nucleare

Perché anche in Italia c’è bisogno dell’energia nucleare

La domanda di energia, e di energia elettrica in particolare, sta aumentando in tutto il mondo. Ciò accade non soltanto per lo sviluppo di nuove economie (si pensi a cosa è avvenuto in Asia negli ultimi trenta anni, e a cosa avverrà in Africa nei prossimi trenta): anche le economie già sviluppate, come Stati Uniti d’AmericaCanadaEuropaGiapponeAustralia ecc. vedono una crescita costante dei consumi elettrici. Questo tanto per l’elettrificazione progressiva dovuta alla necessità di decarbonizzazione e di lotta al cambiamento climatico dei processi industriali e dei sistemi di trasporto, quanto perché l’era dell’Intelligenza Artificiale, dei grandi centri di elaborazione dati e della digitalizzazione si presenta come estremamente energivora.

È ormai chiaro a tutti che le energie rinnovabili, in particolare fotovoltaico ed eolico, non bastano perché sole e vento sono intermittenti e non programmabili e quindi non possono soddisfare a pieno le esigenze di base load (energia di base continua) che è indispensabile nei settori industriali, compresi quelli delle nuove tecnologie digitali, ed ancor più nei servizi di base strategici come ospedali, difesa, sicurezza, trasporti e tutela ambientale, che devono funzionare 24 ore su 24. Anche la tecnologia degli accumuli e delle batterie che immagazzinano l’energia prodotta dalle rinnovabili nelle ore di funzionamento sono inefficienti e del tutto insufficienti per i grandi consumi industriali.

In questo contesto, sommariamente delineato, l’utilizzo di energia nucleare torna ad essere un elemento determinante. In molte parti d’Europa e del mondo questo è già realtà. In Italia la transizione energetica nel presente e nel prossimo futuro, oltre che delle rinnovabili, non potrà fare a meno del gas, che comunque ha un’impronta di CO2 decisamente più bassa del carbone, e all’utilizzo del quale possono essere applicate le tecnologie delle CCUS (carbon capture utilisation and storage) di cui parleremo un’altra volta; né potrà fare a meno, soprattutto per le esigenze di base load, del nucleare, che a poco a poco renderà il gas residuale.

La riflessione e il dibattito si sono ufficialmente riaperti nel nostro Paese. Prima con un voto del Parlamento a maggioranza con cui si è stabilito che “al fine di accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia il Governo deve valutare l’opportunità di reinserire nel mix energetico nazionale anche il nucleare quale fonte alternativa e pulita per la produzione di energia”, poi con un’iniziativa del Ministro dell’Energia Pichetto Fratin, che ha incaricato un insigne giurista di predisporre uno schema legislativo da sottoporre al Parlamento che sia in grado di superare i limiti e vincoli discendenti dai referendum di moltissimi anni fa.

Nel frattempo si susseguono convegni, approfondimenti, prese di posizione in cui si torna a discutere della questione. La cosa interessante è che i cittadini mostrano una nuova attenzione al tema, e soprattutto che i giovani, liberi da pregiudizi ideologici tipici dell’ambientalismo militante, si dichiarano in maggioranza favorevoli al nucleare. Emerge con sempre maggiore chiarezza che il futuro energetico, completamente decarbonizzato, sta in un mix di rinnovabili e nucleare perché queste tecnologie mostrano una totale complementarietà.

Il nucleare tra l’altro consentirebbe di produrre idrogeno a costi contenuti, cosa che oggi non è se lo si produce con energia verde, e quindi darebbe un fondamentale contributo a risolvere il problema dei processi e settori industriali non elettrificabili (ceramica, cemento, vetro ecc.).

Se si vuole affrontare il tema senza contrapposizioni ideologiche e estremismi vari bisogna andare al merito, ed analizzare oggettivamente i problemi partendo innanzitutto dalla sicurezza e dai costi di questa fonte energetica.

Si parla qui di nucleare di quarta generazione, e cioè di un’evoluzione sostanziale della tecnologia attuale. Molte sono le novità che dovrebbero consentire di avere impianti di questo tipo funzionanti tra una decina d’anni. Parliamo innanzitutto di piccole unità da 250/350 MW (SMR che sta per Small Reactors) dai costi di impianto decisamente più contenuti rispetto a quelli degli impianti tradizionali e quindi abbordabili per investitori privati anche utilizzatori.

Il tema dei costi è uno dei più dibattuti. Gli avversari del nucleare sostengono che questa tecnologia è molto costosa se non la più costosa (vedi buon ultimo il Sindaco di Milano Sala sulle pagine del ‘Corriere della Sera’qualche giorno fa). In realtà molto spesso chi fa questi discorsi incorre in inesattezze. Quando si fa il confronto dei costi di installazione a MW delle varie tecnologie energetiche si deve considerare la loro producibilità: il fotovoltaico funziona da noi non più di 1400 ore l’anno, l’eolico non più di 2500, il nucleare ovviamente per tutte le 8700 ore dell’anno. Ciò significa che il costo della tecnologia va necessariamente correlato alla quantità di energia prodotta nell’anno. E se si fa questo confronto il nucleare di nuova generazione è imbattibile.

Inoltre, come è stato giustamente rilevato, i costi vanno considerati tutti, non solo quelli di generazione dell’energia. Una parte significativa dei costi odierni, anche delle rinnovabili, sono i costi accessori. Lo sanno bene le famiglie e le imprese perché leggono sulle bollette che la componente energia vale circa un terzo del prezzo totale. E ciò si deve appunto in gran parte ai costi accessori destinati a crescere esponenzialmente in uno scenario di sole rinnovabili. Si tratta di costi di sbilanciamento e cioè di supporto alla rete quando non c’è sole e non c’è vento, e di costi di trasporto e distribuzione, perché spesso le rinnovabili sono lontane dalla domanda, come succede oggi in Italia. Pannelli fotovoltaici e torri eoliche, infatti, sono installati prevalentemente al Sud quando il grosso dei consumi è al nord.

Il nucleare di quarta generazione, poi, affronta in maniera radicale il problema della sicurezza. Parliamo di impianti progettati per essere estremamente sicuri dal punto di vista strutturale e capaci di utilizzare uranio impoverito riducendo così anche il problema e il costo dello smaltimento delle scorie.

Questi tipi di impianti, per le loro dimensioni contenute, potrebbe essere tranquillamente installati in singoli distretti industriali, supportando così il fabbisogno energetico delle industrie italiane energivore, che pagano oggi l’energia elettrica molto di più di quanto la pagano le loro concorrenti francesi, spagnole e tedesche.

Le imprese siderurgiche italiane hanno recentemente avviato una collaborazione con EDF, Edison, Ansaldo Nucleare proprio sul supporto a progetti di installazione di SMR volti anche a soddisfare la domanda elettrica delle imprese dell’acciaio italiano.

La copertura di una parte dei fabbisogni di energia elettrica di queste imprese con energia nucleare magari comprata in Francia, in attesa che si realizzino gli impianti in Italia, consentirebbe al nostro Paese di essere il primo al mondo a produrre acciaio completamente ‘verde’ e cioè decarbonizzato. Già oggi, infatti, gli elettrosiderurgici italiani consumano energia elettrica prevalentemente prodotta con fonti rinnovabili.

Una bella prospettiva, un obiettivo realistico e ravvicinato che consentirebbe di dire che, come in molti altri campi ambientali e di economia circolare, il nostro Paese è all’avanguardia.

Se a Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla

Donald Trump ha vinto le elezioni americane ed è nuovamente presidente degli Stati Uniti d’America.

La vittoria è stata netta in tutti gli stati chiave e anche in termini di numero di votanti Trump ha superato di larga misura la Harris (quasi 71 milioni di voti contro 66). Trump ha preso più voti in tutte le classi sociali, in tutte le classi di età.

Grazie alla schiacciante vittoria Trump avrà la maggioranza sia al Congresso che al Senato, dove la maggioranza degli eletti è fatta da senatori “trumpiani” di stretta osservanza, e ciò attribuisce al nuovo Presidente poteri quasi assoluti se si considera che controlla anche la Corte Suprema. Io non ricordo, nella più importante democrazia del mondo, una situazione di concentrazione di poteri simile con il venir meno dei classici balance.

Ci sarà tempo e modo per analizzare e comprendere la dimensione e le determinanti di questo voto a partire dalla debolezza e dalla mancanza di leadership della candidata democratica. Una consistente maggioranza di cittadini americani ha votato per un signore molto discusso, sul quale pendono ancora giudizi penali, che non ha mai riconosciuto di aver perso le elezioni precedenti, che ha appoggiato se non ispirato una sedizione popolare contro la vittoria di Biden sfociata nell’assalto a Capitol Hill.

Bisognerà capire il perché di tutto ciò e chiedersi se, al di là di Trump che in definitiva è un uomo in carne e ossa come tutti noi, di 78 anni, provato da anni di vicende difficili e che perde qualche colpo come si è visto in campagna elettorale, la sua vittoria sia il segno di un cambiamento epocale nella storia della democrazia statunitense.

Ma bisognerà anche chiedersi come abbia pesato su questo voto il concentrarsi della proposta dei democratici Usa e di Kamala Harris prevalentemente sui diritti civili con una sempre più scarsa attenzione ai diritti sociali, al tema del lavoro e a quello della tutela delle categorie più colpite (ceto medio e classe operaia) dai venti impetuosi della globalizzazione e alle loro richieste di benessere, stabilità e sicurezza.

Nel frattempo è lecito chiedersi che cosa la vittoria di Trump significhi per gli europei, per l’Europa e per la nostra Italia e quali saranno le conseguenze per il mondo intero della nuova Presidenza. Si tratta di questioni difficili sulle quali dico la mia opinione con molta umiltà e dal mio punto di vista di operatore economico internazionale ma molto concentrato sui temi dell’industria europea e italiana.

Ho detto e scritto più volte che probabilmente l’ultimo Presidente Usa con un po’ di sensibilità atlantica è stato Biden. A Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla essendo totalmente concentrato sulla confrontation con la Cina nell’area pacifica.

Ciò ha una serie di conseguenze che potrebbero essere non positive per l’Europa a meno che non diventino dei veri e propri shock destinati finalmente a far comprendere all’Unione Europea quali sono le sfide che le stanno dinanzi, a farle cambiare l’attitudine da prima della classe che, sul piano economico e del confronto con gli Usa e con la Cina, è stata fino ad oggi disastrosa. Un atteggiamento che in venti anni ha fatto perdere all’Europa un terzo del suo PIL nei confronti di quello statunitense e che la vede superata in tutti i settori di punta e innovativi dagli Usa e dalla Cina.

Vediamo rapidamente quali potrebbero essere le conseguenze dell’elezione di Trump.

È molto probabile che ci sarà da parte americana un ulteriore indurimento delle politiche protezionistiche e di protezione dell’industria nazionale che, per la verità, anche la presidenza Biden ha mantenuto. Si parla di dazi monstre sulle auto elettriche cinesi e ciò significa che le esportazioni cinesi, spinte dalla sovra capacità produttiva in tutti i settori industriali di quel Paese, si riverserà nelle aree più aperte, quali appunto l’Europa, mettendo ancora più in crisi i nostri sistemi industriali.

Trump continuerà con tutte le politiche finanziarie e di supporto ai sistemi economici e produttivi statunitensi, allenterà le politiche contro il climate change e la transizione aumentando ulteriormente l’asimmetria con le politiche europee di transizione e ciò causerà ulteriore svantaggio competitivo  per le nostre imprese industriali.

Probabilmente ci sarà negli USA una nuova fase di deregulation finanziaria molto pericolosa tenuto conto dell’importanza delle banche e dei fondi americani e dell’enorme liquidità da questi raccolta.

Ci sarà poi, quasi sicuramente, la richiesta del nuovo Presidente americano ai Paesi europei di aumentare le loro spese per la difesa e la loro contribuzione annuale alle spese Nato così da consentire agli Usa di ridurre il loro contributo che oggi è preponderante. Ciò obbligherà l’Europa a vere decisioni sul tema della difesa comune e della sicurezza strategica, decisioni che impatteranno i bilanci dei Paesi europei con il rischio di un’ulteriore compressione della spesa sociale e sanitaria.

Più in generale c’è il rischio di un indebolimento della solidarietà occidentale per disimpegno statunitense da tutti i teatri che non siano il Pacifico e il confronto con la Cina.

Fa bene Ursula Von der Leyen a rilanciare la necessità di un rinnovato patto atlantico che leghi ancora di più Usa ed Europa. Ma questo appello, fatto dopo la vittoria di Trump, rischia di essere tardivo e di apparire strumentale.

Infine ci sono i due grandi punti interrogativi relativi alle due guerre in corso e sul confronto prossimo venturo con la Cina.

Trump ha detto che farà terminare le due guerre  in pochi giorni e che mai ci sarà una nuova guerra nel corso del suo mandato.

A proposito della aggressione russa all’Ucraina cosa significa questo? Minore aiuto militare a Kiev? Concessioni a Putin sulle sue richieste territoriali e di “finlandizzazione” dell’Ucraina? Ma è possibile che il Presidente degli Stati Uniti d’America faccia vincere Putin? Difficile crederlo ma vedremo.

In Medio Oriente l’appoggio a Israele invece sarà mantenuto e addirittura potenziato nella difesa del suo diritto all’esistenza e nel contenimento delle politiche di destabilizzazione dell’area da parte dell’Iran. Non bisogna dimenticare che gli accordi di Abramo firmati nel 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan e che, prima dell’assalto di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023, stavano per essere firmati anche dall’Arabia Saudita furono probabilmente il maggior successo diplomatico della prima amministrazione Trump.

Infine la confrontation con la Cina. I legami economici e finanziari e l’interscambio (nonostante i dazi) tra le prime due potenze del mondo sono talmente importanti che ci si chiede fino a dove potrà spingersi questa confrontation. Quanti Apple vengono venduti in Cina ogni anno? Quanti billions del debito americano sono sottoscritti dalla Cina?

La vittoria di Trump apre tutti questi interrogativi. Il tempo ci aiuterà a comprendere quella che a tutti gli effetti appare come una svolta epocale nei destini del mondo.

Assemblea Federacciai, Gozzi: “Obiettivo acciaio green al 2030 ma Ue volti pagina”

“Ci appelliamo al Governo italiano, al neo Commissario europeo Raffaele Fitto, a cui facciamo i più fervidi auguri di buon lavoro, alle grandi famiglie politiche: popolari, socialisti, liberali e conservatori affinché si faccia il bilancio di questi anni, si intervenga sulle politiche sbagliate nei tempi e nei modi (come è stato nel caso della decarbonizzazione) o assenti del tutto (come è stato nel caso delle politiche industriali e dell’energia) per voltare pagina mettendo l’industria al centro. Perché senza industria, anche quella tradizionale e di base, non c’è Europa”. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, lancia l’allarme per la siderurgia italiana, colpita da una serie di problemi, in primis le norme green europee che rischiano non solo di mortificare il settore continentale, in particolare quello italiano, ma soprattutto l’intera industria a vantaggio di aree del mondo che le regole ambientali nemmeno le rispettano.

L’intervento di Gozzi durante l’assemblea di Federacciai a Vicenza ha lo sguardo che va oltre il 2030, perché in realtà, nel 2023, l’industria siderurgica italiana ha prodotto 21,1 milioni di tonnellate di acciaio, segnando una riduzione del 2,5% rispetto al 2022, ma mantenendo un fatturato significativo, stimato tra i 50 e i 60 miliardi di euro all’anno. La produzione di laminati a caldo ha registrato una flessione dell’1,5%, mentre i laminati lunghi, principalmente utilizzati nell’edilizia, hanno subito una contrazione del 2,6%. Al contrario, i laminati piani, impiegati nei settori automotive, meccanico ed elettrodomestico, hanno mantenuto una produzione stabile.

Il problema principale è quello dell’energia. Tuttavia, le imprese italiane continuano a fronteggiare sfide significative legate ai costi energetici. Nel 2023, le aziende energivore tedesche hanno pagato in media 65 euro/MWh per l’energia elettrica, mentre in Italia i costi superavano i 110 euro/MWh. Questa disparità genera un notevole svantaggio competitivo per il made in Italy a causa del mix energetico nazionale e della mancanza di un mercato elettrico interconnesso a livello europeo. Gozzi ha sottolineato come il sistema del “marginal price” unifichi il costo dell’energia da fonti rinnovabili e idrocarburi, aggravando ulteriormente il problema. Federacciai ha proposto un approccio unificato per l’utilizzo dei proventi d’asta ETS, ovvero le quote di carbonio compensative, evidenziando come paesi come Germania e Francia abbiano investito molto di più dell’Italia nella decarbonizzazione industriale. Un prezzo unico europeo per i settori ad alta intensità energetica – è l’auspicio di Federacciai – potrebbe aiutare a ridurre queste differenze.

Gozzi chiede una svolta normativa perché, se si parla di sostenibilità, l’elettrosiderurgia italiana è già prossima alla neutralità carbonica per quanto riguarda le emissioni dirette. Tuttavia, restano alcune problematiche legate alle piccole emissioni residue dai forni elettrici e dall’uso di gas naturale nei forni di riscaldo dei laminatoi. Per affrontare queste sfide, il settore sta esplorando soluzioni come il biometano e l’idrogeno. Il presidente di Federacciai evidenzia che l’energia elettrica acquistata dalla rete riflette il carbon footprint della produzione nazionale e solo un terzo proviene da fonti rinnovabili. Per raggiungere l’obiettivo del “net zero” o addirittura diventare “carbon negative”, sarà necessario un ulteriore terzo di energia elettrica a zero emissioni di carbonio. Molte aziende hanno già investito in impianti per la produzione di rinnovabili e stanno considerando di partecipare, sia singolarmente che in consorzio, alle gare per il rinnovo delle concessioni idroelettriche, auspicando che vengano bandite al più presto in conformità alle direttive europee.

Piano Mattei, Gozzi: Baricentro Ue si sposta a Sud, Italia diventa strategica

“Il baricentro europeo si è spostato verso Sud e in questo contesto il Mediterraneo e il ruolo dell’Italia diventa sempre più strategico. Tra l’altro noi abbiamo una capacità di dialogo, di empatia, di collaborazione con i Paesi del Nord Africa che altri Paesi occidentali non hanno e quindi noi dobbiamo essere nei confronti di questi Paesi un intelligente ambasciatore di valori dell’Occidente, di libertà, di democrazia e di libera impresa e contemporaneamente di cooperazione internazionale. Il piano Mattei nasce da questa intuizione, nasce dall’intuizione che c’è per l’Italia un’occasione straordinaria che viene proprio dalla collaborazione con questi Paesi. Duferco sta lavorando in Tunisia, in Algeria, in Libia e Marocco in ognuno di questi paesi cerchiamo di mettere le basi per future iniziative”. Lo ha detto a Gea il presidente di Duferco, Antonio Gozzi, che ha partecipato all’evento organizzato da Fondazione Articolo 49 ‘Nuove energie tra Europa e Africa’, nella residenza dell’ambasciatore del Marocco in Italia, a Roma.

“Il tema delle energie rinnovabili, tra l’altro, è uno dei temi centrali. Questi Paesi – aggiunge -, che ci chiedono tecnologia e supporto per i loro programmi di rinnovabili, sono anche disponibili a fare accordi di cooperazione come quello che stiamo facendo con la Tunisia sul cavo Elmed, che consentirà un contatto, uno scambio di energia elettrica con quel Paese. Gli industriali italiani, in particolare quelli energivori, sono disponibili ad andare a investire in energie rinnovabili, eolico, fotovoltaico in Tunisia, lasciando una parte dell’energia prodotta ai tunisini, Piano Mattei, e riportando in Italia come energia verde una parte dell’energia prodotta passando dal cavo che dovrebbe essere in costruzione, tra poco. Terna sta facendo le gare per i cavi, si parla di un realizzazione che dovrebbe essere pronta prima dell’inizio del 2028 e questo è una prospettiva molto concreta, molto importante, uno dei primi grandi progetti del Piano Mattei”.

Piano Mattei, Gozzi: Scambi di personale qualificato aiuto al commercio internazionale

“L’ambasciatore saggio che oggi è il consigliere diplomatico del premier meloni ha realizzato una prima importantissima misura di scambio e di selezione di personale tunisino che può venire in Italia sono 4500 persone che ricevono una prima formazione di base in Tunisia e poi vengono in Italia per avere la formazione specialistica. Questo è un esempio importante di capitale umano. Gli scambi incominciano a esserci: noi abbiamo fatto in Duferco, grazie all’Università di Genova, un accordo col Politecnico Mohamed VI del Marocco, per cui due giovani ingegneri marocchini, esperti in transizione energetica saranno con noi un anno a lavorare e lo scambio di personale qualificato, la formazione di personale qualificato da parte dell’università è l’incrocio tra università italiane e università del Maghreb, è un altro strumento fondamentale di Cooperazione sul capitale umano e credo che l’Italia abbia tutto l’interesse a sviluppare questi rapporti perché naturalmente quando c’è scambio di manager, di dirigenti, lo scambio commerciale diventa molto più semplice, molto più fluido, c’è amicizia e comprensione reciproca e questo aiuta il commercio internazionale”. Lo ha detto a Gea il presidente di Duferco, Antonio Gozzi, che ha partecipato all’evento organizzato da Fondazione Articolo 49 ‘Nuove energie tra Europa e Africa’, nella residenza dell’ambasciatore del Marocco in Italia, a Roma.

Piano Mattei, Gozzi: Genova può essere centrale con un grande progetto culturale

Il Mediterraneo “è destinato a diventare uno dei luoghi cardine dell’incontro tra Nord e Sud del mondo. L’Italia si trova quindi in una posizione strategica e deve cogliere questa opportunità straordinaria sfruttando la sua storia, la sua cultura, le sue imprese, la facilità di relazione con le popolazioni della costa sud del Mediterraneo che ci guardano con un’ammirazione e una simpatia che spesso non hanno nei confronti di altri Paesi occidentali. Il lancio del Piano Mattei da parte del Governo va in questa direzione”. Così Antonio Gozzi, responsabile del Piano Mattei per Confindustria Nazionale, in un intervento pubblicato su Piazza Levante.

Le città marittime, dice il presidente del gruppo Duferco, “in questo contesto diventano sempre più importanti, non solo per i loro porti e i loro traffici, che da sempre uniscono il mondo, ma anche perché saranno formidabili sedi di incontri e incroci tra popoli e culture che si affacciano sul nostro mare”. Ecco allora che Genova “ha l’occasione di rilanciare il suo ruolo nel mondo diventando una delle capitali, se non la capitale, di questo processo. La Liguria, se Genova non sarà ‘la Superba’ ma avrà la capacità di coordinare forze ed energie, può diventare un tassello straordinario in questo disegno”.

Nel suo intervento, Gozzi suggerisce al capoluogo ligure di “candidarsi attraverso un grande evento culturale”, visto che da tempo Genova e la Liguria “non ospitano un grande evento di livello internazionale”. Eppure, dice, “gli ingredienti ci sarebbero tutti: tradizione internazionale marittima e finanziaria, arte moderna, pittura, teatro, progetti di riconversione urbana e di messa in valore del centro storico retroportuale più grande del mondo, progetti di cooperazione universitaria e di ricerca, progetti di cooperazione industriale sulla transizione, progetti marittimi e logistici”.

“Mi piacerebbe – scrive Gozzi – che nei programmi di governo che i vari schieramenti presenteranno per le prossime elezioni regionali ci fosse spazio per questi temi intorno ai quali costruire il futuro della Liguria”, anche perché “senza città aperte alle nuove generazioni tutto sarà limitato a contesti che non si rinnovano e non si trasformano e che, per questo, sono destinati a deperire per egoismo senile”.

Antonio Gozzi: “Modello Genova non è cultura malaffare ma strumento crescita”

Leggo, da parte di vari esponenti del variegato mondo della sinistra genovese e ligure, un attacco frontale al cosiddetto “modello Genova”. Taluni, anche esponenti del Pd, arrivano a dire che “il modello Genova è la moderna espressione della cultura del malaffare”.

Il caldo agostano e gli incipienti furori della prossima campagna elettorale per la Regione non giustificano espressioni di questo tipo, e testimoniano ancora una volta come la sinistra ligure, o almeno buona parte di essa, abbia una vocazione minoritaria, che negli ultimi dieci anni le ha fatto perdere tutto quello che c’era da perdere, ed una postura molto distante dalla cultura di governo (studiare bene Starmer in UK, please).

Continuo a insistere da mesi che il problema italiano, europeo, e per restare alle nostre latitudini anche ligure, è il problema della crescita. Viviamo una fase del mondo in cui o gli europei si svegliano, capiscono il loro gravissimo declino demografico, economico e industriale e reagiscono rimboccandosi le maniche e abbandonando ideologismi astratti, oppure la partita è persa. La crescita e tutti gli strumenti che la supportano devono diventare un’ossessione. C’è una parte della sinistra europea che questo lo capisce e un’altra no.

Io credo che il “modello Genova” sia uno di questi fondamentali strumenti della crescita e ora vi spiego perché.

Innanzitutto, che cosa è e che cosa si intende quando si parla del “modello Genova”?

Tecnicamente con “modello Genova” si intende quel complesso di norme che dopo il crollo del ponte Morandi ha consentito uno snellimento significativo delle procedure burocratiche che regolano gli appalti pubblici e le costruzioni, e ha permesso, nel caso specifico, il procedere rapidamente alla ricostruzione del ponte (ponte San Giorgio) sotto la guida di un Commissario, previsto dalla legge ed individuato nel Sindaco di Genova Marco Bucci.

È stata prima di tutto un’esperienza straordinaria di riscatto e di orgoglio, con la quale Genova è stata capace di reagire all’immane tragedia in tempi rapidi con efficienza, senza che vi sia stato il minimo sentore di nulla meno che regolare e trasparente. La ricostruzione del ponte in tempi record, che ha visto protagonisti due colossi industriali come Fincantieri e Webuild, sotto la regia commissariale, ha dimostrato che si può fare presto, bene e nella legalità, ed ha rappresentato un’iniezione di fiducia positiva per l’ambiente economico di una Regione per troppo tempo dominata da una cultura conservatrice, a tratti immobilista, sempre diffidente verso la crescita e lo sviluppo.

La Liguria ha un estremo ed urgente bisogno di grandi opere infrastrutturali per uscire dal suo isolamento che insieme ad altri fattori, primo fra tutti quello demografico, ne ha provocato il lento declino degli ultimi decenni.

Anche in Liguria ci sono forze politiche che vedono la crescita come una sciagura e le grandi opere come strumenti per alimentare il malaffare e la mafia, e che sono pregiudizialmente diffidenti verso le imprese, i loro progetti, l’iniziativa privata.

L’essere stati capaci di reagire a questa cultura del declino e della decrescita (infelice) con una narrazione diversa, positiva, pragmatica è stato il grande merito dell’amministrazione di Bucci, che pure con i suoi limiti ha cercato e spesso è riuscita ad invertire la rotta proprio sulle questioni strutturali.

Di Bucci abbiamo apprezzato e apprezziamo in particolare il suo ottimismo e la sua capacità di indicare una nuova prospettiva con una cultura civica del fare che è anche il portato della sua precedente esperienza manageriale. Far succedere le cose, trasformare le idee in progetti e i progetti in realizzazioni: sono queste le doti in base alle quali si dovrebbe giudicare un buon amministratore pubblico.

Molti sono i cantieri aperti e/o le realizzazioni dell’amministrazione Bucci: oltre la ricostruzione del ponte, il Waterfront di levante, lo skymetro della Val Bisagno, la revisione totale della mobilità urbana con la forte spinta sui mezzi pubblici e sull’elettrico, la diga portuale per aprire il mercato alle grandissime navi portacontenitori, il tunnel subportuale ecc.

Lo spirito positivo e l’efficienza di realizzazione hanno fatto sì che il governo Draghi prima e quello di Meloni poi abbiano messo a disposizione una mole di risorse mai viste prima (si parla di complessivi 8 miliardi e più di euro) da investire principalmente in infrastrutture e collegamenti di cui, come detto, Genova e la Liguria hanno un enorme bisogno. È un’occasione irripetibile che non si può perdere.

I contestatori del modello Genova dicono che questo modello non si può applicare in ogni caso e a tutto. Il modello emergenziale utilizzato per la ricostruzione del ponte, secondo loro, non si può replicare per la diga, lo sky metro e quant’altro e bisogna al più presto rientrare nella normalità. Dare poteri così importanti ai commissari pone gravi rischi in termini di legalità, ed anzi, secondo il pensiero di questi cultori del declino, fa parte della cultura del malaffare.

I sostenitori di questa tesi non si rendono conto dell’insofferenza del mondo dell’economia, ma anche dei semplici cittadini, rispetto alle lungaggini burocratiche, alle scelte che non si riescono mai a fare: quanti anni ci sono voluti per definire il tracciato della Gronda che oggi la sinistra vuole rimettere in discussione? La pesantezza normativa e la burocrazia “guardiana” che la gestisce costituiscono uno dei peggiori ostacoli allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese e di una regione come la nostra in cui la situazione emergenziale non si è conclusa con il Ponte San Giorgio.

Sono la complicazione della norma e l’elefantiasi burocratica che spesso favoriscono la corruzione e il malaffare, non i commissari che invece si assumono le responsabilità delle procedure e dello stato di avanzamento dei lavori e ci mettono la faccia come ha fatto e fa Bucci.

Il modello Genova è stato ed è un modo virtuoso di sintonizzare i tempi di realizzazione delle opere pubbliche con la velocità a cui corre il mondo di oggi. Altro che malaffare: viva il “modello Genova”!

Green Deal trascurato e inevitabile tra fondi Ue e sponde capitalistiche

Secondo un parere della Commissione Politica di coesione territoriale e bilancio dell’Ue (Coter) del Comitato europeo delle regioni (Cdr), adottato mercoledì 3 luglio, l’Unione europea dovrebbe sostenere tutte le regioni nella realizzazione di una transizione giusta ed equa, in particolare quelle fortemente dipendenti da un unico settore economico o da industrie ad alta intensità energetica. Come sostiene la Coter, le difficoltà incontrate nell’approvazione dei piani di transizione e la riduzione dei fondi alla fine del periodo di programmazione evidenziano la necessità di prorogare il termine per l’utilizzo delle risorse del “Fondo per la transizione” nell’ambito del piano di ripresa dell’Ue di prossima generazione. Il parere invita la Commissione europea a semplificare i finanziamenti e a migliorare la trasparenza nel prossimo quadro finanziario pluriennale (Qfp) dell’Ue post-2027. Presa a prestito da Agence Europe, uno dei punti di riferimento dell’informazione da Bruxelles e su Bruxelles, questa notizia offre lo spunto per rivisitare il Green Deal nell’ottica della Commissione che sarà.

E intanto… Manfred Weber, nominato presidente del Ppe, ha ribadito in un recente intervista che dal Green Deal non si torna indietro. Weber è stato seguito a ruota da Ursula von der Leyen che, nel delicato tentativo di mettere insieme una maggioranza non traballante, ha posto sempre il Green Deal tra le cinque priorità dei prossimi cinque anni di governo. Ovviamente ammesso che, come accade spesso nei Conclave, chi entra Papa non esca cardinale. Green Deal, per la verità, che è stato sorpassato a sinistra da altre tematiche cogenti come la competitività, la Difesa, le questioni sociali e la semplificazione normativa. Sintetizzando: la transizione verde è indispensabile ma non così indispensabile come nel 2019. Ora: cosa sia cambiato in meglio o in peggio dopo un lustro di propositi più o meno buoni è difficile da stabilire con determinazione matematica, ma che siano indispensabili delle correzioni ‘in corsa’ questo è ineluttabile.

Con o senza i Verdi, oppure anche solo con l’appoggio esterno, il Green Deal continuerà a esserci. Giusto. Ma qui si torna al punto di partenza: più delle ideologie e di certe rigide ottusità saranno i denari da investire nella transizione verde a fare la differenza. E di denari ne serviranno davvero tanti: in fondo, più le pratiche sono virtuose più i costi aumentano. Saranno determinanti i fondi privati e il buonsenso collettivo, sarà determinante coinvolgere sempre di più Cina, India e Stati Uniti in un percorso che abbia cura del Pianeta senza creare ulteriori diseguaglianze non solo tra Paesi ma tra blocchi di Paesi, come ad esempio la Ue e i Brics.

Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, scrive in un suo intervento che “dietro l’estremismo ambientalista, ideologico ed astratto, che purtroppo ha orientato negli ultimi dieci anni anche le politiche europee contro il climate change e per il così detto green deal, ci siano anche alcuni ‘grandi vecchi’, sconfitti nel loro credo dalla storia, ma che hanno rivestito lo spirito e il pregiudizio anticapitalista e anti-impresa con le bandiere dei verdi”. Cita Noam Chomsky e Robert Pollin e giunge a sostenere che Occidente e Stati Uniti andranno avanti ma dovranno fare i conti con il popolo. “’Voi parlate della fine del mondo ma noi ci preoccupiamo della fine del mese. Come sopravviveremo alle vostre riforme?, è questa la domanda pressante a cui bisogna dare risposte concrete onde evitare un rigetto totale delle politiche ambientaliste”, sottolinea Gozzi.

Non è indispensabile essere d’accordo, è fondamentale riflettere. E fornire risposte concrete. Il cambiamento climatico è sotto i nostri occhi, “non ci sono più le stagioni di una volta” direbbe qualcuno, ed è una evidenza che si abbatte sulle economie, sul turismo, sull’agricoltura. Come se ne esce? E’ chiaro che ricerca, innovazione, nuove tecnologie, rinnovabili, nucleare sono gli ingredienti indispensabili di una ricetta che, comunque, dovrà avere il sostegno economico di Stati e di industrie. Finanziare il futuro delle generazioni future: non è uno slogan ma una necessità. Insomma, adelante ma con juicio.

La sicurezza sopra e sotto il mare: un progetto strategico per l’industria italiana

In una bella intervista al ‘Foglio’ (7/3/2024) Pierroberto Folgiero, Amministratore Delegato di Fincantieri, rilancia il tema della sicurezza nel Mediterraneo e spiega come sia vitale, per il nostro Paese, disporre di un apparato industriale e di tecnologie capaci di far giocare all’Italia un ruolo da protagonista in questa partita. Abbiamo più volte sostenuto su queste pagine che il baricentro dell’Unione Europea, storicamente determinato dal rapporto franco-tedesco, sia destinato a spostarsi verso sud, verso il Mediterraneo, area nella quale si registreranno in futuro i maggiori tassi di crescita e le maggiori potenzialità di sviluppo. Il Mediterraneo e l’area balcanica anche per questo sono tornati ad essere luoghi strategici per il confronto tra occidente e altre potenze regionali, con la delicatezza rappresentata dalle turbolenze in medio oriente, da un probabile futuro minor impegno degli USA in quest’area, da una sempre maggiore iniziativa turca, da una sempre maggiore presenza della marina militare russa (11 navi da guerra presenti in questo momento rispetto alle poche unità di qualche anno fa).

In questo contesto il ruolo dell’Italia, della sua economia, del suo apparato industriale saranno sempre più importanti. Per collocazione geografica, storia, cultura possiamo svolgere un ruolo fondamentale di ambasciatori e traduttori dei valori dell’occidente in questa area del mondo, e probabilmente siamo i soli a poterlo fare grazie alla tradizionale capacità di dialogo della nostra diplomazia e grazie alla nostra naturale empatia con quei popoli. Ma le ambizioni e le possibilità concrete di giocare questa partita si misurano innanzi tutto con la capacità di tutelare l’interesse nazionale ed europeo attraverso una rinnovata politica della sicurezza.

Folgiero chiarisce bene che la sicurezza non riguarda soltanto i traffici marittimi di superficie così importanti per un’economia manifatturiera come la nostra, ma anche tutto ciò che sta sotto la superficie del mare e sui fondali, in primis infrastrutture energetiche e cavi per la trasmissione dei dati. Si pensi che la nostra Marina Militare in questo momento ha molte unità impegnate nella sorveglianza e protezione di queste infrastrutture. Vi immaginate cosa succederebbe se un attentato come quello che ha gravemente danneggiato il gasdotto North Stream 2 colpisse il tubo del Trans Med (gasdotto Enrico Mattei) che porta in Italia il gas algerino oggi vitale per l’approvvigionamento energetico del Paese? O ancora se vi fossero danneggiamenti alle grandi dorsali dei cavi che portano dati, come è recentemente successo nel mar Rosso dove l’affondamento di una nave portacontainers inglese, causato da missili Houti, ha provocato una riduzione di oltre il 25% del traffico internet tra Asia e Europa? Il danneggiamento di cavi sottomarini, dai quali passa ormai la stragrande maggioranza dei dati globali, deriva da molte cause; le prevalenti, per ora, non sono quelle dovute al terrorismo ma quelle legate alla posa delle ancore delle navi e alla pesca a strascico.

L’underwater sarà in futuro il campo di sviluppo e innovazione tecnologica per le imprese italiane, all’interno delle quali Fincantieri è destinata a svolgere il ruolo di pivot candidandosi ad essere il campione nazionale della subacquea. Il colosso di Trieste ha la straordinaria opportunità e possibilità di estendere agli usi civili le soluzioni e le tecnologie sperimentate in ambito militare. Da questa ambizione e prospettiva nasce anche l’iniziativa del Ministero della Difesa di istituire a La Spezia il Polo Nazionale della subacquea. Si tratta di un’iniziativa strategica per l’Italia che vede la Liguria al centro, e che vede il rilancio delle attività di blue economy come uno degli assi portanti per il futuro della nostra regione.

In un mondo sempre più turbolento i temi della sicurezza strategica e della difesa, sul mare e sotto il mare, saranno al centro della scena. L’apparato industriale italiano fatto da grandi imprese a controllo pubblico (Fincantieri, Leonardo, Eni, Terna, Enel, Snam, Saipem ecc.) ma anche di moltissime imprese private di varie dimensioni impegnate nelle filiere e nell’indotto può dire la sua in maniera autorevole.

Occorre un grande disegno strategico e un’interlocuzione operativa su progetti e tecnologie che consentano all’industria italiana di cogliere questa grande opportunità di sviluppo e innovazione. Occorre costruire le occasioni e i luoghi perché ciò avvenga. Il lavoro è appena cominciato.

Il cliclo virtuoso degli investimenti tra scelte pubbliche e private

Gli investimenti sono determinanti per la crescita economica e lo sono anche per il consumo di acciaio. Il consumo di acciaio è considerato un indicatore di ciclo. Analisti, studiosi, banchieri quando ragionano sul ciclo economico e cercano di fare previsioni al riguardo guardano i consumi di acciaio perché gli stessi anticipano sempre gli andamenti della congiuntura.

Così avviene che se la congiuntura volge verso il bello e il ciclo economico è nella fase ascendente i volumi di consumo di acciaio crescono e con essi i prezzi di vendita. Se le cose vanno male succede il contrario. Ma cosa in particolare ‘tira’ la domanda di acciaio?

Gli esperti dicono che il driver principale di questa domanda è rappresentato dal così detto ‘fixed assets investments ratio’. Questo indice segnala la proporzione degli investimenti fissi sul totale degli investimenti di un’azienda, dell’economia di un Paese, o addirittura del Pil mondiale (poiché quello dell’acciaio è un mercato regionale ma anche mondiale).

In questo mercato globale la Cina, negli ultimi venti anni, ha fatto la parte del leone con una crescita della sua produzione e dei suoi consumi di acciaio impressionante. La Cina con il suo miliardo di tonnellate anno di produzione e consumo di acciaio rappresenta più del 50% del mercato mondiale.

Costruzioni, strade, ponti, fabbriche, treni e ferrovie, navi, macchine movimento terra, centrali elettriche di ogni tipo, torri eoliche, campi fotovoltaici ecc. sono gli investimenti fissi (i fixed assets) che costituiscono quasi il 70% della domanda mondiale di acciaio. Automobili, elettrodomestici e gli altri beni di consumo rappresentano più o meno il 30% della domanda di questo prodotto.

Ho usato questo riferimento al mondo dell’acciaio che è quello che conosco meglio perché mi interessa ragionare, come detto in premessa, sul tema degli investimenti, sulla loro natura in continua evoluzione, su quanto gli investimenti siano fondamentali per la crescita, l’occupazione e il lavoro e su come dovrebbe imporsi una cultura atta a favorirli in ogni modo e non il contrario (la cultura del NO sempre e comunque, la decrescita felice ecc.).

Gli investimenti inoltre danno dignità e onore al capitalismo e ai capitalisti perché sono coessenziali alla vita delle imprese e alla loro capacità di progresso e inclusione sociale. Un’impresa che non investe è un’impresa morta.

Gli economisti ci insegnano che la domanda è fatta di consumi, investimenti, esportazioni nette (la differenza tra esportazioni e importazioni).

Le economie che crescono hanno un’incidenza significativa degli investimenti sul PIL. In Cina fino a qualche anno fa gli investimenti rappresentavano più del 50% del PIL, grazie anche ai mastodontici investimenti nell’immobiliare e in tutti i sistemi infrastrutturali. Negli Usa tale incidenza è intorno al 16-17%, in Europa intorno al 12% (a proposito di minor crescita dell’UE ).

Come detto gli investimenti sono importantissimi per la crescita. Perché?

Perché gli economisti, in particolare negli anni ’30 del secolo scorso l’economista inglese R.F. Kahn seguito da John Maynard Keynes, hanno scoperto e sintetizzato in una formula matematica il fatto che una variazione della componente autonoma degli investimenti produce una variazione più che proporzionale del reddito.

Si tratta del così detto moltiplicatore degli investimenti che parte da una constatazione molto semplice.

Ogni aumento nell’acquisto di nuovi strumenti di produzione dà vita a una catena di relazioni causa-effetto:

  • Aumenta l’occupazione nel settore in cui si producono tali beni o il salario nel caso in cui gli occupati prestino ore di lavoro straordinario;
  • Cresce il reddito dei nuovi o maggiori occupati (e conseguentemente quello nazionale);
  • Cresce di conseguenza la domanda di beni di consumo (si tratta normalmente di beni di consumo durevoli come automobili, elettrodomestici, telefonini, personal computer ecc.);
  • Ne consegue una maggiore attività delle imprese che producono i beni di cui la domanda è aumentata. Tali imprese nello spirito dell’aumento della domanda richiedono nuovi e più grandi strumenti di produzione;
  • Le industrie fornitrici di questi strumenti di produzione a loro volta concedono aumenti salariali agli occupati ecc.

Il reddito addizionale dovuto all’originario investimento in strumenti di produzione genera la nascita di una serie di industrie produttrici di beni di consumo e strumentali e aumenti di occupazione e di reddito. In altri termini un aumento degli investimenti netti provoca un aumento sempre maggiore del reddito nazionale.

Ma cosa è che determina la domanda di investimenti?

Sono gli imprenditori che decidono di farli e gli imprenditori sono mossi fondamentalmente da due fattori nelle loro scelte di fare o non fare investimenti:

  • Il primo fattore è la fiducia. Ecco perché in economia sono così importanti le aspettative psicologiche. Gli imprenditori scrutano l’orizzonte e sono influenzati dall’andamento dell’economia, dalla domanda specifica del proprio settore, dalla stabilità politica, dall’efficienza o inefficienza della Pubblica Amministrazione ecc.
  • Il secondo fattore sono i tassi di interesse. Per fare investimenti è necessario il capitale e questo può essere proprio o preso a prestito. In entrambi i casi ha un costo. Nel caso di capitale proprio un costo/opportunità e cioè la rinuncia al rendimento apportato da un investimento alternativo produttivo o finanziario, nel caso di capitale preso a prestito (debito) gli interessi passivi pagati al soggetto finanziatore.

In una situazione come l’attuale, di forte rallentamento economico, specie in Europa, di turbolenze geopolitiche rappresentate da due gravi crisi e guerre internazionali quali quelle in Ucraina e in Medio-Oriente, di inflazione con conseguente rialzo dei tassi di interesse il clima percepito, almeno da noi Italia Unione Europea, non è favorevolissimo agli investimenti.

In fondo la scelta dell’UE di finanziare un gigantesco piano di investimenti pubblici (il Next generation fund che ha dato vita al nostro PNRR) nata nella crisi pandemica si può rivelare oggi uno straordinario strumento anticiclico promuovendo attraverso la domanda pubblica (perché la domanda di beni e servizi è anche pubblica) la tenuta degli investimenti globali e la ripresa economica.

Anche nelle altre grandi aree economiche del mondo (USA e Cina) lo Stato sta intervenendo con giganteschi investimenti là dove la semplice iniziativa privata non ce la fa, in particolare nel campo della transizione e energetica e digitale.

L’investimento pubblico ha senso se si applica in quei settori, tipico quello delle infrastrutture, in cui la redditività è differita in tempi lunghi che i privati non sono in grado di attendere.

La sfida in questo caso è tutta nella capacità della Pubblica Amministrazione di fare presto e bene. Anche per l’Italia il PNRR è uno straordinario banco di prova.