Crescita, produttività e salari: l’impresa al centro

Il biennio 2021-2022 è stato fortemente segnato da rialzi dell’inflazione innescati dapprima dalle strozzature dell’offerta conseguenti alla crisi del Covid e poi dalla crisi energetica dovuta all’invasione russa dell’Ucraina, alla guerra e alle sanzioni che ne sono derivate.

Il rialzo inflazionistico ha eroso fortemente il potere di acquisto di salari e stipendi mostrando, ancora una volta, che l’inflazione è la più iniqua delle imposte e che la migliore protezione dei redditi fissi è rappresentata dalla stabilità dei prezzi (inflazione=0).

Esiste una questione salariale in Italia? Certamente sì.

Siamo in presenza di una massiccia perdita del potere di acquisto dei lavoratori che in economia sono anche consumatori. L’OCSE ha recentemente messo in evidenza che il calo dei salari reali nel nostro Paese è stato il più significativo tra tutte le economie sviluppate, con un -7% alla fine del 2022 rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre 2023 con una diminuzione su base annua del -7,5%.

La crescita dei salari reali tra il 2000 e il 2020 non era stata male in Italia: +24,3%, in linea con il 25,3% della Francia, il 18,1% della Germania, il 14,4% della Spagna.

Questi aumenti si sono realizzati nonostante una performance in termini di crescita del PIL, nei vent’anni considerati, molto bassa rispetto al resto d’Europa.

Inoltre, come indicato dal Centro Studi di Confindustria, la produttività del lavoro nel nostro Paese è cresciuta, nel ventennio 2000-2020, molto meno che negli altri paesi nostri competitors europei; in Germania ad esempio, nel periodo considerato, la produttività è cresciuta quasi il doppio che in Italia.

Salari, crescita, produttività sono tre questioni indissolubilmente legate e vanno affrontate nel loro complesso senza propagandismi e bandierine.

Partiamo dalla crescita. L’Italia dopo un ventennio di performance molto basse (il fanalino di coda europeo) ha visto due anni eccezionali, il 2021 e il 2022 nei quali l’economia nazionale è cresciuta a ritmi straordinari: con il +11% nel biennio ha fatto meglio di tutte le più importanti economie sviluppate compresa la Cina.

Se è vero che il +6,6% del 2021 è stato, almeno in parte, un rimbalzo rispetto alla caduta della nostra economia durante il Covid (che era stata superiore rispetto alla media europea), il +3,9% del 2022, realizzato nonostante il deterioramento del quadro internazionale, rappresenta senza dubbio un fatto molto importante, così come la tenuta della nostra economia nel primo semestre del 2023 nonostante un ormai generalizzato rallentamento.

Le tesi interpretative sulle determinanti di questa straordinaria performance dell’Italia in termini di crescita del PIL sono molte.

I declinisti incalliti, coloro i quali mai e poi mai riescono a non parlare male dell’Italia e ce ne sono molti purtroppo, ritengono che la straordinaria crescita della nostra economia negli ultimi due anni sia tutta dovuta all’aumento del debito, alla misura del 110% e al reddito di cittadinanza.

Mi sembrano tesi parziali e propagandistiche.

Condivido invece il pensiero di chi sostiene che la nostra performance recente sia certamente imputabile anche al boom congiunturale dell’edilizia connesso alla misura del 110%, ma dipenda soprattutto da due altri  fattori, uno congiunturale e l’altro più strutturale.

Quello congiunturale è la grande iniezione di fiducia e positività per gli operatori economici e industriali rappresentata dal Governo di Mario Draghi. Chi si intende un po’ di economia sa quanto contino la psicologia e le aspettative.

L’elemento strutturale è costituito dalla forza della manifattura italiana che vede nella sua diversificazione multisettoriale, nel suo forte orientamento all’export, nella leadership mondiale in molti segmenti di prodotto, nelle catene logistiche mediamente corte, nell’innovazione tecnologica dovuta alla misura del 4.0, un modello di straordinaria modernità e tenuta.

È questa la base su cui costruire nuova crescita con tutte le sue positive ricadute anche sui salari. È l’industria il futuro dell’Italia, come non ci stancheremo mai di ripetere.

Ma come si concilia questa rappresentazione dell’eccellenza della manifattura italiana con il ragionamento fatto poc’anzi in merito alla bassa crescita della produttività dell’industria nazionale rispetto ai principali competitors europei? Una bassa crescita della produttività che impedisce o limita la crescita dei salari netti.

L’osservazione è corretta e impone una risposta ragionata. A nostro giudizio è necessario disaggregare il dato generale sulla manifattura che, come tutte le medie statistiche, spiega la realtà solo fino a un certo punto.

In Italia, accanto a settori particolarmente competitivi quali quelli rappresentati dalle imprese che esportano molto (il 25-30% del totale), dalle imprese manifatturiere di media dimensione (non piccolissime) dei settori style based, dalle affiliate estere, dalle imprese a forte innovazione tecnologica (meccatronica, farmaceutica ecc.) accanto a tutte queste vi è una vasta platea di mini e microimprese che rappresentano storicamente, salvo eccezioni, la debolezza dell’apparato produttivo del Paese.

Le prime si pongono a livello di efficienza, produttività e quindi salari al livello delle migliori imprese europee e mondiali con salari più elevati; le seconde faticano a realizzare margini e profitti e quindi non riescono a destinare parte degli stessi agli investimenti e all’aumento dei salari.

Proprio qui sta il nodo, o i nodi.

Da una parte bisogna promuovere e favorire in ogni modo la crescita dimensionale delle imprese piccole e piccolissime, superando il nanismo dove c’è. Come detto, la crescita della dimensione favorisce gli investimenti e la produttività.

Dall’altra solo una generalizzata modernizzazione di ciò che sta fuori delle imprese industriali ma che può aiutare la loro performance e cioè: servizi, Pubblica amministrazione, reti infrastrutturali e logistiche, porti, università, formazione del capitale umano, può spingere in alto questo pezzo di industria italiana oggi meno efficiente e qualitativa.

Non è possibile che quella italiana sia la seconda manifattura in Europa, la settima del mondo ma contemporaneamente il Paese sia solo il diciottesimo su ventisette in Europa per digitalizzazione. Una contraddizione drammatica e emblematica.

Oggi le imprese meno performanti non riescono ad alzare i salari perché così facendo il loro CLUP (Costo del lavoro per unità di prodotto) sarebbe superiore alla crescita di produttività e alimenterebbe ulteriori spirali inflazionistiche, erodendo la redditività dell’impresa a danno della propensione a investire.

Accanto a un grande processo di modernizzazione, che in fondo è la vera scommessa del PNRR, il capitalismo italiano, come tutti i capitalismi dei paesi democratici e avanzati del mondo, se vuole sopravvivere deve essere sempre più equo ed inclusivo.

Ciò vale in particolare per il capitalismo europeo alle prese con l’enorme sforzo della decarbonizzazione e con la sfida a realizzare consenso su un’ipotesi meno estremista e ideologica della lotta al cambiamento climatico.

Non si tratta soltanto di questioni economiche e salariali. Certamente l’aumento reale dei salari e stipendi e del potere di acquisto degli stessi è importantissimo. Ma gli strumenti con cui raggiungerlo sono altrettanto importanti, perché si portano dietro un dato culturale di cambiamento di approccio e di paradigma.

La diminuzione del cuneo fiscale è il contributo che lo Stato deve dare rendendo strutturale questa misura, soprattutto per i salari e stipendi più bassi, senza fare crescere il deficit di bilancio e il debito.

Ma gli imprenditori e le imprese private devono lavorare senza sosta per fare aumentare il consenso intorno alle imprese che sono il più importante strumento della crescita.

Come imprenditori ci dobbiamo impegnare sempre di più nello sviluppo del welfare aziendale, nel sostegno delle pari opportunità, nella partecipazione agli utili dei lavoratori che va almeno in parte defiscalizzata, nel premio al merito alla qualità e alla fedeltà, nella solidarietà sociale.

Si tratta di strumenti in parte nuovi che l’industria italiana deve sviluppare e incentivare con convinzione per consolidare i suoi primati e per coniugare crescita, produttività e aumento del potere di acquisto dei lavoratori.

Urso lancia la proposta dei dazi ambientali: “Tutelare le aziende da concorrenza sleale”

Il Green Deal europeo per arrivare a emissioni zero al 2050 è un obiettivo “ambizioso ma necessario“. Parola di Adolfo Urso. Ma il ministro per le Imprese e il Made in Italy ha in mente anche un altro obiettivo: “Dobbiamo tutelare le aziende, i lavoratori e i cittadini europei dalla concorrenza sleale nel nostro continente“. E un modo lo ha individuato: “Lo si può fare. Lo si deve fare anche con norme che riguardano l’importazione o l’esportazione di prodotti, quelli che vengono chiamati giustamente Dazi ambientali“, dice nel videomessaggio inviato all’evento ‘L’energia per l’Italia e l’Ue: le fonti e le regole del mercato energetico’, organizzato a Roma da Withub, con la direzione editoriale di Gea ed Eunews.

Per il responsabile del Mimit “occorre una politica assertiva e solidale per proteggere le imprese europee che hanno processi produttivi più difficili da decarbonizzare e, dunque, hanno maggiore esposizione verso la concorrenza di Paesi senza vincoli imposti da standard ambientali e sociali“. Per questo “non possiamo chiedere alle nostre imprese di competere con le imprese e i prodotti di Paesi che giungono in Europa con effetti di dumping perché non hanno i nostri standard ambientali e sociali“.

Urso tocca diversi temi nel suo intervento. “Crediamo che si possa e si debba fare di più per raggiungere l’autonomia strategica in Italia e Europa per essere liberi sul fronte energetico – spiega -. La nostra azione guarda agli investimenti in rinnovabili e idrogeno, tenendo sempre a mente il principio della neutralità tecnologica che è a fondamento della nostra comunità europea. Il principio di neutralità tecnologica è nella natura della nostra Unione europea e va perseguita in ogni modo“, sottolinea.

Il ministro delle Imprese, parlando di energia, fa anche un rapido excursus degli ultimi mesi del nostro Paese. Per tracciare una rotta e capire da dove si è partiti e far comprendere quali siano i traguardi prefissati: “L’Italia, in piena sintonia con gli obiettivi europei di transizione e consapevole di essere la seconda potenza manifatturiera in Europa, è stata costretta a fare una legge finanziaria destinata per due terzi ad arginare i costi dell’energia per imprese e famiglie” e “su queste premesse il governo ha lavorato da subito, in sede europea siamo riusciti a imporre il tetto al prezzo del gas. E da quando ci siamo riusciti il prezzo del gas è crollato, la speculazione è stata fermata”.

Restando in tema Manovra, dal Mimit c’è anche un’altra novità, con la firma di Urso sul decreto da che destina le risorse al rifinanziamento dei Contratti di sviluppo, previsto dalla legge di Bilancio del 2023. I Cds rappresentano il principale strumento agevolativo dedicato al sostegno di programmi di investimento produttivi strategici ed innovativi di grandi dimensioni: il provvedimento autorizza lo scorrimento delle istanze già presentate per 400 milioni di euro per contratti di sviluppo industriali, agroindustriali e di tutela ambientale, 200 milioni di euro per contratti di sviluppo di attività turistiche, 157 milioni di euro per gli accordi di programma e accordi di sviluppo per investimenti produttivi o di tutela ambientale.

Appello delle imprese all’Europa: “Rivedere regole energetiche o sarà deindustrializzazione”

Dallo Spazio Europa Experience di Roma, casa della Commissione e del Parlamento Ue, l’industria italiana tutta lancia un appello alle istituzioni europee. Durante l’evento ‘L’energia per l’Italia e l’Ue: le fonti e le regole del mercato energetico’, organizzato da Withub con la direzione editoriale di Eunews e Gea, gli imprenditori chiedono una revisione, non del percorso verso la decarbonizzazione, ma dei metodi per arrivare ai target prefissati, auspicando una vera neutralità così da evitare la deindustrializzazione. Secondo il presidente di Duferco, Federacciai e Interconnector Energy Italia, Antonio Gozzi, “l’Europa ha sbandato molto sulle politiche industriali negli ultimi 20 anni. Presa da un’ideologia finanziaria da una parte e di estremismo ambientalista dall’altra ha pensato di poter fare a meno dell’industria. Una cosa che nessuna grande area economica del mondo ha pensato di fare, perché l’industria, siccome è un fattore di progresso, viene tenuta ben stretta da tutti”. Tuttavia, spiega Gozzi, “oggi vedo che c’è una riflessione in campo, speriamo che conduca ad un approccio meno ideologico, più razionale e più pragmatico”. Anche perché già “la siderurgia italiana è campione nella decarbonizzazione in Europa e punta ad arrivare alla produzione di acciaio green entro il 2030. Si sono fatti danni negli anni, ma riconoscere che c’è stato sbandamento e non lucidità da parte dell’Ue non significa negare la necessità di una transizione”. Quello del presidente di Federacciai non vuole essere un discorso anti-europeista, al contrario, pure “noi italiani dobbiamo fare di più e meglio e dobbiamo rivendicare il principio di mercato unico, principio cardine dell’Ue”.

Certo è che “occorre evitare l’ideologia elettrica. Penso all’utilizzo di biocarburanti, del biometano, che oggi è aiutato solo se viene utilizzato per il trasporto“, quando invece si potrebbe “tranquillamente immettere in rete e distribuire. Questi elementi ci devono guidare e ci possono permettere di raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, competitività e sicurezza degli approvvigionamenti“, aggiunge Paolo Gallo, amministratore delegato di Italgas. Oggi “il biometano è assolutamente competitivo, ma ci sono una serie di ostacoli, a partire da una non comprensibile ripartizione dei costi di connessione. C’è poi il tema degli impianti di biogas: oggi abbiamo una produzione che vale 2,2 miliardi, un biogas ricco di Co2 che viene bruciato in centrali a bassa efficienza per produrre energia elettrica completamente sovvenzionata. Pensate – prosegue Gallo – se gli impianti fossero convertiti a biometano: ne avremmo 1,5 miliardi domani. E la Co2 potrebbe essere catturata, senza contare la produzione di fertilizzanti: la cosiddetta economia circolare“. Da questo punto di vista si tratta di una “visione mancata a livello di Commissione Ue, bisogna usare tutte le leve disponibili“, conclude il Ceo di Italgas. Infatti “è importante mantenere un approccio neutrale e considerare tutte le possibilità che la tecnologia offre, non fermarsi solo a una”, ma “ognuna di queste opportunità va vista concretamente”, sottolinea il presidente di Enea, Gilberto Dialuce.

In realtà in Europa “c’è una deindustrializzazione in corso da anni – sentenzia Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia -, abbiamo il Prodotto interno lordo pro capite che cala, e noi italiani siamo al primo posto in questa deindustrializzazione”. Semmai “c’è stata una accelerazione con il lavoro di questa Commissione europea. C’è una crisi, una guerra in corso in Europa, e non li abbiamo convinti che ci sono cose più importanti della transizione, come la guerra”. Contro la deindustrializzazione, “se potessi, chiederei all’Europa un fondo Ue per la decarbonizzazione dell’industria hard to abate, che finora è sempre stato rifiutato”, propone Gozzi. “Magari – spiega il numero uno di Federacciai – finanziandolo come con i fondi Covid, attraverso indebitamento europeo o Eurobond. Perché l’Europa non si ingaggia davvero facendo debito comune, se è una priorità assoluta? Oltretutto, se garantito dall’Europa avrebbe costi contenuti dal punto di vista degli interessi”.

Un appello al governo italiano e alle istituzioni europee arriva infine da chi, sulla carta, sta beneficiando della transizione verso le pompe di calore, ovvero la Daikin. L’amministratore delegato per l’Italia, il belga Geert Vos, mette in guardia dal nuovo regolamento F-Gas, in discussione nei prossimi giorni, che punta alla messa al bando dei gas refrigeranti da parte dell’Ue. La norma potrebbe rendere impossibile installare un impianto di climatizzazione sui balconi, ovvero in 8 case su 10. E chi potrà ancora installarli, vedrà i prezzi salire del 40% per le pompe di calore e triplicare quelli per i climatizzatori. “Le istituzioni italiane ed europee si devono attivare per modificare il provvedimento o sarà un un grosso problema per gli italiani”, conclude Vos.

Imprese, ok dal Consiglio dei ministri al riordino degli incentivi

Riordinare, semplificare e rendere più efficace il sistema degli incentivi alle imprese. E’ questo l’obiettivo che si è posto il governo con il disegno di legge che è stato approvato  in Consiglio dei ministri, che delega il governo “entro ventiquattro mesi” a predisporre “uno o più decreti legislativi”, su proposta del ministro delle Imprese e del Made in Italy, di concerto con alcuni ministeri come il Mef, gli Affari europei, il Mase e dopo aver acquisito l’intesa della Conferenza unificata, per la definizione di “un quadro organico per l’attivazione del sostegno pubblico alle imprese nelle forme più idonee ed efficaci a far fronte agli specifici fallimenti del mercato, a stimolare la crescita negli ambiti più promettenti delle politiche industriali nazionali ed europee e a ottimizzare la spesa pubblica dedicata“. “Il provvedimento nasce dalla necessità di avere una riforma organica per fermare la giungla degli incentivi. L’obiettivo è semplificare e omogenizzare. Le sfide globali di oggi hanno bisogno di risposte mirate e coerenti con un sistema degli incentivi compiuto e coordinato che possa rappresentare un corpus organico di regole che sia di riferimento tanto per i decisori pubblici che per le imprese”, commenta il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso.

Il ddl è collegato alla Legge di Bilancio 2023-2025 in coerenza con le indicazioni del DEF e con il PNRR e prevede tra gli obiettivi anche la semplificazione delle norme in materie di investimenti e interventi nel Mezzogiorno. La revisione degli incentivi costituisce infatti un passaggio necessario anche per la promozione della politica industriale italiana che richiede sul piano nazionale un maggiore efficientamento degli interventi per le imprese nonché di orientamento verso le sfide globali come la transizione green e digitale. Nell’ultimo anno di rilevazione (il 2021), il sistema agevolativo nazionale ha fatto registrare un numero complessivo di 1.982 interventi agevolativi, di cui n. 229 delle amministrazioni centrali e n. 1.753 delle amministrazioni regionali.
Il provvedimento, condiviso con le amministrazioni interessate e in sintonia con il ministro Fitto opera su tre fonti principali: riordino e razionalizzazione delle misure di incentivo, alla luce delle valutazioni d’impatto che si effettueranno; coordinamento tra le amministrazioni centrali e regionali in modo da prevenire sovrapposizioni e sprechi; semplificazione, chiarezza e conoscibilità attraverso il codice dell’incentivazione che contiene le regole generali che dovranno essere uniformemente osservate.  Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy dovrà adottare i decreti delegati entro 24 mesi.
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Superbonus, vertice governo-imprese-banche: apertura su F24 per crediti pregressi

L’intervento più veloce per sterilizzare gli effetti negativi sull’edilizia delle nuove norme è confermare le detrazioni d’imposta dalla dichiarazione dei redditi. E’ quanto emerge dalla riunione convocata da Palazzo Chigi con le imprese e le banche, per trovare una soluzione al problema della cessione dei crediti, di fatto stoppata (almeno verso gli enti locali) dal decreto varato la settimana scorsa in Cdm.

Il sistema delle imprese italiano è in fibrillazione, ma alla fine dell’incontro le varie associazioni escono un po’ meno preoccupate. “Abbiamo avuto un confronto franco e una grande consapevolezza, da parte del governo, che vanno sbloccati i crediti pregressi“, dice la presidente dell’Ance, Federica Brancaccio. Spiegando che c’è stata “un’apertura agli F24, una delle sue misure proposte da noi e dall’Abi, e un tavolo tecnico immediato anche per il futuro, quindi, possiamo dire di essere soddisfatti“.

Per l’esecutivo sono il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto, a tenere le file del tavolo assieme il vice ministro al Mef, Maurizio Leo, e la vice ministra delle Imprese e del Made in Italy, Fausta Bergamotto. Per Abi, invece, è il direttore generale, Giovanni Sabatini, a prendere parte alla riunione, così come l’amministratore delegato Dario Scannapieco per Cassa depositi e prestiti, il ceo Alessandra Ricci per Sace e il direttore Ernesto Maria Ruffini per l’Agenzia delle entrate. L’obiettivo comune è individuare una soluzione immediata per i cosiddetti ‘crediti incagliati’, oltre a una strutturalità per evitare che in futuro possano esserci altri intoppi. C’è “la ferma determinazione” del governo “a porre rimedio agli effetti negativi della cessione del credito correlata ai bonus edilizi“, fa sapere Palazzo Chigi in una nota. Ribadendo che, a partire dal decreto legge approvato lo scorso 16 febbraio, l’impegno è quello di “trovare le soluzioni più adeguate per quelle imprese del settore edilizio che hanno agito correttamente nel rispetto delle norme“. Mettendo in chiaro che si tratta di una situazione, che l’esecutivo Meloni “ha ereditato” sui crediti maturati e che il sistema bancario ha difficoltà ad assorbire.

Per questo il governo assicura che la questione “verrà esaminata al più presto, in un tavolo tecnico al quale saranno presenti i rappresentanti delle associazioni di categoria intervenuti” e che servirà a individuare “norme transitorie al fine di fornire soluzioni nel passaggio dal regime antecedente al decreto legge a quello attuale, tenendo conto della situazione delle imprese di piccole dimensioni e di quelle che operano nelle zone di ricostruzione post-sisma“. Problema, quest’ultimo, sollevato da tutte le sigle convocate. Ma c’è anche chi, come Confapi, tiene il punto su altri aspetti della vicenda: “Abbiamo caldeggiato l’intervento di Cassa depositi e prestiti perché i lavori che noi andiamo a realizzare come artigiani sono di piccolo importo – spiega il presidente, Marco Granelli -, che sono poco appetibili al sistema bancario essendo di scarsa rigenerazione per loro. Questo mi si dice che non è possibile in questo momento, ma noi continueremo a chiederlo“.

In mattinata, parlando a margine di un convegno, Pichetto aveva spiegato che “sul Superbonus non era possibile fare diversamente”, ma “adesso il governo valuterà anche rispetto a quelle situazioni che hanno determinato circa un 15 miliardi di crediti incagliati: le aziende falliscono non perché abbiamo bloccato la cessione del credito, ma perché nessuno gli comprava il credito“.

Anche se la cifra di cui parlano le aziende al termine del vertice è circa 19,8 miliardi. La riunione di Palazzo Chigi abbraccia diversi fattori, come quelli sollevati da Cna: “Abbiamo avuto disponibilità a discutere, come proponeva lo stesso premier, di binari nuovi e diversi per il futuro degli incentivi“, dice il presidente di Cna, Dario Costantini. Sottolineando di aver chiesto “di continuare questo tavolo, che deve diventare tecnico, urgente, immediato per dare una risposta alle pressioni che ci arrivano delle imprese: parliamo di un comparto in fibrillazione di 600mila imprese, di cui 540mila sono rappresentate da artigiani e pmi“. Non è escluso che possano esserci altri incontri, anche se al momento non è in vista una nuova convocazione. Ma il primo passo è fatto.

Imprese scaricano costi energetici su consumatori: rincari record da 25 anni

C’è la ripresa, ci sono i rincari. Gennaio è partito alla grande per l’economia italiana, come testimoniano le indagini S&P Global Pmi, preziose per capire il trend visto che si basano su interviste – quasi in tempo reale – a 400 direttori acquisti. L’indice manifatturiero ha registrato 50.4, in salita da 48.5 di dicembre ponendo fine a sei mesi consecutivi di risultati inferiori a 50.0, dato spartiacque tra espansione e contrazione, quello relativo ai servizi – che rappresentano quasi il 70% delle attività economiche – si è posizionato a 51.2, in rialzo da 49.9 di dicembre. La migliore lettura da giugno scorso.
Nel caso dell’industria il calo della domanda ha permesso alle aziende di svuotare i magazzini, mentre nel terziario si è assistito anche a un aumento degli ordini. In entrambi i casi, gennaio ha segnato la fine della tregua tra produttori e consumatori: per molti mesi i primi avevano sopportato, non alzando i prezzi, i vertiginosi aumenti delle bollette, ora invece si sta assistendo ad una accelerazione dei prezzi di vendita finale. Lo spiegava pochi giorni fa Carlo Alberto Buttarelli, direttore Ufficio Studi e Relazioni con la Filiera di Federdistribuzione: “Lo scorso anno le imprese della distribuzione moderna hanno contrastato in maniera rilevante la crescita dell’inflazione, investendo ingenti risorse economiche e riducendo i propri margini per assorbire parte dell’aumento dei listini industriali, con l’obiettivo di tutelare il potere d’acquisto degli italiani. Oggi”, proseguiva Buttarelli, “le aziende della distribuzione non hanno più margini di intervento economico”.

Sul fronte manifatturiero l’indagine S&P Global Pmi di gennaio ha sottolineato “come l’inflazione dei costi si sia ridotta al livello più basso da agosto 2020. L’inflazione riportata però è stata notevolmente maggiore di quella dei prezzi di acquisto, le aziende infatti, dopo un lungo periodo di aumento dei costi, hanno cercato di recuperare i loro margini”. Paul Smith, Economics Director di S&P Market Intelligence , definisce “forti” gli aumenti dei “prezzi di vendita”, i quali sommati alle “condizioni del mercato del lavoro che rimangono difficili”, potrebbero aumentare la “pressione sull’inflazione di fondo” rischiando di “diventare la preoccupazione principale per i mesi futuri”.

Per quanto riguarda il terziario, “l’inflazione dei costi gestionali ha continuato decisamente a diminuire, scendendo ai minimi in 15 mesi. I prezzi, tuttavia, seguitano ad aumentare a ritmi storicamente elevati. Le aziende hanno segnalato il continuo aumento dei prezzi imposti dai fornitori, con le spese salariali che contribuiscono al rialzo dei costi operativi. A tale rialzo dei costi – evidenzia S&P Global PMI – il campione intervistato ha reagito con l’aumento delle tariffe applicate ai clienti, approfittando anche del miglioramento della domanda di inizio anno. I prezzi di vendita sono generalmente aumentati per il sedicesimo mese consecutivo“, segnando il più alto rialzo da 25 anni. Visto “un rafforzamento del potere delle aziende sui prezzi e una persistente pressione salariale al rialzo – ricorda Smith – “c’è il timore che le spinte inflazionistiche resteranno elevate ancora per qualche tempo”.

A soffiare sui rincari c’è infatti anche la Bce, col suo rialzo dei tassi. Una stretta – commenta Confesercenti – che rischia di pesare come un macigno sui conti delle imprese italiane, già provate da pandemia, inflazione e caro energia. Secondo le stime dell’organizzazione, il solo aumento dei tassi rappresenta un aggravio del costo dei finanziamenti di almeno 9 miliardi nel corso del prossimo triennio. Queste cifre, continua Confesercenti, vanno ad aggravare ulteriormente il quadro attuale che vede una decisa frenata della ripresa dei consumi, con gravi conseguenze sulle prospettive di crescita del Paese. Tra caro-energia ed inflazione, infatti, nel 2022 le famiglie italiane sono state costrette a bruciare 41,5 miliardi dei propri risparmi per mantenere il proprio tenore di vita. E alla fine del 2023 il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti risulterà inferiore di 2.800 euro rispetto al 2021, mentre per i lavoratori autonomi la capacità di spesa si ridurrebbe di 2.200 euro.

Assolombarda: Rischi energia per il 90% delle imprese Monza-Brianza

L’approvvigionamento e il costo dei materiali e della componentistica oltre ai prezzi dell’energia rappresentano per quasi il 90% delle imprese fattori di ‘medio-alto’ rischio. Circa l’80% degli intervistati indica anche il reperimento delle figure professionali ricercate. Sono queste alcune evidenze che emergono dall’edizione 2022 di TOP500+, il progetto di ricerca e di analisi economico-finanziaria delle 800 maggiori imprese per fatturato, realizzato dal Centro Studi di Assolombarda e promosso in collaborazione con PwC Italia e con il sostegno di Banco Bpm. Per il 2023 la quota di imprese di Monza e Brianza che prevede un incremento del fatturato scende al 47%, il 33% indica stabilità, suggerendo cautela e incertezza rispetto all’evoluzione del contesto locale e internazionale, il 20% invece prevede un fatturato in diminuzione.

Per il 90% circa delle imprese, le materie prime e l’energia restano i rischi più significativi. Rispetto al 2022, però, si intensifica la percezione del rischio per i prezzi energetici che per il 77% delle imprese è ‘alto’ nel 2023 rispetto al 61% nel 2022. Si allentano, invece, i rischi dovuti alle strozzature degli input produttivi: nel 2023 rischio ‘alto’ per il 53% delle imprese, il 61% per quest’anno, rivela l’edizione 2022 di TOP500+.

Cresce, inoltre, il timore per una domanda insufficiente, in coerenza con le stime di crescita globale ridimensionate. Per il 73% delle imprese è un rischio ‘medio-alto’, così come quello per i vincoli finanziari, indicato dal 56% delle aziende.

Appello Confindustria: “Se Europa ferma deficit sarà necessario recovery fund”

Un appello all’Europa. Perché sul tema energetico sia presente, perché “faccia l’Europa”, a partire da un ‘energy recovery fund’ come fu per il Covid. E se non dovesse essere così, se non dovesse nascere quell’Europa solidale sull’energia che l’Italia si aspetta e chiede con forza, allora sarà il nuovo governo a dover risolvere l’emergenza. Anche con uno scostamento di bilancio che potrebbe dimostrarsi “inevitabile”. Pena la desertificazione di imprese. Il mondo dell’industria teme l’arrivo di una recessione e si unisce dietro le parole del presidente, Carlo Bonomi. “Sul tema energetico l’Europa non c’è”, bolla il numero uno di Confindustria, sollecitando l’esecutivo che verrà a dirottare tutte le risorse per far fronte alla crisi: “Dobbiamo salvare l’industria italiana, senza l’industria non c’è l’Italia”. In termini pratici, per Bonomi, si tratta di “40-50 miliardi”, che “si possono trovare nei mille e rotti miliardi di spesa pubblica”. In alternativa, “uno scostamento di bilancio potrebbe dimostrarsi inevitabile”. L’energia è la vera emergenza, “non è il tempo di flat tax o di interventi sulle pensioni tipo quota 100”, gela Bonomi. E se la proposta arriva da Confindustria, allora la politica non può che ascoltare. Parola di Guido Crosetto, uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia si è sempre mostrata contraria all’ipotesi di aumentare il debito pubblico, al contrario della Lega che oggi plaude a Bonomi. In realtà, la stessa Confindustria ammette che l’anno a venire sarà un’incognita. Pesa la crisi russa, che determina i costi dell’energia e nessuno può prevedere cosa accadrà. Di certo, l’onere di evitare il collasso economico deve essere europeo ma se così non sarà il nuovo esecutivo dovrà essere pronto, chiosano gli industriali.

Ma c’è chi, invece, continua a non vedere di buon occhio un ulteriore aumento del debito pubblico, neanche in questa fase critica perché sarà transitoria. È Carlo Messina, ceo di Intesa Sanpaolo, che parla di uno scenario complesso per il primo trimestre del 2023 ma, spiega, “nella seconda parte dell’anno è prevista una crescita. Non ragioniamo per progettare qualcosa di paragonabile alle recessioni passate, è una fase transitoria ma con prospettiva di recupero nel 2024”, annuncia all’assemblea generale dell’Unione industriale di Torino. Impossibile, quindi, secondo lui, chiedere una mano al settore pubblico come avvenuto durante la pandemia. Proprio il Covid-19 ha azzerato gli ultimi margini di manovra in tal senso: il bilancio pubblico ha limiti imprescindibili. In questa fase non dobbiamo permettere che si crei attenzione sul bilancio pubblico” e “necessità di rifinanziare debito pubblico” ribadisce Messina, evocando senza citarlo un andamento impazzito dello spread.