Auto, meno elettriche “pure” e più ibride: gli esperti danno ragione a Draghi

Potrebbero rivelarsi profetiche le dichiarazioni con cui Mario Draghi ha dato l’ennesima sveglia all’Ue sulla transizione verso una mobilità elettrica. L’ex premier italiano ed ex governatore della Bce, a un anno dalla pubblicazione del suo rapporto sul futuro della competitività europea, ha puntualizzato che gli obiettivi al 2035 in alcuni settori “si basano su presupposti che non sono più validi”. Troppi ritardi nelle infrastrutture di ricarica, obiettivi poco chiari, stimoli praticamente inesistenti per il mercato Bev. Messe assieme, tutte queste mancanze della Commissione Ue rischiano di affossare un settore che sta già arrancando.

A parziale conferma della tesi è peraltro un’analisi di Goldman Sachs, colosso finanziario che Draghi conosce da vicino e che prevede che il ritmo di adozione dei veicoli puramente elettrici rallenterà con le nuove regolamentazioni, e a trarne beneficio saranno i veicoli ibridi, più versatili e meno dispendiosi, al momento, da produrre. Di conseguenza, le case automobilistiche tradizionali saranno destinate a registrare “un significativo aumento” dei profitti. “È probabile che i tassi di penetrazione globale dei veicoli elettrici a batteria entrino in una fase di declino al di fuori di alcune regioni, come la Cina” scrive Kota Yuzawa, analista di Goldman Sachs Research, citando il caso emblematico statunitense, con un cambiamento di rotta sulle normative ambientali che “avrà un impatto positivo significativo sugli utili delle case automobilistiche tradizionali“.

Goldman Sachs Research prevede ora che i veicoli elettrici rappresenteranno il 25% delle vendite globali nel 2030, in calo rispetto alla precedente previsione del 28%. Questo porta le stime per il 2030 a 7 punti percentuali in meno rispetto all’attuale consenso di mercato sulla penetrazione del mercato globale dei veicoli elettrici, come rilevato da IHS Global Insight. Il team ha anche ridotto le sue previsioni per la quota di vendite di veicoli elettrici nel 2040 al 52%, rispetto alla precedente previsione del 59%.

È dunque probabile che i full hybrid (Hev) contribuiscano a colmare il divario, dato il rallentamento delle vendite di Bev. I produttori giapponesi e coreani, in particolare, hanno annunciato l’intenzione di spostare una parte significativa della loro gamma di prodotti dai motori a combustione interna alle trasmissioni ibride.

Si stima che in Nord America, il maggiore mercato dopo quello cinese, i margini per le principali case automobilistiche statunitensi e asiatiche potrebbero aumentare di 2-3 punti percentuali, aggiungendo tra 15 e 22 miliardi di dollari agli utili prima delle imposte per un gruppo di aziende che nel 2024 avevano registrato utili operativi complessivi pari a circa 52 miliardi di dollari. “La solidità delle vendite di veicoli ibridi tradizionali testimonia il fatto che i consumatori apprezzano non solo l’efficienza nei consumi, ma anche le prestazioni in termini di potenza” sottolinea Yuzawa. Gli analisti hanno alzato le previsioni per la quota di mercato globale dei veicoli ibridi ibridi al 12% nel 2030 (in aumento rispetto al precedente 10%) e al 9% nel 2040 (in aumento rispetto al precedente 5%). Inoltre, prevedono che gli ibridi plug-in (Phev) raggiungeranno il 14% del mercato nel 2030 e il 17% nel 2040 (in aumento rispetto alla precedente previsione del 9% nel 2040).

Così come avviene negli States, anche in Europa le normative ambientali che incidono sulle vendite di veicoli elettrici si stanno allentando (con le dovute proporzioni). La Commissione Ue aveva già attenuato la propria posizione sulla riduzione delle emissioni per il 2025, concedendo alle case automobilistiche un periodo di ‘grazia’ di 3 anni, fino al 2027. Gli analisti confermano che tale modifica aiuterà i produttori a raggiungere gli obiettivi ed evitare sanzioni.

Ma se le previsioni di Goldman Sachs Research sulla penetrazione del mercato globale dei veicoli elettrici riflettono aspettative ridotte per le vendite negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, le previsioni per Cina e India rimangono invariate. Le vendite globali di veicoli elettrici sono aumentate del 21%, raggiungendo 1,16 milioni di veicoli a giugno di quest’anno. Il volume delle vendite in Cina è aumentato del 37% su base annua, soprattutto grazie alle ibride, mentre le vendite negli Stati Uniti e in Europa sono diminuite rispettivamente del 13% e del 5%.

Epitaffio di Draghi per l’Europa di Ursula che ora deve cambiare

“Grazie Mario”, ha ripetuto con enfasi Ursula von der Leyen. Grazie per tutto quello che hai detto e costruito per l’Europa. Insomma, grazie di esistere. Poi, però, Mario, nella fattispecie Draghi, ex presidente della Bce, ex premier, una luce nel buio di questi tempi, ha smontato pezzo dopo pezzo tutto quello che l’Unione europea ha fatto, anzi non ha fatto, (proprio) durante la gestione passata e presente della presidente tedesca. Perché il discorso di Draghi sullo stato di salute malandatissimo del vecchio Continente è stato molto crudo e diretto, partendo dal presupposto che “a distanza di un anno, l’Europa si trova quindi in una situazione più difficile” e che “l’inazione non minaccia solo la nostra competitività ma anche la nostra sovranità”. Liofilizzando il concetto: vi avevo avvertito ma le mie parole sono cadute nel vuoto. E adesso sono grane.

In un (per niente tranquillo) martedì di metà settembre, Draghi ha messo a nudo i difetti della Ue targata Ursula: lenta, avvitata su se stessa, incapace di decidere, imbolsita dalla burocrazia e dalla smania regolamentare, non ancora del tutto convinta che il green deal come era stato pensato da Frans Timmermans debba essere profondamente rivisitato. Giusto un anno fa l’ex premier aveva presentato il suo rapporto, un’istantanea che riscosse consensi ma che in concreto non ha spostato di un millimetro il baricentro della Ue, ormai bersaglio di critiche diffuse proprio da parte dei più europeisti tra gli europeisti. Antonio Tajani, ad esempio, ministro degli Esteri ed ex presidente del Parlamento, pochi minuti prima che Draghi si prendesse la scena aveva assestato un paio di ceffoni a Bruxelles, parlando della necessità urgente di cambiare registro, del bisogno di dire basta all’unanimità del voto, dell’imperativo di arrivare a una Difesa europea. Non proprio peanuts.

Il paragone di Draghi è quello con gli Stati Uniti e la Cina. Che sono giganti ma che agiscono velocemente, mentre l’Europa sta deludendo i cittadini per “la lentezza e la sua incapacità di muoversi con la stessa rapidità”. Il punto, ancora più grave, è che i governi che compongono l’Europa non sono consapevoli – stigmatizza l’ex commissario – della gravità della situazione. Intanto che si discute e ci si accapiglia, il “modello di crescita sta svanendo”, “la vulnerabilità sta aumentando” e “non esiste un percorso chiaro per finanziare gli investimenti di cui abbiamo bisogno”.

Una pietra tombale, un epitaffio su ‘questa’ Europa, quella di von der Leyen. Che ha incassato la scarica di cazzotti senza (quasi) fare una piega e promesso un cambio di passo su energia (nucleare), Difesa e intelligenza artificiale. Ecco: conviene che, rispetto alla prima volta, ‘questa’ volta Ursula faccia sul serio, ritrovi l’Unione (U rigorosamente maiuscola) e metta a terra promesse e sogni. A Strasburgo, una settimana fa, il suo discorso è stato coniugato sempre e solo al tempo futuro, conviene che viri sul presente oppure tra un anno saranno inutili anche le scosse di Mario.

Meloni? One woman show… E quel cazzotto all’Europa irrilevante

Dopo settimane di silenzio, Giorgia Meloni ha ripreso la parola per dettare il documento programmatico del governo di qui (almeno) alla fine dell’anno e per appuntarsi qualche medaglietta sul petto. In fondo, ci sta: dopo quasi tre anni di gestione del Paese in un momento congiunturale – diciamo – non proprio favorevole, voltarsi indietro e compiacersi per i risultati ottenuti è umanamente comprensibile, con la consapevolezza però che quelle ‘medagliette’ ostentate in diretta streaming prestano e presteranno il fianco alle aspre critiche dell’opposizione. A livello personale, la premier ha incassato la standing ovation della Fiera di Rimini, tributo riservato a pochi negli ultimi tempi, una bella spinta per aumentare la propria autostima. Volendo sintetizzare: one woman show…

In quasi un’ora di intervento, Meloni ha toccato tutti i temi possibili: dall’Ucraina al massacro di Gaza, dalla sanità alla genitorialità, dalla riforma della giustizia al premierato, dal Piano Casa all’irrilevanza dell’Europa, con tanto di citazione per Mario Draghi che l’ha preceduta di qualche giorno alla kermesse romagnola. Proprio su quest’ultimo tema la presidente del Consiglio ha usato toni netti, quasi tranchant, avvolgendo con un foglio di domopack l’istantanea scattata dal suo predecessore a Chigi: la Ue, così com’è, è condannata all’irrilevanza. Amen.

Non è una novità che Meloni consideri Bruxelles e Strasburgo centri di potere non inutili ma al momento dannosi per la salute delle economie nazionali. E non è un mistero che si sia battuta per sburocratizzare l’Europa vittima del ‘virus regolamentatorio’ per cui è stato creato un adagio secondo il quale gli Usa inventano, i cinesi copiano e gli europei regolamentano. L’affondo, questa volta, è amplificato dalle parole che ha pronunciato Draghi, una sorta di de profundis, e anche dall’analisi di Romano Prodi, ex presidente della Commissione, che si è praticamente allineato a questa visione di assoluta mestizia.

Eppure proprio la leader di Fratelli d’Italia sa bene che dall’Europa non può uscire e che nell’Europa va riannodato il filo degli interessi comuni, in maniera che tra Orban e Sanchez, tra lei stessa e Macron non ci siano distanze profonde come canyon. Un’operazione difficile ma indispensabile, in particolare per chi ha dedicato alla polita estera buona parte del suo mandato.

Meloni: “Italia riprende suo posto nel mondo”. E cita Draghi: “Ue rischia irrilevanza”

In tre anni e mezzo, l’Italia “si è riappropriata del suo posto nel mondo“. Giorgia Meloni sale sul palco del Meeting di Rimini tra gli applausi e una standing ovation. Incassa grandi complimenti da Bernhard Scholz, presidente della Fondazione, tradisce l’emozione con delle lacrime, elenca i successi raggiunti da quando è al governo, ma giura di non essere ancora contenta, che si impegnerà per fare di più.

Anche chi non condivide il suo orientamento politico deve riconoscere che sta rappresentando il suo governo anche a livello europeo e internazionale con grande senso di responsabilità, coraggio, sincerità e affidabilità“, ammette Scholz, introducendola.

Quello che più preme alla presidente del Consiglio è ribadire che il Paese è “tornato credibile” agli occhi dei partner internazionali. Non più il “grande malato d’Europa”, ma un interlocutore “forte, fiero, schietto, leale, in una parola autorevole”. Addirittura, rivendica, un “modello di stabilità” che ha portato gli investitori internazionali a considerarci una nazione sicura, con i i tassi di interesse in linea con la Francia, prima in Europa per l’attuazione del Pnrr, “un’anomalia positiva” per la stampa internazionale.

La premier ricorda che la proposta italiana per l’Ucraina, basata su un meccanismo ispirato all’articolo 5 della Nato, è ancora la principale sul tavolo dei negoziati. Un possibile contributo alla pace, sottolinea, di cui “andare fieri”. E ribadisce a chi domanda di emanciparsi dagli Stati Uniti che “tornare protagonisti della storia e del proprio destino non è facile, non è indolore, non è gratis“. Il prezzo da pagare, per Meloni, è quello di investire di più. Non parla esplicitamente di armi né di difesa, ma di “libertà e indipendenza”, che per decenni sono state appaltate a Washington a costo di una “inevitabile dipendenza politica”.

All’Europa la presidente del Consiglio suggerisce di ripartire dalla politica, ma anche, più pragmaticamente di ridurre la burocrazia “soverchiante”, sostenere la competitività delle imprese per “combattere la desertificazione produttiva”, rimettere “l’uomo e non l’ideologia” al centro della natura, investire sulle proprie filiere per ridurre le “troppe dipendenze strategiche”. E cita Mario Draghi, sostenendo che l’Unione è sempre più “condannata all’irrilevanza geopolitica, incapace di rispondere efficacemente alle sfide di competitività poste da Cina e Usa”: “Ha ragione“, osserva, chiedendo coraggio per scelte difficili.

Annuncia poi, per l’Italia, un Piano Casa sul quale è al lavoro con il Ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, per offrire abitazioni a prezzi calmierati per le giovani coppie, perché, ricorda, “senza una casa è molto più difficile costruire una famiglia”. Quanto alle imprese, l’obiettivo principale e più ambizioso che si pone la prima ministra rimane quello dell‘abbassamento strutturale del costo dell’energia che “pesa come un macigno sulla competitività italiana”.

Ma i “mattoni nuovi” tema del Meeting sono stati portati anche oltre Mediterraneo, in Africa, con il Piano Mattei. Un modello di cooperazione che, come la premier ama ripetere spesso, “rifugge tanto l’approccio paternalistico quanto quello predatorio, costruendo invece partenariati basati sul rispetto reciproco, sulla fiducia, sulla condivisione, cioè sulla capacità di guardarsi negli occhi da pari, per trovare insieme gli ambiti nei quali poter fare la differenza e avere benefici reciproci”. A differenza di altri attori, garantisce, “non abbiamo secondi fini, non ci interessa sfruttare il continente africano per le ricchissime materie prime che possiede utilizzandole per accrescere il nostro benessere”. Quello che le interessa è che l’Africa “prosperi insieme a noi processando le sue risorse coltivando i suoi campi, dando lavoro e una prospettiva alle sue energie migliori, potendo contare su governi stabili e società dinamiche”.

Metsola sprona Ue: “Siamo leader, non follower. Cambiamo o saremo irrilevanti”

Essere leader e non follower. Dal palco del Meeting di Rimini, Roberta Metsola sprona l’Europa a essere protagonista in un mondo che è in continua evoluzione. Gli Stati Uniti sono “più complicati di un tempo”, osserva, e la guerra in Ucraina ha messo in luce la dipendenza del Vecchio continente dalla Russia. La “terribile situazione” a Gaza ha mostrato a una nuova generazione “quanto abbiamo bisogno di un’Europa più forte che promuove la pace”.

La presidente dell’europarlamento cita Mario Draghi per ricordare che la forza economica e il soft power non bastano più a garantire che l’Europa resti un leader globale. “Lo status quo significa arrendersi, significa lasciare l’Europa ai margini“, ribadisce, invitando ad avere il coraggio di “prendere le decisioni”, per non cadere in una “lenta e dolorosa spirale verso l’irrilevanza“.

Bisogna quindi porsi domande difficili: “Vogliamo essere in grado di difenderci? Vogliamo davvero integrare i nostri mercati e sbloccare il grande potenziale che conosciamo? Vogliamo sostenere le nostre imprese e nostri imprenditori? Vogliamo garantire il nostro modello di libera impresa e di reti di protezioni sociali?”.

Il primo passo per non essere irrilevanti è creare le condizioni per una crescita stabile e sostenibile, “semplificando le regole, rafforzando il mercato unico e sviluppando il commercio”, la ricetta della presidente. Sulla semplificazione, Bruxelles fa progressi, ma ammette: “Sappiamo che approvare 13.000 provvedimenti legislativi nella scorsa legislatura contro i solo 3.000 negli Stati Uniti frenerebbe chiunque dal poter guidare la strada verso il futuro”.

Meno moralismo e più azione è il suggerimento: “In Europa le industrie sostengono milioni di posti di lavoro”, ricorda Metsola, rimarcando che bisogna “sostenerle, non ostacolarle”. In definitiva il principio è semplice: “Dove possiamo semplificare dobbiamo farlo, dove occorre correggerci e adattarci alle nuove realtà dobbiamo farlo. Questa è la direzione che stiamo dando al nostro lavoro”.

Sul lavoro fatto finora in Ucraina, la presidente non ha dubbi: “Kiev non sarebbe libera senza il sostegno europeo“. Ringrazia Meloni e Tajani per il “contributo determinante dell’Italia nel difendere i valori europei” e insiste: “Abbiamo sempre spinto per la pace, una vera pace che nasce dalla capacità dell’Ucraina di restare forte, dobbiamo continuare a spiegare perché il nostro sostegno all’Ucraina è così determinato e questo perché non è solo altruismo, è l’aspirazione dell’Europa a vivere libera, un principio che non dimenticheremo mai“.

Avanti quindi sulle “vere” garanzie di sicurezza: “Vogliamo una pace duratura, che mantenga tutti noi al sicuro, che si fondi sul principio del ‘niente sull’Ucraina senza l’Ucraina‘”. E perché ciò accada, scandisce, “nulla sull’Europa può essere deciso senza l’Europa”.

Dazi, Urso: “15% ostacolo superabile”. Draghi: “Ci siamo rassegnati agli Usa”

Il 15% è un “ostacolo superabile per le nostre imprese”. Da Rimini, dove partecipa al Meeting per l’amicizia fra i popoli, Adolfo Urso non si dice preoccupato dall’esito dell’accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione europea e assicura che si continuerà a lavorare per tutelare il settore agroalimentare.

Le imprese italiane, a differenza di altre, osserva, hanno già saputo reagire meglio alla crisi internazionale in atto: “Sono più resilienti di altre, non hanno mai perso la speranza, e nel contempo hanno saputo evidenziare la principale caratteristica di questo Paese, della nostra nazione italiana, la creatività”, rivendica.

L’intesa va quindi “perfezionata”, ma intanto garantisce un “quadro di certezze all’impresa” importante. Perché, spiega l’inquilino di Palazzo Piacentini, “senza certezze le imprese non investono, non si muovono”.

Urso vede un ruolo dell’Italia e di Giorgia Meloni nello specifico “decisivo” nell’incanalare il confronto sui binari dell’accordo: “Quando nessuno ci credeva e anzi molti pronosticavano o auspicavano una guerra commerciale tra l’Europa e gli Stati Uniti, che sarebbe stata devastante per tutti, è stato il governo italiano, è stata Giorgia Meloni a incanalare il confronto sui binari giusti tra le due metà dell’Occidente”, rivendica.

Per il ministro, l’intesa è stata fondamentale sull’automotive, soprattutto per le componenti italiane nelle auto europee, sui semiconduttori e sull’industria farmaceutica. Il tragitto sull’industria alimentare, è convinto, “si completerà”.

Nel frattempo, andranno finalizzati altri accordi di libero scambio con nuovi mercati. Come, insiste Urso, il governo italiano ha chiesto di fare alla Commissione europea sul Mercosur, “salvaguardando però la produzione agricola”, precisa. Fondamentale è ora raggiungere nuove intese con i Paesi nei confronti dei quali le nostre imprese e i nostri prodotti crescono di più. Secondo l’Istat, per l’Italia, mercati promettenti sono gli Emirati, il Golfo, l’India, il sud-est asiatico, la Malesia, l’Indonesia, le Filippine. “Le nostre imprese più delle altre sanno come sventare le crisi o i rischi e come cogliere le nuove opportunità. Abbiamo fiducia nelle nostre imprese, diamo loro fiducia con la nuova legge di bilancio, su questo saremo determinati”.

Dal Meeting arriva anche la stoccata dell’ex premier Mario Draghi. “Abbiamo dovuto rassegnarci ai dazi imposti dal nostro più grande partner commerciale e alleato di antica data – dice dal palco – gli Stati Uniti. Siamo stati spinti dallo stesso alleato ad aumentare la spesa militare, una decisione che forse avremmo comunque dovuto prendere, ma in forme e modi che probabilmente non riflettono l’interesse dell’Europa”.

E, ancora, da Rimini parte l’appello delle parti sociali, con la leader della Cisl Daniela Fumarola: “Dazi al 15% sono meglio che dazi al 50%. Ma noi continuiamo a dire che c’è bisogno che si continui ad intervenire sull’Europa e che bisogna assolutamente proteggere le imprese, bisogna proteggere il lavoro e bisogna trovare nuovi sbocchi commerciali per non dipendere da situazioni di questo tipo”.

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‘Acuto’ di Mattarella all’Europa: “Nessun dorma. Stare fermi non è più un’opzione”

(Photocredit: Qurinale)

Le note della Turandot risuonano poco prima che Sergio Mattarella, assieme a Felipe VI di Spagna e Marcelo Rebelo de Sousa chiudano i lavori del XVIII Simposio Cotec Europa. Lo spunto è perfetto per il presidente della Repubblica, che prende per primo la parola e usa i versi di Giacomo Puccini per un ‘acuto’ politico all’Europa: “La romanza che abbiamo ascoltato, ‘Nessun dorma’, potrebbe applicarsi alla nostra Unione”.

A Coimbra, città fondata dai romani, che dal 1537 ospita la più antica università del Portogallo, una delle più prestigiose del Vecchio continente, il futuro dell’Ue è il tema principale del dibattito Cotec, che festeggia i vent’anni dalla sua prima edizione. Prima del capo dello Stato è Mario Draghi a prendere la parola, con una lunga analisi dell’attualità, con i dazi che segnano un “punto di rottura” tra Ue e Usa e la necessità di trovare strade alternative, puntando principalmente sulla forza che l’Europa può esprimere. Parole che si sposano perfettamente con la riflessione di Mattarella, che indica la necessità di un’Ue rinnovata, più competitiva, resiliente e presente nello internazionale: “Una sfida epocale per il nostro continente, tanto più urgente se raffrontata a recenti evoluzioni negli equilibri mondiali”. Infatti, l’appello è “urgente, direi prioritario: l’Europa agisca, perché stare fermi non è più un’opzione”.

Il presidente della Repubblica ricorda che “i rischi dell’immobilismo sono ben identificati nei rapporti Draghi e Letta” con “ipotetiche conseguenze per l’Europa, ad esempio in termini di arretramento nelle condizioni materiali di benessere diffuso o di un allontanamento irreversibile dalla frontiera tecnologica” che “ne accrescerebbero anche le vulnerabilità sui piani strategico e geopolitico, riducendone la capacità di contrastare le attuali perturbazioni così allarmanti dell’ordine internazionale”.

Sulla difesa comune europea, ad esempio: “Oggi siamo in ritardo, in rincorsa rispetto agli eventi e dobbiamo, di conseguenza, avvertirne l’urgenza”. Ragion per cui “le iniziative avviate in materia dalla Commissione europea sono un primo, fondamentale passo e testimoniano piena consapevolezza della posta in gioco”, sottolinea Mattarella. Che crede nella capacità di adattamento alle sfide globali: “Sarebbe miope guardare all’Unione come ad una costruzione nata sottovuoto”. Ci sono, però, passi da compiere. Anzi, ‘azioni’, come richiama il titolo dell’edizione Cotec 2025. Come “migliorare i nostri punti di forza, a cominciare dal Mercato unico europeo”, cosa che il rapporto Letta ha fatto con le su valide proposte per estenderne gli effetti “a settori che in passato ne sono stati esclusi: tra questi la finanza, l’energia, le telecomunicazioni – mette in luce Mattarella -. Ma anche (ed è questo un aspetto fondamentale) la ricerca, l’innovazione e l’istruzione, che nel rapporto sono parte di una ‘quinta libertà’, accanto alle quattro già esistenti: circolazione di merci, servizi, persone e capitali”.

Servono anche innovazione e cooperazione per lo sviluppo di nuove tecnologie all’Ue, perché “anche in quest’ambito l’Europa non può rischiare di restare al palo”, avverte il presidente mentre sul palco accanto a lui ci sono Re Felipe VI di Spagna e il presidente uscente della Repubblica portoghese ad ascoltarlo. Mattarella ricorda, inoltre, che “il tema delle risorse rimane centrale quando si vuole definire una strategia industriale per il rilancio della competitività”, ecco perché “quando le sfide sono di dimensione europea, tocca all’Unione fornire gli strumenti adeguati”.

Per riprendere un posto di primo piano nello scacchiere internazionale, il Vecchio continente deve necessariamente avere “una strategia che ponga al centro la sicurezza degli approvvigionamenti”, perché è emblematico – ricorda il capo dello Stato – il caso della scarsità di materie prime critiche, che oggi sono più che mai fondamentali. “Dobbiamo lavorare insieme per un’Europa più competitiva, tecnologicamente avanzata e quindi più sicura, capace di ridurre le sue dipendenze strategiche ma senza pregiudicare la tela di fondo di un ordine internazionale fondato sul libero commercio”, è il monito lanciato da Mattarella. Che usa due termini precisi: “Competitività e sicurezza, concetto quest’ultimo che assume oggi numerose dimensioni, dalla sicurezza economica alla sicurezza energetica, da quella cibernetica a quella più tradizionale, sono intimamente connesse”.

Prima di fare ritorno in Italia fa tappa al Santuario di Fatima, con Rebelo de Sousa ad accompagnarlo. All’Europa serve tutta la spinta che può per affrontare le sfide che la attendono.

Draghi avverte Ue: “Dazi punto di rottura con Usa. Costi energia sono una minaccia”

Questa volta non basterà nemmeno il “whatever it takes”. La scelta dell’amministrazione americana di imporre i dazi segna un “punto di rottura” tra Europa e Stati Uniti: ne è convinto l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, che al XVIII Simposio Cotec Europa, fa un’analisi approfondita del momento storico che vive il Vecchio continente. Con tanti ‘ma’ a scandire le sue parole.

Draghi riconosce che i problemi dell’Europa non nascono oggi, anzi negli anni sono addirittura peggiorati e il mix tra “frammentazione politica interna e crescita lenta hanno ostacolato una risposta europea efficace” agli Stati Uniti, ma è consapevole che “l’ampio ricorso ad azioni unilaterali per risolvere le controversie commerciali e la definitiva esclusione del Wto hanno minato l’ordine multilaterale in modo difficilmente reversibile”. Non possiamo fare a meno degli Usa come partner commerciale, ma allo stesso tempo “dovremmo chiederci perché siamo finiti nelle mani dei consumatori statunitensi per trainare la nostra crescita”. La strada da seguire sarebbe quella di “aprire nuove rotte commerciali”, ma “realisticamente, non possiamo diversificare le nostre esportazioni al di fuori degli Stati Uniti nel breve periodo”.

La soluzione, quindi, è raggiungere un accordo con Washington, anche se a lungo termine Draghi ritiene “azzardato credere che i nostri scambi commerciali con gli l’America torneranno alla normalità dopo una rottura unilaterale così grave delle relazioni, o che i nuovi mercati cresceranno abbastanza rapidamente da colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti”. In apparenza sembrerebbe il più classico dei ‘cul de sac’, ma l’ex premier qualche exit strategy, anzi “azioni da intraprendere”, come da titolo del Cotec 2025, le indica all’Ue. La prima è “cambiare il quadro di politica macroeconomica che abbiamo elaborato dopo la grande crisi finanziaria e la crisi del debito sovrano”, perché fu uno degli errori rinunciare “a sviluppare il mercato interno come fonte di crescita”. Ma per riuscirci servono maggiori investimenti che possano “generare un forte impulso alla domanda interna, compensando eventuali venti contrari provenienti dalla domanda più debole degli Stati Uniti”.

Altro capitolo doloroso per l’Europa è l’energia. Draghi ricorda che i piani di Mosca e Washington erano noti da tempo, ma “le nostre importazioni di gas dalla Russia hanno continuato ad aumentare anche dopo l’invasione della Crimea”. Così quando ci è stato tagliato il gas, abbiamo perso più di un anno di crescita economica, mette il dito nella piaga Draghi. Che bacchetta sulla corsa alla transizione per garantire la sicurezza energetica: richiederebbe “una trasformazione fondamentale del nostro sistema energetico che non siamo stati in grado di realizzare, ostacolati dall’intermittenza intrinseca delle rinnovabili, dall’inadeguatezza delle nostre reti e dai lunghi ritardi burocratici per i nuovi impianti”. Problemi reali su cui intervenire, perché – avverte l’ex numero uno della Banca centrale europea – “i prezzi elevati dell’energia e le carenze della rete sono, in primo luogo, una minaccia per la sopravvivenza della nostra industria” e “un onere insostenibile per le nostre famiglie”, oltre a mandare all’aria i processi di decarbonizzazione. Servirebbe, dunque, “un ampio piano di investimenti europeo” per reti e interconnettori, nonché la riforma del mercato dell’energia, ma “è scoraggiante vedere come l’Europa sia diventata ostaggio di interessi acquisiti radicati”.

Sulla difesa è altrettanto ampio il ragionamento di Draghi. A suo parere “abbiamo fatto poco per rafforzare la nostra difesa comune” ed è arrivato il momento di “ridurre la frammentazione della nostra industria” incoraggiando la formazione di partnership per creare ‘campioni’ europei. A livello politico, invece, “l’emissione di debito comune colmerebbe il ‘tassello mancante’ nei mercati dei capitali frammentati dell’Europa”. Poi, occorre puntare sulle nuove tecnologie, ma “l’Europa ha perso terreno nell’Ia e in tutte e quattro le altre tecnologie e dobbiamo lavorare su tutti questi settori se vogliamo recuperare il ritardo”. A patto di “creare un cloud strategico europeo che ci garantisca la sovranità dei dati in settori critici come la difesa e la sicurezza”. Restando in tema, infatti, Draghi suggerisce di “investire di più per potenziare la nostra infrastruttura comune di supercalcolo, la rete Euro-HPC”, ma soprattutto “sviluppare una capacità europea in materia di sicurezza informatica, poiché stiamo perdendo competitività nel 5G e siamo deboli nelle comunicazioni satellitari: esiste il rischio concreto – avverte – che finiremo per dipendere dalla tecnologia statunitense e cinese per la trasmissione sicura dei dati”. C’è anche lo Spazio nelle parole dell’ex premier, che chiede di “riformare radicalmente l’interazione tra le agenzie dell’Ue e quelle nazionali e coinvolgere molto di più il settore privato”. Così come “dobbiamo creare un cyberspazio europeo sicuro attraverso un maggiore coordinamento e investimenti nelle tecnologie digitali comuni”. Chi pensa che tutto questo sia “utopistico e impossibile”, mette in guardia Draghi, condanna l’Europa alla “irrilevanza militare”. Con tanti saluti anche a competitività e crescita.

Meloni cambia cliché: meno passionaria e più ‘istituzionale’ per mettere insieme Ue e Trump

Nel suo passaggio al Senato dopo due mesi e rotti di silenzio, in attesa di presentarsi alla Camera, Giorgia Meloni ha in qualche modo cambiato il suo cliché. Non ha usato toni perentori, non ha quasi mai alzato la voce, è stata molto dialogante, si è prodigata per far capire “ai colleghi” che sbarcherà a Bruxelles per trovare un punto di caduta che non trasformi gli Stati Uniti in nemici e non riduca l’Europa a una comparsa. Il feeling con Trump e i buoni rapporti con von der Leyen, lei nel mezzo la ‘semplificatrice’ di una situazione complessa e delicassima.

Insomma, una premier assolutamente ‘istituzionale’, che non ha parlato solo di Ucraina (Non è immaginabile costruire garanzie di sicurezza efficaci e durature dividendo l’Europa e gli Usa. E’ giusto che l’Europa si attrezzi per svolgere la propria parte, ma è folle pensare che oggi possa fare da sola senza la Nato”) e di Difesa (L’Italia non intende distogliere un solo euro dal fondo di Coesione, spero che almeno su questo saremo tutti d’accordo) ma ha cominciato dalla competitività (“Non è una parola astratta”) per lanciarsi sulla desertificazione industriale, per planare successivamente sulla decarbonizzazione (che deve essere sostenibile per imprese e cittadini), per sfiorare il costo fuori controllo dell’energia elettrica fino ad atterrare sui dazi (ai quali non bisogna rispondere con altri dazi, serve reciproco rispetto) e sull’Europa che a rischio di regole e regolamenti rischia di non farcela. Argomenti prevedibili, così come i contenuti.

Meloni ha espresso le posizioni del suo governo mentre Ursula von der Leyen raccontava in Danimarca come la sua Ue debba attrezzarsi per non finire schiacciata stile sandwich da Stati Uniti e Russia e poco dopo che Mario Draghi, sempre in Senato, aveva toccato gli stessi temi con l’autorevolezza che lo accompagnala. In sintesi, l’ex presidente del Consiglio ha detto che la Difesa comune è un passaggio obbligato, che gli 800 miliardi previsti per riarmare l’Europa non basteranno, che il Rapporto sulla competitività non è obsoleto e va attuato con urgenza, che la questione energetica è prioritaria, dal disaccoppiamento di gas fino al costo delle bollette. In fondo, si finisce per andare sbattere sempre lì e da lì bisogna trovare la migliore via d’uscita.

La premier non ha cercato una sponda in Senato, questo no, ma è stata abbastanza accondiscendente quando ha sostenuto che l’etichetta di Rearm al piano di von der Leyen è inaccettabile e dunque va cambiata perché è necessaria la Difesa comune ma “senza tagliare sanità e sociale”. Un refrain già sentito su un’altra sponda.

Draghi all’Ue: “Abbiamo forza di risposta, ma dobbiamo agire come un unico Stato”

Sprona l’Unione europea ad agire, e velocemente, e i Ventisette a muoversi come un solo Stato, perché “non c’è alternativa“. Ruota attorno a un perno preciso il discorso al Parlamento europeo, a Bruxelles, dell’ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi: l’unità. “Se uniti, saremo all’altezza della sfida e avremo successo“, conclude il suo discorso.

Il ritmo dei progressi nell’intelligenza artificiale“, che sono rapidi e avvengono per la maggior parte “fuori dall’Europa“; “i prezzi del gas naturale” che “rimangono altamente volatili”; “l’ascesa della Cina” cui si aggiungono le “tariffe da parte della nuova amministrazione Usa”; la vulnerabilità del “nostro sistema di difesa, dove la frammentazione della capacità industriale lungo linee nazionali impedisce la scala necessaria“. I punti fragili emersi da quando il rapporto Draghi sulla competitività è stato pubblicato sono molteplici. “Ma il senso di urgenza di intraprendere il cambiamento radicale che il rapporto sosteneva è diventato ancora più forte“, precisa agli eurodeputati e ai rappresentanti dei Parlamenti nazionali riuniti per la settimana parlamentare europea. In tale contesto, dunque, per l’ex presidente della Banca centrale europea “è sempre più chiaro che dobbiamo agire sempre di più come se fossimo un unico stato” e la risposta deve essere “commisurata alla portata delle sfide” e “focalizzata sui settori che guideranno un’ulteriore crescita“.

Dunque, l’Ue deve creare le condizioni “affinché le aziende innovative crescano in Europa” e “ciò significa abbattere le barriere interne, standardizzare, armonizzare e semplificare le normative nazionali e spingere per un mercato dei capitali più basato sul capitale azionario“. E l’Ue deve “abbassare i prezzi dell’energia“, un “imperativo non solo per le industrie tradizionali, ma anche per le tecnologie avanzate“. Ciò significa riforma del mercato energetico; trasparenza molto maggiore nel commercio di energia; uso più esteso di contratti energetici a lungo termine e acquisti a lungo termine di gas naturale, massicci investimenti in reti e interconnessioni; un’installazione più rapida delle energie rinnovabili; investimenti nella generazione di base pulita e soluzioni flessibili. “Allo stesso tempo, dobbiamo garantire parità di condizioni per il nostro innovativo settore delle tecnologie pulite in modo che possa beneficiare delle opportunità della transizione“, osserva. Mentre sull’automotive specifica che “non si può forzare lo stop ai motori a combustione e, allo stesso tempo, non imporre, con la stessa forza, l’installazione di sistemi di ricarica e non creare le interconnessioni per farlo“.

Draghi promuove la Bussola della Competitività della Commissione – i suoi obiettivi sono “pienamente in linea con le raccomandazioni del rapporto” – ma sottolinea che “ora è importante che alla Commissione venga fornito tutto il supporto necessario” perché “le esigenze di finanziamento sono enormi” e “quella di 750-800 miliardi di euro all’anno è una stima prudente“. Perciò “dobbiamo emettere debito comune e deve essere per definizione sovranazionale“. Un punto su cui l’ex premier non ha dubbi. Così come non ne ha sul welfare: “Per avere una maggiore crescita della produttività, non è necessario distruggere il modello di welfare sociale“.

Su tutto, però, serve volontà politica. “A una riunione dell’Ecofin, tempo fa, ho detto: Dite no al debito comune, dite no al mercato unico, dite no alla creazione dell’unità del mercato dei capitali. Non potete dire di no a tutto”. Di cosa sia meglio fare “non ho idea. Ma fate qualcosa“, incalza.