Energia, Tajani sigla accordo con Tunisia. 21/1 Roma riunione per corridoio idrogeno

Va avanti spedito il lavoro del governo per diversificare le fonti e i partner di approvvigionamento energetico. Antonio Tajani chiude alla Farnesina due accordi con l’omologo tunisino Mohammed Ali Nafti, anche nel campo della transizione energetica.

Il 21 gennaio Roma ospita a Villa Madama la riunione per il progetto del corridoio Mediterraneo dell’idrogeno, che prevede la costruzione di una rete di gasdotti tra l’Europa e l’Africa interamente dedicata al trasporto dell’idrogeno. Un progetto al quale partecipano, oltre all’Italia e alla Tunisia, anche la Germania, l’Austria e l’Algeria.

In queste ore in bilico tra la tregua e la guerra nel Medio Oriente, Tajani assicura che la Farnesina lavorerà sempre per perché “il Mediterraneo si trasformi in un mare di commercio e sviluppo e non di morte”. L’Italia vuole essere il ponte non solo geografico ma anche economico e politico tra l’Africa e l’Europa e, ricorda il vicepremier, “abbiamo deciso di rafforzare la collaborazione anche per far sì che la Tunisia possa essere interlocutore primario dell’Ue”. Il Paese è infatti uno dei principali del Piano Mattei.

Negli ultimi due anni i legami tra Roma e Tunisi sono cresciuti: “I nostri accordi sono un modello anche per il resto del continente africano”, scandisce il ministro degli Esteri. Con l’intesa per l’energia (“settore cruciale e ricco di potenzialità”) vengono firmati oggi anche un accordo per la conversione delle patenti (“molto atteso anche da tanti tunisini che vivono in Italia”) e una dichiarazione congiunta per un finanziamento per il triennio 2025-2027 di progetti di cooperazione fino a 400 milioni. “Raddoppiamo gli impegni – rivendica Tajani – a conferma della volontà di essere sempre di più al fianco di Tunisi e della sua crescita”.

Iniziamo il 2025 con nuove idee, molto importanti, che vanno nella direzione che vogliamo, una cooperazione a 360 gradi”, fa sapere Nafti, che spiega come gli accordi firmati oggi riflettano una “visione strategica, ma anche la volontà di garantire un’integrazione migliore con questo Paese amico“.

Al momento, l’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia, con un interscambio di sette miliardi e nel Paese operano mille imprese italiane. Una delle principali è Snam, che gestisce la partita del SoutH2 Corridor insieme TAG, GCA e bayernets. La rete comprende circa 3.300 chilometri di condotte e diverse centinaia di megawatt di capacità di compressione, destinati a diventare assets strategici per il passaggio e l’utilizzo di idrogeno entro il 2030. Lo sviluppo del corridoio fa parte della European Hydrogen Backbone e sarà fondamentale per la creazione di una spina dorsale dell’idrogeno interconnessa e diversificata nel sud e nel centro dell’Europa. Con una capacità di importazione di idrogeno di 4 Mtpa dall’Africa del Nord, il corridoio potrebbe coprire oltre il 40% dell’obiettivo complessivo di importazione fissato dal Piano REPowerEU. Il 22 gennaio, a Milano, Snam presenterà il Piano Strategico 2025-2029 e il SouthH2 Corridor sarà uno dei suoi progetti portanti.

Tra l’Italia e la Tunisia si sta costruendo però anche un vero e proprio “ponte energetico“, Elmed, che metterà in collegamento i sistemi elettrici. Il progetto nasce dalla sinergia e dalla cooperazione tra Terna e Steg, le società che gestiscono le reti elettriche dei due Paesi. Sarà la prima interconnessione in corrente continua tra l’Europa e l’Africa. Un’opera che, grazie alla bidirezionalità dei flussi, garantirà importanti benefici elettrici e ambientali. L’elettrodotto si snoderà tra la stazione elettrica di Partanna, in Sicilia, e quella di Mlaabi, nella penisola tunisina di Capo Bon, per una lunghezza complessiva di circa 220 chilometri (di cui circa 200 chilometri in cavo sottomarino), con una potenza di 600 megawatt e una profondità massima di circa 800 metri, raggiunti lungo il Canale di Sicilia.

La firma dell’accordo intergovernativo di oggi sulla transizione energetica, sulla realizzazione del cavo di interconnessione elettrica tra i due paesi e sulla possibilità per le imprese italiane di investire nelle energie rinnovabili in Tunisia, “segna una tappa fondamentale nella costruzione di un nuovo modello di cooperazione”, osserva Antonio Gozzi, special advisor di Confindustria con delega all’autonomia strategica europea, piano Mattei e competitività e Presidente di Interconnector Energy Italia. Interconnector è il Consorzio italiano che si occupa di realizzazione e finanziamento di infrastrutture di interconnessione con l’estero: “Abbiamo lavorato a stretto contatto con la Farnesina, il Ministero dell’Energia, la task force di Palazzo Chigi per il Piano Mattei, l’Ambasciata italiana a Tunisi e con il governo tunisino per portare a compimento questo progetto – afferma -. Si aprono ora interessanti opportunità per l’impegno e il coinvolgimento delle imprese italiane nel contesto più ampio del Piano Mattei“.

Adesso anche il Pd torna a occuparsi di industria? Domande alla segretaria Schlein

In una recente intervista al ‘Corriere della Sera’ Romano Prodi afferma che “l’industria italiana è in grave crisi così come quella tedesca, ma a differenza che in Germania da noi non se ne discute. Non lo fa neppure Confindustria”, e a proposito del Pd di Elly Schlein l’ex presidente della Commissione Europea afferma “non vedo grandi discussioni, a partire dalla direzione e dalla segreteria sulla politica industriale”.

Per la prima parte non mi sento di condividere le affermazioni di Prodi.

Mettere sullo stesso piano la situazione dell’industria tedesca con quella dell’industria italiana non tiene conto delle specificità del nostro sistema industriale, più volte richiamate su queste pagine, e in particolare della sua maggiore diversificazione e resilienza rispetto a quello della Germania, molto più concentrato su automotive e chimica, due settori oggi in grave crisi.

Non può invece essere in grave crisi almeno per ora un’industria manifatturiera come quella italiana, prevalentemente costituita da pmi a conduzione familiare, che è diventata la quarta in termini di esportazioni mondiali superando Giappone e Corea del Sud e che, in un momento di caduta generale della competitività dell’industria europea, mostra tutta la sua forza e il suo vantaggio competitivo fatto di intensità di lavoro delle famiglie proprietarie e dei loro collaboratori, di qualità dei prodotti, di design, bellezza, innovazione ecc.

Inoltre è ingeneroso dire che Confindustria non si occupa della situazione dell’industria nazionale e che non parla delle difficoltà che pure ci sono. La presidenza di Emanuele Orsini, fin dalle prime battute, ha posto con coraggio temi centrali per il futuro dell’industria europea e italiana e per la loro competitività, quali quelli del prezzo dell’energia e della necessità del nucleare di quarta generazione; delle distorsioni ideologiche del “green deal” che, se gestito come si è fatto fino ad oggi, rischia di trasformare la decarbonizzazione in desertificazione industriale; della crisi dell’automotive e della necessità di applicare il principio della “neutralità tecnologica”, che significa non cancellare i motori endotermici ma sviluppare accanto all’elettrico anche i biocombustibili e i combustibili sintetici; e così via.

La chiarezza e la forza del messaggio di Confindustria sono emersi nel trilaterale di Parigi di due settimane fa di cui ho parlato nel mio editoriale della settimana scorsa.

Prodi ha invece ragione quando dice che il Pd non parla da tempo di industria e di politiche industriali. E ciò stupisce non poco perché nella tradizione della sinistra italiana i temi dell’industria e del lavoro sono sempre stati storicamente centrali.

Negli ultimi giorni Elly Schlein, forse anche a seguito della critica di Prodi, ha dichiarato di volersi occupare di industria. Molto bene, ben tornati.

Le grandi questioni dell’industria europea e italiana, nel contesto del rapido cambiamento globale e di una sempre più serrata competizione con Stati Uniti d’America e Cina, richiedono un impegno generale non solo del mondo delle imprese e delle loro rappresentanze ma di tutte le forze politiche e sociali, senza il sostegno delle quali sarà difficile vincere le dure sfide che stanno dinanzi all’industria nel nostro continente.

C’è un problema di consenso su alcune questioni fondamentali e sulle cose da fare subito, perché tale consenso ancora non c’è. Il rapporto Draghi, al quale Von der Leyen dice di volersi ispirare per definire un Clean Industrial Deal nei primi 100 giorni del suo mandato, può aiutare nella ricerca di una linea condivisa.

Occuparsi di industria in maniera non astratta e non retorica significa entrare nel merito dei problemi e misurarsi con le contraddizioni e gli errori che sono stati compiuti dall’Europa negli ultimi vent’anni e che sono ascrivibili, come ho detto più volte, a un problema culturale, la “sindrome dei primi della classe”, con tutto il suo portato iper-regolatorio, di estremismo ambientalista e di fastidio nei confronti dell’industria, specie quella di base.

Tali errori hanno portato ad una situazione di grave crisi economica europea e di sempre maggiore gap con gli Stati Uniti d’America, in termini di PIL, di reddito pro-capite, di primato perduto nel valore aggiunto prodotto dall’industria, di ritardo nella ReS e nell’innovazione, di scomparsa delle grandi aziende europee nel ranking delle grandi imprese mondiali.

Siccome la segretaria del Pd dice di volersi occupare di industria, mi permetto di sottoporle una serie di punti e di questioni rispetto alle quali non si conosce la posizione del suo partito. Tali questioni dovrebbero invece costituire oggetto di una seria riflessione interna per giungere a posizioni chiare non solo del Pd ma di tutti i socialisti europei. Si tratta di problemi vitali per l’industria europea. Ecco un piccolo elenco.

1 – L’Europa è responsabile per il 7% delle emissioni mondiali di CO2. L’industria europea per meno della metà di questo 7%. Per contro, le emissioni di CO2 a livello mondiale stanno crescendo di anno in anno, perché le altre grandi aree economiche del mondo, a partire dagli Usa e dalla Cina, non si allineano alle politiche europee contro il climate change, dando così alle loro industrie un vantaggio competitivo enorme rispetto alle nostre. Che fare? Il Pd ritiene che si debba proseguire con l’estremismo ambientalista che ha caratterizzato l’era Timmermans o, senza disconoscere l’obiettivo strategico della decarbonizzazione, ritiene lo si possa perseguire con modi e tempi che non desertifichino industrialmente il nostro continente? In questo caso quali sono, secondo il Pd, le modifiche da apportare all’approccio europeo?

2 – L’era digitale, con la crescita dei Data Center e delle applicazioni di IA, avrà caratteristiche fortissimamente energivore. Le sole energie rinnovabili, seppure importanti, non saranno sufficienti a soddisfare il fabbisogno crescente di energia specie elettrica. Il Pd è favorevole al concetto di neutralità tecnologica? E cioè, per dirla alla Deng Xiaoping, ‘non è importante che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo (in questo caso la CO2)’? Ciò significa essere consapevoli che le energie rinnovabili da sole non bastano e che per rispondere alla domanda crescente di energia e nel contempo decarbonizzare occorreranno tutte le altre tecnologie disponibili, quali il nucleare di quarta generazione, le carbon capture, i biofuel ecc. Il Pd è d’accordo? E in particolare, quale è la posizione del Pd sul nucleare di quarta generazione, SMR e microreattori?

3 – La promessa che i posti di lavoro creati dal green deal sarebbero stati molto superiori a quelli distrutti nelle industrie europee tradizionali si è rivelata, fino ad oggi, vana. In realtà l’Europa con il green deal ha creato una gigantesca occasione di business per la Cina, che è dominante in tutte le aree legate alla decarbonizzazione: dai pannelli solari, agli inverter, dalle pale eoliche al litio, alle batterie, alle auto elettriche. Ciò ha creato e creerà una nuova dipendenza strategica. Come evitare questa dipendenza? Le prime esperienze di ricerca di autonomia, ad esempio nella fabbricazione di batterie e pannelli in Europa, sono state spesso fallimentari. Quale è la posizione del Pd rispetto a questo rischio? A proposito di eventuali dazi che dovrebbero proteggere le auto elettriche europee dalla concorrenza sleale di quelle cinesi sovvenzionate dallo stato, Draghi scrive nel suo rapporto che in una giungla di carnivori gli erbivori rischiano la pelle. L’avvento di Trump e i suoi propositi di incremento dei dazi rendono la situazione ancora più difficile. Il Pd condivide il concetto espresso da Draghi? I due governi europei a guida socialista (quello tedesco e quello spagnolo) si sono dichiarati contro l’applicazione di dazi rinforzati alle auto elettriche cinesi.

4 – Un motore endotermico ha un indotto dalle 10 alle 12 volte superiore di quello elettrico. Solo in Italia sono a rischio 70.000 posti di lavoro nelle nostre fabbriche di subfornitura automobilistica. È favorevole il Pd a spostare in avanti la scadenza del 2035 per la messa al bando delle auto con motore endotermico? In molte nazioni europee, come Svezia e Germania, si pensa di riconvertire parte dell’industria automobilistica messa in crisi (anche) dal green deal in industria della difesa. Cosa dice il Pd al riguardo?

5 – Il sistema ETS, che ha creato il mercato delle quote di CO2 per le imprese emittenti gas climateranti con i loro processi industriali, non è mai stato sottoposto a un’analisi di impatto. Dopo 20 anni di funzionamento sarebbe il caso di fare uno studio oggettivo di cosa questo sistema ha dato e cosa ha tolto. Il Pd è favorevole alla proposta fatta due anni fa dal premier spagnolo Sanchez, e rifiutata dalla Commissione Europea, relativa alla estromissione dal mercato delle CO2 degli intermediari finanziari, banche di affari e fondi, che speculano sulle quote che gli industriali devono acquistare, facendone sovente esplodere il prezzo?

6 – Il Pd è favorevole ad una revisione del CBAM (il meccanismo di dazio ambientale introdotto nel tentativo di proteggere l’industria europea dalle industrie di altre parti del mondo non sottoposte a tasse carboniche)? Tale sistema da un lato è insostenibile soprattutto per le pmi per la sua complessità e macchinosità; dall’altro a partire dal 2027-2030 eliminerà le quote gratuite di CO2 per le imprese hard to abate. Ciò significherà la chiusura della siderurgia da alto forno, di pezzi importantissimi di chimica, di tutta la ceramica, dell’industria del vetro, delle fonderie, della carta. Il Pd e il gruppo socialista al Parlamento europeo pensano di fare qualcosa per impedire questo disastro?

7 – A causa dell’iper-regolamentazione e delle politiche del green deal l’Europa, nonostante sia ancora il mercato più grande e ricco del mondo, ha perso progressivamente attrattività per gli investimenti esteri. Le imprese extra-europee sono sempre più restie ad investire in Europa. Non solo, assistiamo al fatto che sempre più industrie e industriali europei pensano di investire e crescere fuori dall’Europa, negli USA in particolare. Cosa si deve fare secondo il Pd per ridare attrattività agli investimenti esteri in Europa, che spesso significano innovazione e occupazione?

8 – Il Pd è favorevole ad un’industria europea della difesa, premessa indispensabile per politiche comuni della difesa in Europa? Il Pd è favorevole, a questo fine, a portare la spesa militare italiana al 2% del PIL come da impegni internazionali?

9 – L’occupazione è cresciuta molto in Italia negli ultimi anni specie nella forma di contratti a tempo indeterminato. Il tasso di disoccupazione in Italia, ci dice l’Istat, è il più basso da molto tempo. L’industria italiana ha un enorme problema quantitativo e qualitativo di mano d’opera. Si calcola che ci siano 400.000 posti di lavoro non coperti. Per questo le imprese cercano in ogni modo di fidelizzare il rapporto con i propri collaboratori. Non ritiene il Pd che porre il tema in termini di salario minimo e lotta alla precarietà non colga le vere questioni che attengono al mercato del lavoro per l’industria? Perché si è promosso un referendum contro il Jobs Act, misura adottata da un Governo a guida Pd, che attraverso meccanismi flessibili ha creato più di 1 milione di posti di lavoro ed è stato molto gradito dall’industria italiana? Perché non si è lavorato sulla parte centrale e più strategica del provvedimento, che è quella relativa alla formazione e riqualificazione dei lavoratori?

10 – Il meccanismo del 5.0, che ha a disposizione oltre sei miliardi per la transizione energetica e digitale dell’industria italiana, è praticamente bloccato per la complessità applicativa dovuta all’incrocio tra regole italiane e regole europee. Cosa dice il Pd al riguardo?

11 – Il Pd è favorevole alla proposta di Confindustria di un’IRES premiale per le imprese che trattengono gli utili in azienda e ne reinvestono una parte consistente in innovazione e formazione del capitale umano?

Si tratta di questioni cruciali per il futuro dell’industria italiana ed europea.

Sarebbe interessante avere la posizione ufficiale del Pd su ciascuna di esse, tanto per comprendere, al di là delle parole, la reale disposizione di quel partito nei confronti dell’industria.

A Parigi l’Italia industriale mostra la sua forza e impressiona Francia e Germania

Nei giorni 21 e 22 novembre scorsi si è tenuto a Parigi l’incontro trilaterale tra MEDEF, la Confindustria franceseBDI, la Confindustria tedesca, e la nostra  Confindustria. Ho partecipato e sono intervenuto ai lavori del convegno come Consigliere del Presidente Orsini per la Competitività e l’Autonomia strategica europee.

Si è trattato di un confronto importante perché, oltre agli esponenti delle associazioni degli industriali, sono intervenuti anche la Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, il Primo Ministro francese Michel Barnier, il Vice-Primo Ministro e Ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani, il Ministro dell’Industria italiano Adolfo Urso, il Ministro dell’Industria francese Marc Ferracci, il Sottosegretario tedesco all’Economia Bernhard Klutting.

Era annunciata anche la presenza della Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen che però all’ultimo momento non è potuta intervenire. Anche il Ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck, che pure era atteso, non si è fatto vedere mostrando l’enorme difficoltà della politica tedesca in questo momento.

L’incontro trilaterale ha coinciso con un momento molto particolare e a tratti drammatico dell’economia europea: forte rallentamento della congiuntura ovunque e recessione in Germania, progressiva perdita di competitività dell’industria in generale e crisi drammatica dell’automotive, grandi incertezze geopolitiche connesse ai due conflitti in corso alle porte dell’Europa, vittoria di Trump alle presidenziali in USA e incognite relative all’annunciata politica dei dazi che verrà praticata dalla nuova Amministrazione americana e all’atteggiamento statunitense nei confronti della Nato.

Nella due giorni si è respirata un’aria di grande preoccupazione per la situazione attuale sia da parte industriale che da parte politica, e più volte sono stati richiamati i contenuti del Rapporto Draghi e il suo messaggio di fondo relativo alla necessità di agire con urgenza se si vuole evitare che il declino in atto in Europa si trasformi in una neanche troppo lenta agonia.

I dati macroeconomici sono impietosi. Nonostante condizioni al contorno molto favorevoli per l’Europa negli ultimi 20 anni (il più grande e ricco mercato del mondo, tassi di interesse bassissimi o in certi momenti nulli che avrebbero consentito investimenti in ricerca e sviluppo e innovazione che invece non sono stati fatti, energia comprata a costi bassi dalla Russia) la performance dell’economia europea ha continuato a peggiorare nei confronti delle due altre grandi aree economiche del mondo, Usa Cina.

Tale traiettoria negativa è confermata da una serie di elementi:

  • Il confronto tra l’andamento dell’economia americana e quella europea; nel 1992 i due continenti avevano una quota di PIL mondiale praticamente identica, oggi l’Europa è nettamente dietro gli Stati Uniti con un reddito medio pro capite  dei suoi cittadini che è praticamente la metà di quello americano;
  • Con riferimento alla quota di mercato dell’industria manifatturiera, a livello mondiale siamo passati dalla prima posizione del 2007 alla terza, dopo Usa e Cina, del 2022;
  • Nel ranking mondiale delle grandi imprese la prima impresa europea è solo 25esima;
  • Gli investimenti esteri in Europa, che per moltissimo tempo hanno superato di molto quelli realizzati negli Usa e in Cina, sono collassati del 44% nel periodo 2019-2023 rispetto ai dieci anni precedenti, con una riduzione di circa 150 miliardi di dollari all’anno;
  • A partire dal 2000 vi è stata una significativa caduta di produttività del lavoro rispetto a quella registrata negli Usa;
  • L’Europa rimane strutturalmente sotto gli Usa con riferimento alle spese di ReS (poco più di 2 miliardi di dollari l’anno contro i 3,5 degli USA) e negli ultimi due anni anche la Cina ha superato il nostro continente con riferimento a questo parametro;
  • Il prezzo dell’energia negli Usa è meno di un terzo di quello pagato in Europa dalle imprese industriali (se si guarda il dato italiano parliamo di 1/5).
  • E infine le tendenze demografiche europee sono drammatiche, con un progressivo invecchiamento e diminuzione della popolazione che apre prospettive fosche rispetto ai livelli di spesa sanitaria e sociale e alla loro sostenibilità.

A fronte di questa situazione che, come ho sostenuto più volte, comporta rischi esistenziali per l’Unione Europea e il suo modello sociale e politico, ed evidenzia i gravi errori di presunzione delle politiche europee dell’ultimo decennio,  afflitte da quella che ho definito “la sindrome del primo della classe”, non sembra ancora esservi una diffusa presa di coscienza.

In particolare il confronto di Parigi ha evidenziato da un lato titubanze e paure anche di parte degli industriali francesi e tedeschi e dei loro governi ad esprimere una critica troppo radicale dell’eccesso regolatorio dell’Europa e del green deal così come è stato concepito, dall’altro una posizione rigida e ideologica della burocrazia europea che nei suoi esponenti di punta ha confermato l’approccio iper regolatorio (che costituisce la fonte del suo potere) e il sostegno incondizionato alle politiche di decarbonizzazione estremiste e ideologiche dell’era Timmermans.

Emblematico al riguardo è stato l’intervento della tedesca Kerstin Jorna, Direttore Generale per il Mercato interno, l’industria, l’imprenditoria e le PMI della DG Crescita della Commissione. Discutendo e polemizzando con me in un panel dal titolo “Quali urgenti azioni sono necessarie per prevenire il declino e la debolezza dell’industria europea” Jorna, nello sconcerto generale della sala, ha affermato che l’unico modo per abbassare il prezzo dell’energia è continuare a investire esclusivamente in rinnovabili e non nel nucleare, che è troppo caro: alla faccia del principio di neutralità tecnologica.

Rispetto a questo quadro  e a tutte le sue incertezze la vera novità è stata la forza e la compattezza  della posizione italiana espressa chiaramente non solo dai rappresentanti di Confindustria ma anche dai Ministri Tajani e Urso. Le nostre posizioni sono state in gran parte recepite nella Dichiarazione finale firmata dai tre presidenti delle organizzazioni imprenditoriali di cui riportiamo il testo integrale in allegato. (leggi qui)

La sensazione che abbiamo avuto è che l’Italia industriale, anche per la profonda crisi in atto dell’economia e delle industrie tedesche e francesi, abbia un ruolo centrale e di traino  e che questo ruolo sia percepito come tale dagli altri partner europei.

Il primo Ministro francese Barnier ha riconosciuto che il modello industriale italiano, così diversificato in una molteplicità di filiere, così intrecciato con i territori e i distretti di specializzazione, così creativo alla ricerca della qualità, del design, dell’innovazione, così performante in termini di esportazioni (siamo i quarti del mondo avendo superato Giappone e Corea del Sud), così inclusivo anche dal punto di vista sociale, rappresenta un modello importante per la ricerca di competitività. E l’attenzione di Barnier per l’Italia è stata confermata dal fatto che la prima visita di Stato nel nuovo primo Ministro francese non sarà a Berlino ma a Roma.

L’industria italiana oggi resiste meglio alla tempesta per le caratteristiche sopra richiamate, e forse anche per l’attitudine degli italiani ad adattarsi e a gestire le situazioni di crisi in cui permanentemente abbiamo vissuto. Viene sempre alla mente la considerazione di Darwin “nel lungo periodo non vinceranno e sopravviveranno né i più forti, né i più intelligenti ma i più adattivi”.

Oggi noi italiani possiamo svolgere in Europa, senza presunzioni e arroganze, ma con autorevolezza, un importante ruolo di guida. Dobbiamo esserne coscienti per la responsabilità e la fatica che ci toccheranno ma anche con la consapevolezza di essere un grande Paese.

nucleare

Perché anche in Italia c’è bisogno dell’energia nucleare

La domanda di energia, e di energia elettrica in particolare, sta aumentando in tutto il mondo. Ciò accade non soltanto per lo sviluppo di nuove economie (si pensi a cosa è avvenuto in Asia negli ultimi trenta anni, e a cosa avverrà in Africa nei prossimi trenta): anche le economie già sviluppate, come Stati Uniti d’AmericaCanadaEuropaGiapponeAustralia ecc. vedono una crescita costante dei consumi elettrici. Questo tanto per l’elettrificazione progressiva dovuta alla necessità di decarbonizzazione e di lotta al cambiamento climatico dei processi industriali e dei sistemi di trasporto, quanto perché l’era dell’Intelligenza Artificiale, dei grandi centri di elaborazione dati e della digitalizzazione si presenta come estremamente energivora.

È ormai chiaro a tutti che le energie rinnovabili, in particolare fotovoltaico ed eolico, non bastano perché sole e vento sono intermittenti e non programmabili e quindi non possono soddisfare a pieno le esigenze di base load (energia di base continua) che è indispensabile nei settori industriali, compresi quelli delle nuove tecnologie digitali, ed ancor più nei servizi di base strategici come ospedali, difesa, sicurezza, trasporti e tutela ambientale, che devono funzionare 24 ore su 24. Anche la tecnologia degli accumuli e delle batterie che immagazzinano l’energia prodotta dalle rinnovabili nelle ore di funzionamento sono inefficienti e del tutto insufficienti per i grandi consumi industriali.

In questo contesto, sommariamente delineato, l’utilizzo di energia nucleare torna ad essere un elemento determinante. In molte parti d’Europa e del mondo questo è già realtà. In Italia la transizione energetica nel presente e nel prossimo futuro, oltre che delle rinnovabili, non potrà fare a meno del gas, che comunque ha un’impronta di CO2 decisamente più bassa del carbone, e all’utilizzo del quale possono essere applicate le tecnologie delle CCUS (carbon capture utilisation and storage) di cui parleremo un’altra volta; né potrà fare a meno, soprattutto per le esigenze di base load, del nucleare, che a poco a poco renderà il gas residuale.

La riflessione e il dibattito si sono ufficialmente riaperti nel nostro Paese. Prima con un voto del Parlamento a maggioranza con cui si è stabilito che “al fine di accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia il Governo deve valutare l’opportunità di reinserire nel mix energetico nazionale anche il nucleare quale fonte alternativa e pulita per la produzione di energia”, poi con un’iniziativa del Ministro dell’Energia Pichetto Fratin, che ha incaricato un insigne giurista di predisporre uno schema legislativo da sottoporre al Parlamento che sia in grado di superare i limiti e vincoli discendenti dai referendum di moltissimi anni fa.

Nel frattempo si susseguono convegni, approfondimenti, prese di posizione in cui si torna a discutere della questione. La cosa interessante è che i cittadini mostrano una nuova attenzione al tema, e soprattutto che i giovani, liberi da pregiudizi ideologici tipici dell’ambientalismo militante, si dichiarano in maggioranza favorevoli al nucleare. Emerge con sempre maggiore chiarezza che il futuro energetico, completamente decarbonizzato, sta in un mix di rinnovabili e nucleare perché queste tecnologie mostrano una totale complementarietà.

Il nucleare tra l’altro consentirebbe di produrre idrogeno a costi contenuti, cosa che oggi non è se lo si produce con energia verde, e quindi darebbe un fondamentale contributo a risolvere il problema dei processi e settori industriali non elettrificabili (ceramica, cemento, vetro ecc.).

Se si vuole affrontare il tema senza contrapposizioni ideologiche e estremismi vari bisogna andare al merito, ed analizzare oggettivamente i problemi partendo innanzitutto dalla sicurezza e dai costi di questa fonte energetica.

Si parla qui di nucleare di quarta generazione, e cioè di un’evoluzione sostanziale della tecnologia attuale. Molte sono le novità che dovrebbero consentire di avere impianti di questo tipo funzionanti tra una decina d’anni. Parliamo innanzitutto di piccole unità da 250/350 MW (SMR che sta per Small Reactors) dai costi di impianto decisamente più contenuti rispetto a quelli degli impianti tradizionali e quindi abbordabili per investitori privati anche utilizzatori.

Il tema dei costi è uno dei più dibattuti. Gli avversari del nucleare sostengono che questa tecnologia è molto costosa se non la più costosa (vedi buon ultimo il Sindaco di Milano Sala sulle pagine del ‘Corriere della Sera’qualche giorno fa). In realtà molto spesso chi fa questi discorsi incorre in inesattezze. Quando si fa il confronto dei costi di installazione a MW delle varie tecnologie energetiche si deve considerare la loro producibilità: il fotovoltaico funziona da noi non più di 1400 ore l’anno, l’eolico non più di 2500, il nucleare ovviamente per tutte le 8700 ore dell’anno. Ciò significa che il costo della tecnologia va necessariamente correlato alla quantità di energia prodotta nell’anno. E se si fa questo confronto il nucleare di nuova generazione è imbattibile.

Inoltre, come è stato giustamente rilevato, i costi vanno considerati tutti, non solo quelli di generazione dell’energia. Una parte significativa dei costi odierni, anche delle rinnovabili, sono i costi accessori. Lo sanno bene le famiglie e le imprese perché leggono sulle bollette che la componente energia vale circa un terzo del prezzo totale. E ciò si deve appunto in gran parte ai costi accessori destinati a crescere esponenzialmente in uno scenario di sole rinnovabili. Si tratta di costi di sbilanciamento e cioè di supporto alla rete quando non c’è sole e non c’è vento, e di costi di trasporto e distribuzione, perché spesso le rinnovabili sono lontane dalla domanda, come succede oggi in Italia. Pannelli fotovoltaici e torri eoliche, infatti, sono installati prevalentemente al Sud quando il grosso dei consumi è al nord.

Il nucleare di quarta generazione, poi, affronta in maniera radicale il problema della sicurezza. Parliamo di impianti progettati per essere estremamente sicuri dal punto di vista strutturale e capaci di utilizzare uranio impoverito riducendo così anche il problema e il costo dello smaltimento delle scorie.

Questi tipi di impianti, per le loro dimensioni contenute, potrebbe essere tranquillamente installati in singoli distretti industriali, supportando così il fabbisogno energetico delle industrie italiane energivore, che pagano oggi l’energia elettrica molto di più di quanto la pagano le loro concorrenti francesi, spagnole e tedesche.

Le imprese siderurgiche italiane hanno recentemente avviato una collaborazione con EDF, Edison, Ansaldo Nucleare proprio sul supporto a progetti di installazione di SMR volti anche a soddisfare la domanda elettrica delle imprese dell’acciaio italiano.

La copertura di una parte dei fabbisogni di energia elettrica di queste imprese con energia nucleare magari comprata in Francia, in attesa che si realizzino gli impianti in Italia, consentirebbe al nostro Paese di essere il primo al mondo a produrre acciaio completamente ‘verde’ e cioè decarbonizzato. Già oggi, infatti, gli elettrosiderurgici italiani consumano energia elettrica prevalentemente prodotta con fonti rinnovabili.

Una bella prospettiva, un obiettivo realistico e ravvicinato che consentirebbe di dire che, come in molti altri campi ambientali e di economia circolare, il nostro Paese è all’avanguardia.

Se a Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla

Donald Trump ha vinto le elezioni americane ed è nuovamente presidente degli Stati Uniti d’America.

La vittoria è stata netta in tutti gli stati chiave e anche in termini di numero di votanti Trump ha superato di larga misura la Harris (quasi 71 milioni di voti contro 66). Trump ha preso più voti in tutte le classi sociali, in tutte le classi di età.

Grazie alla schiacciante vittoria Trump avrà la maggioranza sia al Congresso che al Senato, dove la maggioranza degli eletti è fatta da senatori “trumpiani” di stretta osservanza, e ciò attribuisce al nuovo Presidente poteri quasi assoluti se si considera che controlla anche la Corte Suprema. Io non ricordo, nella più importante democrazia del mondo, una situazione di concentrazione di poteri simile con il venir meno dei classici balance.

Ci sarà tempo e modo per analizzare e comprendere la dimensione e le determinanti di questo voto a partire dalla debolezza e dalla mancanza di leadership della candidata democratica. Una consistente maggioranza di cittadini americani ha votato per un signore molto discusso, sul quale pendono ancora giudizi penali, che non ha mai riconosciuto di aver perso le elezioni precedenti, che ha appoggiato se non ispirato una sedizione popolare contro la vittoria di Biden sfociata nell’assalto a Capitol Hill.

Bisognerà capire il perché di tutto ciò e chiedersi se, al di là di Trump che in definitiva è un uomo in carne e ossa come tutti noi, di 78 anni, provato da anni di vicende difficili e che perde qualche colpo come si è visto in campagna elettorale, la sua vittoria sia il segno di un cambiamento epocale nella storia della democrazia statunitense.

Ma bisognerà anche chiedersi come abbia pesato su questo voto il concentrarsi della proposta dei democratici Usa e di Kamala Harris prevalentemente sui diritti civili con una sempre più scarsa attenzione ai diritti sociali, al tema del lavoro e a quello della tutela delle categorie più colpite (ceto medio e classe operaia) dai venti impetuosi della globalizzazione e alle loro richieste di benessere, stabilità e sicurezza.

Nel frattempo è lecito chiedersi che cosa la vittoria di Trump significhi per gli europei, per l’Europa e per la nostra Italia e quali saranno le conseguenze per il mondo intero della nuova Presidenza. Si tratta di questioni difficili sulle quali dico la mia opinione con molta umiltà e dal mio punto di vista di operatore economico internazionale ma molto concentrato sui temi dell’industria europea e italiana.

Ho detto e scritto più volte che probabilmente l’ultimo Presidente Usa con un po’ di sensibilità atlantica è stato Biden. A Trump il rapporto con l’Europa interessa poco o nulla essendo totalmente concentrato sulla confrontation con la Cina nell’area pacifica.

Ciò ha una serie di conseguenze che potrebbero essere non positive per l’Europa a meno che non diventino dei veri e propri shock destinati finalmente a far comprendere all’Unione Europea quali sono le sfide che le stanno dinanzi, a farle cambiare l’attitudine da prima della classe che, sul piano economico e del confronto con gli Usa e con la Cina, è stata fino ad oggi disastrosa. Un atteggiamento che in venti anni ha fatto perdere all’Europa un terzo del suo PIL nei confronti di quello statunitense e che la vede superata in tutti i settori di punta e innovativi dagli Usa e dalla Cina.

Vediamo rapidamente quali potrebbero essere le conseguenze dell’elezione di Trump.

È molto probabile che ci sarà da parte americana un ulteriore indurimento delle politiche protezionistiche e di protezione dell’industria nazionale che, per la verità, anche la presidenza Biden ha mantenuto. Si parla di dazi monstre sulle auto elettriche cinesi e ciò significa che le esportazioni cinesi, spinte dalla sovra capacità produttiva in tutti i settori industriali di quel Paese, si riverserà nelle aree più aperte, quali appunto l’Europa, mettendo ancora più in crisi i nostri sistemi industriali.

Trump continuerà con tutte le politiche finanziarie e di supporto ai sistemi economici e produttivi statunitensi, allenterà le politiche contro il climate change e la transizione aumentando ulteriormente l’asimmetria con le politiche europee di transizione e ciò causerà ulteriore svantaggio competitivo  per le nostre imprese industriali.

Probabilmente ci sarà negli USA una nuova fase di deregulation finanziaria molto pericolosa tenuto conto dell’importanza delle banche e dei fondi americani e dell’enorme liquidità da questi raccolta.

Ci sarà poi, quasi sicuramente, la richiesta del nuovo Presidente americano ai Paesi europei di aumentare le loro spese per la difesa e la loro contribuzione annuale alle spese Nato così da consentire agli Usa di ridurre il loro contributo che oggi è preponderante. Ciò obbligherà l’Europa a vere decisioni sul tema della difesa comune e della sicurezza strategica, decisioni che impatteranno i bilanci dei Paesi europei con il rischio di un’ulteriore compressione della spesa sociale e sanitaria.

Più in generale c’è il rischio di un indebolimento della solidarietà occidentale per disimpegno statunitense da tutti i teatri che non siano il Pacifico e il confronto con la Cina.

Fa bene Ursula Von der Leyen a rilanciare la necessità di un rinnovato patto atlantico che leghi ancora di più Usa ed Europa. Ma questo appello, fatto dopo la vittoria di Trump, rischia di essere tardivo e di apparire strumentale.

Infine ci sono i due grandi punti interrogativi relativi alle due guerre in corso e sul confronto prossimo venturo con la Cina.

Trump ha detto che farà terminare le due guerre  in pochi giorni e che mai ci sarà una nuova guerra nel corso del suo mandato.

A proposito della aggressione russa all’Ucraina cosa significa questo? Minore aiuto militare a Kiev? Concessioni a Putin sulle sue richieste territoriali e di “finlandizzazione” dell’Ucraina? Ma è possibile che il Presidente degli Stati Uniti d’America faccia vincere Putin? Difficile crederlo ma vedremo.

In Medio Oriente l’appoggio a Israele invece sarà mantenuto e addirittura potenziato nella difesa del suo diritto all’esistenza e nel contenimento delle politiche di destabilizzazione dell’area da parte dell’Iran. Non bisogna dimenticare che gli accordi di Abramo firmati nel 2020 da Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan e che, prima dell’assalto di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023, stavano per essere firmati anche dall’Arabia Saudita furono probabilmente il maggior successo diplomatico della prima amministrazione Trump.

Infine la confrontation con la Cina. I legami economici e finanziari e l’interscambio (nonostante i dazi) tra le prime due potenze del mondo sono talmente importanti che ci si chiede fino a dove potrà spingersi questa confrontation. Quanti Apple vengono venduti in Cina ogni anno? Quanti billions del debito americano sono sottoscritti dalla Cina?

La vittoria di Trump apre tutti questi interrogativi. Il tempo ci aiuterà a comprendere quella che a tutti gli effetti appare come una svolta epocale nei destini del mondo.

Assemblea Federacciai, Gozzi: “Obiettivo acciaio green al 2030 ma Ue volti pagina”

“Ci appelliamo al Governo italiano, al neo Commissario europeo Raffaele Fitto, a cui facciamo i più fervidi auguri di buon lavoro, alle grandi famiglie politiche: popolari, socialisti, liberali e conservatori affinché si faccia il bilancio di questi anni, si intervenga sulle politiche sbagliate nei tempi e nei modi (come è stato nel caso della decarbonizzazione) o assenti del tutto (come è stato nel caso delle politiche industriali e dell’energia) per voltare pagina mettendo l’industria al centro. Perché senza industria, anche quella tradizionale e di base, non c’è Europa”. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, lancia l’allarme per la siderurgia italiana, colpita da una serie di problemi, in primis le norme green europee che rischiano non solo di mortificare il settore continentale, in particolare quello italiano, ma soprattutto l’intera industria a vantaggio di aree del mondo che le regole ambientali nemmeno le rispettano.

L’intervento di Gozzi durante l’assemblea di Federacciai a Vicenza ha lo sguardo che va oltre il 2030, perché in realtà, nel 2023, l’industria siderurgica italiana ha prodotto 21,1 milioni di tonnellate di acciaio, segnando una riduzione del 2,5% rispetto al 2022, ma mantenendo un fatturato significativo, stimato tra i 50 e i 60 miliardi di euro all’anno. La produzione di laminati a caldo ha registrato una flessione dell’1,5%, mentre i laminati lunghi, principalmente utilizzati nell’edilizia, hanno subito una contrazione del 2,6%. Al contrario, i laminati piani, impiegati nei settori automotive, meccanico ed elettrodomestico, hanno mantenuto una produzione stabile.

Il problema principale è quello dell’energia. Tuttavia, le imprese italiane continuano a fronteggiare sfide significative legate ai costi energetici. Nel 2023, le aziende energivore tedesche hanno pagato in media 65 euro/MWh per l’energia elettrica, mentre in Italia i costi superavano i 110 euro/MWh. Questa disparità genera un notevole svantaggio competitivo per il made in Italy a causa del mix energetico nazionale e della mancanza di un mercato elettrico interconnesso a livello europeo. Gozzi ha sottolineato come il sistema del “marginal price” unifichi il costo dell’energia da fonti rinnovabili e idrocarburi, aggravando ulteriormente il problema. Federacciai ha proposto un approccio unificato per l’utilizzo dei proventi d’asta ETS, ovvero le quote di carbonio compensative, evidenziando come paesi come Germania e Francia abbiano investito molto di più dell’Italia nella decarbonizzazione industriale. Un prezzo unico europeo per i settori ad alta intensità energetica – è l’auspicio di Federacciai – potrebbe aiutare a ridurre queste differenze.

Gozzi chiede una svolta normativa perché, se si parla di sostenibilità, l’elettrosiderurgia italiana è già prossima alla neutralità carbonica per quanto riguarda le emissioni dirette. Tuttavia, restano alcune problematiche legate alle piccole emissioni residue dai forni elettrici e dall’uso di gas naturale nei forni di riscaldo dei laminatoi. Per affrontare queste sfide, il settore sta esplorando soluzioni come il biometano e l’idrogeno. Il presidente di Federacciai evidenzia che l’energia elettrica acquistata dalla rete riflette il carbon footprint della produzione nazionale e solo un terzo proviene da fonti rinnovabili. Per raggiungere l’obiettivo del “net zero” o addirittura diventare “carbon negative”, sarà necessario un ulteriore terzo di energia elettrica a zero emissioni di carbonio. Molte aziende hanno già investito in impianti per la produzione di rinnovabili e stanno considerando di partecipare, sia singolarmente che in consorzio, alle gare per il rinnovo delle concessioni idroelettriche, auspicando che vengano bandite al più presto in conformità alle direttive europee.

Piano Mattei, Gozzi: Baricentro Ue si sposta a Sud, Italia diventa strategica

“Il baricentro europeo si è spostato verso Sud e in questo contesto il Mediterraneo e il ruolo dell’Italia diventa sempre più strategico. Tra l’altro noi abbiamo una capacità di dialogo, di empatia, di collaborazione con i Paesi del Nord Africa che altri Paesi occidentali non hanno e quindi noi dobbiamo essere nei confronti di questi Paesi un intelligente ambasciatore di valori dell’Occidente, di libertà, di democrazia e di libera impresa e contemporaneamente di cooperazione internazionale. Il piano Mattei nasce da questa intuizione, nasce dall’intuizione che c’è per l’Italia un’occasione straordinaria che viene proprio dalla collaborazione con questi Paesi. Duferco sta lavorando in Tunisia, in Algeria, in Libia e Marocco in ognuno di questi paesi cerchiamo di mettere le basi per future iniziative”. Lo ha detto a Gea il presidente di Duferco, Antonio Gozzi, che ha partecipato all’evento organizzato da Fondazione Articolo 49 ‘Nuove energie tra Europa e Africa’, nella residenza dell’ambasciatore del Marocco in Italia, a Roma.

“Il tema delle energie rinnovabili, tra l’altro, è uno dei temi centrali. Questi Paesi – aggiunge -, che ci chiedono tecnologia e supporto per i loro programmi di rinnovabili, sono anche disponibili a fare accordi di cooperazione come quello che stiamo facendo con la Tunisia sul cavo Elmed, che consentirà un contatto, uno scambio di energia elettrica con quel Paese. Gli industriali italiani, in particolare quelli energivori, sono disponibili ad andare a investire in energie rinnovabili, eolico, fotovoltaico in Tunisia, lasciando una parte dell’energia prodotta ai tunisini, Piano Mattei, e riportando in Italia come energia verde una parte dell’energia prodotta passando dal cavo che dovrebbe essere in costruzione, tra poco. Terna sta facendo le gare per i cavi, si parla di un realizzazione che dovrebbe essere pronta prima dell’inizio del 2028 e questo è una prospettiva molto concreta, molto importante, uno dei primi grandi progetti del Piano Mattei”.

Piano Mattei, Gozzi: Scambi di personale qualificato aiuto al commercio internazionale

“L’ambasciatore saggio che oggi è il consigliere diplomatico del premier meloni ha realizzato una prima importantissima misura di scambio e di selezione di personale tunisino che può venire in Italia sono 4500 persone che ricevono una prima formazione di base in Tunisia e poi vengono in Italia per avere la formazione specialistica. Questo è un esempio importante di capitale umano. Gli scambi incominciano a esserci: noi abbiamo fatto in Duferco, grazie all’Università di Genova, un accordo col Politecnico Mohamed VI del Marocco, per cui due giovani ingegneri marocchini, esperti in transizione energetica saranno con noi un anno a lavorare e lo scambio di personale qualificato, la formazione di personale qualificato da parte dell’università è l’incrocio tra università italiane e università del Maghreb, è un altro strumento fondamentale di Cooperazione sul capitale umano e credo che l’Italia abbia tutto l’interesse a sviluppare questi rapporti perché naturalmente quando c’è scambio di manager, di dirigenti, lo scambio commerciale diventa molto più semplice, molto più fluido, c’è amicizia e comprensione reciproca e questo aiuta il commercio internazionale”. Lo ha detto a Gea il presidente di Duferco, Antonio Gozzi, che ha partecipato all’evento organizzato da Fondazione Articolo 49 ‘Nuove energie tra Europa e Africa’, nella residenza dell’ambasciatore del Marocco in Italia, a Roma.

Piano Mattei, Gozzi: Genova può essere centrale con un grande progetto culturale

Il Mediterraneo “è destinato a diventare uno dei luoghi cardine dell’incontro tra Nord e Sud del mondo. L’Italia si trova quindi in una posizione strategica e deve cogliere questa opportunità straordinaria sfruttando la sua storia, la sua cultura, le sue imprese, la facilità di relazione con le popolazioni della costa sud del Mediterraneo che ci guardano con un’ammirazione e una simpatia che spesso non hanno nei confronti di altri Paesi occidentali. Il lancio del Piano Mattei da parte del Governo va in questa direzione”. Così Antonio Gozzi, responsabile del Piano Mattei per Confindustria Nazionale, in un intervento pubblicato su Piazza Levante.

Le città marittime, dice il presidente del gruppo Duferco, “in questo contesto diventano sempre più importanti, non solo per i loro porti e i loro traffici, che da sempre uniscono il mondo, ma anche perché saranno formidabili sedi di incontri e incroci tra popoli e culture che si affacciano sul nostro mare”. Ecco allora che Genova “ha l’occasione di rilanciare il suo ruolo nel mondo diventando una delle capitali, se non la capitale, di questo processo. La Liguria, se Genova non sarà ‘la Superba’ ma avrà la capacità di coordinare forze ed energie, può diventare un tassello straordinario in questo disegno”.

Nel suo intervento, Gozzi suggerisce al capoluogo ligure di “candidarsi attraverso un grande evento culturale”, visto che da tempo Genova e la Liguria “non ospitano un grande evento di livello internazionale”. Eppure, dice, “gli ingredienti ci sarebbero tutti: tradizione internazionale marittima e finanziaria, arte moderna, pittura, teatro, progetti di riconversione urbana e di messa in valore del centro storico retroportuale più grande del mondo, progetti di cooperazione universitaria e di ricerca, progetti di cooperazione industriale sulla transizione, progetti marittimi e logistici”.

“Mi piacerebbe – scrive Gozzi – che nei programmi di governo che i vari schieramenti presenteranno per le prossime elezioni regionali ci fosse spazio per questi temi intorno ai quali costruire il futuro della Liguria”, anche perché “senza città aperte alle nuove generazioni tutto sarà limitato a contesti che non si rinnovano e non si trasformano e che, per questo, sono destinati a deperire per egoismo senile”.

Antonio Gozzi: “Modello Genova non è cultura malaffare ma strumento crescita”

Leggo, da parte di vari esponenti del variegato mondo della sinistra genovese e ligure, un attacco frontale al cosiddetto “modello Genova”. Taluni, anche esponenti del Pd, arrivano a dire che “il modello Genova è la moderna espressione della cultura del malaffare”.

Il caldo agostano e gli incipienti furori della prossima campagna elettorale per la Regione non giustificano espressioni di questo tipo, e testimoniano ancora una volta come la sinistra ligure, o almeno buona parte di essa, abbia una vocazione minoritaria, che negli ultimi dieci anni le ha fatto perdere tutto quello che c’era da perdere, ed una postura molto distante dalla cultura di governo (studiare bene Starmer in UK, please).

Continuo a insistere da mesi che il problema italiano, europeo, e per restare alle nostre latitudini anche ligure, è il problema della crescita. Viviamo una fase del mondo in cui o gli europei si svegliano, capiscono il loro gravissimo declino demografico, economico e industriale e reagiscono rimboccandosi le maniche e abbandonando ideologismi astratti, oppure la partita è persa. La crescita e tutti gli strumenti che la supportano devono diventare un’ossessione. C’è una parte della sinistra europea che questo lo capisce e un’altra no.

Io credo che il “modello Genova” sia uno di questi fondamentali strumenti della crescita e ora vi spiego perché.

Innanzitutto, che cosa è e che cosa si intende quando si parla del “modello Genova”?

Tecnicamente con “modello Genova” si intende quel complesso di norme che dopo il crollo del ponte Morandi ha consentito uno snellimento significativo delle procedure burocratiche che regolano gli appalti pubblici e le costruzioni, e ha permesso, nel caso specifico, il procedere rapidamente alla ricostruzione del ponte (ponte San Giorgio) sotto la guida di un Commissario, previsto dalla legge ed individuato nel Sindaco di Genova Marco Bucci.

È stata prima di tutto un’esperienza straordinaria di riscatto e di orgoglio, con la quale Genova è stata capace di reagire all’immane tragedia in tempi rapidi con efficienza, senza che vi sia stato il minimo sentore di nulla meno che regolare e trasparente. La ricostruzione del ponte in tempi record, che ha visto protagonisti due colossi industriali come Fincantieri e Webuild, sotto la regia commissariale, ha dimostrato che si può fare presto, bene e nella legalità, ed ha rappresentato un’iniezione di fiducia positiva per l’ambiente economico di una Regione per troppo tempo dominata da una cultura conservatrice, a tratti immobilista, sempre diffidente verso la crescita e lo sviluppo.

La Liguria ha un estremo ed urgente bisogno di grandi opere infrastrutturali per uscire dal suo isolamento che insieme ad altri fattori, primo fra tutti quello demografico, ne ha provocato il lento declino degli ultimi decenni.

Anche in Liguria ci sono forze politiche che vedono la crescita come una sciagura e le grandi opere come strumenti per alimentare il malaffare e la mafia, e che sono pregiudizialmente diffidenti verso le imprese, i loro progetti, l’iniziativa privata.

L’essere stati capaci di reagire a questa cultura del declino e della decrescita (infelice) con una narrazione diversa, positiva, pragmatica è stato il grande merito dell’amministrazione di Bucci, che pure con i suoi limiti ha cercato e spesso è riuscita ad invertire la rotta proprio sulle questioni strutturali.

Di Bucci abbiamo apprezzato e apprezziamo in particolare il suo ottimismo e la sua capacità di indicare una nuova prospettiva con una cultura civica del fare che è anche il portato della sua precedente esperienza manageriale. Far succedere le cose, trasformare le idee in progetti e i progetti in realizzazioni: sono queste le doti in base alle quali si dovrebbe giudicare un buon amministratore pubblico.

Molti sono i cantieri aperti e/o le realizzazioni dell’amministrazione Bucci: oltre la ricostruzione del ponte, il Waterfront di levante, lo skymetro della Val Bisagno, la revisione totale della mobilità urbana con la forte spinta sui mezzi pubblici e sull’elettrico, la diga portuale per aprire il mercato alle grandissime navi portacontenitori, il tunnel subportuale ecc.

Lo spirito positivo e l’efficienza di realizzazione hanno fatto sì che il governo Draghi prima e quello di Meloni poi abbiano messo a disposizione una mole di risorse mai viste prima (si parla di complessivi 8 miliardi e più di euro) da investire principalmente in infrastrutture e collegamenti di cui, come detto, Genova e la Liguria hanno un enorme bisogno. È un’occasione irripetibile che non si può perdere.

I contestatori del modello Genova dicono che questo modello non si può applicare in ogni caso e a tutto. Il modello emergenziale utilizzato per la ricostruzione del ponte, secondo loro, non si può replicare per la diga, lo sky metro e quant’altro e bisogna al più presto rientrare nella normalità. Dare poteri così importanti ai commissari pone gravi rischi in termini di legalità, ed anzi, secondo il pensiero di questi cultori del declino, fa parte della cultura del malaffare.

I sostenitori di questa tesi non si rendono conto dell’insofferenza del mondo dell’economia, ma anche dei semplici cittadini, rispetto alle lungaggini burocratiche, alle scelte che non si riescono mai a fare: quanti anni ci sono voluti per definire il tracciato della Gronda che oggi la sinistra vuole rimettere in discussione? La pesantezza normativa e la burocrazia “guardiana” che la gestisce costituiscono uno dei peggiori ostacoli allo sviluppo e alla modernizzazione del Paese e di una regione come la nostra in cui la situazione emergenziale non si è conclusa con il Ponte San Giorgio.

Sono la complicazione della norma e l’elefantiasi burocratica che spesso favoriscono la corruzione e il malaffare, non i commissari che invece si assumono le responsabilità delle procedure e dello stato di avanzamento dei lavori e ci mettono la faccia come ha fatto e fa Bucci.

Il modello Genova è stato ed è un modo virtuoso di sintonizzare i tempi di realizzazione delle opere pubbliche con la velocità a cui corre il mondo di oggi. Altro che malaffare: viva il “modello Genova”!