Mattarella indica linea Draghi per competitività Ue: “Rapporto autorevole, servono risorse”

L’Europa deve perseguire la strada della Sovranità tecnologica, ma per restare competitiva “servono risorse”. E soprattutto una linea, che può essere il rapporto firmato da Mario Draghi per conto della Commissione Ue: un documento che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, definisce “autorevole”.

Dal palco del Teatro Pérez Galdós, a Las Palmas de Gran Canaria, location scelta dal Re Felipe VI di Spagna, padrone di casa della 17esima edizione del Simposio Cotec, il capo dello Stato rilancia i punti salienti del documento dell’ex Bce, in cui viene sottolineato che il divario di produttività tra Unione europea, Stati Uniti e Cina “imputato principalmente al settore tecnologico. Per far comprendere quanto il nostro continente sia “debole nelle tecnologie emergenti” cita un dato, in particolare, dei vari studi condotti a Bruxelles in questi anni: “Soltanto quattro delle cinquanta aziende tecnologiche più importanti del mondo sono europee”.

Le cause sono diverse, ovviamente, ma a preoccupare principalmente è il bilancio demografico, con un invecchiamento generale che avanza e sempre meno giovani a tenere viva “la spinta al cambiamento e all’innovazione”. Serve, dunque, una inversione del sistema produttivo europeo che tenga dentro anche la sostenibilità ambientale, economica e sociale per garantire un futuro prospero e resiliente alle sfide globali come la lotta ai cambiamenti climatici.

In questo senso le istituzioni devono essere presenti, accelerando sulle misure che “consentano di promuovere la capacità industriale nei settori ad alto contenuto tecnologico” e di poter “competere a parità di condizioni”. Ergo, “si impone” – dice Mattarella – di “dar vita a ‘campioni’ europei, espressione di sovranità condivisa”. Ma con risorse adeguate, “innanzitutto per i sistemi educativi”, perché l’istruzione è il primo tassello della competitività. L’Europa, nel corso degli anni, ha dimostrato di avere tutte le carte in regole per dire la sua a livello globale, con l’Aerospazio ad esempio, ma anche con la normativa sull’Intelligenza artificiale che ci pone “in una posizione di avanguardia, di leadership a livello mondiale”. Eppure non basta, perché l’Ue “dispone di notevole potenza di calcolo e i supercomputer pubblici” in Finlandia, Italia, Spagna e Portogallo, ma “i programmi di Ia generativa più avanzati e universalmente usati, sono statunitensi”.

La riflessione gira di nuovo attorno alle risorse da mettere in campo. Draghi, nel suo report, suggerisce di raddoppiare i fondi del Piano Marshall, circa 800 miliardi di euro in più per centrare tutti gli obiettivi. Ma a Bruxelles c’è chi tira il freno, come l’alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, l’uscente Josep Borrell. Ospite del Cotec, riconosce che “il nostro ritardo a livello tecnologico è molto importante” e “l’unico modo per non perdere per sempre questo treno è investire di più”, ma sulle cifre indicate dall’ex premier italiano nutre forti dubbi: “Chi paga? – si domanda -. Noi a livello europeo in modo coordinato oppure ognuno per conto suo, magari con tasse o emettendo debito che lasceremo da pagare ai nostri pronipoti?”.

La pensa come Mattarella, invece, il presidente della Repubblica di Portogallo, Marcelo Rebelo de Sousa, assente a Las Palmas per stare vicino al suo popolo dopo gli incendi che hanno devastato un pezzo importante del territorio e ucciso cinque persone, ma che ha voluto comunque inviare un video in cui dice apertamente di vedere nelle linee guida dell’ex Bce la strada da seguire.

Le risposte, però, dovrà darle la nuova Commissione Ue di Ursula von der Leyen, sulla quale si stanno concentrando le aspettative di buona parte di Europa. Sicuramente della Spagna, come si evince dall’intervento di Felipe VI: “Nel suo nuovo mandato, l’Ue metterà l’accento sulla sicurezza economica e su come promuoverla attraverso le proprie capacità tecnologiche, le alleanze con Paesi terzi e la cooperazione tra i partner comunitari”. Perché, conclude il Re, “la voce dell’Europa meridionale deve essere ascoltata chiaramente in questa riflessione congiunta”.

Il globalismo mercatista non sa proteggere l’industria europea

L’annunciata possibile chiusura di stabilimenti di produzione della Volkswagen in Germania appare come il simbolo della crisi profonda in cui versano molti settori dell’industria europea (l’automotive è uno di questi) per troppo tempo maltrattati dalle politiche dell’Unione.

Per i tedeschi la vicenda è uno shock: sarebbe la prima volta in 87 anni di storia che il colosso automobilistico chiude una sua fabbrica in patria.

La ragione delle ventilate chiusure è, secondo l’AD di Volkswagen Olivier Blume, che “la Germania come sede di produzione di auto sta perdendo terreno in termini di competitività, e che il clima economico è diventato ancora più difficile, e nuovi operatori stanno entrando in Europa”.

Il tema della perdita di competitività dell’Europa e della sua industria, e del gigantesco gap di crescita nei confronti di altre aree economiche forti del mondo (Usa e Cina innanzitutto), si impone con brutalità nel dibattito sul futuro della nostra economia e del nostro modello sociale; e richiama i gravi errori commessi dall’Unione Europea negli ultimi 20 anni.

Abbiamo la speranza che l’Europa si interroghi con umiltà su questi errori e che cerchi realisticamente di porvi rimedio.

È di questi giorni la notizia che settori maggioritari della CDU, colpiti dalla vicenda Volkswagen e dall’esito delle elezioni in Turingia e Sassonia, chiederebbero di rivedere in sede europea la scadenza del 2035 per l’eliminazione delle auto con motore endotermico. Questo della messa al bando dei motori endotermici è un perfetto esempio dell’estremismo ideologico ambientalista che ha permeato le decisioni dell’Unione, e che è stato subìto e poco contrastato anche dalle case automobilistiche europee, che avevano una leadership a livello mondiale proprio su questo tipo di motori.

La crisi è così grave da aver indotto Ursula Von der Leyen a commissionare a Mario Draghi uno studio proprio sul recupero di competitività; studio che è stato presentato proprio in questi giorni e che, a tratti, ha accenti drammatici.

Ma del lavoro di Mario Draghi ci occuperemo nel prossimo numero di PL.

Oggi ci interessa approfondire il tema, comunque connesso alla tenuta dell’industria europea, della sua protezione tramite diverse misure compresi i dazi.

Storicamente l’Unione Europea è stata l’area del mondo più aperta al commercio internazionale, nella quale i principi di libero scambio e dell’apertura totale, così come quello della limitazione all’intervento dello Stato in economia, sono stati costitutivi dell’Unione stessa.

Da più parti, alla luce tanto della performance di crescita così modesta dell’economia europea negli ultimi venti anni quanto della conclamata crisi di interi settori industriali esposti alla competizione internazionale, si chiede oggi di rivedere quei principi ritenendoli non più adeguati alla fase che stiamo vivendo.

Il ragionamento che viene fatto è più o meno il seguente: le due grandi economie che hanno sopravanzato l’Europa in termini di crescita e innovazione nei settori di punta come IA, biotecnologie, farmaceutica ecc., cioè Stati Uniti d’America e Cina, non declinano i principi del libero scambio e del non intervento dello Stato in economia ma, al contrario, sono caratterizzate da forti politiche protezionistiche a difesa delle industrie interne (USA) e da un forte intervento dello Stato: in USA attraverso la spesa militare, in Cina attraverso le sovvenzioni gigantesche a quasi tutti i settori industriali. Se si guardano i loro risultati in termini di crescita del PIL, dell’occupazione e della leadership tecnologica questa impostazione sembrerebbe molto più efficace di quanto non siano le politiche europee di libero scambio e di non intervento dello Stato in economia.

A questa tendenza critica nei confronti dell’impostazione di politica economica e industriale dell’Unione, che ritiene sempre più necessario un cambio di passo e che guarda alle protezioni come strumenti necessari nelle condizioni date, si oppongono correnti politiche e di pensiero che sostengono e sottolineano i benefici della globalizzazione e dei mercati aperti.

Questa seconda visione si rifà alla ‘mano invisibile’ di Adam Smith (per cui l’interazione sul libero mercato degli agenti economici, ciascuno mosso soltanto dal proprio self interest, determinerebbe il massimo benessere per l’intera collettività) e alla teoria dei ‘vantaggi comparati’ di Ricardo (per cui ogni paese può trarre vantaggio dal commercio internazionale perché lo stesso favorisce a specializzazione produttiva, garantisce una maggiore produzione a livello mondiale e consente un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni) e sostiene con forza la tesi che l’Europa non debba infilarsi in una spirale protezionistica ma debba continuare ad essere il più grande presidio mondiale dell’apertura dei mercati.

Come industriale ed esponente di Confindustria, spesso mi si chiede di esprimere la mia opinione in materia, anche perché in questi anni non ho lesinato forti critiche ad un’impostazione europea che non ha messo l’industria al centro.

La mia opinione è che il tema vada affrontato con spirito pragmatico, tenendo conto delle condizioni reali in cui si trovano l’economia e l’industria europee e ricordando sempre che anche le teorie economiche sono figlie della storia e rispecchiano quindi le diverse fasi e i diversi interessi degli attori in campo.

Ovviamente per un paese esportatore come l’Italia (nel 2023 l’industria manifatturiera italiana ha fatturato 1200 miliardi di euro ed ha esportato per 670 miliardi di euro; e nei primi sei mesi del 2024 abbiamo probabilmente superato il Giappone in quanto a esportazioni) un’impostazione favorevole al commercio e agli scambi internazionali è obbligatoria. Tra l’altro essendo l’Italia un Paese senza materie prime importiamo anche moltissimi beni primari, semiprodotti e componenti, che vengono interiorizzati nei nostri manufatti. Da una chiusura dei commerci internazionali trarremmo solo danni.

Allo stesso tempo anche l’industria italiana vede interi settori di base (posso citare quello della ceramica e delle piastrelle perché è un caso emblematico) esposti alla concorrenza internazionale e fortemente danneggiati e spiazzati: dall’alto costo dell’energia che penalizza l’Europa rispetto alle altre aree del mondo concorrenti; dalle insensate modalità con cui nell’era Timmermans l’Europa ha condotto le politiche di decarbonizzazione; e dalla lentezza con cui fino ad oggi l’Unione Europea ha gestito le pratiche di antidumping e di contrasto alla concorrenza internazionale sleale.

Questi settori rischiano di scomparire non per loro inefficienza ma per condizioni al contorno penalizzanti.

Non parliamo poi di quando, come nel caso delle auto elettriche, i concorrenti (Cina innanzitutto) sono sovvenzionati dallo Stato e riescono a essere competitivi in maniera sleale perché appunto favoriti da sussidi e aiuti pubblici. La sovracapacità produttiva cinese, estesa a quasi tutti i settori dell’industria manifatturiera, e la decisione del Governo di Pechino di non rallentare mai le produzioni, neanche nei momenti di crisi, cercando sbocchi nelle esportazioni sostitutive della domanda interna che non beve, costituisce, e costituirà sempre di più in futuro, un gigantesco fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale. Il tasso di statalizzazione dell’industria cinese sta crescendo velocemente per scelta politica e quindi la competizione sarà sempre più viziata e distorta.

Se non si interviene con forti misure di protezione, ad esempio per il comparto automobilistico e per altri settori dell’industria europea, questi sono destinati a sparire in pochi anni, con tutte le conseguenze economiche e sociali del caso. Lo stesso Draghi nel suo rapporto sostiene la necessità di questa protezione.

Sempre Draghi per giustificare questo approccio di protezione di taluni settori industriali ha affermato, con efficace metafora, che in una giungla abitata da animali carnivori è difficile sopravvivere essendo erbivori.

Un’altra considerazione che mi sento di fare è quella relativa ad un quadro geo-politico in forte cambiamento all’interno del quale l’Occidente, che difende libertà e democrazia, deve fare i conti con economie e Paesi autocratici, teocratici, dittatoriali, neo-imperialisti che hanno come obiettivo la sconfitta dell’Occidente e dei suoi valori.

È il tema che va sotto il nome di de-risking, che significa che il commercio internazionale non può diventare uno strumento per mettere a rischio i livelli di sicurezza delle nostre democrazie. Ovviamente ciò vale soprattutto per le forniture militari, ma anche per l’elettronica, le biotecnologie, l’aereospazio ecc.

In questa nuova situazione dobbiamo abituarci a pensare ad aree di libero scambio tra Paesi amici, che condividono gli stessi valori e interessi, e a una maggiore cautela negli scambi con chi non perde occasione per attaccare l’Occidente.

Ciò complica ancora di più il quadro e ci fa capire come si devono usare contemporaneamente, e in misura mirata, strumenti di protezione e di apertura ai mercati calibrando attentamente il peso e la portata degli interventi. E ciò lo si deve fare senza ideologismi ma con tanto pragmatismo.

Si tratta di un esercizio difficile e sofisticato che l’Europa finora non è stata in grado di fare.

C’è un caso recente che spiega bene il concetto e mostra gli errori compiuti anche in tempi recenti dalla Commissione e la sua incapacità a capire il nuovo: durante la sua presidenza Trump introdusse un sistema di dazi a protezione dell’acciaio e dell’alluminio americani. L’UE giustamente ha protestato a lungo contro questa misura ritenendola incompatibile con le regole del Wto (l’Organizzazione del Commercio Internazionale), regole che per la verità solo l’Europa rispetta.

Il Presidente Biden, per venire incontro alle lamentele europee, ha aperto un negoziato con l’UE proponendo un’area di libero scambio fatta da Usa, Canada, Messico, UE, Corea del Sud, Giappone e Australia nella quale questi dazi su acciaio e alluminio non sarebbero più esistiti, a condizione di mantenere la protezione daziaria nei confronti della Cina.

L’Europa, per ragioni ideologiche e probabilmente per il terrore tedesco ogni volta che vengono ventilate misure nei confronti della competizione sleale della Cina, ha rifiutato la proposta di Biden, così oggi i dazi americani sull’acciaio e l’alluminio sono ancora lì, e ancora la siderurgia europea non riesce a esportare un Kg di acciaio negli Usa.

Ciò che facciamo fatica a far capire alla politica e alla tecnocrazia comunitaria, intrise di ideologia globalista e mercatista, è che i cambiamenti vanno governati e che senza attenzione all’industria e alla sua sopravvivenza ben presto anche il modello sociale europeo di cui siamo tanto orgogliosi non esisterà più. I ceti sociali più deboli, non sentendosi protetti, si rivolgono al populismo e alla protesta estrema e anche per questo le nostre democrazie saranno in pericolo.

Lo sbandamento politico di Francia e Germania deve fare riflettere al riguardo.

Il green di Draghi si sposa con le richieste di Urso e Pichetto

Nel presentare il suo rapporto sulla competitività dell’Unione, Mario Draghi ha lanciato un grido d’allarme: o l’Europa cambia e subito e senza tentennamenti, oppure è destinata a diventare marginale sul palcoscenico mondiale. Di per se stesso non è nulla di assolutamente inedito: che a Bruxelles e Strasburgo debbano modificare atteggiamenti, uscire dalla campana di vetro e mettersi al passo con i tempi (e i concorrenti: Cina, Usa, India, i Brics) lo avevano capito anche i sassi, come riuscirci invece è fardello di chi governa i vari Paesi. L’ex premier ed ex presidente della Bce ha scattato la sua fotografia della situazione e si è solo peritato di mettere fretta a chi – nei prossimi mesi – sarà chiamato a decidere che strada prendere. E’ finita la stagione dei tentennamenti e, forse, pure quella dell’ideologia estrema e della burocratizzazione.

Su tutto e sopra tutto c’è il problema dei denari: circa 750-800 miliardi di investimenti aggiuntivi annui in più rispetto a quelli pianificati per fare in maniera che la Ue non si sgonfi. E possa contare su innovazione e transizione. Nel silenzio quasi assoluto e proprio per questo assordante che è calato all’improvviso sulla questione green, Draghi ha avuto il coraggio di affrontare il tema dell’energia pulita, quindi della decarbonizzazione. Che, per l’ex presidente del Consiglio, è una opportunità da cogliere e non da gettare alle ortiche. Come? Abbassando i prezzi dell’energia di cui sopra e dando vita a un’innovazione verde che esalti il ruolo dell’economia circolare.

Numeri alla mano, dal report Draghi emergono cifre tanto grandi quanto ampiamente prevedibili perché la transizione green ha costi elevatissimi. Per le quattro maggiori industrie ad alta necessità di energia, le EII (chimica, metalli di base, minerali non metalliferi e carta), si prevede che la decarbonizzazione costerà complessivamente 500 miliardi di euro nei prossimi 15 anni, mentre per le ‘hard to abate’ del settore dei trasporti (marittimo e aereo) il fabbisogno di investimenti è di circa 100 miliardi di euro all’anno dal 2031 al 2050.

Una riflessione, quella di Draghi, che arriva il giorno dopo la richiesta avanzata dal ministro Adolfo Urso di spostare in avanti la ‘fine’ del motore endotermico (oltre il 2035) ‘spalleggiato’ dal ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, e dal ministro Gilberto Pichetto Fratin di rivedere il meccanismo relativo alle case green. Anche qui, nulla di inedito ma anche nulla che si possa ulteriormente procrastinare perché certe posizioni oltranziste del precedente esecutivo di Bruxelles ormai sembrano vecchie di secoli e andranno (andrebbero) a gravare sulle tasche dei cittadini. Ai quali verrà già chiesto in qualche modo di contribuire ai quei 750-800 miliardi in più della ‘dieta’ Draghi.

Piano Draghi: servono 800 mld annui in più. Il doppio del piano Marshall

Riforme senza precedenti, “rapide e urgenti” che tocchino tutte le istituzioni. E investimenti record, da almeno 700-800 miliardi di euro annui aggiuntivi, corrispondenti al 4,4-4,7% del Pil dell’Ue nel 2023. Per fare un paragone, il doppio del Piano Marshall, che all’epoca (1948-51) corrispondeva all’1-2% del Pil dell’Unione. E’ ciò di cui l’Europa avrebbe bisogno per rilanciarsi, secondo l’ex presidente della Bce Mario Draghi, che oggi ha consegnato a Bruxelles il suo report sulla competitività.

Le chiavi sono innovazione, decarbonizzazione e indipendenza strategica. Per raggiungere gli obiettivi indicati nella relazione, però, sarebbe necessario che la quota di investimenti dell’Ue passasse dall’attuale 22% circa del Pil al 27%, “invertendo un declino pluridecennale nella maggior parte delle grandi economie dell’Ue“, sottolinea Draghi nel dossier, ricordando che “gli investimenti produttivi non sono all’altezza di questa sfida“.

La prima delle tre grandi trasformazioni che l’Europa si trova a dover affrontare è la necessità di accelerare l’innovazione e trovare nuovi motori di crescita. In secondo luogo, il Vecchio Continente dovrà ridurre i prezzi elevati dell’energia continuando a decarbonizzare e a passare a un’economia circolare. Bisognerà infine reagire a un mondo geopoliticamente meno stabile, in cui le dipendenze si trasformano in vulnerabilità e l’Europa non può più contare sugli altri per la sua sicurezza.

Per l’ex governatore, se l’Europa non riesce a diventare più produttiva, saremo costretti a scegliere. “Non saremo in grado di diventare contemporaneamente leader nelle nuove tecnologie, faro della responsabilità climatica e attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni“.

Sono dunque circa 170 le proposte per un radicale cambiamento della strategia industriale dell’Ue. Ma non si parte da zero. L’essenziale sarà riorientare profondamente gli sforzi collettivi per colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate. “L’Europa è bloccata in una struttura industriale statica, con poche nuove imprese che si affermano per sconvolgere le industrie esistenti o sviluppare nuovi motori di crescita“, evidenzia il dossier. Le imprese dell’Ue sono specializzate in tecnologie mature in cui il potenziale di innovazione è limitato, spendono meno in ricerca e innovazione (R&I): 270 miliardi di euro in meno rispetto alle loro controparti statunitensi nel 2021. Il problema non è che “l’Europa manchi di idee o di ambizione. Abbiamo molti ricercatori e imprenditori di talento che depositano brevetti. Ma l’innovazione è bloccata nella fase successiva: non riusciamo a tradurre l’innovazione in commercializzazione e le aziende innovative che vogliono crescere in Europa sono ostacolate in ogni fase da normative incoerenti e restrittive“, è il monito.

Se la chiave della crescita sta nell’aumento della produttività, per rilanciare la competitività, tre sono le barriere che ci ostacolano. In primo luogo, l’Europa “manca di concentrazione“, sottolinea il documento. Vengono cioè definiti gli obiettivi comuni, ma non le priorità chiare o le azioni politiche congiunte. In secondo luogo, l’Europa “sta sprecando le sue risorse comuni“: “Abbiamo una grande capacità di spesa collettiva, ma la diluiamo in molteplici strumenti nazionali e comunitari“, spiega Draghi. Nell’industria della difesa manca l’unione delle forze per aiutare le aziende a integrarsi e a raggiungere una dimensione di scala, ad esempio.

In terzo luogo, l’Europa “non si coordina dove è importante“. Nel contesto dell’Ue, collegare le politiche richiede un alto grado di coordinamento tra gli sforzi nazionali e quelli dell’Unione. “Tuttavia, a causa del suo processo decisionale lento e disaggregato, l’Ue è meno in grado di produrre una risposta di questo tipo“.

Il rapporto è redatto “in un momento difficile per il nostro continente“, ammette l’ex presidente del Consiglio italiano, che invita ad “abbandonare l’illusione che solo la procrastinazione possa preservare il consenso“. Siamo arrivati al punto in cui, senza agire, “dovremo compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà“.

Draghi scuote l’Ue: “Crisi perenne, non ignorare realtà. Autoconservazione a rischio”

Per anni è stato ripetuto che il burrone era vicino, ma quando le stesse parole le pronuncia una personalità esterna alla lotta politica, l’effetto è dirompente. Mario Draghi presenta il suo rapporto sulla competitività dell’Unione, lanciando un solo, grande appello: “L’autoconservazione dell’Europa è a rischio”.

Per questo servono “almeno 750-800 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi annui”, il doppio del Piano Marshall, per coprire il fabbisogno finanziario dell’Ue e raggiungere gli obiettivi. Attualmente, infatti, gli “investimenti produttivi sono deboli nonostante l’ampio risparmio privato”. L’ex presidente della Bce parla apertamente di “lunga agonia” prima che il grande sogno di Altiero Spinelli si spenga definitivamente, considerando che “entro il 2040 ci saranno 20 milioni di persone in meno nel mercato del lavoro” e i cittadini “diventano sempre più poveri”.

Non è più tempo di contare le differenze, occorre sommare i punti di contatto: “Siamo già in modalità di crisi perenne e non riconoscerlo significa ignorare la realtà e andare verso una situazione che nessuno vuole”, esplicita meglio il senso del suo discorso e del lavoro consegnato oggi, con “170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sotto-proposte di vario tipo”.

Sui tavoli che contano a Bruxelles c’è una fotografia meticolosa, puntale e molto dettagliata di come oggi 27 economie separate non siano sufficienti a insidiare il primato degli Usa, ma anche della Cina. Ragion per cui parla della necessità di avere “una politica estera comune” anche in termini economici, dunque finanziamenti “per progetti di interesse comune o transfrontalieri in comune” per reggere agli urti dell’instabilità geopolitica e affrancarsi dalle varie dipendenze da cui, ancora oggi, l’Europa non riesce a sganciarsi. Prima tra tutte, quella per l’approvvigionamento di materie prime critiche, la base, cioè, per ogni politica industriale. Mentre oggigiorno “manca una strategia globale che copra tutte le fasi della filiera (dall’esplorazione al riciclaggio)” nel Vecchio continente. Bisogna riaprire le miniere e allentare il cordone che ci tiene legati a fornitori extra-Ue. Ovviamente, allo stesso tempo, occorre trattenere determinate produzioni su suolo europeo, anche per questioni di sicurezza.

Draghi mette in fila parole chiave sulle quali puntare dal prossimo quinquennio per rimettere sui binari della crescita il gigante europeo con i piedi d’argilla: “Innovazione, resilienza, decarbonizzazione”. Sulla transizione ecologica batte molto, anche in funzione della competizione con la Cina, che rappresenta “una minaccia allo sviluppo industriale pulito” dell’Europa. Che potrebbe – se volesse, questo è il non detto che aleggia spesso nella mattinata belga – proporre un modello differente, sicuramente più appetibile in termini di investimenti. Magari non di costi, ma alla fine il vecchio adagio resta attuale: ‘risparmio non è mai guadagno’. Non sempre, almeno.

Tutti obiettivi molto ambiziosi, ma non impossibili da raggiungere. Ci vuole una grande forza di volontà, come lascia capire proprio Draghi rispondendo alla domanda di un cronista in conferenza stampa se, dal suo punto di vista, basteranno le risorse proprie dell’Ue a finanziare tutti questi progetti: “Dipende da quanti Stati membri vogliono contribuire al Bilancio dell’Unione”. Draghi è consapevole che non basterà far da soli, dunque ecco aprirsi un altro punto caldissimo del Rapporto: serve una riforma del bilancio europeo, per renderlo più smart e mirato. A partire dalla revisione dei fondi coesione “Andrebbero forse utilizzati in maniera diversa rispetto a quanto accade oggi” indirizzandoli su “digitalizzazione, trasporti, istruzione, connettività”. Temi legati a doppio nodo con l’innovazione.

Dal rapporto Draghi sulla competitività, l’Europa avrebbe migliaia di spunti da sviluppare. Ora tocca capire da dove partire. L’unica certezza è che il tempo sta scadendo inesorabilmente, cosa di cui è consapevole anche la riconfermata presidente Ursula von der Leyen, alla quale spetta il compito di costruire una Commissione e una maggioranza in grado di tracciare una rotta. “La crescita è rallentata, non possiamo più ignorarlo”, rimarca l’ex Bce. Avvisando l’Europa che tutto questo va fatto tenendo fede alla sua natura costituente: “Garantire pienamente valori come prosperità, pace, democrazia, in un mondo sostenibile. Se non può farlo, allora l’Ue ha perso la sua ragion d’essere”.

Tridico: “In Europa serve politica industriale, tassa unica e reddito di cittadinanza”

Dice Pasquale Tridico, capolista per il Movimento 5 Stelle alle elezioni europee nella circoscrizione Sud, ex presidente dell’Inps ed economista, che qualora dovesse venire eletto al Parlamento si “trasferirà a Bruxelles”. E, aggiunge, “la famiglia sarà con me. L’impegno deve essere nelle istituzioni europee, come fanno altri parlamentari francesi o tedeschi. Invece, molti nostri parlamentari considerano il Parlamento europeo un taxi con cui tornare più forti, per creare un partito o per affari che poco c’entrano con la posizione con cui si è eletti. Questo ha allontano i cittadini italiani dal voto europeo”.

Nel pieno della campagna elettorale, Tridico espone durante un #GeaTalk quali sono gli obiettivi che si dà come uomo di punta del Movimento nella corsa al seggio europeo. Racconta, ad esempio, che “dovremmo migliorare il mercato unico europeo, perché non si regge con questo dumping. Per cui l’Unione dovrebbe iniziare a pensare a una tassa unica sul capitale”. Ma non basta: “Poi iniziamo a fare un welfare dell’Unione europea”, spiega. E, tra le altre cose, cita un reddito di cittadinanza europeo che farà drizzare le antenne all’attuale esecutivo che quello italiano, di reddito di cittadinanza, lo ha appena cancellato: “E’ quello che vogliamo portare in Europa, un reddito minimo universale che sia un dividendo sociale per tutti i cittadini europei che stanno al di sotto della soglia di povertà relativa in tutti i Paesi membri. E questo verrebbe finanziato con una nuova fiscalità, che non è nuova, ma avremmo un bilancio comune più vicino al 5 per cento in modo che gli shock dei Paesi possano essere gestiti in modo comune. Quello che manca è la gestione comune della crisi, che abbiamo visto col Covid e non con le crisi finanziarie”.

Ad ascoltare ancora Tridico, “negli ultimi decenni nel nostro Paese vedo una follia, una tendenza a fare investimenti a scarso contenuto tecnologico. Si aprono bar e ristoranti a ogni angolo di città, che non portano produttività ma sfruttano il lavoro. Potrei fare esempi di altri tipi di investimento che non hanno una responsabilità sociale, ma che al contrario sfruttano il costo del lavoro e la flessibilità per galleggiare, per fare competizione”. Non basta, l’ex presidente dell’Inps va oltre: “Noi abbiamo bisogno di investire in automotive, nella frontiera delle tecnologie, per quello c’è l’esigenza di un grande piano industriale. Stiamo facendo morire le industrie, Melfi chiude, Mirafiori chiude, Stellantis delocalizza. Negli anni ’90 producevamo 1,8 milioni di veicoli all’anno, oggi ne produciamo 900mila, e questo rappresenta il declino industriale del Paese. Se questo è sostituito da bar e ristoranti non cresceremo mai”.

Garbato ma severo, Tridico. Sul Superbonus ‘sgrida’ il ministro Giorgetti: “Il Superbonus nasce nel luglio del 2020, nel febbraio 2021 il governo Conte cade, arriva il governo Draghi col ministro Giorgetti che fa i decreti attuativi al ministero dello Sviluppo economico. Abbiamo il governo Draghi dunque e dopo il governo Meloni, con ancora il ministro Giorgetti. Cioè, il Superbonus è gestito da tre anni e mezzo dai governi Draghi e Meloni con Giorgetti ministro. Possiamo dirne bene o male, ma con certezza possiamo dire che è stato gestito da Giorgetti, che si lamenta senza mai modificarlo”. Meno garbato, ma ugualmente severo in merito al Ponte sullo Stretto considerato “non sostenibile, non economicamente efficiente , non prioritario, inutile”. Perché spiega “dal Nord della Calabria al Sud della Calabria ci vogliono cinque ore e mezzo. Non c’è Alta Velocità, non ci sono strade adeguate. Se arrivo e passo il ponte in venti minuti, cinque minuti, un minuto, cosa me ne faccio? Qual è la priorità per noi calabresi? Passare il ponte in un minuto o avere strade che ad esempio collegano Reggio Calabria con Bari?”.

Rimandata Ursula von der Leyen (“Sulla pandemia ha fatto bene, dopo mi ha deluso”), non promosso Mario Draghi (“Ha contribuito a quella governance del passato, dalla Bce e poi da premier. Sono certo che alcune cose che ha scritto si possano e si debbano fare ma non si possono fare con le stesse persone che hanno contribuito a creare quella governance”), l’euro-ricetta sta nel libro che Tridico ha scritto con un titolo emblematico ‘Governare l’economia per non essere governati dai mercati’. Sostiene l’ex numero uno dell’Inps: “Noi non siamo un Paese in via di sviluppo, non possiamo fare competizione sul lavoro, ma sull’innovazione e la tecnologia. Il lavoro deve essere ben retribuito, ben qualificato, dignitoso. Questo vuol dire governare i mercati”. Il lavoro, sottolinea, “non va considerato un mercato come il carciofo, come il pesce, ma governare i mercati vuol dire governare l’economia, attraverso regole che partono dal mercato del lavoro: il salario minimo, il reddito minimo, i tempi di lavoro, la tecnologia, lo smart working e la produttività che deriva anche dalle competenze acquisite”.

L’ultimo passaggio è sul Green Deal. Che non ha funzionato, perché “ha bisogno di essere sostenuto dagli Stati. Se pensiamo che il costo debba essere supportato da agricoltori, cittadini e aziende, vuol dire che questa transizione non solo non avverrà mai, ma creerà dei ‘perdenti’. Fondi pubblici, perché siamo a un bivio”. In fondo, il ragionamento finisce sempre lì: “In Europa abbiamo avuto una legislazione che ha vincolato, con il divieto agli aiuti di stato le politiche pubbliche. Per questo abbiamo accumulato ritardi nella transizione. Dobbiamo capire che questa transizione deve essere guidata da grandi investimenti pubblici”.

Ue, Procaccini (Fdi): “Draghi? Lo vedo meglio nel Consiglio Europeo che nella Commissione”

Non ha detto che siamo contrari, ha detto che al momento è prematuro parlarne e che al netto dell’autorevolezza di Mario Draghi bisogna vedere qual è il ruolo, anche perché ci sono ruoli più o meno politici. Il presidente della Commissione è un ruolo molto politico, molto più politico del presidente del Consiglio Europeo. In quest’ottica bisognerebbe poi vedere che tipo di politica vuole attuare Mario Draghi. La mia sensazione è che la sua figura sia più collocabile nel Consiglio europeo che non nella Commissione europea, francamente non riesco a immaginarmelo in quel ruolo”. Così Nicola Procaccini, presidente del gruppo dei Conservatori riformisti europei e responsabile del dipartimento Ambiente e energia di Fratelli d’Italia, durante #GeaTalk a proposito della posizione della premier Giorgia Meloni e del suo partito Fdi sulla possibilità che Mario Draghi prenda il posto di Ursula von der Leyen nella prossima Commissione Europea.

Il miracolo dell’industria manifatturiera italiana

Molti di noi pensano che l’industria e la sua capacità competitiva non siano state, negli ultimi anni, al centro dell’agenda europea.

L’attenzione è stata rivolta in maniera retorica e astratta alle due transizioni, quella energetica e quella digitale. Molta ideologia (soprattutto sul lato della riduzione delle emissioni di CO2) e poca pratica, ipertrofia regolatoria, indicazioni di obiettivi spesso irraggiungibili. Finalmente ci si è accorti che per ottenere i target fissati per la transizione energetica occorre un’enorme quantità di denaro che nessuno sa dove prendere. Finalmente ci si è accorti che l’industria europea ha un grave gap di competitività rispetto a quelle delle altre importanti aree economiche mondiali e Von der Leyen ha chiamato Draghi per affrontare il problema.

L’Europa è dinanzi al suo declino, demografico, economico, di innovazione e competitivo, in una situazione geopolitica estremamente difficile in cui ingenti risorse in futuro dovranno essere spese per la sicurezza e sottratte ad altri scopi.

La sfida è epocale e vedremo se gli europei sapranno fronteggiarla o se la traiettoria regressiva sarà ineluttabile.

Bisogna in questo contesto convincere l’Europa che l’industria e le imprese sono il principale strumento a disposizione per vincere questa deriva declinante perché sono il principale attore della crescita economica, dell’innovazione, dell’inclusione sociale e sono le uniche che possono trasformare gli slogan della decarbonizzazione in fatti concreti.

L’esempio dell’industria manifatturiera italiana è sotto gli occhi di tutti. La sua eccellenza e la sua performance sono il più grande contributo che l’Italia può dare ad un’Europa più forte e più competitiva.

La manifattura italiana nel 2023, già anno di rallentamento economico rispetto a quelli precedenti, ha fatto segnare risultati da record: 1.200 miliardi di euro di fatturato e 600 di export, la metà esatta del fatturato. Secondo le prime stime del Wto saremmo nel 2023 addirittura a 677 miliardi di esportazioni: una dimensione straordinaria, frutto di vantaggio competitivo puro, perché le svalutazioni della lira che aiutavano di tanto le nostre esportazioni non esistono più. Abbiamo superato per export la Corea del Sud e ci avviciniamo al Giappone e siamo ormai il quinto Paese esportatore del mondo.

Questa performance è il frutto di uno straordinario sistema industriale che non ha eguali al mondo e che in molti, dall’estero, ci ammirano e studiano. La specificità di questo sistema consiste nella sua estrema diversificazione, nell’articolazione dimensionale in cui, in filiere integrate, convivono piccole, medie e grandi aziende, in un capitalismo familiare esteso e leale nei confronti delle aziende, in un inestricabile intreccio tra imprese e territorio che fa di molti distretti industriali creature collettive volte alla ricerca, all’innovazione e allo sviluppo.

Farmaceutico, moda, meccanica, legno arredo, food e packaging sono i settori trainanti di questa performance. Nel 2022 il nostro export farmaceutico ha superato i 50 miliardi di dollari ed è quello cresciuto di più tra i grandi paesi produttori del mondo (+39%). Sempre nel 2022 il comparto moda ha esportato per 70 miliardi di euro, quello del legno-arredo per 20 miliardi di euro, quello dell’alimentare e del food per 60 miliardi di euro. Nel 2023 tutti questi settori sono ulteriormente cresciuti.

Numeri, si diceva, frutto di vantaggio competitivo puro e della creatività e dell’intensità produttiva delle nostre imprese; ma anche del grande successo del Piano Industria 4.0, grazie al quale le fabbriche italiane hanno investito massicciamente in macchinari, in  nuove tecnologie, nell’innovazione di processo e di prodotto. Ciò che colpisce è che l’innovazione non si è limitata al perimetro delle fabbriche ma si è allargata a clienti e fornitori, attraverso piattaforme digitali e logistiche sempre più efficienti. Tale efficienza nelle supply chain ha consentito al nostro sistema industriale di reagire meglio di altri alla pandemia, dimostrando che l’eccellenza del sistema industriale è anche un ingrediente fondamentale della sicurezza nazionale.

L’industria manifatturiera italiana è un gigante economico, l’asset più importante che l’Italia può mettere sul tavolo del confronto internazionale, ma non ha il peso “politico” che meriterebbe nella determinazione delle scelte a livello europeo e nazionale.

Il compito di Confindustria dovrebbe essere quello di dare voce, narrazione e visione coordinata a questa realtà. Il tema è comprendere che la partita è soprattutto, ma non solo, europea.

Tutti i settori manifatturieri italiani soffrono di politiche europee che sembrano dettate da un’ossessione mercatista volta a favorire i Paesi importatori e senza industria, concentrata solo sui diritti dei consumatori e non su quelli delle industrie e dei produttori, dimenticando che senza imprese e senza produttori anche i consumatori spariscono e vengono travolti dalla miseria.

Innumerevoli sono gli esempi che si possono fare su norme e regolamenti europei che ostacolano lo sviluppo e la crescita dell’industria manifatturiera: dai tempi estremamente più lunghi in Europa rispetto agli USA per le procedure antidumping, ai tempi al contrario più brevi in Europa rispetto agli USA sui brevetti farmaceutici (patent) con la conseguente più difficile finanziabilità della ricerca e sviluppo; dall’eccesso di normative ambientaliste sull’uso di materiali che danneggiano il comparto tessile e dell’abbigliamento e il legno arredo all’ossessione salutista e di imposizione su ciò che si può mangiare e bere e su cosa no, che paradossalmente mette nell’angolo vino e olio italiani ma consente cibi molto meno genuini; dalle norme, fortunatamente mitigate da una battaglia campale italiana, che  rischiano di distruggere la nostra industria del riciclo e del packaging, per finire con l’indifferenza  totale rispetto ai difficilissimi processi di transizione degli Hard to Abate.

C’è una comunanza di questioni di fondo che vanno affrontate in maniera coordinata, c’è la necessità di mettere a fattor comune informazioni e dati, di irrobustire la capacità di fronteggiare a Bruxelles il percorso legislativo, accompagnandolo con intensità e competenza fin dalla sua formazione; quando la norma è in bozza è già tardi, i giochi sono fatti.

C’è una necessità assoluta di dare una leadership manifatturiera all’industria italiana.

C’è in generale bisogno di cambiare la narrazione. Le imprese sono la soluzione del problema, non il problema. L’industria deve tornare al centro dell’agenda della Commissione Europea e delle politiche del Governo italiano perché senza industria l’Europa è finita, non solo economicamente, ma anche nelle sue istituzioni democratiche e sociali.

Industriali Ue incontrano Draghi: “Urge strategia su competitività, in ritardo su sfida Usa-Cina”

Nuovo passo avanti per tracciare la road map del sistema industriale europeo. L’ex premier, Mario Draghi, dopo aver ascoltato a Milano gli imprenditori i leader delle imprese del Vecchio continente, a Bruxelles ha incontrato una delegazione di BusinessEurope, guidata dal suo presidente Fredrik Persson, alla presenza del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, unico leader di una confederazione nazionale di industriali invitato al summit.

All’ex Bce, che ha ricevuto il compito dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, di stilare un rapporto sulle prospettive dell’industria del Vecchio continente, è stata sottolineata “l’urgente necessità di un approccio strategico alla competitività dell’Unione europea come sede imprenditoriale e come luogo in cui investire”, si legge in una nota di Be. Spiegando che l’incontro è servito per “fornire input al professor Draghi con l’obiettivo di sostenerlo nel suo sforzo di produrre proposte rivoluzionarie su come migliorare la competitività delle imprese”. Per Persson il settore “si trova attualmente in una situazione molto difficile” ma “abbiamo grandi aspettative dell’imminente relazione di Mario Draghi, poiché il suo importante lavoro dovrebbe portare ad azioni concrete per riportare l’economia europea in cima all’agenda e rimetterla sulla buona strada nel prossimo ciclo istituzionale”.

Positive anche le sensazioni di Bonomi dopo l’incontro con l’ex premier, durante il quale il leader di Confindustria ha sottolineato che finora “la politica europea non ha compreso l’urgenza che abbiamo sui temi della competitività”, racconta ai microfoni di Rainews. Perché “Stati Uniti e Cina ci hanno lanciato una sfida molto importante e ci sembra che l’Europea stia prendendo troppo tempo nel rispondere – aggiunge -. A Draghi abbiamo posto due temi per noi urgenti: l’energia, che costa quattro volte quella che pagano i nostri competitor americani, e la iper regolamentazione europea, su alcuni temi comprensibile mentre su altri non vediamo la necessità di perdere tempo e aumentare i costi”.

Approfondendo la questione energia, il presidente di Confindustria mette in luce che “a livello europeo abbiamo un problema di infrastrutture”, che va affrontato – ammonisce – se “riteniamo di diventare i campioni mondiali sulla sostenibilità ambientale”.

Venerdì Draghi sarà al primo seminario dell’anno della Commissione europea, che vedrà la presidente, Ursula von der Leyen, e gli altri membri del collegio riunirsi nella cittadina di Jodoigne, in Belgio, a pochi chilometri dalla capitale. Un’occasione per fare un punto sui mesi appena trascorsi e delineare le iniziative faro che la Commissione intende attuare negli ultimi prima della fine legislatura, che sarà scandita a giugno dalle elezioni europee.

Meriti e bisogni, un’alleanza liberale e riformista per l’Italia

Carlo Calenda e Matteo Renzi stanno proponendo un approccio molto nuovo per la politica italiana: delineare soluzioni analitiche e strutturate per ognuno dei problemi che il nostro Paese deve fronteggiare. Si tratta di una grande novità perché la politica italiana negli ultimi decenni è stata incatenata alla moda dei tweet, di TikTok e delle parole d’ordine urlate.

Molti commentatori tendono a rappresentare questa impostazione come ‘post ideologica’, talvolta per criticarla, talvolta per apprezzarla. In realtà, a noi non pare esserci contrapposizione tra le proposte concrete e la buona amministrazione da una parte e una ‘visione’ fondante che sostenga e sorregga la costruzione di un progetto dall’altra. Pensiamo al contrario che ci possa essere in questo approccio un pensiero profondo capace di orientare una vasta area politica, che crescerà nei prossimi mesi ed anni, rappresentata da tutti coloro che non si riconoscono più né in una sinistra astratta ed estremista a vocazione sempre più minoritaria né in una destra sovranista e populista.

Pensiamo che nell’era dei tweet e dei social che semplificano ogni ragionamento fino a banalizzarlo ci sia ancora e sempre più bisogno di un pensiero profondo capace di dominare la complessità della situazione italiana, proponendo però uno schema di gioco nuovo e non più legato agli ideologismi e schematismi di destra e sinistra.

L’Italia di oggi è un’altra Italia rispetto a quella che i profeti di sventura continuano a narrare: è un’Italia più moderna e competitiva che cresce di più degli altri Paesi; non è più il ‘fanalino di coda’ dell’Europa e anzi, con una crescita che nel biennio 2021-2022 supererà certamente il 10%, si presenta come una delle economie più dinamiche del mondo.

Una crescita dovuta alla forza di un sistema industriale manifatturiero altamente diversificato e profondamente mutato grazie, va riconosciuto, all’innovazione tecnologica consentita dal Piano Industria 4.0 del Governo Renzi e del Ministro Calenda; piano che ha consentito all’Italia, negli ultimi sette anni, di essere tra le grandi economie europee quella con il più forte aumento di produttività del settore.

Nonostante le tante profezie di sventura (ve le ricordate le previsioni di Landini della ‘macelleria sociale’ e dei milioni di disoccupati a venire, ma anche le previsioni completamente sbagliate sulla nostra crescita del Fondo Monetario Internazionale?), l’occupazione negli ultimi due anni è cresciuta di molto e non solo nel lavoro occasionale ma anche nei contratti a tempo indeterminato, e le diseguaglianze sociali, come ci conferma l’Istat, sono diminuite.

Ciò è avvenuto grazie alla forza dell’industria italiana ed alle sue straordinarie caratteristiche di diversificazione, territorialità, innovazione, bellezza e capillarità; ma è avvenuto anche per il prestigio internazionale del Governo Draghi e per la sua azione, improntata a un riformismo pragmatico e solidale che costituisce il riferimento obbligato per quella parte d’Italia che cerca una nuova via.

È nostra convinzione che il cuore della visione che quest’Italia merita, che il fulcro del ragionamento che va proposto, siano quelli della costruzione di un equilibrio virtuoso tra crescita economica ed equità sociale, tra mercato e società, tra meriti e bisogni Merito come riconoscimento della creatività, dell’impegno, del valore e dei risultati individuali; ma anche come strumento essenziale per dare risposte efficienti e inclusive ai bisogni vecchi e nuovi provenienti in particolare dagli strati più deboli della società.

Il principale riferimento culturale del ragionamento che stiamo proponendo è quello al liberalismo egualitario del filosofo americano del ’900 John Rawls, un liberalismo attento alla questione dell’uguaglianza e delle pari opportunità e per questo molto in voga negli anni ’60 e ’70 del novecento tra i democratici americani; un liberalismo il cui tratto distintivo e immancabile era un’idea di giustizia concepita come equità.

Ma è impossibile non pensare che quella riflessione fosse influenzata anche dal concetto di ‘socialismo liberale’, dottrina politica elaborata da Carlo Rosselli negli anni ’30 sempre del secolo scorso, ritenuta per molto tempo una conciliazione impossibile tra due sistemi di pensiero apparentemente incompatibili; in realtà essa fu il riferimento, nel secondo dopoguerra, dell’azione di molti governi europei e in particolare di quello laburista britannico tra il 1946 e il 1951, dove un partito socialista aveva ispirato la sua azione alle proposte di due liberali, sia pure in senso anglosassone, come Keynes e Beveridge.

Anche in Italia negli anni del centro-sinistra aveva agito una corrente socialista liberale intesa come sintesi tra il filone socialista di Pietro Nenni e Riccardo Lombardi, quello cattolico di Pasquale Saraceno e quello laico di Ugo La Malfa.

Il tema di un riformismo socialista e liberale fu poi al centro di tutta l’elaborazione del Psi negli anni di Craxi lanciata nel 1982 dalla conferenza programmatica di Rimini dal titolo ‘Governare il cambiamento’.

Perché ritorniamo ancora una volta sul tema evocato, nel lontano 1982, dell’alleanza riformista tra il merito e il bisogno e sul filone culturale del socialismo liberale o del liberalsocialismo? Perché siamo profondamente convinti che quel pensiero e quelle intuizioni contengano una straordinaria modernità e costituiscano l’unica àncora di salvezza per fare uscire le società occidentali dal vicolo cieco di un capitalismo senza inclusione e di un mercato senza equità che provocano sfiducia nella democrazia, rivolta contro le classi dirigenti, complottismi e populismi di varia natura.

I cambiamenti che ci stanno davanti e che vanno governati sono enormi:

  • Economici, perché la centralità e il dominio dell’occidente si sono progressivamente indeboliti dinanzi all’impetuosa crescita di altre aree del mondo, in primis la Cina. La globalizzazione, così benefica per lo sviluppo di nuove economie e l’emancipazione di enormi masse di popolazioni nel mondo, in Occidente ha colpito duramente le fasce sociali deboli non adeguatamente protette dagli effetti delle trasformazioni in atto;
  • Politici, perché il disorientamento provocato in occidente dalle nuove povertà e dalle nuove emarginazioni ha causato una diffusa insoddisfazione e critica nei confronti dell’establishment, contestato e messo in discussione da nuovi soggetti politici di cui Trump è stato l’emblema ma di cui vi sono stati esempi anche in Europa ;
  • Culturali, infine, perché i venti impetuosi del populismo e del sovranismo hanno generato mostri come la negazione del valore delle competenze, la strumentalizzazione della paura verso i flussi migratori e gli ‘stranieri’ in generale, la convinzione che i politici siano tutti incapaci e/o ladri. In molte situazioni il giustizialismo, con la crescita debordante di un potere distorto e abnorme della magistratura e dei pubblici ministeri, ha condizionato la politica fino a farla rinunciare a quote sempre maggiori di potere a favore dei giudici.

In altre parole, fino ad ora non si è riusciti a ‘governare il cambiamento’ come auspicavano i socialisti italiani quasi quaranta anni fa. L’immensa ricchezza generata dalla crescita dell’economia mondiale e dalla diffusione dello sviluppo in aree del mondo che non l’avevano ancora conosciuto, in Occidente non sembra aver allargato il benessere ma al contrario lo ha ristretto concentrando sempre di più la disponibilità di denaro nelle mani di pochi. Le conseguenze della globalizzazione, al contrario, hanno impoverito ceti sociali intermedi che avevano conosciuto negli anni del dopoguerra e successivi un sostanziale miglioramento delle loro condizioni di vita.

In definitiva il capitalismo occidentale molte volte non è riuscito ad essere né gentile né inclusivo. Si è trattato spesso di un capitalismo soprattutto finanziario, con logiche di ritorni molto alti e molto veloci per azionisti e manager, con stipendi e premi altissimi per i vertici delle imprese e bassi, molto bassi per impiegati e operai. Un capitalismo senz’anima e destinato al fallimento.

In questo contesto i meriti o non sono stati riconosciuti o hanno generato invidia sociale anziché ammirazione. Non si è riusciti a creare una vera situazione di pari opportunità che consentisse ai migliori di ogni strato sociale di emergere e di affermarsi, povertà nuove si sono aggiunte a quelle vecchie e moltissimi bisogni sono rimasti insoddisfatti.

Come diceva Claudio Martelli nel lontano 1982, non ci sono più, o ci sono sempre meno, gli operai alienati dalla catene di montaggio (oggi le catene di montaggio con la presenza umana non esistono praticamente più grazie ai robot). Ci sono altre figure: i reietti dalle società contemporanee non sono più soltanto i poveri in senso tradizionale, denutriti e disoccupati, bensì gli esclusi dalla conoscenza, o dagli affetti o dalla salute. Cittadini dimezzati e dimenticati, affetti da nuove forme di povertà spirituale, affettiva, culturale oltre che materiale, povertà che amplificano il dolore insito nella condizione umana e ne deprimono la volontà di riscatto.

Nel nostro Paese, bloccatosi l’ascensore sociale che aveva caratterizzato gli anni del ‘miracolo italiano’, si è avuta molto spesso la sensazione che fossero più le relazioni e le influenze, piuttosto che il merito, a garantire il successo individuale; questa contraddizione è esplosa fragorosamente con la fuga all’estero di decine di migliaia di giovani ben formati nelle nostre scuole e università ma frustrati dall’impossibilità di trovare un lavoro e un reddito consoni alla loro formazione.

E ancora: la tremenda caduta della produttività in Italia nel settore pubblico e dei servizi è frutto anche della mancata modernizzazione del Paese, delle riforme che non si sono fatte e delle rigidità del mercato del lavoro, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, dove le politiche sindacali sono state sempre pervicacemente contrarie a formule contrattuali capaci di premiare il merito, la qualità del lavoro svolto, la dedizione e la lealtà al servizio. Un egualitarismo senza merito che ha spinto verso il basso le performance pubbliche del Paese e in forza del quale il riconoscimento dei bisogni è diventato assistenzialismo.

Oggi l’Italia, forte della straordinaria performance della sua economia e della sua industria nel post-covid, e dell’importante processo di riforme avviate dal Governo Draghi è in grado di essere il luogo dove si possono coniugare crescita e inclusione sociale richiamando la cultura dei diritti ma anche quella dei doveri, premiando una via che non mortifichi i talenti, la creatività, le energie individuali e imprenditoriali, ma al contrario le valorizzi per risolvere i problemi di tutti.

Per fare tutto ciò occorre una visione e una leadership. Non può esistere una leadership senza visione, ma una visione è impossibile senza un solido radicamento ai valori-guida. Un’alleanza riformista e liberale tra meriti e bisogni potrebbe il potente motore che finalmente porta a compimento la modernizzazione del Paese. Nenni diceva che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Chi potrebbero essere i protagonisti di questa alleanza riformista per la rinascita del Paese?

Tutti coloro i quali, sia in maggioranza che all’opposizione, si ispirano ad una cultura riformista e liberale e che devono avere la forza di superare divisioni e personalismi creando una grande aggregazione politica e riempiendo quello spazio che sarà una prateria quando finirà la fiera delle balle e quando gli italiani si saranno riavuti dall’ubriacatura dell’uno vale uno, dei no vax, del no alle grandi opere, della decrescita felice, di un ambientalismo estremista, triste ed inutile.

Lasciateci dire, da imprenditori e uomini di azienda, che le imprese, veri attori delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, possono essere luoghi privilegiati per la costruzione di questa alleanza. Le imprese virtuose misurano il valore di questa visione tutti i giorni e costruiscono dal basso il futuro di un capitalismo gentile e inclusivo.

Molti di noi hanno sempre avuto nel modello di Adriano Olivetti il punto di riferimento. Un modello oggi, dopo più di settanta anni, riscoperto da molte imprese soprattutto al nord.

Al centro di questo modello c’è la consapevolezza che il capitale umano è la più grande ricchezza di cui le imprese dispongono; che bisogna migliorare continuamente il welfare aziendale; che bisogna consentire con opportuni interventi la migliore parità tra uomini e donne, consentendo a queste ultime di rendere compatibile famiglia e lavoro, anche con la realizzazione di asili nido interni alle aziende per favorire la maternità; che bisogna realizzare spazi sempre più belli e accoglienti dove la gente lavora; che bisogna intensificare le attività di formazione permanente dei lavoratori, aumentare le borse di studio e i supporti all’educazione dei loro figli; che bisogna lavorare per meccanismi retributivi sempre più incentivanti il merito, la creatività e l’impegno e la partecipazione dei dipendenti agli utili delle imprese.

La dimensione piccola e media e la natura molto spesso di proprietà familiare delle nostre imprese posizionano bene il nostro sistema imprenditoriale rispetto ad un approccio rispettoso e inclusivo dell’attività aziendale, che è normalmente permeata da un fitto sistema di scambi e relazioni positive e virtuose con le persone che lavorano nell’impresa e che spesso la sentono come loro.

Moltissimi imprenditori italiani pensano che non vi sia meccanismo più inclusivo dell’impresa stessa, quando è capace di creare contemporaneamente ricchezza e occupazione qualificata e di investire continuamente in idee, innovazione e tecnologia per garantire un futuro sostenibile di lungo periodo. Quando è capace di dar vita all’alleanza virtuosa tra meriti e bisogni, mettendo i primi a disposizione dei secondi e cercando che questa alleanza non si limiti soltanto all’interno dell’impresa stessa ma giochi anche al suo esterno interpretando correttamente il concetto di responsabilità sociale.