Meloni cambia cliché: meno passionaria e più ‘istituzionale’ per mettere insieme Ue e Trump

Nel suo passaggio al Senato dopo due mesi e rotti di silenzio, in attesa di presentarsi alla Camera, Giorgia Meloni ha in qualche modo cambiato il suo cliché. Non ha usato toni perentori, non ha quasi mai alzato la voce, è stata molto dialogante, si è prodigata per far capire “ai colleghi” che sbarcherà a Bruxelles per trovare un punto di caduta che non trasformi gli Stati Uniti in nemici e non riduca l’Europa a una comparsa. Il feeling con Trump e i buoni rapporti con von der Leyen, lei nel mezzo la ‘semplificatrice’ di una situazione complessa e delicassima.

Insomma, una premier assolutamente ‘istituzionale’, che non ha parlato solo di Ucraina (Non è immaginabile costruire garanzie di sicurezza efficaci e durature dividendo l’Europa e gli Usa. E’ giusto che l’Europa si attrezzi per svolgere la propria parte, ma è folle pensare che oggi possa fare da sola senza la Nato”) e di Difesa (L’Italia non intende distogliere un solo euro dal fondo di Coesione, spero che almeno su questo saremo tutti d’accordo) ma ha cominciato dalla competitività (“Non è una parola astratta”) per lanciarsi sulla desertificazione industriale, per planare successivamente sulla decarbonizzazione (che deve essere sostenibile per imprese e cittadini), per sfiorare il costo fuori controllo dell’energia elettrica fino ad atterrare sui dazi (ai quali non bisogna rispondere con altri dazi, serve reciproco rispetto) e sull’Europa che a rischio di regole e regolamenti rischia di non farcela. Argomenti prevedibili, così come i contenuti.

Meloni ha espresso le posizioni del suo governo mentre Ursula von der Leyen raccontava in Danimarca come la sua Ue debba attrezzarsi per non finire schiacciata stile sandwich da Stati Uniti e Russia e poco dopo che Mario Draghi, sempre in Senato, aveva toccato gli stessi temi con l’autorevolezza che lo accompagnala. In sintesi, l’ex presidente del Consiglio ha detto che la Difesa comune è un passaggio obbligato, che gli 800 miliardi previsti per riarmare l’Europa non basteranno, che il Rapporto sulla competitività non è obsoleto e va attuato con urgenza, che la questione energetica è prioritaria, dal disaccoppiamento di gas fino al costo delle bollette. In fondo, si finisce per andare sbattere sempre lì e da lì bisogna trovare la migliore via d’uscita.

La premier non ha cercato una sponda in Senato, questo no, ma è stata abbastanza accondiscendente quando ha sostenuto che l’etichetta di Rearm al piano di von der Leyen è inaccettabile e dunque va cambiata perché è necessaria la Difesa comune ma “senza tagliare sanità e sociale”. Un refrain già sentito su un’altra sponda.

Draghi all’Ue: “Abbiamo forza di risposta, ma dobbiamo agire come un unico Stato”

Sprona l’Unione europea ad agire, e velocemente, e i Ventisette a muoversi come un solo Stato, perché “non c’è alternativa“. Ruota attorno a un perno preciso il discorso al Parlamento europeo, a Bruxelles, dell’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi: l’unità. “Se uniti, saremo all’altezza della sfida e avremo successo“, conclude il suo discorso.

Il ritmo dei progressi nell’intelligenza artificiale“, che sono rapidi e avvengono per la maggior parte “fuori dall’Europa“; “i prezzi del gas naturale” che “rimangono altamente volatili”; “l’ascesa della Cina” cui si aggiungono le “tariffe da parte della nuova amministrazione Usa”; la vulnerabilità del “nostro sistema di difesa, dove la frammentazione della capacità industriale lungo linee nazionali impedisce la scala necessaria“. I punti fragili emersi da quando il rapporto Draghi sulla competitività è stato pubblicato sono molteplici. “Ma il senso di urgenza di intraprendere il cambiamento radicale che il rapporto sosteneva è diventato ancora più forte“, precisa agli eurodeputati e ai rappresentanti dei Parlamenti nazionali riuniti per la settimana parlamentare europea. In tale contesto, dunque, per l’ex presidente della Banca centrale europea “è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre di più come se fossimo un unico stato” e la risposta deve essere “commisurata alla portata delle sfide” e “focalizzata sui settori che guideranno un’ulteriore crescita“.

Dunque, l’Ue deve creare le condizioni “affinché le aziende innovative crescano in Europa” e “ciò significa abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sul capitale azionario“. E l’Ue deve “abbassare i prezzi dell’energia“, un “imperativo non solo per le industrie tradizionali, ma anche per le tecnologie avanzate“. Ciò significa riforma del mercato energetico; trasparenza molto maggiore nel commercio di energia; uso più esteso di contratti energetici a lungo termine e acquisti a lungo termine di gas naturale, massicci investimenti in reti e interconnessioni; un’installazione più rapida delle energie rinnovabili; investimenti nella generazione di base pulita e soluzioni flessibili. “Allo stesso tempo, dobbiamo garantire parità di condizioni per il nostro innovativo settore delle tecnologie pulite in modo che possa beneficiare delle opportunità della transizione“, osserva. Mentre sull’automotive specifica che “non si può forzare lo stop ai motori a combustione e, allo stesso tempo, non imporre, con la stessa forza, l’installazione di sistemi di ricarica e non creare le interconnessioni per farlo“.

Draghi promuove la Bussola della Competitività della Commissione – i suoi obiettivi sono “pienamente in linea con le raccomandazioni del rapporto” – ma sottolinea che “ora è importante che alla Commissione venga fornito tutto il supporto necessario” perché “le esigenze di finanziamento sono enormi” e “quella di 750-800 miliardi di euro all’anno è una stima prudente“. Perciò “dobbiamo emettere debito comune e deve essere per definizione sovranazionale“. Un punto su cui l’ex premier non ha dubbi. Così come non ne ha sul welfare: “Per avere una maggiore crescita della produttività, non è necessario distruggere il modello di welfare sociale“.

Su tutto, però, serve volontà politica. “A una riunione dell’Ecofin, tempo fa, ho detto: Dite no al debito comune, dite no al mercato unico, dite no alla creazione dell’unità del mercato dei capitali. Non potete dire di no a tutto”. Di cosa sia meglio fare “non ho idea. Ma fate qualcosa“, incalza.

Mattarella indica linea Draghi per competitività Ue: “Rapporto autorevole, servono risorse”

L’Europa deve perseguire la strada della Sovranità tecnologica, ma per restare competitiva “servono risorse”. E soprattutto una linea, che può essere il rapporto firmato da Mario Draghi per conto della Commissione Ue: un documento che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, definisce “autorevole”.

Dal palco del Teatro Pérez Galdós, a Las Palmas de Gran Canaria, location scelta dal Re Felipe VI di Spagna, padrone di casa della 17esima edizione del Simposio Cotec, il capo dello Stato rilancia i punti salienti del documento dell’ex Bce, in cui viene sottolineato che il divario di produttività tra Unione europea, Stati Uniti e Cina “imputato principalmente al settore tecnologico. Per far comprendere quanto il nostro continente sia “debole nelle tecnologie emergenti” cita un dato, in particolare, dei vari studi condotti a Bruxelles in questi anni: “Soltanto quattro delle cinquanta aziende tecnologiche più importanti del mondo sono europee”.

Le cause sono diverse, ovviamente, ma a preoccupare principalmente è il bilancio demografico, con un invecchiamento generale che avanza e sempre meno giovani a tenere viva “la spinta al cambiamento e all’innovazione”. Serve, dunque, una inversione del sistema produttivo europeo che tenga dentro anche la sostenibilità ambientale, economica e sociale per garantire un futuro prospero e resiliente alle sfide globali come la lotta ai cambiamenti climatici.

In questo senso le istituzioni devono essere presenti, accelerando sulle misure che “consentano di promuovere la capacità industriale nei settori ad alto contenuto tecnologico” e di poter “competere a parità di condizioni”. Ergo, “si impone” – dice Mattarella – di “dar vita a ‘campioni’ europei, espressione di sovranità condivisa”. Ma con risorse adeguate, “innanzitutto per i sistemi educativi”, perché l’istruzione è il primo tassello della competitività. L’Europa, nel corso degli anni, ha dimostrato di avere tutte le carte in regole per dire la sua a livello globale, con l’Aerospazio ad esempio, ma anche con la normativa sull’Intelligenza artificiale che ci pone “in una posizione di avanguardia, di leadership a livello mondiale”. Eppure non basta, perché l’Ue “dispone di notevole potenza di calcolo e i supercomputer pubblici” in Finlandia, Italia, Spagna e Portogallo, ma “i programmi di Ia generativa più avanzati e universalmente usati, sono statunitensi”.

La riflessione gira di nuovo attorno alle risorse da mettere in campo. Draghi, nel suo report, suggerisce di raddoppiare i fondi del Piano Marshall, circa 800 miliardi di euro in più per centrare tutti gli obiettivi. Ma a Bruxelles c’è chi tira il freno, come l’alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, l’uscente Josep Borrell. Ospite del Cotec, riconosce che “il nostro ritardo a livello tecnologico è molto importante” e “l’unico modo per non perdere per sempre questo treno è investire di più”, ma sulle cifre indicate dall’ex premier italiano nutre forti dubbi: “Chi paga? – si domanda -. Noi a livello europeo in modo coordinato oppure ognuno per conto suo, magari con tasse o emettendo debito che lasceremo da pagare ai nostri pronipoti?”.

La pensa come Mattarella, invece, il presidente della Repubblica di Portogallo, Marcelo Rebelo de Sousa, assente a Las Palmas per stare vicino al suo popolo dopo gli incendi che hanno devastato un pezzo importante del territorio e ucciso cinque persone, ma che ha voluto comunque inviare un video in cui dice apertamente di vedere nelle linee guida dell’ex Bce la strada da seguire.

Le risposte, però, dovrà darle la nuova Commissione Ue di Ursula von der Leyen, sulla quale si stanno concentrando le aspettative di buona parte di Europa. Sicuramente della Spagna, come si evince dall’intervento di Felipe VI: “Nel suo nuovo mandato, l’Ue metterà l’accento sulla sicurezza economica e su come promuoverla attraverso le proprie capacità tecnologiche, le alleanze con Paesi terzi e la cooperazione tra i partner comunitari”. Perché, conclude il Re, “la voce dell’Europa meridionale deve essere ascoltata chiaramente in questa riflessione congiunta”.

Il globalismo mercatista non sa proteggere l’industria europea

L’annunciata possibile chiusura di stabilimenti di produzione della Volkswagen in Germania appare come il simbolo della crisi profonda in cui versano molti settori dell’industria europea (l’automotive è uno di questi) per troppo tempo maltrattati dalle politiche dell’Unione.

Per i tedeschi la vicenda è uno shock: sarebbe la prima volta in 87 anni di storia che il colosso automobilistico chiude una sua fabbrica in patria.

La ragione delle ventilate chiusure è, secondo l’AD di Volkswagen Olivier Blume, che “la Germania come sede di produzione di auto sta perdendo terreno in termini di competitività, e che il clima economico è diventato ancora più difficile, e nuovi operatori stanno entrando in Europa”.

Il tema della perdita di competitività dell’Europa e della sua industria, e del gigantesco gap di crescita nei confronti di altre aree economiche forti del mondo (Usa e Cina innanzitutto), si impone con brutalità nel dibattito sul futuro della nostra economia e del nostro modello sociale; e richiama i gravi errori commessi dall’Unione Europea negli ultimi 20 anni.

Abbiamo la speranza che l’Europa si interroghi con umiltà su questi errori e che cerchi realisticamente di porvi rimedio.

È di questi giorni la notizia che settori maggioritari della CDU, colpiti dalla vicenda Volkswagen e dall’esito delle elezioni in Turingia e Sassonia, chiederebbero di rivedere in sede europea la scadenza del 2035 per l’eliminazione delle auto con motore endotermico. Questo della messa al bando dei motori endotermici è un perfetto esempio dell’estremismo ideologico ambientalista che ha permeato le decisioni dell’Unione, e che è stato subìto e poco contrastato anche dalle case automobilistiche europee, che avevano una leadership a livello mondiale proprio su questo tipo di motori.

La crisi è così grave da aver indotto Ursula Von der Leyen a commissionare a Mario Draghi uno studio proprio sul recupero di competitività; studio che è stato presentato proprio in questi giorni e che, a tratti, ha accenti drammatici.

Ma del lavoro di Mario Draghi ci occuperemo nel prossimo numero di PL.

Oggi ci interessa approfondire il tema, comunque connesso alla tenuta dell’industria europea, della sua protezione tramite diverse misure compresi i dazi.

Storicamente l’Unione Europea è stata l’area del mondo più aperta al commercio internazionale, nella quale i principi di libero scambio e dell’apertura totale, così come quello della limitazione all’intervento dello Stato in economia, sono stati costitutivi dell’Unione stessa.

Da più parti, alla luce tanto della performance di crescita così modesta dell’economia europea negli ultimi venti anni quanto della conclamata crisi di interi settori industriali esposti alla competizione internazionale, si chiede oggi di rivedere quei principi ritenendoli non più adeguati alla fase che stiamo vivendo.

Il ragionamento che viene fatto è più o meno il seguente: le due grandi economie che hanno sopravanzato l’Europa in termini di crescita e innovazione nei settori di punta come IA, biotecnologie, farmaceutica ecc., cioè Stati Uniti d’America e Cina, non declinano i principi del libero scambio e del non intervento dello Stato in economia ma, al contrario, sono caratterizzate da forti politiche protezionistiche a difesa delle industrie interne (USA) e da un forte intervento dello Stato: in USA attraverso la spesa militare, in Cina attraverso le sovvenzioni gigantesche a quasi tutti i settori industriali. Se si guardano i loro risultati in termini di crescita del PIL, dell’occupazione e della leadership tecnologica questa impostazione sembrerebbe molto più efficace di quanto non siano le politiche europee di libero scambio e di non intervento dello Stato in economia.

A questa tendenza critica nei confronti dell’impostazione di politica economica e industriale dell’Unione, che ritiene sempre più necessario un cambio di passo e che guarda alle protezioni come strumenti necessari nelle condizioni date, si oppongono correnti politiche e di pensiero che sostengono e sottolineano i benefici della globalizzazione e dei mercati aperti.

Questa seconda visione si rifà alla ‘mano invisibile’ di Adam Smith (per cui l’interazione sul libero mercato degli agenti economici, ciascuno mosso soltanto dal proprio self interest, determinerebbe il massimo benessere per l’intera collettività) e alla teoria dei ‘vantaggi comparati’ di Ricardo (per cui ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale perché lo stesso favorisce a specializzazione produttiva, garantisce una maggiore produzione a livello mondiale e consente un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni) e sostiene con forza la tesi che l’Europa non debba infilarsi in una spirale protezionistica ma debba continuare ad essere il più grande presidio mondiale dell’apertura dei mercati.

Come industriale ed esponente di Confindustria, spesso mi si chiede di esprimere la mia opinione in materia, anche perché in questi anni non ho lesinato forti critiche ad un’impostazione europea che non ha messo l’industria al centro.

La mia opinione è che il tema vada affrontato con spirito pragmatico, tenendo conto delle condizioni reali in cui si trovano l’economia e l’industria europee e ricordando sempre che anche le teorie economiche sono figlie della storia e rispecchiano quindi le diverse fasi e i diversi interessi degli attori in campo.

Ovviamente per un paese esportatore come l’Italia (nel 2023 l’industria manifatturiera italiana ha fatturato 1200 miliardi di euro ed ha esportato per 670 miliardi di euro; e nei primi sei mesi del 2024 abbiamo probabilmente superato il Giappone in quanto a esportazioni) un’impostazione favorevole al commercio e agli scambi internazionali è obbligatoria. Tra l’altro essendo l’Italia un Paese senza materie prime importiamo anche moltissimi beni primari, semiprodotti e componenti, che vengono interiorizzati nei nostri manufatti. Da una chiusura dei commerci internazionali trarremmo solo danni.

Allo stesso tempo anche l’industria italiana vede interi settori di base (posso citare quello della ceramica e delle piastrelle perché è un caso emblematico) esposti alla concorrenza internazionale e fortemente danneggiati e spiazzati: dall’alto costo dell’energia che penalizza l’Europa rispetto alle altre aree del mondo concorrenti; dalle insensate modalità con cui nell’era Timmermans l’Europa ha condotto le politiche di decarbonizzazione; e dalla lentezza con cui fino ad oggi l’Unione Europea ha gestito le pratiche di antidumping e di contrasto alla concorrenza internazionale sleale.

Questi settori rischiano di scomparire non per loro inefficienza ma per condizioni al contorno penalizzanti.

Non parliamo poi di quando, come nel caso delle auto elettriche, i concorrenti (Cina innanzitutto) sono sovvenzionati dallo Stato e riescono a essere competitivi in maniera sleale perché appunto favoriti da sussidi e aiuti pubblici. La sovracapacità produttiva cinese, estesa a quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera, e la decisione del Governo di Pechino di non rallentare mai le produzioni, neanche nei momenti di crisi, cercando sbocchi nelle esportazioni sostitutive della domanda interna che non beve, costituisce, e costituirà sempre di più in futuro, un gigantesco fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale. Il tasso di statalizzazione dell’industria cinese sta crescendo velocemente per scelta politica e quindi la competizione sarà sempre più viziata e distorta.

Se non si interviene con forti misure di protezione, ad esempio per il comparto automobilistico e per altri settori dell’industria europea, questi sono destinati a sparire in pochi anni, con tutte le conseguenze economiche e sociali del caso. Lo stesso Draghi nel suo rapporto sostiene la necessità di questa protezione.

Sempre Draghi per giustificare questo approccio di protezione di taluni settori industriali ha affermato, con efficace metafora, che in una giungla abitata da animali carnivori è difficile sopravvivere essendo erbivori.

Un’altra considerazione che mi sento di fare è quella relativa ad un quadro geo-politico in forte cambiamento all’interno del quale l’Occidente, che difende libertà e democrazia, deve fare i conti con economie e Paesi autocratici, teocratici, dittatoriali, neo-imperialisti che hanno come obiettivo la sconfitta dell’Occidente e dei suoi valori.

È il tema che va sotto il nome di de-risking, che significa che il commercio internazionale non può diventare uno strumento per mettere a rischio i livelli di sicurezza delle nostre democrazie. Ovviamente ciò vale soprattutto per le forniture militari, ma anche per l’elettronica, le biotecnologie, l’aereospazio ecc.

In questa nuova situazione dobbiamo abituarci a pensare ad aree di libero scambio tra Paesi amici, che condividono gli stessi valori e interessi, e a una maggiore cautela negli scambi con chi non perde occasione per attaccare l’Occidente.

Ciò complica ancora di più il quadro e ci fa capire come si devono usare contemporaneamente, e in misura mirata, strumenti di protezione e di apertura ai mercati calibrando attentamente il peso e la portata degli interventi. E ciò lo si deve fare senza ideologismi ma con tanto pragmatismo.

Si tratta di un esercizio difficile e sofisticato che l’Europa finora non è stata in grado di fare.

C’è un caso recente che spiega bene il concetto e mostra gli errori compiuti anche in tempi recenti dalla Commissione e la sua incapacità a capire il nuovo: durante la sua presidenza Trump introdusse un sistema di dazi a protezione dell’acciaio e dell’alluminio americani. L’UE giustamente ha protestato a lungo contro questa misura ritenendola incompatibile con le regole del Wto (l’Organizzazione del Commercio Internazionale), regole che per la verità solo l’Europa rispetta.

Il Presidente Biden, per venire incontro alle lamentele europee, ha aperto un negoziato con l’UE proponendo un’area di libero scambio fatta da Usa, Canada, Messico, UE, Corea del Sud, Giappone e Australia nella quale questi dazi su acciaio e alluminio non sarebbero più esistiti, a condizione di mantenere la protezione daziaria nei confronti della Cina.

L’Europa, per ragioni ideologiche e probabilmente per il terrore tedesco ogni volta che vengono ventilate misure nei confronti della competizione sleale della Cina, ha rifiutato la proposta di Biden, così oggi i dazi americani sull’acciaio e l’alluminio sono ancora lì, e ancora la siderurgia europea non riesce a esportare un Kg di acciaio negli Usa.

Ciò che facciamo fatica a far capire alla politica e alla tecnocrazia comunitaria, intrise di ideologia globalista e mercatista, è che i cambiamenti vanno governati e che senza attenzione all’industria e alla sua sopravvivenza ben presto anche il modello sociale europeo di cui siamo tanto orgogliosi non esisterà più. I ceti sociali più deboli, non sentendosi protetti, si rivolgono al populismo e alla protesta estrema e anche per questo le nostre democrazie saranno in pericolo.

Lo sbandamento politico di Francia e Germania deve fare riflettere al riguardo.

Il green di Draghi si sposa con le richieste di Urso e Pichetto

Nel presentare il suo rapporto sulla competitività dell’Unione, Mario Draghi ha lanciato un grido d’allarme: o l’Europa cambia e subito e senza tentennamenti, oppure è destinata a diventare marginale sul palcoscenico mondiale. Di per se stesso non è nulla di assolutamente inedito: che a Bruxelles e Strasburgo debbano modificare atteggiamenti, uscire dalla campana di vetro e mettersi al passo con i tempi (e i concorrenti: Cina, Usa, India, i Brics) lo avevano capito anche i sassi, come riuscirci invece è fardello di chi governa i vari Paesi. L’ex premier ed ex presidente della Bce ha scattato la sua fotografia della situazione e si è solo peritato di mettere fretta a chi – nei prossimi mesi – sarà chiamato a decidere che strada prendere. E’ finita la stagione dei tentennamenti e, forse, pure quella dell’ideologia estrema e della burocratizzazione.

Su tutto e sopra tutto c’è il problema dei denari: circa 750-800 miliardi di investimenti aggiuntivi annui in più rispetto a quelli pianificati per fare in maniera che la Ue non si sgonfi. E possa contare su innovazione e transizione. Nel silenzio quasi assoluto e proprio per questo assordante che è calato all’improvviso sulla questione green, Draghi ha avuto il coraggio di affrontare il tema dell’energia pulita, quindi della decarbonizzazione. Che, per l’ex presidente del Consiglio, è una opportunità da cogliere e non da gettare alle ortiche. Come? Abbassando i prezzi dell’energia di cui sopra e dando vita a un’innovazione verde che esalti il ruolo dell’economia circolare.

Numeri alla mano, dal report Draghi emergono cifre tanto grandi quanto ampiamente prevedibili perché la transizione green ha costi elevatissimi. Per le quattro maggiori industrie ad alta necessità di energia, le EII (chimica, metalli di base, minerali non metalliferi e carta), si prevede che la decarbonizzazione costerà complessivamente 500 miliardi di euro nei prossimi 15 anni, mentre per le ‘hard to abate’ del settore dei trasporti (marittimo e aereo) il fabbisogno di investimenti è di circa 100 miliardi di euro all’anno dal 2031 al 2050.

Una riflessione, quella di Draghi, che arriva il giorno dopo la richiesta avanzata dal ministro Adolfo Urso di spostare in avanti la ‘fine’ del motore endotermico (oltre il 2035) ‘spalleggiato’ dal ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, e dal ministro Gilberto Pichetto Fratin di rivedere il meccanismo relativo alle case green. Anche qui, nulla di inedito ma anche nulla che si possa ulteriormente procrastinare perché certe posizioni oltranziste del precedente esecutivo di Bruxelles ormai sembrano vecchie di secoli e andranno (andrebbero) a gravare sulle tasche dei cittadini. Ai quali verrà già chiesto in qualche modo di contribuire ai quei 750-800 miliardi in più della ‘dieta’ Draghi.

Piano Draghi: servono 800 mld annui in più. Il doppio del piano Marshall

Riforme senza precedenti, “rapide e urgenti” che tocchino tutte le istituzioni. E investimenti record, da almeno 700-800 miliardi di euro annui aggiuntivi, corrispondenti al 4,4-4,7% del Pil dell’Ue nel 2023. Per fare un paragone, il doppio del Piano Marshall, che all’epoca (1948-51) corrispondeva all’1-2% del Pil dell’Unione. E’ ciò di cui l’Europa avrebbe bisogno per rilanciarsi, secondo l’ex presidente della Bce Mario Draghi, che oggi ha consegnato a Bruxelles il suo report sulla competitività.

Le chiavi sono innovazione, decarbonizzazione e indipendenza strategica. Per raggiungere gli obiettivi indicati nella relazione, però, sarebbe necessario che la quota di investimenti dell’Ue passasse dall’attuale 22% circa del Pil al 27%, “invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’Ue“, sottolinea Draghi nel dossier, ricordando che “gli investimenti produttivi non sono all’altezza di questa sfida“.

La prima delle tre grandi trasformazioni che l’Europa si trova a dover affrontare è la necessità di accelerare l’innovazione e trovare nuovi motori di crescita. In secondo luogo, il Vecchio Continente dovrà ridurre i prezzi elevati dell’energia continuando a decarbonizzare e a passare a un’economia circolare. Bisognerà infine reagire a un mondo geopoliticamente meno stabile, in cui le dipendenze si trasformano in vulnerabilità e l’Europa non può più contare sugli altri per la sua sicurezza.

Per l’ex governatore, se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. “Non saremo in grado di diventare contemporaneamente leader nelle nuove tecnologie, faro della responsabilità climatica e attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni“.

Sono dunque circa 170 le proposte per un radicale cambiamento della strategia industriale dell’Ue. Ma non si parte da zero. L’essenziale sarà riorientare profondamente gli sforzi collettivi per colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate. “L’Europa è bloccata in una struttura industriale statica, con poche nuove imprese che si affermano per sconvolgere le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita“, evidenzia il dossier. Le imprese dell’Ue sono specializzate in tecnologie mature in cui il potenziale di innovazione è limitato, spendono meno in ricerca e innovazione (R&I): 270 miliardi di euro in meno rispetto alle loro controparti statunitensi nel 2021. Il problema non è che “l’Europa manchi di idee o di ambizione. Abbiamo molti ricercatori e imprenditori di talento che depositano brevetti. Ma l’innovazione è bloccata nella fase successiva: non riusciamo a tradurre l’innovazione in commercializzazione e le aziende innovative che vogliono crescere in Europa sono ostacolate in ogni fase da normative incoerenti e restrittive“, è il monito.

Se la chiave della crescita sta nell’aumento della produttività, per rilanciare la competitività, tre sono le barriere che ci ostacolano. In primo luogo, l’Europa “manca di concentrazione“, sottolinea il documento. Vengono cioè definiti gli obiettivi comuni, ma non le priorità chiare o le azioni politiche congiunte. In secondo luogo, l’Europa “sta sprecando le sue risorse comuni“: “Abbiamo una grande capacità di spesa collettiva, ma la diluiamo in molteplici strumenti nazionali e comunitari“, spiega Draghi. Nell’industria della difesa manca l’unione delle forze per aiutare le aziende a integrarsi e a raggiungere una dimensione di scala, ad esempio.

In terzo luogo, l’Europa “non si coordina dove è importante“. Nel contesto dell’Ue, collegare le politiche richiede un alto grado di coordinamento tra gli sforzi nazionali e quelli dell’Unione. “Tuttavia, a causa del suo processo decisionale lento e disaggregato, l’Ue è meno in grado di produrre una risposta di questo tipo“.

Il rapporto è redatto “in un momento difficile per il nostro continente“, ammette l’ex presidente del Consiglio italiano, che invita ad “abbandonare l’illusione che solo la procrastinazione possa preservare il consenso“. Siamo arrivati al punto in cui, senza agire, “dovremo compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà“.

Draghi scuote l’Ue: “Crisi perenne, non ignorare realtà. Autoconservazione a rischio”

Per anni è stato ripetuto che il burrone era vicino, ma quando le stesse parole le pronuncia una personalità esterna alla lotta politica, l’effetto è dirompente. Mario Draghi presenta il suo rapporto sulla competitività dell’Unione, lanciando un solo, grande appello: “L’autoconservazione dell’Europa è a rischio”.

Per questo servono “almeno 750-800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi annui”, il doppio del Piano Marshall, per coprire il fabbisogno finanziario dell’Ue e raggiungere gli obiettivi. Attualmente, infatti, gli “investimenti produttivi sono deboli nonostante l’ampio risparmio privato”. L’ex presidente della Bce parla apertamente di “lunga agonia” prima che il grande sogno di Altiero Spinelli si spenga definitivamente, considerando che “entro il 2040 ci saranno 20 milioni di persone in meno nel mercato del lavoro” e i cittadini “diventano sempre più poveri”.

Non è più tempo di contare le differenze, occorre sommare i punti di contatto: “Siamo già in modalità di crisi perenne e non riconoscerlo significa ignorare la realtà e andare verso una situazione che nessuno vuole”, esplicita meglio il senso del suo discorso e del lavoro consegnato oggi, con “170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sotto-proposte di vario tipo”.

Sui tavoli che contano a Bruxelles c’è una fotografia meticolosa, puntale e molto dettagliata di come oggi 27 economie separate non siano sufficienti a insidiare il primato degli Usa, ma anche della Cina. Ragion per cui parla della necessità di avere “una politica estera comune” anche in termini economici, dunque finanziamenti “per progetti di interesse comune o transfrontalieri in comune” per reggere agli urti dell’instabilità geopolitica e affrancarsi dalle varie dipendenze da cui, ancora oggi, l’Europa non riesce a sganciarsi. Prima tra tutte, quella per l’approvvigionamento di materie prime critiche, la base, cioè, per ogni politica industriale. Mentre oggigiorno “manca una strategia globale che copra tutte le fasi della filiera (dall’esplorazione al riciclaggio)” nel Vecchio continente. Bisogna riaprire le miniere e allentare il cordone che ci tiene legati a fornitori extra-Ue. Ovviamente, allo stesso tempo, occorre trattenere determinate produzioni su suolo europeo, anche per questioni di sicurezza.

Draghi mette in fila parole chiave sulle quali puntare dal prossimo quinquennio per rimettere sui binari della crescita il gigante europeo con i piedi d’argilla: “Innovazione, resilienza, decarbonizzazione”. Sulla transizione ecologica batte molto, anche in funzione della competizione con la Cina, che rappresenta “una minaccia allo sviluppo industriale pulito” dell’Europa. Che potrebbe – se volesse, questo è il non detto che aleggia spesso nella mattinata belga – proporre un modello differente, sicuramente più appetibile in termini di investimenti. Magari non di costi, ma alla fine il vecchio adagio resta attuale: ‘risparmio non è mai guadagno’. Non sempre, almeno.

Tutti obiettivi molto ambiziosi, ma non impossibili da raggiungere. Ci vuole una grande forza di volontà, come lascia capire proprio Draghi rispondendo alla domanda di un cronista in conferenza stampa se, dal suo punto di vista, basteranno le risorse proprie dell’Ue a finanziare tutti questi progetti: “Dipende da quanti Stati membri vogliono contribuire al Bilancio dell’Unione”. Draghi è consapevole che non basterà far da soli, dunque ecco aprirsi un altro punto caldissimo del Rapporto: serve una riforma del bilancio europeo, per renderlo più smart e mirato. A partire dalla revisione dei fondi coesione “Andrebbero forse utilizzati in maniera diversa rispetto a quanto accade oggi” indirizzandoli su “digitalizzazione, trasporti, istruzione, connettività”. Temi legati a doppio nodo con l’innovazione.

Dal rapporto Draghi sulla competitività, l’Europa avrebbe migliaia di spunti da sviluppare. Ora tocca capire da dove partire. L’unica certezza è che il tempo sta scadendo inesorabilmente, cosa di cui è consapevole anche la riconfermata presidente Ursula von der Leyen, alla quale spetta il compito di costruire una Commissione e una maggioranza in grado di tracciare una rotta. “La crescita è rallentata, non possiamo più ignorarlo”, rimarca l’ex Bce. Avvisando l’Europa che tutto questo va fatto tenendo fede alla sua natura costituente: “Garantire pienamente valori come prosperità, pace, democrazia, in un mondo sostenibile. Se non può farlo, allora l’Ue ha perso la sua ragion d’essere”.

Tridico: “In Europa serve politica industriale, tassa unica e reddito di cittadinanza”

Dice Pasquale Tridico, capolista per il Movimento 5 Stelle alle elezioni europee nella circoscrizione Sud, ex presidente dell’Inps ed economista, che qualora dovesse venire eletto al Parlamento si “trasferirà a Bruxelles”. E, aggiunge, “la famiglia sarà con me. L’impegno deve essere nelle istituzioni europee, come fanno altri parlamentari francesi o tedeschi. Invece, molti nostri parlamentari considerano il Parlamento europeo un taxi con cui tornare più forti, per creare un partito o per affari che poco c’entrano con la posizione con cui si è eletti. Questo ha allontano i cittadini italiani dal voto europeo”.

Nel pieno della campagna elettorale, Tridico espone durante un #GeaTalk quali sono gli obiettivi che si dà come uomo di punta del Movimento nella corsa al seggio europeo. Racconta, ad esempio, che “dovremmo migliorare il mercato unico europeo, perché non si regge con questo dumping. Per cui l’Unione dovrebbe iniziare a pensare a una tassa unica sul capitale”. Ma non basta: “Poi iniziamo a fare un welfare dell’Unione europea”, spiega. E, tra le altre cose, cita un reddito di cittadinanza europeo che farà drizzare le antenne all’attuale esecutivo che quello italiano, di reddito di cittadinanza, lo ha appena cancellato: “E’ quello che vogliamo portare in Europa, un reddito minimo universale che sia un dividendo sociale per tutti i cittadini europei che stanno al di sotto della soglia di povertà relativa in tutti i Paesi membri. E questo verrebbe finanziato con una nuova fiscalità, che non è nuova, ma avremmo un bilancio comune più vicino al 5 per cento in modo che gli shock dei Paesi possano essere gestiti in modo comune. Quello che manca è la gestione comune della crisi, che abbiamo visto col Covid e non con le crisi finanziarie”.

Ad ascoltare ancora Tridico, “negli ultimi decenni nel nostro Paese vedo una follia, una tendenza a fare investimenti a scarso contenuto tecnologico. Si aprono bar e ristoranti a ogni angolo di città, che non portano produttività ma sfruttano il lavoro. Potrei fare esempi di altri tipi di investimento che non hanno una responsabilità sociale, ma che al contrario sfruttano il costo del lavoro e la flessibilità per galleggiare, per fare competizione”. Non basta, l’ex presidente dell’Inps va oltre: “Noi abbiamo bisogno di investire in automotive, nella frontiera delle tecnologie, per quello c’è l’esigenza di un grande piano industriale. Stiamo facendo morire le industrie, Melfi chiude, Mirafiori chiude, Stellantis delocalizza. Negli anni ’90 producevamo 1,8 milioni di veicoli all’anno, oggi ne produciamo 900mila, e questo rappresenta il declino industriale del Paese. Se questo è sostituito da bar e ristoranti non cresceremo mai”.

Garbato ma severo, Tridico. Sul Superbonus ‘sgrida’ il ministro Giorgetti: “Il Superbonus nasce nel luglio del 2020, nel febbraio 2021 il governo Conte cade, arriva il governo Draghi col ministro Giorgetti che fa i decreti attuativi al ministero dello Sviluppo economico. Abbiamo il governo Draghi dunque e dopo il governo Meloni, con ancora il ministro Giorgetti. Cioè, il Superbonus è gestito da tre anni e mezzo dai governi Draghi e Meloni con Giorgetti ministro. Possiamo dirne bene o male, ma con certezza possiamo dire che è stato gestito da Giorgetti, che si lamenta senza mai modificarlo”. Meno garbato, ma ugualmente severo in merito al Ponte sullo Stretto considerato “non sostenibile, non economicamente efficiente , non prioritario, inutile”. Perché spiega “dal Nord della Calabria al Sud della Calabria ci vogliono cinque ore e mezzo. Non c’è Alta Velocità, non ci sono strade adeguate. Se arrivo e passo il ponte in venti minuti, cinque minuti, un minuto, cosa me ne faccio? Qual è la priorità per noi calabresi? Passare il ponte in un minuto o avere strade che ad esempio collegano Reggio Calabria con Bari?”.

Rimandata Ursula von der Leyen (“Sulla pandemia ha fatto bene, dopo mi ha deluso”), non promosso Mario Draghi (“Ha contribuito a quella governance del passato, dalla Bce e poi da premier. Sono certo che alcune cose che ha scritto si possano e si debbano fare ma non si possono fare con le stesse persone che hanno contribuito a creare quella governance”), l’euro-ricetta sta nel libro che Tridico ha scritto con un titolo emblematico ‘Governare l’economia per non essere governati dai mercati’. Sostiene l’ex numero uno dell’Inps: “Noi non siamo un Paese in via di sviluppo, non possiamo fare competizione sul lavoro, ma sull’innovazione e la tecnologia. Il lavoro deve essere ben retribuito, ben qualificato, dignitoso. Questo vuol dire governare i mercati”. Il lavoro, sottolinea, “non va considerato un mercato come il carciofo, come il pesce, ma governare i mercati vuol dire governare l’economia, attraverso regole che partono dal mercato del lavoro: il salario minimo, il reddito minimo, i tempi di lavoro, la tecnologia, lo smart working e la produttività che deriva anche dalle competenze acquisite”.

L’ultimo passaggio è sul Green Deal. Che non ha funzionato, perché “ha bisogno di essere sostenuto dagli Stati. Se pensiamo che il costo debba essere supportato da agricoltori, cittadini e aziende, vuol dire che questa transizione non solo non avverrà mai, ma creerà dei ‘perdenti’. Fondi pubblici, perché siamo a un bivio”. In fondo, il ragionamento finisce sempre lì: “In Europa abbiamo avuto una legislazione che ha vincolato, con il divieto agli aiuti di stato le politiche pubbliche. Per questo abbiamo accumulato ritardi nella transizione. Dobbiamo capire che questa transizione deve essere guidata da grandi investimenti pubblici”.

Ue, Procaccini (Fdi): “Draghi? Lo vedo meglio nel Consiglio Europeo che nella Commissione”

Non ha detto che siamo contrari, ha detto che al momento è prematuro parlarne e che al netto dell’autorevolezza di Mario Draghi bisogna vedere qual è il ruolo, anche perché ci sono ruoli più o meno politici. Il presidente della Commissione è un ruolo molto politico, molto più politico del presidente del Consiglio Europeo. In quest’ottica bisognerebbe poi vedere che tipo di politica vuole attuare Mario Draghi. La mia sensazione è che la sua figura sia più collocabile nel Consiglio europeo che non nella Commissione europea, francamente non riesco a immaginarmelo in quel ruolo”. Così Nicola Procaccini, presidente del gruppo dei Conservatori riformisti europei e responsabile del dipartimento Ambiente e energia di Fratelli d’Italia, durante #GeaTalk a proposito della posizione della premier Giorgia Meloni e del suo partito Fdi sulla possibilità che Mario Draghi prenda il posto di Ursula von der Leyen nella prossima Commissione Europea.

Il miracolo dell’industria manifatturiera italiana

Molti di noi pensano che l’industria e la sua capacità competitiva non siano state, negli ultimi anni, al centro dell’agenda europea.

L’attenzione è stata rivolta in maniera retorica e astratta alle due transizioni, quella energetica e quella digitale. Molta ideologia (soprattutto sul lato della riduzione delle emissioni di CO2) e poca pratica, ipertrofia regolatoria, indicazioni di obiettivi spesso irraggiungibili. Finalmente ci si è accorti che per ottenere i target fissati per la transizione energetica occorre un’enorme quantità di denaro che nessuno sa dove prendere. Finalmente ci si è accorti che l’industria europea ha un grave gap di competitività rispetto a quelle delle altre importanti aree economiche mondiali e Von der Leyen ha chiamato Draghi per affrontare il problema.

L’Europa è dinanzi al suo declino, demografico, economico, di innovazione e competitivo, in una situazione geopolitica estremamente difficile in cui ingenti risorse in futuro dovranno essere spese per la sicurezza e sottratte ad altri scopi.

La sfida è epocale e vedremo se gli europei sapranno fronteggiarla o se la traiettoria regressiva sarà ineluttabile.

Bisogna in questo contesto convincere l’Europa che l’industria e le imprese sono il principale strumento a disposizione per vincere questa deriva declinante perché sono il principale attore della crescita economica, dell’innovazione, dell’inclusione sociale e sono le uniche che possono trasformare gli slogan della decarbonizzazione in fatti concreti.

L’esempio dell’industria manifatturiera italiana è sotto gli occhi di tutti. La sua eccellenza e la sua performance sono il più grande contributo che l’Italia può dare ad un’Europa più forte e più competitiva.

La manifattura italiana nel 2023, già anno di rallentamento economico rispetto a quelli precedenti, ha fatto segnare risultati da record: 1.200 miliardi di euro di fatturato e 600 di export, la metà esatta del fatturato. Secondo le prime stime del Wto saremmo nel 2023 addirittura a 677 miliardi di esportazioni: una dimensione straordinaria, frutto di vantaggio competitivo puro, perché le svalutazioni della lira che aiutavano di tanto le nostre esportazioni non esistono più. Abbiamo superato per export la Corea del Sud e ci avviciniamo al Giappone e siamo ormai il quinto Paese esportatore del mondo.

Questa performance è il frutto di uno straordinario sistema industriale che non ha eguali al mondo e che in molti, dall’estero, ci ammirano e studiano. La specificità di questo sistema consiste nella sua estrema diversificazione, nell’articolazione dimensionale in cui, in filiere integrate, convivono piccole, medie e grandi aziende, in un capitalismo familiare esteso e leale nei confronti delle aziende, in un inestricabile intreccio tra imprese e territorio che fa di molti distretti industriali creature collettive volte alla ricerca, all’innovazione e allo sviluppo.

Farmaceutico, moda, meccanica, legno arredo, food e packaging sono i settori trainanti di questa performance. Nel 2022 il nostro export farmaceutico ha superato i 50 miliardi di dollari ed è quello cresciuto di più tra i grandi paesi produttori del mondo (+39%). Sempre nel 2022 il comparto moda ha esportato per 70 miliardi di euro, quello del legno-arredo per 20 miliardi di euro, quello dell’alimentare e del food per 60 miliardi di euro. Nel 2023 tutti questi settori sono ulteriormente cresciuti.

Numeri, si diceva, frutto di vantaggio competitivo puro e della creatività e dell’intensità produttiva delle nostre imprese; ma anche del grande successo del Piano Industria 4.0, grazie al quale le fabbriche italiane hanno investito massicciamente in macchinari, in  nuove tecnologie, nell’innovazione di processo e di prodotto. Ciò che colpisce è che l’innovazione non si è limitata al perimetro delle fabbriche ma si è allargata a clienti e fornitori, attraverso piattaforme digitali e logistiche sempre più efficienti. Tale efficienza nelle supply chain ha consentito al nostro sistema industriale di reagire meglio di altri alla pandemia, dimostrando che l’eccellenza del sistema industriale è anche un ingrediente fondamentale della sicurezza nazionale.

L’industria manifatturiera italiana è un gigante economico, l’asset più importante che l’Italia può mettere sul tavolo del confronto internazionale, ma non ha il peso “politico” che meriterebbe nella determinazione delle scelte a livello europeo e nazionale.

Il compito di Confindustria dovrebbe essere quello di dare voce, narrazione e visione coordinata a questa realtà. Il tema è comprendere che la partita è soprattutto, ma non solo, europea.

Tutti i settori manifatturieri italiani soffrono di politiche europee che sembrano dettate da un’ossessione mercatista volta a favorire i Paesi importatori e senza industria, concentrata solo sui diritti dei consumatori e non su quelli delle industrie e dei produttori, dimenticando che senza imprese e senza produttori anche i consumatori spariscono e vengono travolti dalla miseria.

Innumerevoli sono gli esempi che si possono fare su norme e regolamenti europei che ostacolano lo sviluppo e la crescita dell’industria manifatturiera: dai tempi estremamente più lunghi in Europa rispetto agli USA per le procedure antidumping, ai tempi al contrario più brevi in Europa rispetto agli USA sui brevetti farmaceutici (patent) con la conseguente più difficile finanziabilità della ricerca e sviluppo; dall’eccesso di normative ambientaliste sull’uso di materiali che danneggiano il comparto tessile e dell’abbigliamento e il legno arredo all’ossessione salutista e di imposizione su ciò che si può mangiare e bere e su cosa no, che paradossalmente mette nell’angolo vino e olio italiani ma consente cibi molto meno genuini; dalle norme, fortunatamente mitigate da una battaglia campale italiana, che  rischiano di distruggere la nostra industria del riciclo e del packaging, per finire con l’indifferenza  totale rispetto ai difficilissimi processi di transizione degli Hard to Abate.

C’è una comunanza di questioni di fondo che vanno affrontate in maniera coordinata, c’è la necessità di mettere a fattor comune informazioni e dati, di irrobustire la capacità di fronteggiare a Bruxelles il percorso legislativo, accompagnandolo con intensità e competenza fin dalla sua formazione; quando la norma è in bozza è già tardi, i giochi sono fatti.

C’è una necessità assoluta di dare una leadership manifatturiera all’industria italiana.

C’è in generale bisogno di cambiare la narrazione. Le imprese sono la soluzione del problema, non il problema. L’industria deve tornare al centro dell’agenda della Commissione Europea e delle politiche del Governo italiano perché senza industria l’Europa è finita, non solo economicamente, ma anche nelle sue istituzioni democratiche e sociali.