in aree già svantaggiate e ha anche meno mezzi per affrontare situazioni che possono cambiare radicalmente in poco tempo. Gli studiosi concordano sulla centralità della salute degli ecosistemi e della natura per affrontare l’adattamento, a cominciare dalle soluzioni innovative come quella delle città parco. Ma oggi il Piano nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico, approvato alla fine del 2023, è chiuso in un cassetto. Da quel cassetto deve uscire al più presto perché il lavoro da fare è tanto e non è certo ‘limitato’ al dissesto idrogeologico”.

Il dossier indica anche un tema raramente affrontato, quello che l’Ipcc, il Panel scientifico delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico, definisce ‘Maladaptation’ (cattivo adattamento): la situazione che si verifica quando le azioni intraprese per aiutare le comunità ad adattarsi al cambiamento climatico, determinano, al contrario, un aumento della vulnerabilità stessa. Da tutti i contributi del report emergono almeno due indicazioni: l’adattamento non può essere un ghetto, ma deve pervadere tutte le politiche pubbliche e private, fino ad arrivare a un nuovo modello di città, adeguando risorse, organizzazione e strumenti; i meccanismi partecipativi, il coinvolgimento di popolazione e stakeholders sono essenziali per questo processo.

Pierluigi Sassi: “Big Bang’ ecologico con Papa Francesco. Ora si punti a transizione giusta”

Torna dal 25 al 27 settembre EcoSanFra, il festival dedicato alla sostenibilità economica, sociale e ambientale che si tiene a San Francesco al Prato di Perugia. La manifestazione si ispira al Cantico delle Creature di San Francesco, il testo poetico più antico della letteratura italiana, riproposto qui in una chiave contemporanea per promuovere un dialogo costruttivo e di cooperazione dopo 800 anni dalla sua composizione.  Tra gli ospiti che animeranno l’evento ci sarà anche Pierluigi Sassi, non soltanto presidente di Earth Day Italia – la sezione italiana dell’associazione che organizza e promuove la più grande manifestazione ambientale del Paese – ma anche ceo dI Impatta4Equity, che ricerca investimenti ispirandosi all’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco, per coniugare un impatto positivo sui territori in termini economici e globali al contributo concreto alla lotta contro il cambiamento climatico.

Nel corso di EcoSanFra, parteciperà al panel ‘Verso una transizione energetica giusta, scenari globali per la lotta ai cambiamenti climatici’, il 26 settembre alle ore 11. Insieme a Pierluigi Sassi interverranno Antonio Ereditato, Enrico Giovannini, Stefania Crotta, Massimo Casullo ed Enzo Ruini.

Che cosa significa l’aggettivo ‘giusta’?
In questo momento c’è il rischio che la transizione ecologica diventi un viatico per rinnovare ingiustizie sociali conclamate. Pensiamo, ad esempio, a quelle aree in cui si costruiscono dighe per produrre energia destinata ad altri e non a quei territori. O alle forme di nuova e drammatica colonizzazione che si sono viste in Africa: si colpiscono i più fragili e lo si fa con un vestito ‘verde’.

Come possiamo concretizzare allora quel ‘giusta’?
Sappiamo che l’ecologia impone una rivoluzione copernicana, il cambiamento di un modello di sviluppo adottato finora, secondo il quale le risorse e le capacità sono infinite. Ma non è così. Questa rivoluzione va pensata e capita e c’è il rischio di commettere tanti errori. Non è detto che rispettando l’ambiente si vada verso una giustizia assoluta. Faccio un esempio: ora diciamo che sta arrivando la fine dei motori endotermici e quindi ‘viva l’elettrico’. Ma ci sono le infrastrutture per farlo?

Il tema dell’Africa è attuale, pensiamo al Piano Mattei voluto dal governo Meloni.
Il Piano Mattei per ora è una buona intenzione che cerca di valorizzare il rapporto con il continente africano, che è il nostro partner naturale. Un approccio in chiave progettuale è quello giusto, poi riempirlo di contenuti senza scadere nell’utilitarismo è un altro paio di maniche. L’Africa non è solo obiettivo dell’Italia e dell’Europa, ma da secoli è presa di mira da tutti. Ora la Cina si è appropriata delle sue risorse naturali, approfittando delle forti capacità economiche che ha ma anche facendo cose buone. Ad esempio, durante la Cop29 siamo stati ‘bacchettati’ da Pechino, perché il Paese asiatico è quello che ha esportato più energie rinnovabili in Africa e ci ha chiesto ‘E voi cosa avete fatto?’. Questo fa riflettere. Speriamo che il grande progetto del Piano Mattei non sia solo un nuovo nome alla colonizzazione, ma trovi delle chiavi diverse di lettura.

Quale valore aggiunto ha il continente africano?
Può dare tantissimo alla transizione green e all’ecologia. Penso al sistema delle fiere, che potrebbe essere utile a tutti, perché restituirebbe all’Africa un palcoscenico sano. Ci sono sani punti di incontro e credo che si possa crescere insieme.

Il tema dell’ambiente e del clima sta vivendo un momento complicato nell’agenda globale. E lo sguardo va alle politiche di Donald Trump.
Trump rappresenta oggi il peggior nemico della transizione ecologica a livello internazionale. Non è interessato né al tema né a contrastarlo. In campagna elettorale è stato finanziato dall’industria dei combustibili fossili ed è al soldo di questa economia.  E’ uscito di nuovo dall’Accordo di Parigi e questo offrirà degli alibi per non prendere decisioni a chi si siederà ai tavoli internazionali. Chissà cosa accadrà a Belem (sede della Cop30 il prossimo novembre, ndr), con la situazione geopolitica che ha messo il tema dell’ecologia al fondo delle preoccupazioni. Che carte può giocare un populista così? Gioca la partita della battuta facile. Il dramma è che tutto questo viene fatto in barba alla nuove generazioni. Ma ormai siamo ai ferri corti e il problema ci sta entrando in casa.

Lei è ceo di Impatta4Equity, basata sui principi dell’enciclica Laudato Sì di Papa Francesco. Mi racconta che cos’è?
Dopo anni di consulenze nel 2009 ho deciso di concentrarmi solo sugli aspetti sociali prendendo sul serio il concetto di ‘no profit’, senza alcuna speculazione. Mi sono quindi interrogato sulla capacità reale di impattare sul mercato e sull’economia. Avevamo sensibilizzato l’opinione pubblica con l’Earth Day e l’enciclica era stato il nostro grande riscatto. Fino a quel momento il tema ambientale era stato un argomento di nicchia, ‘radical chic’, e non era praticamente mai entrato nell’agenda dei governi. Con Papa Francesco è cambiato tutto, quindi era necessario trasformare la sensibilità in azione.

E come ci siete riusciti?
Abbiamo cambiato i nostri messaggi e abbiamo deciso di agire come testimoni. Siamo entrati nel mondo economico perché vogliamo aiutare la transizione nel nostro piccolo. Abbiamo creato una holding benefit per investire nel mondo della green economy e portare avanti un’operazione di sensibilizzazione e provocazione alla finanza. Abbiamo fatto i primi investimenti scegliendo una metrica Esg nata in seno alla Laudato Sì. È un’operazione che va molto bene, che sta crescendo. Vogliamo costituire una Sgr e creare una serie di fondi di investimento con qualche soldino in più.

Papa Bergoglio ha sempre parlato di ambiente e cura del creato. Quanto è forte oggi secondo lei lo spirito ecologista nel mondo cattolico?
Da parte di Papa Francesco c’è stato un ‘Big bang’ ecologico: ha scatenato una tale esplosione globale che è difficile oggi pesarne il reale impatto. Lo sapranno valutare meglio i posteri. In un colpo solo ha mostrato che certi temi non erano una frottola e tutti i governi li hanno messi in agenda. Ora non c’è più un programma di ricerca o di finanziamento o un evento che non abbia la sostenibilità tra i suoi criteri. Insomma, non si può più negare il problema. Bergoglio ha anche evidenziato che bisogna cambiare stili di vita, di produzione e di consumi. Laudato Sì è diventato un movimento globale, non circoscritto al mondo cattolico, ma interreligioso.

Buone notizie per il clima: buco dell’ozono scomparirà nei prossimi decenni

Lo strato di ozono si sta ricostituendo e il buco dovrebbe scomparire completamente nei prossimi decenni. Secondo il bollettino dell’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) delle Nazioni Unite, nel 2024 il buco nell’ozono sopra l’Antartide era più piccolo rispetto agli ultimi anni, “una notizia scientifica incoraggiante per la salute delle popolazioni e del pianeta”. “Oggi lo strato di ozono si sta riprendendo” e “questo progresso ci ricorda che quando le nazioni tengono conto degli avvertimenti della scienza, è possibile compiere progressi”, ha commentato il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.

Lo strato di ozono stratosferico filtra i raggi ultravioletti del sole che possono provocare tumori, alterare il sistema immunitario e persino danneggiare il Dna degli esseri viventi. A metà degli anni ’70, i clorofluorocarburi (CFC), un tempo ampiamente utilizzati negli aerosol e nei frigoriferi, sono stati identificati come i principali responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono, creando ogni anno dei “buchi”, uno dei quali particolarmente ampio sopra l’Antartide.

Negli ultimi decenni, tuttavia, la cooperazione globale ha dato all’ozono la possibilità di ricostituirsi. Secondo l’OMM, “il basso livello di impoverimento dello strato di ozono osservato nel 2024 è in parte dovuto a fattori atmosferici naturali”. L’organizzazione ritiene tuttavia che la tendenza positiva osservata nel lungo periodo “rifletta il successo dell’azione internazionale”.

Il Protocollo di Montreal (Canada), firmato nel 1987, ha permesso di eliminare ad oggi oltre il 99% del consumo e della produzione della maggior parte delle sostanze chimiche che riducono lo strato di ozono, secondo l’OMM. Pertanto, lo strato di ozono dovrebbe tornare ai valori degli anni ’80 “entro la metà di questo secolo”, afferma l’organizzazione, spiegando che ciò ridurrà il rischio di cataratta e cancro della pelle, ma anche il degrado degli ecosistemi legato all’eccessiva esposizione ai raggi UV.
Il buco nell’ozono sopra l’Antartide ricompare ogni primavera. L’anno scorso ha raggiunto il suo picco il 29 settembre, con un deficit di ozono pari a 46,1 milioni di tonnellate, un livello inferiore alla media registrata nel periodo 1990-2020.

“Se le politiche attuali rimarranno in vigore, lo strato di ozono dovrebbe tornare ai valori del 1980 (prima della comparsa del buco) entro il 2066 circa sopra l’Antartide, nel 2045 sopra l’Artico e nel 2040 nel resto del mondo”, aveva indicato all’inizio del 2023 l’Onu Ambiente nella sua ultima stima quadriennale.

Clima, in Ue non c’è l’accordo dei 27 sugli obiettivi al 2040. Decisione attesa per fine anno

L’Europa sta perdendo la sua leadership in materia di clima? Il blocco tra i 27 paesi membri sull’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra nel 2040 persiste e rischia di non essere risolto prima della conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà a novembre in Brasile.
Venerdì a Bruxelles, un incontro tra diplomatici ha messo nuovamente in luce le divisioni tra gli europei. A questo punto, non esiste una chiara maggioranza all’interno dell’Unione europea a sostegno dell’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni di gas serra nel 2040 rispetto al 1990 proposto dalla Commissione.

Diversi paesi, tra cui Francia, Germania, Italia e Polonia, hanno chiesto di rinviare la discussione a un vertice tra capi di Stato e di governo nel mese di ottobre. La Danimarca, che detiene la presidenza di turno dell’Unione europea, sperava di raggiungere un compromesso già il 18 settembre durante una riunione dei ministri dell’ambiente. Ma i diplomatici danesi hanno dovuto fare marcia indietro, contro la loro volontà, e ora puntano a un accordo “entro la fine dell’anno”. La grande conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP30) è prevista dal 10 al 21 novembre a Belem, in Brasile. E martedì la Commissione europea si diceva ancora convinta che l’Unione avrebbe avuto entro quella data un “obiettivo ambizioso” da “portare sulla scena internazionale”. Questo calendario è ora a rischio.

Nei corridoi di Bruxelles, alcuni diplomatici evocano la possibilità che l’Unione europea si presenti a Belém con una forbice di riduzione delle emissioni di gas serra, ma senza una cifra definitiva. In nome della difesa della loro industria, Stati come l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca hanno ripetutamente ribadito la loro opposizione alla riduzione del 90% raccomandata dalla Commissione. All’inizio di luglio Bruxelles ha introdotto delle “flessibilità” nel metodo di calcolo: la possibilità di acquisire crediti di carbonio internazionali, pari al 3% del totale, che finanzierebbero progetti al di fuori dell’Europa. Ma questa concessione non è stata sufficiente a convincerli.

Da parte sua, la Francia ha mantenuto una posizione ambigua, criticando il metodo della Commissione e chiedendo garanzie sulla difesa del nucleare o sul finanziamento delle “industrie pulite”. Dal punto di vista dei suoi obblighi internazionali, Parigi sottolinea che l’Ue deve solo presentare un percorso per il 2035 – e non per il 2040 – alla COP30 e chiede di separare le due discussioni.

Se l’obiettivo climatico 2040 fosse sottoposto a votazione a livello di capi di Stato e di governo, sarebbe necessaria l’unanimità, molto difficile da raggiungere. Una votazione a livello di ministri dell’ambiente richiede invece solo una maggioranza qualificata. Alle Nazioni Unite si teme che l’Ue perda l’effetto trainante che ha avuto finora sulle questioni ambientali. “Tutti sanno perfettamente che rimaniamo tra i più ambiziosi in materia di azione per il clima”, ha risposto all’AFP il commissario europeo Wopke Hoekstra.

Addio al ghiacciaio del Ventina: è arretrato di 400 metri negli ultimi 10 anni

Il ghiacciaio del Ventina, in Valmalenco, è sparito. O quasi. Per la prima volta dopo 130 anni, non sarà più misurabile con i metodi tradizionali. “Troppo pericoloso” dicono dai Servizio Glaciologico Lombardo: utilizzare la classica bindella metrica espone a frane e continui crolli, l’unica possibilità sarà ricorrere a nuove metodologie come la fotogrammetria da drone, aereo, o satellite.

Le immagini dei prossimi decenni, comunque, continueranno a testimoniare un tasso di arretramento che non ha precedenti dal 1895 ad oggi, come spiegano a GEA Marco Giardino, vicepresidente Fondazione Glaciologica Italiana e Mattia Gussoni del Servizio Glaciologico Lombardo: il Ventina ha avuto un arretramento di 400 metri negli ultimi dieci anni, oltre 4 campi da calcio messi in fila.

Anche per questo, ha fatto tappa qui la tappa lombarda della Carovana dei ghiacciai, la campagna di Legambiente che osserva l’arco alpino e porta in primo piano il tema dell’instabilità in montagna accentuata dalla crisi climatica.

Il Ventina è uno dei ghiacciai storicamente più monitorati d’Italia. Ma anche uno dei più fragili. La superficie è passata dai 2,10 km2 del 1957 (Catasto CGI) ai 1,87 km2 del Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani nel 2015, fino ai 1,38 km2 del 2022, come segnala il Comitato Glaciologico Italiano. “I dati confermano l’importanza di questo luogo come indicatore della trasformazione dell’ambiente alpino glacializzato”, spiegano Giardino e Gussoni, “il suo monitoraggio offrirà importanti indicazioni per gestire i problemi connessi alla deglaciazione”.

L’arco alpino è sempre più vulnerabile alla crisi climatica. Non solo zero termico in quota e temperature sempre più calde, ma anche eventi meteo estremi che lasciano il segno rendendo ghiacciai e montagne sempre più fragili e instabili. Da inizio anno a luglio, secondo l’Osservatorio Città Clima di Legambiente, sono 83 gli eventi meteo estremi registrati nelle regioni dell’arco alpino. Piogge intense e alluvioni i fenomeni che si ripetono con più frequenza. La Lombardia con 30 eventi meteo estremi, registrati nei primi sette mesi del 2025, è la regione più colpita, seguita da Veneto e Piemonte.

In Norvegia è operativo Northern Lights: primo “cimitero” commerciale di CO2

Il consorzio internazionale Northern Lights, primo servizio commerciale al mondo per il trasporto e lo stoccaggio di CO2, ha annunciato di aver completato “con successo” la prima iniezione di carbonio nei fondali marini del Mare del Nord. Northern Lights, che riunisce i giganti Equinor, Shell e TotalEnergies, è un progetto commerciale che consiste, dietro pagamento da parte di industriali o produttori di energia, nel trasportare e seppellire il gas carbonico catturato all’uscita dei camini delle fabbriche o delle centrali elettriche in Europa.

“Abbiamo ora iniettato e immagazzinato in tutta sicurezza il primo (volume di) CO2 nel serbatoio”, spiega il direttore della joint venture, Tim Heijn. “Le nostre navi, gli impianti e i pozzi sono ora in funzione”, ha aggiunto.

In concreto, dopo la cattura, la CO2 viene liquefatta, trasportata via nave al terminale di Øygarden, vicino a Bergen (Norvegia occidentale), trasferita in grandi serbatoi e poi iniettata tramite tubature, a 110 chilometri al largo, in un acquifero salino a 2.600 metri sotto il fondo marino. La tecnologia di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS secondo l’acronimo inglese) è citata dal gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) tra le soluzioni per ridurre l’impronta di industrie difficili da decarbonizzare come le cementerie o la siderurgia.

Il primo volume di CO2 iniettato nel giacimento Northern Lights proviene da un cementificio gestito dalla tedesca Heidelberg Materials a Brevik, nel sud-est della Norvegia. La tecnologia CCS rimane tuttavia complessa e costosa, soprattutto rispetto all’acquisto di “permessi di inquinare” sul mercato europeo delle quote di emissione (ETS).

Oltre ai partner di lancio Heidelberg Materials e Hafslund Celsio, il cui impianto di incenerimento dei rifiuti vicino a Oslo dovrebbe iniziare a catturare CO2 a partire dal 2029, Northern Lights ha firmato finora solo tre contratti commerciali in Europa. Questi riguardano un impianto di ammoniaca di Yara nei Paesi Bassi, due centrali a biomassa di Ørsted in Danimarca e una centrale termoelettrica di Stockholm Exergi in Svezia. Finanziato in gran parte dallo Stato norvegese, Northern Lights ha una capacità di stoccaggio annua di 1,5 milioni di tonnellate di CO2, che dovrebbe essere portata a 5 milioni di tonnellate entro la fine del decennio.

“L’avvio delle operazioni di Northern Lights proietta il settore CCS in una nuova fase in Europa. Questa industria sta diventando una realtà, offrendo ai settori in cui la riduzione delle emissioni è più difficile una soluzione credibile e tangibile per ridurre le loro emissioni di CO2”, spiega Arnaud Le Foll, Direttore New Business – Neutralità Carbonica di TotalEnergies.

 

Clima, Onu: Vertigini fino alla morte, proteggere lavoratori dal caldo estremo

L’aumento delle temperature globali ha un impatto sempre più negativo sulla salute e sulla produttività dei lavoratori, avverte l’Onu, che chiede azioni rapide per limitare i rischi.Sono necessarie misure immediate per combattere l’aggravarsi dell’impatto dello stress termico sui lavoratori di tutto il mondo”, affermano l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM), due agenzie delle Nazioni Unite che hanno pubblicato un rapporto congiunto su questo tema.

Lo stress da calore, causato in particolare dall’esposizione prolungata al calore, si verifica quando l’organismo non riesce più a raffreddare il corpo, provocando sintomi che vanno da vertigini e mal di testa fino all’insufficienza organica e alla morte. Le raccomandazioni si basano sui dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), secondo cui oltre 2,4 miliardi di lavoratori sono esposti a calore estremo in tutto il mondo, pari al 71% della popolazione attiva mondiale. Di conseguenza, ogni anno si registrano oltre 22,85 milioni di infortuni sul lavoro e quasi 19.000 decessi. La frequenza e l’intensità degli episodi di calore estremo sono aumentate notevolmente, aumentando i rischi per le persone all’aperto e al chiuso, secondo l’OMS e l’OMM. Colpi di calore, disidratazione, disfunzioni renali o disturbi neurologici. Gli effetti sulla salute sono vari e i lavoratori dei settori agricolo, edile e della pesca sono particolarmente esposti, precisano.

Lo stress termico sul lavoro è diventato una sfida sociale globale che non si limita più ai paesi situati vicino all’equatore”, afferma Ko Barrett, vicesegretario generale dell’OMM. Proteggere questi lavoratori “non è solo un imperativo sanitario, ma anche una necessità economica”, aggiunge. Secondo queste agenzie delle Nazioni Unite, la produttività dei lavoratori diminuisce del 2-3% per ogni grado in più oltre i 20 °C. Chiedono l’attuazione di piani d’azione adeguati a ciascun settore e regione. “Senza un’azione coraggiosa e coordinata, lo stress termico diventerà uno dei rischi professionali più devastanti della nostra epoca, causando gravi perdite in termini di vite umane e produttività”, afferma Joaquim Pintado Nunes, capo del servizio per la sicurezza e la salute sul lavoro dell’OIL. “Investire in strategie efficaci di prevenzione e protezione consentirebbe al pianeta di risparmiare diversi miliardi di dollari ogni anno”, ha proseguito in conferenza stampa.

Il rapporto raccomanda di dare priorità ai lavoratori anziani, a quelli che soffrono di malattie croniche o che hanno una condizione fisica meno buona, i più sensibili allo stress termico. Lavoratori, sindacati, esperti sanitari e autorità locali devono collaborare per elaborare misure adeguate, raccomanda il rapporto. L’ultimo rapporto tecnico e le ultime raccomandazioni dell’OMS sullo stress termico sul lavoro risalgono al 1969, “un’epoca in cui il mondo era molto diverso in termini di cambiamenti climatici”, osserva Ruediger Krech, responsabile dell’ambiente e dei cambiamenti climatici presso l’OMS. “Ciò che è cambiato è la gravità” degli episodi di calore, aggiunge, dato che gli ultimi dieci anni sono stati i dieci più caldi mai registrati. “In futuro dovremo affrontare il calore estremo. È una realtà per molti: si tratta di adattarsi o morire”, afferma Johan Stander, direttore dei servizi dell’OMS.

Greenpeace richiama le responsabilità delle aziende dei combustibili fossili nella crisi climatica. “I governi di tutto il mondo non possono più restare a guardare mentre la salute e il reddito dei lavoratori vengono compromessi a causa di una crisi climatica alla quale hanno contribuito in misura minima. Nel frattempo, le compagnie petrolifere e del gas guadagnano miliardi ogni giorno, alimentando il riscaldamento globale con le loro emissioni fuori controllo”, commenta Federico Spadini della campagna Clima di Greenpeace Italia. “Il rapporto ONU elenca molte soluzioni giuste per affrontare questa grave situazione, ma sono i grandi inquinatori, e non le persone comuni, che dovrebbero finanziare le azioni contro la crisi climatica. Per questo chiediamo ai governi di introdurre una tassazione adeguata sui profitti delle aziende dei combustibili fossili”.

La grande ritirata dell’Aletsch, il più grande ghiacciaio delle Alpi: -40 metri all’anno

Vengono i brividi al pensiero che una meraviglia naturale unica come l’Aletsch possa scomparire, nel silenzio più totale, nel giro di pochi decenni. A dichiararlo è Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente e presidente di Cipra Italia, in occasione della presentazione dei primi risultati della ‘Carovana dei ghiacciai 2025‘, campagna che Legambiente ha organizzato in collaborazione con Cipra e con la partnership scientifica della Fondazione Glaciologica Italiana. L’Aletsch è il ghiacciaio più grande delle Alpi, lungo oltre 20 km: le ultime testimonianze degli esperti lo definiscono “in grande sofferenza”, “annerito ai lati e in regressione”, “sempre più fragile e instabile, di anno in anno”. Secondo Glamos, rete di monitoraggio dei ghiacciai svizzeri, dal 2000 al 2023 l’Aletsch è arretrato in media di 40 metri l’anno, perdendo spessore soprattutto nella sua lingua terminale. A questo ritmo, senza sostanziali cambiamenti nel tasso di riscaldamento climatico, nel 2100 la lunghezza del ghiacciaio sarà più che dimezzata rispetto all’attuale, per ridursi a sole placche di ghiaccio alle quote più elevate in caso di incremento del riscaldamento.

Questi straordinari patrimoni della natura, troppo spesso relegati a ‘periferie’ geografiche, proprio nell’Anno internazionale della conservazione dei ghiacciai, dovrebbero diventare il centro simbolico e strategico di una nuova politica europea – rimarca Bonardo -. Le Alpi, i Pirenei, i Carpazi, le Highlands scozzesi, i ghiacciai norvegesi non sono soltanto luoghi da proteggere, ma territori da cui può nascere una nuova governance climatica multilivello, fondata sulla prossimità ai territori, sulla co-produzione delle conoscenze e sull’integrazione delle dimensioni scientifiche, culturali e politiche”. È questo l’appello contenuto nel Manifesto per una “governance dei ghiacciai e delle risorse connesse”, che ‘Carovana dei ghiacciai’ rilancia dall’Aletsch, uno dei simboli “più alti e luminosi di questo mondo fragile e prezioso”. Un messaggio che la campagna di Legambiente-Cipra ha rilanciato martedì con il flash mob organizzato di fronte al villaggio alpino di Blatten, distrutto tre mesi fa dal collasso del ghiacciaio Birch dopo il crollo della sovrastante parete del Kleines Nesthorn. Qui, grazie ai rigorosi monitoraggi avviati negli anni dal servizio cantonale dei rischi naturali, è stato possibile seguire passo dopo passo l’evoluzione dell’area di rischio, ed evacuare il villaggio nove giorni prima del crollo, salvando così per tempo vite umane.

Sull’Aletsch, ad aumentare le preoccupazioni degli scienziati è anche la presenza di morene instabili, fratture aperte e deformazioni attive lungo i versanti soprastanti il ghiacciaio. Pesa in particolare l’accelerazione della crisi climatica, con un aumento delle temperature che si fa sentire anche sulle Alpi svizzere: secondo il Servizio Climatico Federale Svizzero, il riscaldamento medio dall’epoca pre-industriale ha raggiunto i 2,9°C, ossia il doppio della media globale.

“Sull’Aletsch – dichiara Marco Giardino, vicepresidente della Fondazione Glaciologia Italiana e docente di Geografia fisica e Geomorfologia dell’Università di Torino – abbiamo constatato come la salute del ghiacciaio influisca anche sulla stabilità dei versanti. Infatti, la diminuzione progressiva del volume di questo ghiacciaio ha attivato una serie di deformazioni sul versante sinistro della valle: fratture con dimensione crescente verso il basso e con velocità di evoluzione che si è incrementata nel tempo, fino a generare frane di volume crescente, come dimostrano i dati degli ultimi 60 anni raccolti del Politecnico Federale di Zurigo“. Come nel caso di Blatten, conclude Giardino, “solo attraverso uno studio rigoroso delle relazioni fra riscaldamento climatico e instabilità naturali è possibile prevedere l’evoluzione dell’ambiente alpino e pianificare una migliore gestione del patrimonio naturale e del territorio”.

Clima, governo vara nuovo Piano sociale da 9,3 miliardi. Pichetto: “Sosteniamo famiglie e imprese”

Il governo vara un nuovo Piano sociale per il clima sul quale investe 9,3 miliardi di euro. Il documento strategico è pronto, ora il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica lo invierà alla Commissione europea per la validazione finale, prima dell’entrata a regime.

L’obiettivo del testo è “accompagnare la transizione ecologica dell’Italia mettendo al centro le persone”, verga il Mase nella nota in cui annuncia la fine di un lavoro condotto “con il supporto di un Gruppo Tecnico di Lavoro e in stretta sinergia con tutte le amministrazioni coinvolte”. Le intenzioni dell’esecutivo sono quelle di fornire una risposta “alle sfide della transizione climatica, garantendo equità sociale, sostegno alle fragilità, sviluppo territoriale e innovazione”.

Entrando nel dettaglio, il nuovo Piano sociale per il clima si articola in quattro grandi misure, due delle quali riguarderanno il settore dell’edilizia e le altre due la mobilità sostenibile. Di questi oltre 9 miliardi, 3,2 miliardi saranno investiti sia nella riqualificazione energetica degli edifici di proprietà pubblica in classe F e G sia di quelli di proprietà delle microimprese vulnerabili. Il ritorno atteso dalla misura è di un risparmio complessivo di circa 250 milioni annui: 125 milioni per circa 210mila famiglie vulnerabili e 131 milioni per oltre 80mila microimprese. Altri 1,375 miliardi di euro, poi, sono destinati all’ampliamento del Bonus sociale cosiddetto ‘Gas Plus’, mentre 3,105 miliardi serviranno per sostenere lo sviluppo di servizi di mobilità pubblica e hub di prossimità nelle aree svantaggiate. Infine, 1,74 miliardi sono riservati dedicati alla misura ‘Il mio conto mobilità’, con portafogli digitali per il trasporto pubblico rivolti alle persone in condizione di povertà dei trasporti.

La transizione ecologica non può lasciare indietro nessuno. Con questo Piano lo dimostriamo nei fatti, investendo risorse senza precedenti per aiutare famiglie e imprese a reggere l’impatto dei cambiamenti e cogliere le opportunità di un’Italia più moderna, giusta e sostenibile”, commenta il ministro, Gilberto Pichetto Fratin. Il documento ora sarà trasmesso alla Commissione Ue secondo le scadenze previste – spiega il Mase -, per consentire l’attivazione delle misure nei tempi utili e garantire la piena operatività dal 2026 al 2032. “Questo Piano è frutto di un confronto rigoroso e trasparente con amministrazioni, territori, parti sociali e stakeholder – conclude Pichetto Fratin -. È un tassello fondamentale della strategia italiana per una transizione verde giusta, che tenga insieme crescita economica, tutela ambientale e coesione sociale”.

Non mancano, però, le critiche. Non sulla bontà del piano quanto sulle modalità operative. A lanciare l’allarme è la Uil: “L’annuncio del Mase è certamente un passaggio rilevante, ma non possiamo fare finta che tutto stia andando nel verso giusto“, dice la segretaria confederale della Uil, Vera Buonomo. Spiegando che “se è vero che servono risorse per accompagnare la transizione ecologica, è altrettanto vero che queste non possono essere programmate né spese senza il coinvolgimento pieno delle parti sociali“. Perché “il regolamento europeo che istituisce il Fondo sociale per il Clima prevede esplicitamente la partecipazione di sindacati e organizzazioni sociali nella definizione dei piani nazionali“. Dunque, aggiunge Buonomo, non si tratta di una facoltà ma di un preciso obbligo. Al momento, questo passaggio è mancato ed è un limite grave, che rischia di indebolire il Piano stesso di fronte alla Commissione europea“. Ora la palla passa a Bruxelles.