Transizione energetica, correggere il tiro prima che sia troppo tardi

Il dibattito politico ed economico internazionale è segnato da tempo dal tema della ‘transizione energetica’, ma gli ultimi diciotto mesi hanno mostrato chiaramente come questo obiettivo sia molto più sfidante e complesso di quello che si poteva immaginare. Da molte parti, senza mettere in questione l’obiettivo della decarbonizzazione che tutti condividono, si sottolinea che esso va perseguito con razionalità e pragmatismo, abbandonando visioni estremiste e unilaterali che hanno messo in secondo piano problemi importantissimi come la sicurezza energetica e la disponibilità di materie prime necessarie per la transizione.

Anche negli Usa e in Europa, aree nelle quali sono state adottate misure imponenti per perseguire l’obiettivo della transizione e della decarbonizzazione (come ad esempio l’Inflation Reduction Act negli Usa e il RePowerEu in Europa), lo sviluppo, la diffusione e la crescita delle nuove tecnologie su cui si basa la transizione avverrà in un tempo molto più lungo di quello inizialmente previsto. E ciò perché le economie sviluppate non sono in grado di passare in pochi anni da un modello economico basato sugli idrocarburi ad un altro basato esclusivamente sulle energie rinnovabili.

E la recente crisi energetica causata dall’aggressione russa dell’Ucraina lo ha mostrato con chiarezza. Il mondo, ad esempio, sta usando oggi tre volte più carbone di quanto ne usasse dieci anni fa, e nel 2022 si è raggiunto il record storico nel consumo di questa fonte di energia. Ciò si deve certamente alla crescita dei fabbisogni energetici di molti Paesi del mondo in via di sviluppo che hanno trovato nel carbone la fonte più conveniente, ma anche al fatto che molti paesi europei, Germania e Italia in testa, che avevano deciso di chiudere le loro centrali elettriche a carbone, hanno dovuto fare marcia indietro per fronteggiare la mancanza di gas e l’esplosione dei prezzi energetici causati dalla guerra.

Alla luce di ciò è lecito porsi la domanda: ma perché le famiglie e le imprese europee, che sono responsabili di non più del 9% delle emissioni mondiali di CO2, devono essere quelle che sopportano di più il peso della transizione? Se per ipotesi tutte le industrie europee, che sono responsabili di meno del 4% di tutte le emissioni mondiali di CO2, chiudessero i battenti contemporaneamente, l’effetto sulle emissioni mondiali e quindi sulla causa primaria del climate change sarebbe insignificante.

In un interessante paper del 2021 del Peterson Institute for International Economics un importante economista francese, Jean Pisani-Ferry, ha affermato che muoversi troppo rapidamente verso l’obiettivo di emissioni zero potrebbe provocare una drammatica crisi dell’offerta industriale, ancora più grave di quella creata dallo shock energetico dell’inizio degli anni 70 conseguente alla  guerra arabo-israeliana. L’economista mette in guardia dal fatto che un processo di transizione energetica precipitoso potrebbe provocare disastri, e sollecita i policy makers a rendersene conto e ad assumere le decisioni adeguate.

Quali sono i fatti nuovi che hanno cambiato così radicalmente la prospettiva? Innanzitutto la sicurezza energetica, come detto, è tornata ad essere la priorità. E la sicurezza energetica è fatta di disponibilità di fonti e di prezzi ragionevoli dell’energia. Il Presidente degli Usa Biden ad esempio, benché sia molto concentrato sugli obiettivi della transizione, nel corso dell’ultimo anno ha sollecitato le compagnie petrolifere nazionali a incrementare la produzione, così da aumentare le Strategic Petroleum Reserve come non era mai avvenuto con le precedenti Amministrazioni.

I verdi tedeschi al governo della Germania hanno spinto moltissimo per aumentare la capacità di impianti di rigassificazione del Paese, così da incrementare significativamente le importazioni di LNG (gas naturale liquido) dagli Stati Uniti. E in non più di 200 giorni la Germania è stata capace di dotarsi di nuovi rigassificatori galleggianti come quelli che dobbiamo fare anche in Italia, ma che sono in ritardo a Piombino per l’opposizione del Sindaco, che proviene dalle fila del partito del Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

La seconda questione riguarda la dimensione del problema. Oggi 100 trilioni di dollari Usa (centomila miliardi di dollari!) dell’economia mondiale dipendono da più dell’80% di approvvigionamento energetico da idrocarburi, e nulla come un così gigantesco e complesso sistema energetico mondiale può essere rapidamente e facilmente cambiato. In un interessante volume fresco di stampa, ‘How The World Really Works’, di uno studioso di economia dell’energia, Vaclav Smil, si sottolinea come i quattro pilastri della moderna civilizzazione – cemento, acciaio, plastica e ammonio (per i fertilizzanti) – siano ciascuno fortemente dipendente dall’attuale sistema energetico.

C’è poi un terzo punto fondamentale: la divisione tra Nord Sud del mondo. Nell’emisfero Nord del mondo, in particolare Stati Uniti d’America e Europa, il tema del climate change è al primo posto dell’agenda politica. Ma nell’emisfero Sud questa priorità coesiste con altre priorità come la promozione della crescita economica, la riduzione della povertà e il miglioramento della qualità della vita e della salute con la riduzione della combustione di legno e rifiuti attraverso un uso più intenso del gas naturale.

Questa divisione è stata plasticamente rappresentata lo scorso anno da un voto di denuncia e censura del Parlamento Europeo (di cui i media a dire il vero hanno parlato assai poco) relativo alla costruzione di una nuova pipeline per il gas dall’Uganda attraverso la Tanzania fino all’Oceano Indiano.

Il Parlamento Europeo ha stigmatizzato e condannato la realizzazione di questa infrastruttura perché il progetto poteva avere aspetti negativi per il clima, l’ambiente e ‘i diritti umani’. Nello stesso tempo lo stesso Parlamento dava il suo voto favorevole per un’infrastruttura analoga tra la Francia e il Belgio, paesi nei quali il reddito pro-capite è rispettivamente 50 e 60 volte maggiore di quello dell’Uganda, dove la nuova pipeline è vista come un fattore determinante per lo sviluppo del Paese. La risoluzione europea ha provocato in Africa reazioni furiose. Lo speaker del parlamento dell’Uganda ha denunciato l’atteggiamento europeo come il migliore esempio “dell’alto livello di neocolonialismo e di imperialismo contro la sovranità dell’Uganda e della Tanzania”.

Il quarto nodo è rappresentato dai fabbisogni di nuovi materiali per la transizione. L’elettrificazione dei sistemi energetici, industriali e di trasporto alla base della transizione richiede un’enormità di nuove materie prime: rame, cobalto, nickel, litio e terre rare, che possono essere reperite soltanto con nuove e intensive attività minerarie enormemente energivore. Si pone il serio problema dell’aumento esponenziale della loro produzione, che se si guardano i numeri è stato giustamente definito sconvolgente: entro il 2040 la produzione di nickel dovrà crescere di 41 volte, quella di cobalto 21 volte, quella di rame di 28 volte e quella di graffite di 28 volte. Perché un così grande consumo di queste materie prime? Semplice: in termini di chilogrammi di minerali necessari per la produzione di un megawatt di energia elettrica gli impianti eolici offshore ne richiedono 16 tonnellate, il solare fotovoltaico 6,8, quando una centrale turbogas chiede appena 1,1 tonnellate. Le energie convenzionali compreso il nucleare sembrano tutte essere assai meno consumatrici di minerali di quanto non siano le fonti rinnovabili (naturalmente solo per la costruzione degli impianti).

E con riferimento all’offerta? Scrive Marcello Minenna su ‘Il Sole 24 Ore’ di domenica scorsa: “…al ritmo attuale di estrazione e considerati i progetti di espansione della produzione già avviati, la domanda globale di rame supererà l’offerta già nel 2025. Non solo. Senza un nuovo piano aggressivo di incremento della capacità produttiva (che vuol dire nuovi giganteschi investimenti minerari) l’offerta comincerà a declinare a partire dal 2024, amplificando il gap con le necessità dell’economia globale. Stesso destino è previsto per il cobalto, con la domanda che supererà l’offerta nel 2024 e nel 2030 dovrebbe essere 2,5 volte maggiore della capacità produttiva globale, prevista sostanzialmente stabile. Per il litio nel 2030 senza uno sforzo senza precedenti per espandere l’estrazione il fabbisogno globale sarebbe 2,5 volte l’offerta”.

Tutto ciò significa come detto nuovi giganteschi investimenti minerari, con altissimi consumi di energia connessi, che la cultura ambientalista vede come il fumo negli occhi. Senza contare che tali fabbisogni sono destinati a creare nuove influenze geo-politiche e nuove dipendenze in particolare a favore della Cina. L’industria chimica cinese raffina il 40% del rame, il 35% del nickel, il 65% del cobalto e il 58% del litio prodotti a livello mondiale. Sulle terre rare si può parlare di monopolio cinese non solo nella produzione ma anche nella raffinazione. Quanto detto dimostra ancora una volta che un approccio ideologico e dogmatico alla transizione energetica rischia di provocare disastri economici e sociali alle economie dell’occidente. Occorre al contrario perseguire la via della neutralità tecnologica, che significa non privilegiare solo le fonti rinnovabili e l’elettrificazione ma anche le altre tecnologie che conducono alla decarbonizzazione di processi, e prodotti  come il nucleare di nuova generazione, i biocombustibili e il biogas, le tecnologie di cattura, stoccaggio e utilizzo delle CO2.

La politica deve prendere nota di queste contraddizioni e correggere il tiro sui metodi e sui tempi della transizione energetica prima che sia troppo tardi.

Energia, Meloni: “Adesso Roma può diventare porta del gas in Europa”

L’Italia ha un’occasione. E Giorgia Meloni, quell’occasione, promette di “giocarsela tutta“. L’Europa ha un problema legato all’energia: non può più guardare a Est, deve guardare a Sud. L’Italia deve sfruttare la sua posizione nel Mediterraneo.

Il progetto di Italia hub del Mediterraneo va avanti. La premier presenterà il suo Piano Mattei per l’Africa anche domani, nel suo viaggio di due tappe in un solo giorno, a Stoccolma prima, a Berlino poi. In Europa, rivendica, “ci vado senza cappello in mano”. In Svezia e Germania porterà le istanze italiane sulla difesa dei confini d’Europa e sul contrasto all’Inflation reduction act americano, sostenendo le imprese.

La situazione energetica è difficile perché il Vecchio Continente ha deciso di dipendere, quasi esclusivamente, da un unico attore, la Russia. “Qualcuno lo diceva da prima che andava fatta attenzione, ma questa è la ragione per cui sto spendendo molto tempo all’estero, ad esempio nel Nordafrica“, puntualizza la presidente del Consiglio. La sfida è diversificare le fonti dalle quali si prende l’energia come dimostrano “gli accordi fatti con l’Algeria o con la Libia”, spiega. L’Italia può diventare non solo “autonoma e forte”, ma anche la porta attraverso la quale passare per avere il gas in Europa.

In casa, la premier raccoglie i frutti della battaglia sul price cap, perché il prezzo del gas si è abbassato (è notizia è che il calo certificato da Arera si attesta al 34,2%) , le bollette sono in caduta. Abbattere i prezzi dell’energia era un “impegno” ed è “dove abbiamo investito la stragrande maggioranza delle nostre risorse, ampliando abbastanza rispetto a quello che era stato fatto in precedenza”. Per me “è molto importante che abbiamo allargato molto la platea delle famiglie che potevano accedere al sostegno del governo per vedere le bollette scendere”, fa sapere.

Inflazione giù per calo energia, frena anche il carrello della spesa

Rallenta ufficialmente l’inflazione in Italia. A gennaio l’incremento annuale del carovita è solo del 10,1%, in linea con le stime, rispetto al +11,6% di dicembre. Il carrello della spesa inoltre frena a +10,9% dal +12,3% di un anno fa. A livello mensile tuttavia si registra un altro +0,2%, contro attese di un +0,1%, ma dopo il +0,3% dell’ultimo mese del 2022. “La netta attenuazione – che torna allo stesso identico livello del settembre 1984 – è spiegata in primo luogo dall’inversione di tendenza dei beni energetici regolamentati (-10,9% su base annua). Rimangono tuttavia diffuse le tensioni sui prezzi al consumo di diverse categorie di prodotti – spiega l’Istat -, quali gli alimentari lavorati, gli altri beni (durevoli e non durevoli) e i servizi dell’abitazione, che contribuiscono alla lieve accelerazione della componente di fondo. Si accentua inoltre a gennaio, la dinamica tendenziale dei prezzi dei carburanti”.

In effetti, se si va a scavare dentro i dati emergono alcune tendenze non del tutto rassicuranti: l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca), il cosiddetto carrello della spesa, diminuisce dell’1,3% su base mensile, a causa dell’avvio dei saldi invernali dell’abbigliamento; l’“inflazione di fondo”, quella al netto degli energetici e degli alimentari freschi, sale a gennaio da +5,8% del mese precedente a +6%, mentre quella al netto dei soli beni energetici rimane stabile a +6,2%; si attenua la dinamica tendenziale dei prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona che registrano un rallentamento su base tendenziale (da +12,6% a +12,2%), mentre al contrario si accentua quella dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +8,5% a +9,0%).

Analizzando il confronto mese su mese, il forte rallentamento dei prezzi dei beni è imputabile ai prezzi dei beni energetici (la cui variazione congiunturale è negativa per un 3,8%) e, in particolare, a quelli della componente regolamentata (-24,7% sul mese). Più in dettaglio, i prezzi dell’energia elettrica mercato tutelato evidenziano un nettissimo rallentamento (-18,0% da dicembre), a cui si aggiunge quello dei prezzi del gas di città e gas naturale sempre nel mercato tutelato (-33,3%). In rallentamento, anche se con variazioni più contenute, i prezzi dei Beni energetici non regolamentati (+0,7% sul mese), grazie ai prezzi dell’energia elettrica mercato libero (-9,6% da dicembre), del gas di città e gas naturale mercato libero (+2,7% il congiunturale), del gasolio per riscaldamento (-0,9% sul mese). In accelerazione invece sono i prezzi del gasolio per mezzi di trasporto (+4,6% il congiunturale) e quelli della benzina (che invertono la tendenza, +5,8% sul mese) dopo l’eliminazione dell’ultimo sconto sulle accise. I prezzi dei beni alimentari, mese su mese, salgono dell’1,2%: gli alimentari non lavorati crescono dello 0,6% rispetto a dicembre, -1,1% per i prezzi dei vegetali freschi o refrigerati diversi dalle patate,mentre accelerano frutta fresca o refrigerata, +1,6% congiunturale. Andamenti in accelerazione si osservano anche per gli alimentari lavorati (+1,5 su base mensile) e dei beni non durevoli (+0,8% il congiunturale).

Salgono anche i prezzi dei servizi (+0,4% su base mensile): da un lato accelerano i prezzi dei servizi relativi all’abitazione (+1,6% da dicembre) per effetto dei prezzi dei servizi per la pulizia e la manutenzione della casa (+5,6% sul mese), dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (+0,4% la variazione congiunturale), di alberghi e motel (+0,7% rispetto al mese precedente). Unica voce, relativa ai servizi in calo, è quella dei pacchetti vacanza: -2,9% da dicembre. Anche in Europa il carovita ufficialmente scende, più delle attese, grazie al crollo dei costi energetici. Il tasso di inflazione annuo nell’Eurozona cala al minimo di otto mesi dell’8,5% a gennaio dal +9,2% di dicembre, al di sotto delle previsioni del 9%. I dati per l’inflazione in Germania non sono disponibili, poiché l’ufficio statistico tedesco ha dovuto ritardare il rilascio delle proprie cifre a causa di problemi tecnici con l’elaborazione dei dati. L’inflazione rallenta, oltre che in Italia, anche in Irlanda e Paesi Bassi, ma aumenta annualmente in Spagna e Francia. Tuttavia l’inflazione core – che esclude i prezzi di energia, cibo, alcol e tabacco – è stabile al 5,2%, aggiungendo un’ulteriore prova che le pressioni sui prezzi sono rimaste elevate. Rispetto all’ultimo mese del 2022 i prezzi al consumo diminuiscono dello 0,4%, come a dicembre, guidati da un calo dello 0,9% del costo dell’energia.

Vino, a Bruxelles va in scena il ‘fiasco della discordia’ dell’Irlanda

L’Irlanda, in Europa, mostra il ‘fiasco della discordia‘. La decisione di inserire in etichetta anche sui vini indicazioni di rischio per la salute, col beneplacito della Commissione Ue ma non dell’Europarlamento, ha fatto saltare sulla sedia l’Italia per prima. Ora però anche Francia e Spagna, altri due grandi produttori, sentono la minaccia della scure sulle esportazioni e si allineano a Roma.

Abbiamo predisposto un documento di lavoro che verrà sottoscritto anche da altre nazioni”, fa sapere Francesco Lollobrigida da Bruxelles, dove incontra l’omologo irlandese in occasione dell’Agrifish. Discute della questione anche con i ministri di Grecia e Portogallo, per avere una posizione comune che sia sempre più “tesa a informare correttamente, senza danneggiare le produzioni guardando a un aspetto solo della produzione”. All’irlandese Charlie McConalogue, Lollobrigida regala una bottiglia di vino italiano: “Ho avuto modo di riscontrare che non c’è ostilità da parte dell’Irlanda nei nostri confronti, che capisce cosa significa il vino per noi e il vino in generale“, racconta a margine dell’incontro. “Abbiamo avuto modo di spiegare le nostre ragioni su quello che deve essere un sistema di informazione corretto da fornire ai cittadini in cui spiegare che gli eccessi di alcol – sostiene -, come di qualsiasi cosa, portano danni ma che non devono essere confusi e diventare uno stigma per alcune produzioni che, se assunte in maniera moderata e con parsimonia, possono essere fattori di benessere”.

Quello che chiede Roma è un’etichetta che non specifichi ‘il vino danneggia la salute’ ma, ribadisce il ministro: “Un’etichetta che specifica sia quello che il vino fa, eventualmente, in termini di danni, se bevuto in eccesso, e anche quello che fa di positivo“. Esattamente come accade, afferma, “per il bugiardino dei medicinali“. E’ la differenza che corre “tra uno stigma e un’etichetta che informa in maniera più idonea la persona“.

Per spiegare le proprie ragioni, il Parlamento italiano ha iniziato le audizioni in commissione Agricoltura alla Camera. Le associazioni di categoria sono tutte sul piede di guerra e stigmatizzano il comportamento della Commissione europea: “E’ grave la mancanza di reazione, la riteniamo inaccettabile”, tuona Confagricoltura, che lamenta un “ostacolo al commercio interno” e “un precedente, che possiamo definire inquietante“. Si valuterà quindi un ricorso alla corte di Giustizia con l’organizzazione mondiale del commercio. “E’ importante coordinarsi con gli altri Stati per prendere una decisione contro i comportamenti unilaterali che vanno a compromettere il mercato unico“, precisa la responsabile del Settore vitivinicolo e olivicolo, Palma Esposito. “Attaccando il Vino, esempio emblematico di qualità, si attacca la distintività e qualità del nostro settore agroalimentare“, le fa eco Luigi Scordamaglia, di Coldiretti. L’approccio adottato dalla Commissione è “incomprensibile e strabico“, scandisce, perché che “da un lato si attacca il vino e dall’altra non ci sono indicazioni specifiche sui prodotti iper-processati. Si usano due pesi e due misure e si avvalla questo attacco e tentativo di omologare l’alimentazione e i prodotti di qualità“.

Il professore Mariano Bizzarri, patologo clinico alla Sapienza di Roma, porta ai deputati studi del proprio laboratorio e articoli internazionali che attribuiscono al vino “valore nutraceutico“, non solo nutritivo, ma anche curativo: “Fornisce all’organismo energia, vitamine, elementi essenziali e questo non può essere messo in discussione“, afferma. Un’assunzione regolare e moderata, ricorda, “svolge un ruolo importante nell’ambito della prevenzione di patologie croniche e degenerative, le patologie cardiovascolari, le patologie legate alle capacità cognitive e della memoria, nel trattamento delle patologie metaboliche come il diabete e infine nell’ambito dei tumori“. Nel dettaglio, “riduce il rischio di morte cardiaca del 40%” e “nei forti fumatori, l’uso moderato riduce l’incidenza del tumore al polmone del 60%“. “E’ utile come terapia anticancro – assicura il professore -. Abbiamo dimostrato che in base alla concentrazione dei diversi cultivar rispetto al controllo la capacità di proliferare del tumore si riduce in funzione delle concentrazioni delle componenti del Vino. Per concentrazioni elevate la crescita va a zero“. Parla persino della ‘ebbrezza dei due bicchieri nel lavoro’: “Una quantità moderata di vino amplifica le capacità di connessioni e di lavoro del cervello“. Ma per capire questo, ricorda, “bastava leggere Baudelaire o Sartre“.

 

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L’Italia leader del riciclo rifiuti in Europa: è il Paese più virtuoso

E’ un primato tutto italiano quello sul riciclo di rifiuti. Dal 1997 – anno in cui è cominciata la riforma del settore – a oggi il nostro Paese ha fatto un enorme balzo in avanti, tanto da diventare il primo in Europa per la percentuale di rifiuti riciclati che, nel 2020, ha raggiunto il 72%. Un dato decisamente superiore alla media europea, che è appena del 52%, e che fa segnare un grande distacco anche dalla Germania (55%), dalla Spagna (49%), dalla Francia (48%) e dalla Polonia (27%). E’ quanto emerge dal Rapporto ‘Il Riciclo in Italia 2022’, realizzato dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile e presentato in occasione della Conferenza Nazionale dell’Industria del Riciclo.
Nel 1997 la raccolta differenziata dei rifiuti urbani era solo del 9,4% e l’80% della spazzatura finiva in discarica. I dati oggi sono decisamente positivi anche sul fronte dei rifiuti industriali: 25 anni fa se ne riciclava il 21% e il 33% era destinato alla discarica, mentre nel 2020 il recupero è salito al 70% e lo smaltimento in discarica è sceso al 6%. Anche per la gestione dei rifiuti d’imballaggio l’Italia è un’eccellenza europea, con più di 10,5 milioni di tonnellate avviate a riciclo, con un tasso pari al 73,3% nel 2021, superiore non solo al target europeo del 65% al 2025 ma, con 9 anni di anticipo, anche al target europeo del 70% al 2030.
Questo cambiamento nella gestione di rifiuti, spiega il rapporto, “ha alimentato la crescita dell’industria italiana del riciclo, diventata un comparto rilevante e strategico del sistema produttivo nazionale” che conta 4.800 imprese, 236.365 occupati, genera un valore aggiunto di 10,5 miliardi (aumentato del 31% dal 2010 al 2020) e che produce ingenti quantità di materiali riciclati. Si tratta di 12milioni e 287 mila tonnellate di metalli, in gran parte acciaio, di 5 milioni e 213 mila tonnellate di carta e cartone, di 2 milioni 287 mila tonnellate di pannelli di legno truciolare. E, ancora, di 2 milioni e 229 mila tonnellate di vetro riciclato, di un milione e 734 mila tonnellate di compost e 972 mila tonnellata di plastica riciclata. Nel complesso la produzione di materiale riciclato è aumentata del 13,3% tra il 2014 e il 2020.
Il settore del riciclo, pilastro fondamentale di un’economia circolare – spiega Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – è strategico per non sprecare risorse preziose, per non riempire il Paese di discariche, per recuperare materiali utili all’economia e ridurre le emissioni di gas serra”. Per questo, è il suo ragionamento, in un momento di congiuntura economica negativa “servono misure incisive per rafforzare la domanda di MPS, le materie prime seconde prodotte col riciclo e interventi strutturali per affrontare il forte aumento dei costi dell’energia che per l’industria del riciclo costituiscono la quota maggiore dei costi di produzione”.

Meloni spinge sul price cap al gas: Ue verso “accordo pieno e positivo”

Un accordo “pieno e positivo” sul price cap al gas. Usa proprio questi due aggettivi il ministro per gli Affari europei con delega al Pnrr, Raffaele Fitto, per spiegare le sensazioni del governo italiano sul prossimo Consiglio energia, che dovrà fare un passo avanti decisivo sulla misura attesa ormai da mesi per mitigare gli effetti dei rincari. “Ci sono dettagli tecnici che potrebbero essere risolutivi“, si limita a dire per spiegare che mancano le classiche limature, su cui lavoreranno i ministri competenti e i tecnici nel prossimo fine settimana.

Del resto la premier, Giorgia Meloni, lo aveva detto chiaro e tondo nelle comunicazioni alle Camere prima del Consiglio europeo che avrebbe sollevato il tema, visto che dal Consiglio energia di inizio settimana non sono arrivate “novità sostanziali“. Anzi, in un passaggio più articolato aveva riferito che non c’era “nessuna novità apprezzabile“: giudizio che fa il paio con l’insoddisfazione della precedente proposta avanzata dalla Commissione Ue. La presidente del Consiglio ha sempre sostenuto la necessità che l’Europa si dotasse di un tetto massimo al prezzo del gas, per mettere un freno all’azione degli speculatori. E prima di volare a Bruxelles lo ha ribadito chiaro e tondo: “Credo che si tratti di un errore l’incapacità di trovare una soluzione efficace in tempi rapidi sulla vicenda energetica, perché c’è in ballo la tenuta del nostro sistema produttivo, delle nostre aziende, delle nostre famiglie. Ma c’è in ballo anche la capacità dell’Ue di agire come attore politico nel contesto internazionale“.

Ecco perché ieri al tavolo con gli altri leader Ue ha chiesto un soluzione rapida al problema del caro-energia. Da quanto è trapelato, Meloni avrebbe insistito per un meccanismo di riduzione del prezzo del gas, rilanciando impegno e dibattito sul price cap. Inoltre, avrebbe fatto notare ai partner europei come il tempo perso nel trovare un’intesa sul meccanismo di riduzione del prezzo sia in realtà in contraddizione rispetto alla discussione sulla competitività dell’industria europea nei confronti degli altri concorrenti globali, sollevando anche nel consesso continentale le critiche all’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti.

In attesa che Bruxelles muova le sue mosse, la premier continua a tessere la tela delle relazioni internazionali. Con il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, ha avuto un “cordiale e fruttuoso incontro” per “confermare la stretta cooperazione tra Italia e Grecia sui temi al centro dell’agenda europea e internazionale, con particolare attenzione al Mediterraneo“. Non solo, perché Meloni rilancia sui social la foto assieme ai primi ministri di Repubblica Ceca e Polonia, Petr Fiala e Mateusz Morawiecki, scrivendo di aver “degli ultimi sviluppi riguardo l’aggressione russa all’Ucraina e della questione energetica. Lavoriamo insieme per affrontare le difficili sfide globali e costruire un futuro di pace e sicurezza“. L’idea di creare un nuovo ‘Piano Mattei’ e fare del nostro Paese l’hub di approvvigionamento energetico dell’Europa, insomma, inizia a prendere corpo.

Ecco perché nel 2023 il prezzo del gas tornerà a essere ‘normale’

Fare previsioni economiche affidabili con una guerra in corso è un arduo esercizio. E quindi il lettore mi perdonerà se farò ragionamenti un po’ generali e tendenziali, se parlerò di sentiment piuttosto che di numeri, sfruttando impressioni e sensazioni che mi vengono dall’osservatorio privilegiato rappresentato dal grande gruppo internazionale in cui opero, attivo in tre settori: energia, siderurgia e shipping. Si tratta di tre aree di business tipicamente legate ai trend macroeconomici e ai cicli dell’economia che spesso anticipano gli andamenti più generali.

Dopo il 2021 e il 2022, che sono stati anni di rilancio delle economie mondiali post-Covid segnati da tassi di crescita particolarmente elevati un po’ ovunque, e da un gigantesco ‘effetto molla’ che ha creato non pochi problemi di squilibrio tra domanda e offerta, la situazione sta rapidamente cambiando. Quali sono i fatti che stanno condizionando l’andamento economico della fine di questo anno e che condizioneranno il 2023?

Gli impulsi inflazionistici (soprattutto inflazione da costi delle materie prime e da scarsità di tutti i componenti elettronici) registrati nel 2021 e 2022 e causati dallo squilibrio temporale tra domanda e offerta conseguente alla violenta ripresa post pandemica delle economie mondiali, hanno provocato un rialzo dei tassi di interesse in tutto il mondo.

In Europa questi impulsi inflazionistici sono stati drammatizzati dalle conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina e in particolare dalla crisi energetica provocata dalla progressiva riduzione delle forniture di gas russo al nostro continente.

Le banche centrali, americana e europea, hanno reagito alla situazione provocando appunto il rialzo dei tassi di interesse e così ci siamo trovati in una situazione che non conoscevamo da tanto tempo: inflazione a due cifre (negli Usa si è parlato di una fiammata inflattiva che ha raggiunto il 15%, in Europa siamo intorno al 10%) e un costo del denaro che improvvisamente è tornato a crescere anche perché le banche, costrette per decenni a margini di intermediazione bassissimi, ne hanno un po’ approfittato per ricostruire la redditività perduta. Al riguardo è sufficiente guardare i profitti che le banche hanno fatto negli ultimi semestri.

È chiaro che una situazione del genere, aggravata come detto in Europa dalla crisi energetica, non favorisce la crescita. In molti si attendono una forte riduzione di consumi e degli investimenti e il rallentamento sensibile dell’economia degli ultimi mesi sembra già evidenziarlo.

Al riguardo i più pessimisti tra gli economisti sono arrivati ad evocare il pericolo di stagflazione e cioè l’incubo di una presenza simultanea di recessione e alti tassi di inflazione. Io non ho questa visione catastrofista e da un po’ di tempo vado dicendo sia in sedi pubbliche che private che sono convinto che la straordinaria, per le abitudini degli ultimi venti anni, inflazione attuale sia uno strappo improvviso ma non duraturo e che sia destinata a rientrare abbastanza rapidamente.

Tale convinzione nasce dal fatto che nei sistemi capitalistici e di mercato quando c’è uno squilibrio tra domanda e offerta come quello che si è creato nel periodo post-Covid (quello che abbiamo definito ‘effetto molla’) abbastanza rapidamente e automaticamente l’offerta, trainata dai prezzi alti provocati dalla scarsità si adegua alla domanda. Nel mondo delle materie prime e in genere di tutte le commodity avviene anzi che l’offerta oltre che adeguarsi alla domanda la sorpassa creando situazioni di eccesso che costituiscono potenti fattori deflattivi. È quella che si chiama over capacity, eccesso di capacità installata, che affligge molti settori dall’acciaio all’alluminio alle stive delle navi, settori ciclicamente colpiti da crisi e caduta di prezzi provocati dall’eccesso di offerta.

A mio giudizio succederà così anche per il gas che dopo essere stato scarso a causa della crisi russa tornerà ad essere abbondante e a basso prezzo perché tutti i Paesi che lo producono trascinati dai prezzi alti attuali stanno investendo per aumentare le quantità prodotte e vendute; basta guardare ciò che succede in Algeria, Egitto, Israele, Qatar, Norvegia e Usa.

Questa mia impressione, su un rientro relativamente rapido dell’inflazione, è confermata negli ultimi giorni dai dati che provengono da diversi paesi: Germania, Spagna, Stati Uniti d’America. In particolare negli Usa i prezzi al consumo a novembre sono aumentati meno delle aspettative più rosee degli analisti. Ci aspettava una crescita del 7,7% che era stata quella del mese di ottobre e invece il dato è del 7,1%, il minimo da un anno. È sempre troppo ma si consideri che a giugno era del 9,1%.

È calato di molto il prezzo della benzina, uno dei beni di consumo ai quali gli americani sono più attenti, che è passato da una media dei tre mesi precedenti novembre di 5 dollari al gallone ai 3,25 dollari a gallone del mese di novembre. Questa caduta dei prezzi al consumo comporterà una seria riflessione della Fed, la Banca Centrale Usa, a proposito della necessità di continuare o meno la stretta monetaria e il rialzo dei tassi con il rischio di provocare una recessione economica che invece si potrebbe evitare.

L’altro elemento che mi induce a un cauto ottimismo sono i dati italiani e il sentimento che riscontro parlando con gli industriali dei diversi settori.

La cosa quasi stupefacente è che nonostante la grave crisi energetica che ha fatto temere l’avvio di una recessione da noi e in Europa, l’Italia crescerà nel 2022 quasi del 4% (l’Istat prevede il 3,9%). Per la prima volta da una quarantina d’anni il nostro Paese crescerà quanto la Cina e molto di più di Francia e Germania. Si tenga presente che l’Italia era cresciuta più di tutti anche nel 2021 (6,7%). Molti analisti sostengono che, in questo contesto, l’obiettivo di una crescita intorno allo 0,5% nel 2023, malgrado il rallentamento in corso, non sia così impossibile come ci hanno detto i pessimisti.

Al di là dei numeri parlando con i colleghi industriali di molti settori sento aspettative non catastrofiche anche perché nella media gli impianti stanno ancora girando intorno all’80% della loro capacità massima. Ciò significa che la domanda c’è, gli ordini ci sono e l’industria continua a produrre ed esportare anche aiutata da un dollaro forte che, se ci aumenta il costo delle materie prime comprate all’estero, normalmente pagate in dollari, dall’altra parte favorisce di molto le esportazioni italiane ed europee nel gigantesco mercato degli Usa.

Le imprese italiane hanno guadagnato mediamente molto negli ultimi due anni e oggi grazie a ciò sono le meno indebitate del mondo avanzato. La buona patrimonializzazione consentirà all’industria italiana di continuare nei processi di investimento in innovazione tecnologica e digitalizzazione innescati e consentiti dai meccanismi di Industria 4.0 del Governo Renzi e dell’allora Ministro dello Sviluppo economico Calenda. Inoltre, se si riusciranno a spendere i soldi del Pnrr, ciò sarà un formidabile elemento di sostegno keynesiano della domanda, specie nelle settore delle infrastrutture. Le Ferrovie dello Stato con i loro svariati miliardi di investimenti previsti nei prossimi quattro anni sono la più grande stazione appaltante del Paese.

Certo permane la forte preoccupazione del costo dell’energia che colpisce sia le famiglie che le imprese. Finora gli interventi di mitigazione dei Governi Draghi prima e Meloni ora hanno ridotto l’impatto. Bisogna vedere se le finanze pubbliche riusciranno nel 2023 a reggere interventi di questo tipo, che sono molto costosi. Finora si sono spesi al riguardo più di 65 miliardi di euro e l’estensione di tali misure al primo trimestre del 2023 decisa dal governo attuale comporterà altri miliardi di spesa pubblica.

Ma anche su questo sono abbastanza ottimista. I prezzi dell’energia, in un quadro complessivo di forte volatilità, stanno scendendo. Probabilmente soffriremo ancora quest’estate quando ci saranno da riempire gli stoccaggi gas ma superata quella fase l’abbondanza di gas che nel frattempo arriverà da più parti ci aiuterà molto.

Pensare positivo aiuta a vivere. I pessimisti non sono mai riusciti a fare nulla.

In Europa è stallo sul price cap. Verso Consiglio Energia il 13/12

Permessi alle rinnovabili, price cap e solidarietà sul gas. Per i ministri europei riuniti a Bruxelles al Consiglio energia straordinario l’adozione formale dei due regolamenti di emergenza sull’accelerazione dei permessi alle rinnovabili (presentato dalla Commissione europea lo scorso 9 novembre) e il regolamento sulla solidarietà del gas (proposto lo scorso 18 ottobre) deve andare di pari passo con un accordo politico sul ‘meccanismo di correzione del mercato’, proposto dalla Commissione in forma di tetto temporaneo al prezzo del gas. Solo che un accordo politico sul controverso ‘price cap’ proposto dalla Commissione europea questa settimana non c’è ancora e dunque i ministri europei hanno deciso di rimandare la decisione formale anche sui due regolamenti di emergenza.

La riunione straordinaria dell’energia (il quarto sotto la presidenza dell’Ue in mano alla Repubblica ceca) si è chiusa dopo circa quattro ore di discussione con una intesa informale sul “contenuto dei due regolamenti“, ma senza un accordo di fatto. L’idea è quella di arrivare ad adottarli formalmente al prossimo Consiglio straordinario dell’Energia che si terrà probabilmente il 13 dicembre (deve ancora essere ufficializzata la data), quando la presidenza di Praga spera di raggiungere un accordo politico sulla proposta di meccanismo di correzione del mercato, che sbloccherà il via libera anche sugli altri due pacchetti. Nessuno si sarebbe aspettato un accordo politico oggi sulla proposta di price cap, appena due giorni dopo la presentazione dei dettagli sul tetto da parte della Commissione europea. La presidenza ceca aveva “messo le mani avanti” su questo, spiegando che un accordo era improbabile ma che ci sarebbe stato un primo scambio di opinioni sulla questione. Ma in pochi si sarebbero aspettati che gli Stati avrebbero deciso di rimandare anche la decisione sulle altre due misure di emergenza, su cui un accordo politico già c’è e “su cui non serviranno ulteriori negoziati”, ha assicurato il ministro ceco per l’industria e il commercio, Jozef Sikela, in conferenza stampa.

Nei fatti, c’è una maggioranza di Paesi Ue – tra cui l’Italia, la Spagna, la Polonia – a cui i termini della proposta della Commissione europea non piacciono. Bruxelles propone di fissare un prezzo massimo “di sicurezza” da applicare in automatico sulle transazioni di gas sul mercato olandese di fronte a picchi di prezzo. Il meccanismo, nell’idea di Bruxelles, scatterebbe in automatico quando sono soddisfatte due condizioni contemporaneamente: quando il prezzo del gas sul TTF supera i 275 euro per megawattora (MWh) per un periodo di due settimane e quando i prezzi del gas sul TTF sono superiori di 58 euro rispetto al prezzo di riferimento del GNL per 10 giorni consecutivi nelle due settimane di scambi. Le condizioni per attuarlo in automatico sono talmente difficili da realizzare, che il meccanismo potrebbe non entrare in funzione mai e lo ha ammesso la stessa Commissione europea.

Gli Stati – come ha ricordato la commissaria europea per l’energia, Kadri Simson, in conferenza stampa – hanno il potere di cambiare le cifre contenute nella proposta, possono emendare il regolamento del Consiglio. Ma gli Stati stessi rimangono divisi su come impostare il tetto al prezzo del gas contro speculazione e volatilità dei prezzi. Per il momento la discussione dei ministri è stata molto superficiale, tanto che non si è pensato ancora a una vera e propria contro-proposta ma il lavoro tecnico dovrebbe iniziare nei prossimi giorni.

A Bruxelles resta l’ottimismo sul fatto di riuscire a trovare un accordo al prossimo Consiglio energia su tutte e tre le misure. Sul price cap “la discussione è stata accesa, ci sono posizioni diverse ma è stata una discussione aperta che funzionerà da punto di partenza per trovare un accordo” a dicembre, ha assicurato il ministro ceco. I tempi sono stretti, ma dalla presidenza di Praga c’è ottimismo che si possa arrivare all’accordo il 13, senza dover rimettere la questione sul tavolo dei capi di stato e governo che si riuniranno al Vertice Ue a Bruxelles il 15 e 16 dicembre.

Ne è convinto anche il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, secondo cui dal clima registrato oggi al Consiglio un’intesa il 13 è verosimile, “perché c’è tutta la volontà da parte di tutti i paesi di raggiungere l’obiettivo di un accordo”. Rispondendo a una domanda su quale potrebbe essere una soglia di tetto accettabile per l’Italia il ministro ha chiarito che la convergenza tra i ministri deve essere trovata non solo sulle cifre del tetto, quanto sui criteri per attivarlo. “Si tratta di trovare un punto di convergenza, possiamo anche fare a meno di fissare un prezzo ma se i criteri sono chiari per raggiungere il nostro obiettivo, ovvero quello di intervenire evitando una speculazione“. Per la ministra spagnola per la transizione, Teresa Ribera, l’impressione è che “all’interno del Consiglio ci sia stata un’ampia maggioranza sul fatto che, per quanto riguarda la fissazione di un tetto al prezzo del gas, dovrebbe essere un riferimento dinamico e non statico“. Le parole di Ribera confermano che più che su un tetto fisso gli Stati membri potrebbero orientarsi su un corridoio dinamico ai prezzi del gas, come nei fatti chiede il mandato politico alla Commissione Ue dell’ultimo Consiglio europeo del 20-21 ottobre. Una banda di oscillazione dei prezzi, non un tetto fisso, potrebbe mettere d’accordo anche i Paesi che mostrano di avere ancora diverse riserve, come Germania e Olanda.

Con RePowerEu spazio di manovra per Meloni sul Pnrr

Il nuovo governo Meloni non ha intenzione di “riscrivere” o “stravolgere” il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma è convinto che, di fronte agli scenari mutati dalla guerra, sarà necessario valutare alcuni aggiustamenti per renderlo a prova di futuro. La replica a Palazzo Madama, nel tradizionale momento di chiedere la fiducia al Senato, è l’occasione per la neo premier di chiarire (di nuovo) la sua posizione sul piano nazionale di ripresa e resilienza, che sarà anche il banco di prova delle relazioni dell’esecutivo italiano con Bruxelles. Meloni evita lo strappo con l’Ue, ma si dice pronta a far sentire la voce dell’Italia nelle istituzioni.

Non abbiamo mai detto che il Pnrr andasse stravolto, non abbiamo mai detto che andasse riscritto. Abbiamo detto che vogliamo rivederlo sulla base dell’articolo 21 del Next generation Eu che consente agli Stati di fare degli aggiustamenti se cambiano gli scenari di valutare quegli scenari”, ha chiarito Meloni di fronte ai senatori, chiedendo loro la fiducia al nuovo governo (ottenuta a Palazzo Madama con 115 sì, 79 voti contrari 3 5 astenuti, dopo aver già incassato il via libera della Camera). Il punto, secondo il governo, è che il Pnrr è stato scritto in un tempo “in cui non c’erano la guerra in Ucraina e gli aumenti dei costi delle materie prime e dell’energia”. E dunque oggi per Meloni è “lecito ragionare se le risorse e gli interventi immaginati siano ancora validi in questo tempo mutato”. E il rischio è che “le gare vadano deserte e così le risorse non siano messe a terra”, ha messo in guardia, sottolineando di dover accelerare anche sull’attuazione del piano.

La modifica al Pnrr e la sua attuazione in linea con gli standard di Bruxelles è stata uno dei punti più controversi della campagna elettorale del centrodestra per le elezioni del 25 settembre. E così rischia di mettere alla prova i rapporti del governo di Roma con Bruxelles, anche se molto dipenderà da quanto Meloni rivendicherà la battaglia in sede a Bruxelles. Meloni chiede più spazio di manovra, dal momento che il piano “non è intoccabile“, ma lo spazio di manovra è minimo. Su richiesta dei giornalisti a Bruxelles, l’esecutivo comunitario (pur non volendo commentare direttamente le parole pronunciate da Meloni sulla possibile revisione dei piani), con la voce della portavoce per gli Affari economici, Veerle Nuyts, ha chiarito ieri che “in via prioritaria gli Stati membri devono attuare il piano di recupero e resilienza approvato dal Consiglio, che già comprendono tappe e obiettivi con tempistiche chiare. Modifiche possono essere richieste dai governi “ma solo in casi eccezionali”, dimostrando “di non poter più attuare parti o l’intero piano a causa di circostanze oggettive“, ha precisato la portavoce, mettendo in chiaro che in questo caso sarà necessaria una “valutazione molto attenta” da parte di Bruxelles.

Secondo l’Ue, il margine di modifica non è ampio, ma c’è un altro fronte su cui l’Italia (come gli altri Paesi membri) può lavorare per aggiornare il Pnrr ed è quello dato dalla transizione. Nel quadro del piano ‘REPowerEu’, presentato a maggio per affrancare l’Ue dalla dipendenza energetica dalla Russia, Bruxelles propone di aggiungere un nuovo capitolo ai loro Pnrr dedicato solo a centrare gli obiettivi del Repower, quindi l’indipendenza dai fossili russi al più tardi entro il 2027. La proposta della Commissione è ora al vaglio dei due co-legislatori (Parlamento e Consiglio Ue), con l’idea di trovare un accordo entro la fine dell’anno.

Nei piani dell’Ue, il capitolo aggiuntivo al Pnrr per l’attuazione del REPowerEU avrà un regime di valutazione speciale e l’Esecutivo ha previsto anche una deroga a uno dei principi fondanti del piano stesso, quello del non arrecare danno significativo all’ambiente (Dnsh, acronimo di ‘Do No Significant Harm’) per le misure che “migliorano le infrastrutture energetiche per soddisfare le esigenze immediate di sicurezza dell’approvvigionamento di petrolio e gas naturale”, spiegano fonti dell’Ue. Mettere in pausa il principio significa poter costruire nuove infrastrutture per il passaggio e il trasporto del gas e del petrolio, in alternativa alle vie che collegano l’Europa al fornitore russo. In sostanza, oleodotti e gasdotti che possano sostenere gli Stati membri nella diversificazione dei fornitori di risorse energetiche.

Meloni finora non ha chiarito nello specifico in quali termini vorrebbe apportare modifiche all’attuale piano, ma in Aula al Senato ha sottolineato che dal Pnrr può esserci una “piccola grande occasione che riguarda il Mezzogiorno d’Italia, dove tutto manca fuorché vento, mare e sole per produrre rinnovabili”. E l’idea è quella di fare “del Sud Italia l’hub di approvvigionamento energetico del Sud Europa”, sfruttando le risorse del Pnrr. E’ verosimile che l’attuazione del Pnrr sarà centrale nella prima visita in veste di premier che farà Meloni a Bruxelles nei prossimi giorni. Un incontro che, secondo varie fonti, potrebbe tenersi già nelle prossime settimane.

Appello Confindustria: “Se Europa ferma deficit sarà necessario recovery fund”

Un appello all’Europa. Perché sul tema energetico sia presente, perché “faccia l’Europa”, a partire da un ‘energy recovery fund’ come fu per il Covid. E se non dovesse essere così, se non dovesse nascere quell’Europa solidale sull’energia che l’Italia si aspetta e chiede con forza, allora sarà il nuovo governo a dover risolvere l’emergenza. Anche con uno scostamento di bilancio che potrebbe dimostrarsi “inevitabile”. Pena la desertificazione di imprese. Il mondo dell’industria teme l’arrivo di una recessione e si unisce dietro le parole del presidente, Carlo Bonomi. “Sul tema energetico l’Europa non c’è”, bolla il numero uno di Confindustria, sollecitando l’esecutivo che verrà a dirottare tutte le risorse per far fronte alla crisi: “Dobbiamo salvare l’industria italiana, senza l’industria non c’è l’Italia”. In termini pratici, per Bonomi, si tratta di “40-50 miliardi”, che “si possono trovare nei mille e rotti miliardi di spesa pubblica”. In alternativa, “uno scostamento di bilancio potrebbe dimostrarsi inevitabile”. L’energia è la vera emergenza, “non è il tempo di flat tax o di interventi sulle pensioni tipo quota 100”, gela Bonomi. E se la proposta arriva da Confindustria, allora la politica non può che ascoltare. Parola di Guido Crosetto, uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia si è sempre mostrata contraria all’ipotesi di aumentare il debito pubblico, al contrario della Lega che oggi plaude a Bonomi. In realtà, la stessa Confindustria ammette che l’anno a venire sarà un’incognita. Pesa la crisi russa, che determina i costi dell’energia e nessuno può prevedere cosa accadrà. Di certo, l’onere di evitare il collasso economico deve essere europeo ma se così non sarà il nuovo esecutivo dovrà essere pronto, chiosano gli industriali.

Ma c’è chi, invece, continua a non vedere di buon occhio un ulteriore aumento del debito pubblico, neanche in questa fase critica perché sarà transitoria. È Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, che parla di uno scenario complesso per il primo trimestre del 2023 ma, spiega, “nella seconda parte dell’anno è prevista una crescita. Non ragioniamo per progettare qualcosa di paragonabile alle recessioni passate, è una fase transitoria ma con prospettiva di recupero nel 2024”, annuncia all’assemblea generale dell’Unione industriale di Torino. Impossibile, quindi, secondo lui, chiedere una mano al settore pubblico come avvenuto durante la pandemia. Proprio il Covid-19 ha azzerato gli ultimi margini di manovra in tal senso: il bilancio pubblico ha limiti imprescindibili. In questa fase non dobbiamo permettere che si crei attenzione sul bilancio pubblico” e “necessità di rifinanziare debito pubblico” ribadisce Messina, evocando senza citarlo un andamento impazzito dello spread.