Costo climatico record per ricostruire Gaza: emissioni pari a quelle di 135 Paesi

La ricostruzione degli edifici distrutti nei primi quattro mesi dell’assalto israeliano a Gaza genererà l’equivalente di quasi 60 milioni di tonnellate di CO2. Di fatto, il costo del carbonio per ricostruire Gaza sarà maggiore delle emissioni annuali di gas serra generate individualmente da 135 paesi, esacerbando l’emergenza climatica globale oltre al bilancio delle vittime senza precedenti. E’ quanto rivela una nuova ricerca condotta da ricercatori nel Regno Unito e negli Stati Uniti, pubblicata sul Social Science Research Network e condivisa esclusivamente con il Guardian.

La ricostruzione dei circa 200mila condomini, scuole, università, ospedali, moschee, panifici, impianti idrici e fognari danneggiati e distrutti da Israele nei primi quattro mesi della guerra a Gaza genererà fino a 60 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (tCO2e): quasi alla pari con le emissioni totali del 2022 generate da paesi come Portogallo e Svezia, e più del doppio delle emissioni annuali dell’Afghanistan.

Secondo lo studio, la ricostruzione a lungo termine genererà il costo maggiore in termini di emissioni di carbonio dalla guerra a Gaza. Circa 26 milioni di tonnellate di detriti e macerie sono stati lasciati in seguito al bombardamento israeliano, la cui bonifica potrebbe richiedere anni.

Dalla ricerca, sintetizza il quotidiano britannico, emerge come le emissioni di riscaldamento del pianeta generate dagli attacchi aerei e terrestri durante i primi 120 giorni della guerra a Gaza siano state superiori all’impronta di carbonio annuale di 26 delle nazioni più vulnerabili al clima del mondo, tra cui Vanuatu e Groenlandia. Inoltre, oltre il 99% delle 652.552 tonnellate di anidride carbonica (CO2 equivalente/CO2e) stimate essere state generate nei primi quattro mesi dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre sono legate al bombardamento aereo di Israele e all’invasione terrestre di Gaza. Quasi il 30% delle emissioni totali di CO2e sono state generate dai 244 aerei cargo americani che hanno trasportato bombe, munizioni e altri rifornimenti militari verso Israele nei primi 120 giorni. Secondo il calcolo, che è quasi certamente una sottostima significativa a causa della mancanza di dati sulle emissioni militari precisa la ricerca, il costo del carbonio dei primi 120 giorni dell’assalto israeliano a Gaza era equivalente al consumo energetico annuale combinato di 77.200 famiglie americane.

L’analisi fornisce un’istantanea conservativa del costo climatico dell’attuale guerra a Gaza, oltre alle uccisioni, alla carestia deliberata, ai danni alle infrastrutture e alla catastrofe ambientale. E sottolinea anche i dati della macchina bellica di ciascuna parte: i razzi di Hamas lanciati su Israele tra ottobre 2023 e febbraio 2024 hanno generato circa 1.140 tCO2e. Altre 2.700 tCO2e sono state attribuite al carburante immagazzinato dal gruppo prima del 7 ottobre. Nel complesso, l’impronta di carbonio di Hamas nei primi 120 giorni è stata equivalente al consumo energetico annuale di 454 case americane.

“Mentre l’attenzione del mondo è giustamente focalizzata sulla catastrofe umanitaria, anche le conseguenze climatiche di questo conflitto sono catastrofiche”, ha affermato Ben Neimark, docente senior presso la Queen Mary University di Londra (QMUL) e coautore della ricerca. “Eppure il nostro studio è solo un’istantanea che tiene conto delle maggiori emissioni di gas serra segnalate dalla macchina da guerra nei primi 120 giorni”.

“Una delle gravi conseguenze della guerra a Gaza è stata la massiccia violazione del diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile… che rappresenta un grave rischio per la vita e il godimento di tutti gli altri diritti”, ha affermato Astrid Puentes, la relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l’ambiente. “La regione sta già sperimentando gravi impatti climatici che potrebbero peggiorare”.

L’analisi di 120 giorni, che si basa su una precedente ricerca riportata dal Guardian a gennaio, include le emissioni dirette di CO2 derivanti dai bombardamenti e dai voli di ricognizione, dai serbatoi e dal carburante di altri veicoli, nonché dalle emissioni generate dalla produzione e dall’esplosione di centinaia di migliaia di bombe.
Per la prima volta, i ricercatori hanno anche calcolato le emissioni dei camion che effettuano il viaggio di andata e ritorno di 370 miglia (595,5 km) dall’Egitto a Gaza per consegnare aiuti umanitari a 2,3 milioni di palestinesi affamati intrappolati sotto i bombardamenti. Secondo lo studio, i circa 1.400 camion a cui Israele ha consentito di entrare a Gaza tra l’inizio di ottobre e febbraio hanno generato quasi 9.000 tonnellate di CO2e. Ulteriori 58.000 emissioni di CO2e provenivano da generatori diesel ora utilizzati per generare elettricità a Gaza dopo che Israele ha danneggiato o distrutto gli impianti solari dell’enclave e l’unica centrale elettrica (prima del conflitto, circa il 25% dell’elettricità di Gaza proveniva da pannelli solari, una delle percentuali più alte del mondo.)

Ucraina, dalle macerie della guerra la ricostruzione per un futuro green

Riutilizzare le macerie della guerra per ricostruire un futuro green. Avvolti nella leggera foschia di un cantiere nel sud dell’Ucraina, operai con caschi rossi lavorano tra i resti di una scuola distrutta da un bombardamento russo. Quello che attualmente è solo un cumulo di macerie sarà riciclato per riparare i danni causati dal conflitto. Per farlo, il grande cumulo di detriti deve essere pazientemente smistato dai dipendenti, ex soldati ucraini smobilitati soprattutto per motivi di salute e reclutati dalla società francese Neo-Eco, specializzata nella procedura, a Lyubomyrivka, nella regione di Mykolaïv. “L’idea è di sbarazzarsi dei rifiuti, senza gettarli in discarica, e di riutilizzarli”, spiega Artem Soumara, che gestisce il progetto.

Basta dare un’occhiata alle macerie per immaginare l’aula che si trovava lì prima di essere distrutta durante i primi mesi della guerra del 2022. Un libro di fisica giace ancora tra i mattoni danneggiati, accanto ad alcuni quaderni strappati. Una volta completato il processo, alcune delle rovine della scuola potranno essere utilizzate per costruire strade, produrre cemento e fondamenta.

Tutto questo “non è facile”, ammette Soumara, e “riciclare è più difficile che comprare nuovo”. Ad esempio, i materiali troppo contaminati dall’amianto, molto diffuso in Ucraina, non possono essere riutilizzati così come sono. In ogni caso, il responsabile del progetto spera di riciclare almeno il 70% dei detriti.

Secondo Neo-Eco, il processo è meno inquinante rispetto all’utilizzo di nuovi materiali, poiché il settore edile è uno dei principali responsabili delle emissioni di CO2. I materiali prodotti in questo modo “costano meno di quelli nuovi”, assicura inoltre Soumara.

Questi aspetti sono cruciali per l’Ucraina, che vuole già iniziare la ricostruzione anche se i combattimenti continuano. La guerra ha causato danni immensi, soprattutto nella parte orientale e meridionale. Secondo la Banca Mondiale, circa il 10% del patrimonio abitativo del Paese è stato danneggiato o distrutto e Kiev stima che alla fine dello scorso anno la guerra avesse già generato 450 milioni di tonnellate di detriti. Un quantitativo decisamente eccessivo per la capacità delle discariche del Paese, che già faticava a riciclare prima dell’invasione. Se abbandonati, questi detriti potrebbero contaminare i campi e le foreste circostanti.

Neo-Eco ha utilizzato questa tecnica dopo l’esplosione del porto di Beirut nel 2020. Ma applicarla in una zona di guerra molto più difficile. Essere circondati da questa distruzione permette agli ex soldati che lavorano nel sito di sentire che “stanno aiutando la loro patria nel confronto con l’aggressore”, anche dopo aver deposto le armi, dice Nelli Iarovenko, la cui ong Mission East è partner del progetto.

Uno di loro, Volodymyr Vinokour, che è stato ferito da schegge sul fronte orientale, lo vede come un “ponte verso la vita civile”. “Ogni giorno avanziamo un po’ alla volta e trasformiamo l’edificio distrutto in qualcosa di nuovo. Stiamo cancellando le conseguenze della guerra”, afferma il 52enne.

Il compito sarà titanico. Il governatore della regione di Mykolaïv, Vitaly Kim, stima che solo il 30% delle migliaia di edifici danneggiati nella zona sia stato riparato, mentre i bombardamenti continuano a causare danni. Con i fondi pubblici ucraini “reindirizzati alle priorità della difesa”, “dipendiamo dall’aiuto dei nostri partner americani ed europei”, spiega. Il progetto Neo-Eco, ad esempio, riceve finanziamenti dalla Danimarca.

Con un budget limitato, i progetti di riutilizzo dei detriti sono “molto utili” perché “rispettosi dell’ambiente e meno costosi”, afferma il governatore, che in passato ha lavorato nel settore immobiliare. Ma è ben consapevole che questo approccio da solo non sarà sufficiente a “salvare la situazione”. Per il governatore, la ricostruzione deve iniziare senza aspettare la fine della guerra, perché molti progetti non saranno completati prima di anni. “Non abbiamo scelta – afferma – dobbiamo farlo ora”.

Mattarella: “Giovani disorientati da mondo debole nel contrastare crisi ambientale sempre più minacciosa”

Guerre, ascolto, pace, lavoro, diritti, unità. Sono alcune delle parole chiave utilizzate dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio consegnato agli italiani nell’ultimo giorno dell’anno, il nono tra il primo mandato e l’inizio del secondo. Dallo studio della sala della Vetrata, al Quirinale, con alle spalle l’albero di Natale e le bandiere italiana, europea e della Repubblica, il capo dello Stato guarda al 2024 ricordando che “non possiamo distogliere il pensiero da quanto avviene intorno a noi. Nella nostra Italia, nel mondo”.

Perché “sappiamo di trovarci in una stagione che presenta tanti motivi di allarme. E, insieme, nuove opportunità”. Ma allo stesso tempo il presidente sottolinea: “Avvertiamo angoscia per la violenza cui, sovente, assistiamo: tra gli Stati, nella società, nelle strade, nelle scene di vita quotidiana. La violenza. Anzitutto, la violenza delle guerre. Di quelle in corso; e di quelle evocate e minacciate”.

Il pensiero corre alle “devastazioni che vediamo nell’Ucraina, invasa dalla Russia, per sottometterla e annetterla”. E alla “orribile ferocia terroristica del 7 ottobre scorso di Hamas contro centinaia di inermi bambini, donne, uomini, anziani d’Israele. Ignobile oltre ogni termine, nella sua disumanità. La reazione del governo israeliano, con un’azione militare che provoca anche migliaia di vittime civili e costringe, a Gaza, moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case, respinti da tutti”.

Il monito di Mattarella è chiaro: “La guerra, ogni guerra, genera odio. E l’odio durerà, moltiplicato, per molto tempo, dopo la fine dei conflitti”.

Il presidente della Repubblica lancia un messaggio semplice, ma potente. “È indispensabile – dice – fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace”. Mattarella aggiunge: “Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità”. Ma “sappiamo che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace”. E “per conseguire la pace non è sufficiente far tacere le armi. Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi”.

Il capo dello Stato si rivolge, poi, come spesso accade, direttamente ai giovani, con i quali costruisce fin dal suo primo mandato un filo diretto. “L’amore non è egoismo, possesso, dominio, malinteso orgoglio. L’amore, quello vero, è ben più che rispetto: è dono, gratuità, sensibilità. Penso alla violenza verbale e alle espressioni di denigrazione e di odio che si presentano, sovente, nella rete”.

Mattarella mette in luce che “rispetto allo scenario in cui ci muoviamo, i giovani si sentono fuori posto. Disorientati, se non estranei a un mondo che non possono comprendere; e di cui non condividono andamento e comportamenti. Un disorientamento – continua – che nasce dal vedere un mondo che disconosce le loro attese. Debole nel contrastare una crisi ambientale sempre più minacciosa. Incapace di unirsi nel nome di uno sviluppo globale”. Ma “in una società così dinamica, come quella di oggi, vi è ancor più bisogno dei giovani. Delle loro speranze. Della loro capacità di cogliere il nuovo”.

Un passaggio importante del suo discorso, il presidente della Repubblica lo dedica all’importanza di “ascoltare”, a cui attribuisce anche il significato di “saper leggere la direzione e la rapidità dei mutamenti che stiamo vivendo. Mutamenti che possono recare effetti positivi sulle nostre vite. La tecnologia ha sempre cambiato gli assetti economici e sociali. Adesso, con l’intelligenza artificiale che si autoalimenta, sta generando un progresso inarrestabile. Destinato a modificare profondamente le nostre abitudini professionali, sociali, relazionali”.

Mattarella afferma: “Ci troviamo nel mezzo di quello che verrà ricordato come il grande balzo storico dell’inizio del terzo millennio. Dobbiamo fare in modo che la rivoluzione che stiamo vivendo resti umana. Cioè, iscritta dentro quella tradizione di civiltà che vede, nella persona – e nella sua dignità – il pilastro irrinunziabile”. Per il capo dello Stato “viviamo un passaggio epocale. Possiamo dare tutti qualcosa alla nostra Italia. Qualcosa di importante. Con i nostri valori. Con la solidarietà di cui siamo capaci. Con la partecipazione attiva alla vita civile. A partire dall’esercizio del diritto di voto” per “definire la strada da percorrere, è il voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social”. Perché “la democrazia è fatta di esercizio di libertà” che “quanti esercitano pubbliche funzioni, a tutti i livelli, sono chiamati a garantire” e che sia “indipendente da abusivi controlli di chi, gestori di intelligenza artificiale o di potere, possa pretendere di orientare il pubblico sentimento”.

Mattarella, infine, ricorda, a tutti, che “la forza della Repubblica è la sua unità”, ma “non come risultato di un potere che si impone”. L’unità della Repubblica “è un modo di essere. Di intendere la comunità nazionale. Uno stato d’animo; un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace”. Valori che ha incontrato “nella composta pietà della gente di Cutro”, nella “operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano Romagna mia” o “negli occhi e nei sorrisi, dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizza aut. Promossa da un gruppo di sognatori. Che cambiano la realtà”.

Il presidente della Repubblica, prima di augurare buon anno alle italiane e agli italiani, lascia un ultimo messaggio: “Uniti siamo forti”.

 

 

Photo credit: sito Presidenza della Repubblica

Guerre, crisi climatica e collasso economico. Onu: “Servono 46 miliardi di aiuti”

Conflitti, emergenze climatiche, collasso economico… le prospettive per il 2024 sono “desolanti” e servono 46,4 miliardi di dollari per aiutare 180,5 milioni di persone nel mondo. Senza fondi sufficienti, “le persone pagheranno con la vita”, è l’avvertimento lanciato dall’Onu. Mentre i riflettori sono attualmente puntati sulla guerra nella Striscia di Gaza, le Nazioni Unite sottolineano che anche il Medio Oriente, il Sudan e l’Afghanistan sono stati oggetto di importanti operazioni di aiuto internazionale. Tuttavia, la portata dell’appello annuale e il numero di beneficiari che l’Onu cerca di aiutare sono stati rivisti al ribasso rispetto al 2023, a causa del calo delle donazioni.
“Gli aiuti umanitari salvano vite umane, combattono la fame, proteggono i bambini, scongiurano le epidemie e forniscono riparo e servizi igienici nelle situazioni più disumane”, ha dichiarato il capo degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Martin Griffiths in un comunicato. “Ma il necessario sostegno della comunità internazionale non è commisurato ai bisogni”, ha aggiunto

Le Nazioni Unite avevano lanciato un appello per il 2023 per 56,7 miliardi di dollari, ma ne hanno ricevuto solo il 35%, il peggior deficit di fondi da anni. Le agenzie dell’Onu hanno fornito assistenza e protezione a 128 milioni di persone.

Il 2023 è destinato a diventare il primo anno dal 2010 in cui le donazioni per gli aiuti umanitari sono diminuite rispetto all’anno precedente. Per il 2024, l’Onu ha quindi deciso di ridimensionare l’appello alle donazioni, scegliendo di concentrarsi sui bisogni più urgenti.

Griffiths ha riconosciuto che la somma richiesta è ancora “enorme” e che probabilmente sarà difficile da raccogliere, dato che molti Paesi donatori stanno attraversando difficoltà economiche. Ma “senza finanziamenti adeguati, non saremo in grado di fornire un’assistenza vitale. E se non riusciremo a fornirla, le persone pagheranno con le loro vite”. L’appello alle donazioni è volto a finanziare le operazioni in 72 Paesi: 26 in crisi e 46 limitrofi che ne subiscono le ripercussioni, come l’afflusso di rifugiati.
La priorità assoluta è la Siria (4,4 miliardi di dollari), seguita da Ucraina (3,1 miliardi), Afghanistan (3 miliardi), Etiopia (2,9 miliardi) e Yemen (2,8 miliardi). Il Medio Oriente e il Nord Africa (13,9 miliardi) sono la prima area geografica a cui si rivolge l’appello.

Griffiths ha anche richiamato l’attenzione sulle necessità della Birmania, dell’Ucraina, che sta attraversando un “inverno disperato” con la prospettiva di un’intensificazione della guerra, e del Sudan, che, a suo avviso, non riceve l’attenzione che merita dalle capitali occidentali.

Per quanto riguarda il Venezuela, il funzionario delle Nazioni Unite ha detto di sperare che il dialogo politico permetta di sbloccare i beni congelati e che sia un “ottimo esempio che porta a ricompense sociali”. Per l’Afghanistan, ha ritenuto che se si potessero effettuare investimenti economici senza perdere di vista i diritti umani, la comunità internazionale potrebbe evitare una potenziale carestia a costi inferiori.

Anche le esigenze legate agli effetti del cambiamento climatico sono sempre più importanti. “Non c’è dubbio che il clima sia in competizione con i conflitti come motore dei bisogni”, ha spiegato. “Il clima sta muovendo più bambini oggi che le guerre. Non era mai stato così in passato”.

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In Ucraina guerra anche contro l’ambiente: danni per 56 miliardi di dollari

Foreste devastate, città allagate… Dall’inizio dell’invasione russa e dopo quasi due anni di guerra, la distruzione dell’ambiente in Ucraina è una “tragedia” di rara portata, che colpirà “diverse generazioni”. Sebbene “tutti i conflitti” siano dannosi per la natura, la guerra in Ucraina lo è “in modo particolare”, secondo Doug Weir, direttore della ricerca dell’Ong britannica Conflict and Environment Observatory. A differenza dei conflitti limitati a un’area ristretta, questa volta la linea del fronte è “incredibilmente lunga”, coprendo centinaia di chilometri, e i combattimenti si trascinano, moltiplicando i danni.

All’intenso fuoco di artiglieria si aggiunge l’inquinamento causato dai frequenti attacchi alle infrastrutture energetiche e le tonnellate di detriti generati dai bombardamenti nelle aree urbane, afferma l’esperto, per il quale la natura è “una vittima massiccia della guerra in Ucraina”. Il costo dei danni ambientali è stato stimato all’inizio di novembre in 56 miliardi di dollari, “una somma impressionante”, afferma Jaco Cilliers, rappresentante del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) in Ucraina.
Quasi il 30% delle aree forestali ucraine e circa il 20% dei parchi naturali nazionali sono stati colpiti dalla guerra, spiega Ruslan Strilets, ministro ucraino della Protezione ambientale e delle Risorse naturali. Gli alberi distrutti durante i combattimenti “erano cresciuti per decenni, a volte per secoli, e in pochi giorni (i russi) hanno bruciato questi preziosi ecosistemi”, dove vivevano molte specie animali.

Nell’est del Paese, dove i combattimenti sono stati particolarmente feroci, una foresta di querce di oltre 300 anni è stata “completamente distrutta dalla guerra”, secondo Bohdan Vykhor, direttore del Wwwf Ucraina, che non vede come potrebbe “essere ricostituita nel prossimo futuro”. Per quanto riguarda lo sminamento del 30% circa del territorio che è stato o potrebbe essere stato minato, ci vorranno probabilmente “decenni”, aggiunge Strilets.

Gran parte del territorio ucraino è inaccessibile, a causa dell’occupazione russa o della vicinanza della linea del fronte. Da lontano, gli esperti devono procedere per tentativi, spesso affidandosi alle immagini satellitari o a quelle pubblicate sui social network. “La visione che abbiamo al momento è quindi ancora incompleta”, si rammarica Doug Weir.

È impossibile, ad esempio, sapere quanti delfini siano stati uccisi nel Mar Nero, diventato anch’esso una zona di guerra. “Abbiamo registrato ufficialmente un migliaio di animali morti”, alcuni dei quali disorientati dal rumore delle attività militari, spiega Strilets, ma “gli scienziati parlano di decine di migliaia”.
Iegor Hrynyk, esperto del Gruppo ucraino per la conservazione della natura (UNCG), teme che il conflitto stia avendo anche effetti meno visibili, come quello di spingere il Paese a “sfruttare maggiormente le risorse naturali”, in particolare abbattendo più alberi, per far fronte ai costi della guerra. “Non dimentichiamo che le battaglie si vincono con gli eserciti e le guerre si vincono con le economie”, risponde Strilets, che tuttavia promette che la ripresa economica non avverrà “a spese del nostro ambiente”.

Allarme di Kiev: “La Russia ha ricominciato con il terrore energetico”

La Russia ha ricominciato con azioni destinate a diffondere il “terrore energetico” in Ucraina con l’avvicinarsi dell’inverno. A lanciare l’allarme è il primo ministro ucraino, Denys Shmyhal.

 “La fase del terrore energetico è già iniziata”, ha dichiarato il premier durante un forum economico, citato dall’agenzia di stampa Interfax-Ucraina. “Lo possiamo vedere nella distruzione delle infrastrutture energetiche” e nei “primi attacchi” contro le sottostazioni elettriche “nelle ultime due settimane”, ha aggiunto.

Il premier ucraino ritiene, però, che il Paese sia meglio preparato rispetto all’inverno precedente, quando gli attacchi di Mosca alle infrastrutture energetiche hanno regolarmente gettato milioni di persone nel buio e nel freddo. “Siamo molto più preparati e forti dell’anno scorso”, ha sottolineato, grazie soprattutto alla fornitura di sistemi di difesa aerea occidentali. “L’inverno sarà sicuramente duro, non certo più facile dell’ultimo”, ma “sappiamo cosa sta facendo il nemico e quali sfide ci attendono”, ha aggiunto Shmygal.

Quasi ogni notte, la Russia bombarda le città ucraine con missili e droni kamikaze. Giovedì, una nuova salva di oltre 40 missili da crociera ha ucciso tre persone a Kherson, nel sud, e ne ha ferite sette nella capitale, Kiev. Sebbene la maggior parte dei missili sia stata abbattuta, alcuni hanno colpito infrastrutture civili, secondo le autorità ucraine.

Per la prima volta in sei mesi, gli impianti energetici nell’ovest e nel centro del Paese sono stati danneggiati dagli attacchi russi, causando interruzioni di corrente in diverse regioni, ha riferito il fornitore ucraino Ukrenergo su Telegram.

Un anno di guerra in Ucraina: le conseguenze fra energia e inflazione

Il primo colpo, il primo sparo, e l’inizio di un periodo fatto non solo di aggressione, morti e distruzione, ma pure di crisi delle materie prime, shock energetici, crisi alimentare mondiale, inflazione a doppia cifra, rincaro dei generi alimentari. 24 febbraio 2022-24 febbraio 2023, un anno di guerra russo-ucraina che ha ridisegnato anche l’agenda europea per la sostenibilità. Da un punto di vista a dodici stelle l’ha fatto imprimendo un’accelerazione verso la realizzazione di una vera green-economy, ma innescando all’interno della stessa Unione un dibattito tutto nuovo sul nucleare tradizionale considerato come necessità, in tempi di corsa alla ricerca di alternative al gas per decenni pompato da Gazprom. Un dibattito che non ha lasciato indifferente l’Italia, dove il cambio di governo avvenuto a settembre ha visto riproporre la questione dell’energia prodotta da atomo. La Lega di Matteo Salvini torna a insistere su questo punto.

Le sfide nella sfida. L’Unione europea che ha saputo varare nove pacchetti di sanzioni contro la Russia, in questo anno di attività militare su suolo ucraino ha dovuto cercare soprattutto di trovare un’unità non scontata. Perché sull’energia i 27 modelli economici, interconnessi ma non identici, sono andati in difficoltà. Eppure in nome dell’obiettivo di privare le casse di Mosca di risorse utili al finanziamento della guerra, la Germania ha saputo liberarsi dei gasdotti NordStream e Nordstream 2, l’Ue ha prima messo una moratoria al carbone russo, poi al petrolio, quindi trovato il meccanismo per calmierare i listini del gas naturale. Una richiesta posta sul tavolo da Mario Draghi, ai tempi in cui sedeva a palazzo Chigi, e che ha richiesto mesi prima di una realizzazione pratica e condivisa. Adesso scatterà automaticamente un ‘price cap’ di fronte a due condizioni contemporanee: quando il prezzo del la risorsa sul mercato olandese TTF supera i 180 euro per Megawattora per 3 giorni lavorativi e quando il prezzo TTF mensile è superiore di 35 euro rispetto al prezzo di riferimento del GNL sui mercati globali per gli stessi tre giorni lavorativi.

E’ questo uno dei successi dell’Ue, non immediato né semplice. Ma doveroso. Perché l’aumento dei prezzi dell’energia ha trainato l’inflazione, rendendo complicata la vita di famiglie e imprese, e facendo paventare rischi di una nuova recessione per l’Eurozona. Rischi scongiurati, ma solo alla fine del 2022, quando la contrazione data per scontata non si è materializzata. Merito della sospensione delle regole europee di finanza pubblica e dell’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato che hanno permesso di contrastare il caro-bollette. Merito anche di un accordo trovato grazie alle mediazione della Turchia che ha permesso la partenza delle navi cariche di grano ferme nel porto di Odessa.

Uno dei mantra ripetuti è quello per cui la guerra innescata il 24 febbraio di un anno fa offre l’opportunità di accelerare la transizione verde, e il passaggio ad un’economia davvero a prova di surriscaldamento del pianeta. In questo non semplice esercizio l’Italia può giocare un ruolo da protagonista. La sostituzione del gas naturale con quello liquefatto (Gnl) rimette in moto i cantieri, crea occupazione, e può permettere al Paese di diventare il terzo hub dell’Ue per capacità. Qui, la sfida nella sfida è fare presto e bene. Presto e bene è anche la condizione numero uno per l’attuazione dei piani di ripresa, divenuti centrali per la Commissione Ue e anche per l’insieme degli Stati riuniti in Consiglio. Con l’Europa a caccia di materie prime necessarie per realizzare pannelli fotovoltaici, batterie elettriche, turbine eoliche, e alla ricerca di fornitori più affidabili di energia, si ridisegna anche la cartina geopolitica, con l’Italia anche qui protagonista. Da Draghi a Meloni il governo ha iniziato a scrivere una nuova pagina di relazioni con i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Fondamentali, in tempi in cui gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere massicciamente la propria industria tecnologica pulita.

La Casa Bianca produce l’Inflation Reduction Act, piano da circa 369 miliardi di dollari per rispondere all’aumento generalizzato dei prezzi. Sovvenzioni e sgravi fiscali per rilanciare l’industria, quella al centro dell’agenda dell’Ue, che sulla scia delle conseguenze della guerra vede anche lo spettro della concorrenza del partner transatlantico, e i dubbi che non sia leale. Non si vuole lo scontro, ma l’Ue si trova comunque a dover correre e rispondere in un contesto che resta di incertezza e instabilità.

Vale anche per il piano ambientale. L’occupazione delle centrale nucleare di Zaporizhzhia , con combattimenti tutt’attorno tiene col fiato sospeso non solo l’Unione europea, per i rischi di incidenti dalle conseguenze irreparabili per natura e salute. I pacchetti di sanzioni dell’Ue includono personalità ritenute responsabili anche di questo atto. Il blocco dei Ventisette vorrebbe annunciare il decimo pacchetto di misure restrittive nelle prossime ore, per ragioni simboliche: un anno dall’inizio della guerra.

Spagna, fotovoltaico boom: installati 2000 megawatt nel 2022

Il numero di cantieri è in aumento e la domanda non è mai stata così alta: in Spagna le installazioni fotovoltaiche individuali sono in piena espansione, favorite dall’impennata dei prezzi dell’energia. Si tratta di un’opportunità per il Paese di recuperare un ritardo in un settore dal grande potenziale. Secondo un’azienda che effettua installazioni, Engel Solar, i pannelli solari possono fornire “tra il 50 e l’80%” del fabbisogno di una famiglia. “Considerato l’attuale prezzo dell’elettricità, si tratta di un’iniziativa “interessante””, afferma Joaquín Gasca, responsabile delle vendite di questa PMI con 200 dipendenti. Fondata nel 2005 a Barcellona, l’azienda ha quintuplicato il suo fatturato in due anni e prevede un ulteriore balzo in avanti nel 2023. “Il telefono squilla a vuoto, è pazzesco”, dice Joaquín Gasca, riferendosi a una dinamica “spettacolare”.

Privati, professionisti, istituzioni pubbliche… Stimolato dalla crisi energetica legata alla guerra in Ucraina, ma anche dagli aiuti del piano di ripresa europeo, l’autoconsumo non è mai stato così popolare nel Paese. “Un anno fa, osservando i tetti delle città e dei villaggi spagnoli, vedevamo pochissimi pannelli solari”, ma “oggi la situazione è completamente cambiata”, riassume Francisco Valverde, specialista in energie rinnovabili dell’azienda Menta Energia. Questa osservazione è condivisa da José Donoso, segretario generale dell’Unione fotovoltaica spagnola (Unef). Gli spagnoli “vedono che i loro vicini stanno lanciando l’autoconsumo, che sono felici e che stanno risparmiando. Questo li incoraggia a fare lo stesso”, spiega. Secondo questa federazione, che raggruppa 780 aziende del settore fotovoltaico, la “potenza installata” in autoconsumo nel 2022 dovrebbe superare i 2.000 megawatt, quasi il doppio rispetto al 2021 (1.203 MW) e quattro volte quella del 2020 (596 MW). L’energia solare è diventata “molto competitiva”, con un costo “oggi inferiore del 90% rispetto a 14 anni fa”, afferma José Donoso. La gente ha quindi “capito che è meglio mettere i propri soldi sul tetto piuttosto che in banca”, afferma divertito.

Per l’industria, questa frenesia ha il sapore della vendetta. Essendo il Paese più soleggiato d’Europa, 15 anni fa la Spagna era uno dei leader mondiali del fotovoltaico. Ma la crisi del 2008 ha frenato questo boom e Madrid è rimasta indietro rispetto a molti Paesi europei. Il motivo: la fine dei sussidi al settore, seguita dall’introduzione nel 2015, da parte del precedente governo conservatore, di una tassa sulle famiglie che producono elettricità e immettono parte di questa energia nella rete nazionale, descritta dai suoi critici come una “tassa sul sole”. Questa misura – introdotta, secondo gli ambientalisti, su pressione dei grandi gruppi energetici, preoccupati della concorrenza dell’autoconsumo – è stata abbandonata dopo l’arrivo al potere della sinistra nel 2018, che da allora ha aumentato il suo sostegno al settore.

L’autoconsumo “democratizza l’energia” e ci permette di emanciparci “dai grandi gruppi energetici“, come ha giustificato alla fine di ottobre il primo ministro socialista Pedro Sanchez, che prevede 39.000 megawatt di nuova capacità fotovoltaica entro il 2030, di cui da 9 a 14.000 megawatt saranno autoconsumati. Ciò darà impulso a questa fonte energetica, che l’anno scorso ha fornito il 9,9% dell’elettricità spagnola, molto indietro rispetto all’energia eolica (23,3%), all’energia nucleare (20,8%) e alle centrali a gas (17,1%)… nonostante un potenziale considerato eccezionale.

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Sicurezza alimentare, come l’Ue affronta i rischi della guerra

Garantire alimenti sicuri dal ‘produttore al consumatore’, dal ‘campo alla tavola’. La Commissione europea si pone questo tra gli obiettivi della sua politica di sicurezza alimentare, messa duramente alla prova dall’inizio della guerra di Russia in Ucraina. Con l’invasione si è aperta a Bruxelles una riflessione sulla necessità di aumentare la produzione alimentare in Europa, anche perché Russia e Ucraina sono tra i maggiori esportatori di materie prime agricole al mondo. La guerra, che va avanti da febbraio, ha avuto tra le conseguenze anche un rallentamento della produzione e un sostanziale blocco delle esportazioni da Kiev, che ha fatto temere per la sicurezza alimentare globale. L’Ucraina, infatti, produce il 12% del grano mondiale, il 15% del mais e il 50% dell’olio di girasole, ed è il principale esportatore di prodotti agricoli per i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente.

Sul fronte interno, l’Europa ha iniziato a lavorare a una sospensione di alcune politiche per far fronte ai timori di insicurezza alimentare. A luglio ha formalizzato una deroga temporanea alle norme sulla rotazione delle colture e sul mantenimento di elementi non produttivi sui terreni coltivabili, per aumentare la capacità di produzione dentro l’Unione europea, così da compensare il blocco delle importazioni. Si tratta di norme varate dall’Ue nell’ambito della Pac, la politica agricola comune, per rendere più sostenibile a livello ambientale il sistema agroalimentare europeo, ma che adesso Bruxelles ritiene di dover derogare temporaneamente per far fronte all’insicurezza alimentare dettata dalla guerra.

Mettendo in pausa la rotazione delle colture – una tecnica agronomica che fa ‘girare’ le colture coltivate nello stesso appezzamento, per mantenere i terreni fertili – Bruxelles ha stimato di poter rimettere in produzione attiva circa 1,5 milioni di ettari rispetto a quelli utilizzati attualmente per la produzione di cereali. Riconoscendo l’importanza di queste norme chiamate ‘BCAA’ (Buone condizioni agronomiche e ambientali) per gli obiettivi di sostenibilità dei terreni e delle aziende agricole, Bruxelles precisa che la deroga sarà solo temporanea: sarà limitata al 2023 e a quanto strettamente necessario per affrontare le preoccupazioni di sicurezza alimentare globale. Le colture necessarie all’alimentazione animale (mais e soia) non saranno interessate.

Da quando la guerra di Russia è iniziata, l’Ue ha inoltre varato un piano per aggirare il blocco dei porti sul Mar Nero, causati dall’occupazione russa, e facilitare le esportazioni di grano e cereali dall’Ucraina in tutto il mondo (attraverso le cosiddette corsie di solidarietà), ma ha anche pianificato una serie di misure per la sicurezza alimentare dell’Europa, tra cui un pacchetto di sostegno da quasi 500 milioni di euro ricorrendo alla riserva di crisi della Pac e liberando dai vincoli di produzione quasi quattro milioni di ettari per aumentare la produzione in Europa. Il piano – presentato a fine marzo – ha incluso infatti una deroga temporanea per il 2022 ai vincoli della Pac per consentire la produzione di colture per scopi alimentari e mangimi su terreni incolti (i cosiddetti ‘terreni a riposo’) e un nuovo quadro straordinario di aiuti di Stato per agricoltori e aziende agricole, per far fronte al caro dei prezzi di energia, fertilizzanti e produzione.

A Bali vertice G7-Nato. Poi leader in visita a foresta mangrovie

La guerra entra nei confini dell’Unione europea e salta la giornata dei leader al secondo giorno di lavori del G20 a Bali, in Indonesia. Nel diluvio di missili russi sui cieli ucraini, nel villaggio polacco di Przewodov, al confine, un’esplosione fa due morti e la Polonia allerta l’esercito.

Gli appuntamenti slittano, mentre tra Kiev e Mosca le accuse rimbalzano. Con i leader del mondo riuniti a Bali, gli Stati Unici convocano una riunione urgente del G7 con la Nato. Al tavolo il presidente Joe Biden, il premier spagnolo Pedro Sanchez, la premier Giorgia Meloni, il presidente francese Emmanuel Macron, la premier il canadese Justin Trudeau, il premier giapponese Fumio Kishida, il primo ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, il premier inglese Rishi Sunak. Presenti anche la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel.

Meloni scende nella hall dell’albergo e procede spedita verso la riunione dei leader, senza rilasciare dichiarazioni. Palazzo Chigi fa sapere poi di una telefonata con il premier polacco Mateusz Morawiecki per esprimergli la sua solidarietà e parla di “fortissima apprensione e preoccupazione” per quanto accaduto in Polonia. “E’ conferma della gravità e delle conseguenze della ingiustificata aggressione russa nei confronti dell‘Ucraina“, spiega lei su Twitter.

Il mondo al G20 chiede una de-escalation, mentre la Russia continua a bombardare: “E’ totalmente inconcepibile“, tuona Biden al termine della riunione. A ogni modo, “è improbabile che il missile che ha fatto due vittime in Polonia sia stato sparato dalla Russia“, lasciando intendere che è stato abbattuto nei cieli ucraini. A far luce sulla vicenda sarà un’indagine polacca, alla quale G7 e Nato offrono supporto, ritenendo la Russia “responsabile dei suoi sfacciati attacchi alla comunità ucraina“. I Paesi resteranno in stretto contatto per, spiegano in una nota congiunta, “determinare i passi successivi appropriati man mano che le indagini procedono“.

A riunione finita, i leader raggiungono la foresta delle mangrovie di Hutan, coinvolta nel programma di ripristino degli esemplari su un’area di 600mila ettari. Giorgia Meloni è l’ultima ad arrivare, dopo un bilaterale con il canadese Trudeau, in cui sul tavolo c’è l’impegno reciproco sulla transizione climatica. Nella foresta, i leader in polo e camicie bianche piantano simbolicamente un albero.