auto elettrica

Stop ai motori termici nel 2035, la battaglia in Europa

L’Unione europea si prepara a rendere obbligatoria entro il 2035 l’immissione sul mercato Ue di auto e furgoni nuovi a zero emissioni, con lo stop alla vendita dei veicoli a combustione interna, come benzina e diesel, entro tredici anni.

Prima la plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo, poi gli Stati membri al Consiglio ambiente: entrambi i co-legislatori dell’Ue hanno finalizzato a giugno, durante la presidenza francese di turno dell’Ue, la rispettiva posizione negoziale su una delle principali proposte avanzate dalla Commissione europea a luglio di un anno fa, nel pacchetto sul clima ‘Fit for 55’. La proposta prevede l’introduzione graduale di standard più rigorosi sulle emissioni di CO2 per auto e furgoni per accelerare la transizione verso una mobilità a emissioni zero richiedendo che le emissioni medie delle auto nuove scendano del 55% a partire dal 2030 e del 100% dal 2035 rispetto ai livelli del 2021. Di conseguenza, tutte le nuove auto immatricolate a partire dal 2035 saranno a emissioni zero.

Il ‘Fit for 55’ è il pacchetto sul clima pensato per abbattere le emissioni del 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990), come tappa intermedia per la neutralità climatica entro metà secolo. L’Ue stima che i trasporti sono l’unico settore in cui le emissioni di gas serra sono in aumento e quelle del trasporto su strada non fanno eccezione: rappresentano quasi il 20% delle emissioni totali di gas serra nell’Unione Europea e sono aumentate in modo significativo dal 1990, con un aumento del traffico che continua a influenzare negativamente la qualità dell’aria.

Nella sua proposta, Bruxelles ricorda che l’industria automobilistica è oltre il 7% del Pil dell’Unione, impegnando direttamente o indirettamente, 14,6 milioni di europei nei settori della produzione, vendita, manutenzione e trasporto. L’iniziativa di Bruxelles sui motori a combustione è stata particolarmente sentita in Italia, che insieme a Bulgaria, Portogallo, Romania e Slovacchia, si era mossa nelle scorse settimane a livello di Consiglio proponendo di posticipare l’eliminazione dei motori a combustione di cinque anni, dal 2035 al 2040 e di ridurre quindi le emissioni di CO2 del 90% nel 2035 (invece del 100% come proposto dalla Commissione europea), lasciando, nei fatti, sul mercato una quota del 10% di veicoli con motori a combustione interna.

Nonostante le pressioni dei governi, la linea non è passata. Nella sostanza, lo stesso tentativo lo aveva fatto all’Eurocamera il Partito popolare europeo (PPE) con l’appoggio della destra conservatrice, presentando due emendamenti con la richiesta di applicare l’obbligo di emissione zero al 90% (non il 100%) nel 2035. Anche a Strasburgo la linea meno ambiziosa non è passata. Il nucleo duro della proposta avanzata un anno fa da Bruxelles, lo stop a benzina e diesel per auto e furgoni nuovi nel 2035, resta quindi invariata ed è un buon punto di partenza per avviare a settembre i negoziati a tre (il cosiddetto trilogo) tra Parlamento e Consiglio, mediati dalla Commissione europea.

Bicicletta

Un italiano su due pedala. Ma l’Italia non è (ancora) un Paese per bici

Se c’è un mezzo di trasporto che di fronte alla parola ‘emissioni’ può ritenersi al sicuro da ogni responsabilità, quello è la bicicletta. Amata e utilizzata regolarmente – ogni giorno o, almeno, una volta alla settimana – dal 50% degli italiani, può contare su 4700 chilometri di piste ciclabili (in crescita di oltre il 15% dal 2015). I dati, contenuti nel rapporto del Mims ‘Verso un nuovo modello di mobilità locale sostenibile’, raccontano che la densità è molto maggiore nelle città del nord (57,9 km per 100 km2, contro 15,7 del centro e 5,4 del Mezzogiorno). Tra i capoluoghi metropolitani, Torino e Milano presentano i valori più elevati (166,1 e 123,3 km per 100 km2), seguiti da Bologna e Firenze (poco meno di 100). E proprio il Piemonte punta a diventare la prima regione in Europa per chilometri ciclabili attrezzati. Per farlo sono stati messi in campo 40 milioni di euro di fondi europei per attuare il Piano regionale della mobilità ciclistica. Il Pnrr, poi, a livello nazionale, prevede investimenti per 600 milioni di euro per finanziare la realizzazione delle ciclovie turistiche (400 milioni) e delle ciclovie urbane (200 milioni), per un totale di 1.800 chilometri.

Recentemente il ministro dei Trasporti e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, ha ricordato che nel 2022 le Regioni si sono “azzuffate” sulle risorse da destinare alle piste ciclabili, “proprio come hanno sempre fatto su strade e ferrovie“. “Segnale – ha detto – che la mentalità è cambiata“. Della stessa opinione anche Alessandro Tursi, presidente della Fiab (Federazione italiana ambiente e bicicletta), che ricorda come la bici sia “una soluzione climatica, energetica, sociale e urbanistica fondamentale, e come tale deve diventare una priorità”. E anche l’Europa, come spiega la commissaria per l’Energia, Kadri Simson, “fa riferimento alla sostenibilità della mobilità ciclabile per aumentare l’indipendenza a livello energetico“.

I capoluoghi italiani con servizi di bike sharing sono 53 (di cui solo 8 nel Mezzogiorno). L’offerta pro capite è più che triplicata nel corso degli ultimi anni, passando da 6 a 19 biciclette ogni 10.000 abitanti tra il 2015 e il 2019. Anche in questo caso l’offerta è più elevata nei comuni capoluogo di provincia del Centro (17) e del Nord (32), a fronte di valori modesti nel Mezzogiorno (2). Il fenomeno è concentrato prevalentemente nei comuni capoluogo delle città metropolitane come Firenze (109 biciclette ogni 10.000 abitanti), Milano (96), Bologna (68) e Torino (35).

Sul fronte economico i dati sono incoraggianti. La mancanza di prodotto, le difficoltà globali di approvvigionamento e i ritardi nelle consegne, che interessano la filiera del pedale negli ultimi anni, non frenano il desiderio di bici degli italiani. Secondo i dati di Confindustria Ancma, dopo i numeri record del 2020, con oltre 2 milioni di pezzi venduti – merito anche del bonus bici – il mercato 2021 sfiora infatti il dato dell’anno precedente, fermandosi a 1.975.000, pari a un -2%. Eppure, nonostante i dati positivi, “non siamo ancora davvero un Paese ciclabile”, dice Piero Nigrelli, responsabile comparto bici di Ancma. “I cittadini lo stanno dicendo: ‘È bello avere la bici, ma è ancora più bello poterla usare al meglio’. I due anni di pandemia lo hanno dimostrato”. Ecco allora che, ancora una volta, il Pnrr potrebbe venire in soccorso. “È tutto pronto”, afferma Nigrelli, per far partire i cantieri delle nuove ciclovie, “ma mancano i tecnici per seguirli. Ci auguriamo che i soldi vengano utilizzati e spesi beni. Per farlo ci va coraggio”.

Intanto dal 16 al 22 settembre si svolgerà la ‘Settimana europea per la mobilità’. Per l’edizione 2022 la Commissione Europea ha scelto di sottolineare l’importanza di una maggiore sinergia per aumentare la consapevolezza verso la mobilità sostenibile e per promuovere un cambiamento degli stili di vita in favore di una mobilità attiva.

malattia

L’inquinamento ambientale uccide. A Firenze i medici cercano soluzioni

Di fronte alla crisi climatica e all’inquinamento ambientale i medici non possono stare a guardare”. È stato chiaro il presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze, Piero Dattolo, nel parlare delle conseguenze del cambiamento climatico sulla pelle degli italiani nel corso di uno degli appuntamenti periodici durante i quali medici specialisti di medicina generale e del territorio si ritrovano per affrontare temi che riguardano il loro lavoro e la salute della popolazione. “L’inquinamento ambientale – ha continuato Dattolo – determina direttamente patologie tumorali, cardiovascolari, polmonari ed anche mentali”.

La situazione attuale, aggravata dall’emergenza siccità che ha preso di mira l’Italia (e anche l’Europa), conduce i medici fiorentini a porsi la fatidica domanda: “Cosa possiamo fare per fronteggiare la crisi climatica?”. La risposta del presidente è nitida: per prima cosa, occorre “essere consapevoli e fare da portavoce verso i pazienti di quali sono e saranno le conseguenze sulla salute della popolazione” rimanendo, tuttavia, parte attiva nel movimento per la giustizia climatica. Tra le priorità si fa strada anche la necessità di sensibilizzare la comunità sull’adozione di stili di vita sostenibili e quella di “esigere interventi strutturali urgenti che mirino a costruire un modello di società e di sviluppo che salvaguardino l’ambiente e la vita delle persone”, la sottolineatura di Dattolo.

E le previsioni per il prossimo futuro sono ancora più allarmanti: “L’aumento delle temperature di cui siamo spettatori negli ultimi decenni, porterà presto ad un innalzamento del livello dei mari che cancellerà le città costiere, alla morte delle barriere coralline, a periodi di siccità che cancelleranno le coltivazioni”. L’aria è irrespirabile già in molte regioni. “Questo porterà – ancora prima che il primo secolo del 2000 si sia potuto concludere – all’emigrazione di masse enormi di persone dalle loro case”. Sembra quasi un paradosso. Scapperemo per sfuggire a eventi meteorologici estremi causati da noi stessi. E ancora una volta la morale della favola ci insegna a fare attenzione, perché la vita dipende totalmente dalle nostre scelte.

Albania

Le armi della seconda Guerra Mondiale inquinano i fondali albanesi

Ai piedi di una scogliera nella baia di Valona, uno dei luoghi più belli della Riviera albanese, le munizioni della Seconda guerra mondiale arrugginiscono in fondo al mare, inquinando le acque cristalline dell’Adriatico. Per mettere in sicurezza l’area, i sommozzatori francesi e albanesi stanno cercando vecchie granate e razzi nell’ambito di una missione congiunta. “È uno sforzo congiunto con la marina albanese, che conosce il sito meglio di noi“, ha dichiarato il capitano Aymeric Barazer de Lannurien, comandante del gruppo francese di sommozzatori per lo sminamento nel Mediterraneo. “Stiamo intervenendo per collaborare con loro in questa missione di bonifica e messa in sicurezza del sito”.

I sommozzatori “cercano munizioni e, man mano che procedono, le munizioni che trovano vengono portate sulla spiaggia per essere prese in carico dall’esercito albanese“, spiega il capitano Barazer di Lannurien. Il risultato dell’operazione è impressionante. In meno di due ore, hanno raccolto 85 munizioni arrugginite, probabilmente armi italiane gettate in mare più di 70 anni fa, ha detto il capitano albanese Ilirian Kristo, che ha spiegato che le immersioni sono il suo “lavoro” ma anche la sua “passione“.

L’Albania fu occupata successivamente dall’Italia e dalla Germania tra l’aprile 1939 e il novembre 1944. “Abbiamo trovato mortai, proiettili di diverso calibro, da 20 millimetri a 155 mm“, ha dichiarato un sommozzatore francese che non può essere nominato a causa delle regole navali. Nel 2021, una precedente missione congiunta franco-albanese ha permesso agli specialisti di recuperare 310 oggetti risalenti alla Seconda Guerra Mondiale.

Si trattava soprattutto di proiettili d’artiglieria, ha detto il capitano Barazer de Lannurien. Ma “avevamo trovato una o due granate che si trovavano sul fondo tra le rocce, facilmente accessibili alla popolazione e che potevano essere pericolose per gli utenti del mare“, ricorda. Sebbene non esistano stime ufficiali sulla quantità di munizioni sommerse, gli esperti ritengono che ci siano almeno 20 relitti del conflitto nel Mar Adriatico e nel Mar Ionio, teatro di combattimenti durante la Seconda guerra mondiale.

(Photo credits: AFP STORY BY BRISEIDA MEMA)

dipendenti

In Francia il pendolarismo diventa parte della ‘carbon footprint’ aziendale

Le imprese, le amministrazioni e gli enti locali dovranno contabilizzare le proprie emissioni indirette di gas serra nei loro bilanci. Lo prevede un recente decreto del ministro per la Transizione energetica, Agnès Pannier-Runnacher.

Il decreto, firmato il 1° luglio, modifica il perimetro delle indicazioni obbligatorie nei rapporti sulle emissioni di gas serra (BEGES), che aziende ed enti locali sono tenuti a pubblicare (ogni quattro anni per le imprese, tre anni per gli altri enti).

Finora ogni organizzazione aveva l’obbligo di indicare la propria impronta carbonica diretta (Scope2) e quella indiretta (cioè le emissioni indirette da consumo energetico, Scope2). Ora, invece, sarà obbligatorio indicare anche altre emissioni indirette derivanti dalle attività a monte e a valle dell’organizzazione (Scope3).

Si tratta, quindi, di contabilizzare e dichiarare tutte le emissioni indirette significative. Questo include, ad esempio, si legge in una nota del ministero francese, “le emissioni legate all’uso di prodotti venduti da un’azienda, o il pendolarismo dei dipendenti“.

Un’evoluzione del sistema che intende portare aziende, pubbliche amministrazioni e comunità “ad avere una visione più completa della propria impronta climatica e (…) dare priorità alle azioni da intraprendere“.

Sono pochi i Paesi che obbligano le aziende a calcolare e pubblicare il proprio bilancio delle emissioni di gas serra, ma la legislazione si moltiplica, soprattutto per i maggiori emettitori e gruppi quotati in borsa. È il caso del Regno Unito, dove il Companies Act dal 2013 obbliga le aziende a menzionare nella loro relazione annuale la quantità di gas serra emessi dagli ambiti 1 e 2.

In Francia, le aziende con più di 500 dipendenti dal 2010 devono pubblicare e aggiornare la propria relazione sulle emissioni e il proprio piano di transizione ogni quattro anni.

In Giappone l’obbligo in vigore dal 2006 riguarda le imprese di alcuni settori (energia, trasporti) e quelle con più di 20 dipendenti che emettono più dell’equivalente di 3.000 tonnellate di Co2. È stato esteso alle 4.000 aziende più grandi nella primavera del 2022. Discussioni sono in corso anche a Hong Kong per l’attuazione di un piano simile nel 2025.

microplastiche

Migliaia di pellets di plastica sulle coste pugliesi: la denuncia di Greenpeace

Migliaia e migliaia di lenticchie sulle spiagge pugliesi. Osservando con più attenzione, però, è facile comprendere che delle lenticchie quegli oggetti hanno solo la forma. Sono chiamati pellets di plastica, o nurdles, più semplicemente in italiano ‘granuli’. È quello che emerge dal report ‘Inquinamento silenzioso’, diffuso oggi da Greenpeace Italia, nel quale vengono illustrati i risultati dei campionamenti effettuati nel 2021 in dodici spiagge lungo le coste pugliesi. A seguito dei risultati dell’indagine, l’organizzazione ambientalista ha presentato un esposto in procura, chiedendo alla magistratura di investigare sull’inquinamento e verificare se sussistano le condizioni affinché si proceda al sequestro delle attività industriali presenti nell’area specializzate nella produzione di questi granuli.

Ma cosa sono i pellets? È questa la forma in cui si presenta la plastica vergine, ovvero quella appena prodotta dagli stabilimenti petrolchimici dalla raffinazione di idrocarburi, qualunque sia il polimero in questione. Questi granuli vengono poi inviati alle industrie che producono i singoli, vari oggetti: che sia un paio di occhiali, un sacchetto, il cruscotto dell’automobile o una cannuccia si parte da quelle ‘lenticchie’. Sono microplastiche primarie, ovvero hanno misure comprese tra 0,3 e 5 mm sul lato più lungo e vengono prodotte in quelle dimensioni, ovvero il loro essere ‘micro’ non deriva dalla frammentazione di un oggetto più grande.

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Nei mesi scorsi abbiamo effettuato una serie di campionamenti– racconta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeaceseguendo una metodica già messa in atto da alcuni ricercatori a livello internazionale. L’obiettivo era quello di definire l’abbondanza di questi granuli lungo alcune spiagge delle coste pugliesi e soprattutto brindisine, a differenti distanze dal dall’impianto del petrolchimico, tra i più grandi in Italia per la produzione di materie plastiche. Abbiamo campionato spiagge in direzione nord e sud: a ridosso dell’impianto, a 12, 20, 25, 50 chilometri dal petrolchimico e anche un luogo a 100 di distanza. Il dato ci mostra chiaramente che c’è un gradiente di concentrazione variabile in base alla distanza dall’impianto industriale”.

Dei 7938 granuli raccolti nell’indagine, circa il 67% proviene dai tre siti di campionamento più vicini al petrolchimico. Al contrario, nelle aree più distanti i livelli di contaminazione sono risultati, quasi ovunque, nettamente inferiori. Dal rapporto emerge che gran parte dei granuli raccolti e analizzati nel corso dell’indagine, pari a circa il 70% del totale, è traslucido e trasparente: un’evidenza che la letteratura scientifica collega a rilasci recenti nell’ambiente, perché con il trascorre degli anni e dei decenni questi granuli diventano più scuri, giallognoli e quasi marroni. Inoltre, di tutti i nurdles raccolti, il 78 per cento è in polietilene (un tipo di plastica prodotto in loco dall’azienda Versalis, di proprietà di Eni), mentre poco più del 17 per cento è in polipropilene (un polimero plastico prodotto nell’area da Basell Poliolefine Italia).

microplastiche

I dati che diffondiamo oggi dimostrano che la plastica inquina già dalle prime fasi del suo ciclo di vita – dice Giuseppe Ungherese -. In un pianeta già soffocato da plastiche e microplastiche, è necessario azzerare tutte le fonti di contaminazione, inclusa la dispersione dei granuli, il cui rilascio nell’ambiente rappresenta un grave pericolo per gli ecosistemi marini ed è riconducibile alla filiera logistico-produttiva delle materie plastiche. Chiediamo alla magistratura di intervenire e a Versalis e Basell Poliolefine Italia, le due società specializzate nella produzione di granuli nell’area brindisina, di rendere pubbliche le prove in loro possesso che dimostrino la loro estraneità a questo inquinamento”.

Ungherese spiega: “Esistono vari programmi volontari da parte dell’industria petrolchimica per azzerare questa contaminazione, come Operation Clean Sweep a cui aderiscono le due aziende in questione, ma non esiste un controllo esterno e indipendente, non c’è un monitoraggio sulle buone pratiche condivise. La sensazione, quindi, è che questi impegni lascino un po’ il tempo che trovano. Un rapporto di qualche anno fa, stilato per conto della Commissione europea, stima che solo nel nostro continente il rilasci di questi granuli nell’ambiente possa arrivare a superare le 167.000 tonnellate annue. Come tutte le microplastiche, anche queste entrano facilmente nella catena alimentare degli organismi marini, accumulandosi negli animali che si trovano al vertice, come i predatori, tonni e pesce spada ad esempio”.

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Greenpeace ha registrato anche una lunga serie di interviste con gli abitanti dei luoghi in cui sono stati effettuati i campionamenti: raccontano tutti come la presenza di questi granuli sia una costante nel tempo, come queste graziose perline fossero oggetti di gioco durante l’infanzia. Nessuno pensava fossero palline di plastica, ma qualcuno di quei meravigliosi capolavori che l’usura delle onde e del vento su sassolini, conchiglie e sabbia ci lascia spesso ritrovare sulle spiagge.

La strategia dell’Ue contro i tumori causati dall’inquinamento

Le politiche europee in direzione ‘inquinamento zero’ possono contribuire notevolmente a ridurre il numero dei tumori – e dei decessi – causati da fattori ambientali. Ne è certa l’Agenzia europea per l’Ambiente, che nel rapporto ‘Sconfiggere il cancro: il ruolo dell’ambiente in Europa’ evidenzia come il 10% di tutti i casi di cancro nel Vecchio Continente siano causati proprio dall’inquinamento.

Il piano europeo di lotta contro il cancro riconosce il ruolo dei rischi ambientali e professionali nel favorire l’insorgenza di tumori e le potenzialità insite in strategie efficaci di prevenzione per salvare vite umane. In linea con questo obiettivo, il Piano d’azione per l’inquinamento zero, del maggio 2021, si pone come obiettivo quello di ridurre l’inquinamento atmosferico e idrico, e quindi l’esposizione umana all’inquinamento ambientale nonché gli effetti sulla salute, tra cui l’incidenza dei tumori di origine ambientale e professionale. L’Unione europea ha già adottato misure rigorose in materia di inquinamento atmosferico e ha previsto revisioni della direttiva per allineare meglio gli standard di qualità dell’aria ai più recenti orientamenti in materia a cura dell’Organizzazione mondiale della sanità.

In particolare, la strategia in materia di sostanze chimiche sostenibili, pubblicata a ottobre 2020, mira a vietare l’uso nei prodotti delle sostanze più nocive, incluse quelle che provocano il cancro, e a promuovere il ricorso a sostanze chimiche che siano sicure e sostenibili fin dalla progettazione.

Per quanto riguarda il radon, la direttiva sulle norme fondamentali di sicurezza ha introdotto requisiti giuridicamente vincolanti per la protezione dall’esposizione a fonti di radiazioni naturali, imponendo agli Stati membri di istituire piani d’azione nazionali per questa sostanza. Altri interventi includono il coordinamento degli sforzi europei per combattere il fumo passivo e la sensibilizzazione in merito ai pericoli posti dai raggi ultravioletti.

Il settore agricolo è sempre più green e con donne ai vertici

Un’agricoltura sempre più giovane e dinamica, con tantissime imprese a conduzione femminile e con una crescente attenzione agli sviluppi della ricerca e alle sue applicazioni, ma anche alla digitalizzazione“. Le parole del presidente di Copagri, Franco Verrascina, inquadrano efficacemente i primi risultati del settimo censimento dell’agricoltura dell’Istat relativo all’annata 2019-2020 (in confronto con il 2010 e il 1982). Il report infatti fotografa un settore in buona salute, sia per quanto riguarda le coltivazioni sia per gli allevamenti, e conferma il sostegno al Pil nazionale da parte del Made in Italy agroalimentare. Tuttavia è il dato storico a preoccupare: a ottobre 2020 risultano attive in Italia 1.133.023 aziende agricole, ma nell’arco di 38 anni sono scomparse quasi due aziende agricole su tre. Rispetto al 1982 c’è stata una flessione del 63,8% e la riduzione è stata più accentuata negli ultimi 20 anni: il numero di aziende agricole si è infatti più che dimezzato rispetto al 2000, quando era a circa 2,4 milioni.

Secondo il CensiAgri, inoltre, dal 2010 le aziende agricole sono in netto calo e soprattutto al Centro-Sud: almeno -22,6% in tutte le regioni, ad eccezione delle province autonome di Bolzano (-1,1%) e di Trento (-13,4%) e della Lombardia (-13,7%). Il calo più deciso si registra in Campania (-42,0%). Nel decennio la riduzione del numero di aziende è maggiore nel Sud (-33%) e nelle Isole (-32,4%) mentre nelle altre ripartizioni geografiche si attesta sotto la media nazionale.

LE COLTIVAZIONI

Dal censimento emerge che oltre la metà della Superficie agricola utilizzata (Sau) continua a essere coltivata a seminativi (57,4%), seguono i prati permanenti e pascoli (25,0%), le legnose agrarie (17,4%) e gli orti familiari (0,1%). Più nel dettaglio, i seminativi sono coltivati in oltre la metà delle aziende italiane, ossia più di 700mila (-12,9% rispetto al 2010), per una superficie di oltre 7 milioni di ettari (+2,7%) e una dimensione media di 10 ettari. In Emilia-Romagna, Lombardia, Sicilia e Puglia è concentrato il 41,4% della superficie nazionale dedicata a queste colture. Tra i seminativi, i più diffusi sono i cereali per la produzione di granella (44% della superficie a seminativi). In particolare, il frumento duro è coltivato in oltre 135mila aziende per una superficie di oltre 1 milione di ettari.

ALLEVAMENTI

Quanto all’allevamento, la Sardegna primeggia in Italia con circa 24mila aziende (10% del totale italiano), seguita da Veneto (8,3%) e Lombardia (8,2%), con circa 20mila aziende, e dal Piemonte (7,6%) con 18mila. Il contributo minore è dato invece dalle regioni dove predomina la catena alpina o la costa rocciosa, ossia la Valle d’Aosta (circa 1.400 aziende, lo 0,7% del totale), la Liguria e Trentino, entrambe con circa 4mila aziende (il 2% del totale). All’1 dicembre 2020 in Italia si contano 213.9841 aziende agricole con capi di bestiame (18,9% delle aziende attive). In termini assoluti, i capi allevati in Italia sono 203 milioni, dei quali 8,7 milioni suini, 7 milioni ovini e 5,7 milioni bovini (a cui si aggiungono ovviamente galline, tacchini, conigli etc…). Il contributo maggiore di animali allevati spetta al Nord-est, dove si trova la metà di tutti i capi censiti (quasi un terzo nel solo Veneto).

DONNE E GIOVANI

Il CensiAgri Istat si concentra anche sulla demografia delle imprese agricole italiane. Spicca ad esempio il dato sulla presenza femminile, che in termini numerici diminuisce tra il 2010 (36,8%) e il 2020 (30%) mentre aumenta la partecipazione in ruoli manageriale: i capi azienda sono donne nel 31,5% dei casi (era il 30,7% nel 2010). A livello anagrafico, è ancora limitata la presenza di capi azienda nelle fasce di età più giovanili: nel 2020 i capi azienda fino a 44 anni sono il 13%, in calo rispetto al 2010 (17,6%). Ad ogni modo il CensiAgri sottolinea che le aziende con a capo un under45 sono 4 volte più informatizzate rispetto a quelle gestite da un capo over 64 (32,2% e 7,6%). E l’incidenza delle aziende digitalizzate è maggiore nel caso in cui esse siano gestite da un capo azienda istruito e ancora di più nel caso in cui il percorso di studi sia orientato verso specializzazioni di tipo agrario. A proposito di innovazione, l’11% delle aziende agricole coinvolte nel censimento ha dichiarato di aver effettuato almeno un investimento innovativo tra il 2018 e il 2020. I maggiori investimenti innovativi sono stati rivolti alla meccanizzazione (55,6% delle aziende che innovano), seguono l’impianto e la semina (23,2%), la lavorazione del suolo (17,4%) e l’irrigazione (16,5%).

INNOVAZIONE E TRANSIZIONE GREEN

In tema di innovazione e investimenti le aziende agricole guardano sempre di più alle fonti di energia alternative e pulite. Secondo un’analisi Coldiretti, dal 2010 è triplicato il numero di imprese del settore che producono energia, dal biometano al solare. La crescita è monstre: +198% nel giro di un decennio. “L’obiettivo – spiega la Coldiretti – è ridurre la dipendenza del Paese dall’estero e fermare i rincari che stanno mettendo in ginocchio famiglie e imprese, mentre il prezzo della benzina sale ancora arrivando a 2,073 al litro e al G7 si discute sul tetto al gas e al petrolio da Mosca”. Partendo dall’utilizzo degli scarti delle coltivazioni e degli allevamenti è possibile arrivare alla realizzazione di impianti per la distribuzione del biometano a livello nazionale per alimentare le flotte del trasporto pubblico come autobus, camion e navi oltre alle stesse auto dei cittadini.

In questo modo – spiega una nota dell’associazione agricola – sarà possibile generare un ciclo virtuoso di gestione delle risorse, taglio degli sprechi, riduzione delle emissioni inquinanti, creazione di nuovi posti di lavoro e sviluppo della ricerca scientifica in materia di carburanti green“. Gli impianti di biogas in Italia – spiega la Coldiretti – oggi producono 1,7 miliardi di metri cubi di biometano ma è possibile quadruplicare questa cifra in meno di dieci anni con la trasformazione del 65% dei reflui degli allevamenti. Ma un aiuto importante potrebbe venire anche dal fotovoltaico pulito ed ecosostenibile per il quale – ricorda Coldiretti – sono tra l’altro previsti 1,5 miliardi di euro di fondi nell’ambio del Pnrr. Secondo uno studio di Coldiretti Giovani Impresa solo utilizzando i tetti di stalle, cascine, magazzini, fienili, laboratori di trasformazione e strutture agricole sarebbe possibile recuperare una superficie utile di 155 milioni di metri quadri di pannelli con la produzione di 28.400Gwh di energia solare, pari al consumo energetico complessivo annuo di una regione come il Veneto.

L’inquinamento uccide e causa tumori

Quasi il 10% di tutti i tumori in Europa è causato dall’inquinamento in tutte le sue forme. Lo annuncia l’AEA, l’Agenzia europea dell’ambiente, nel rapporto ‘Sconfiggere il cancro: il ruolo dell’ambiente in Europa’, dal quale emerge come in cima alla lista dei fattori determinanti ci siano l’esposizione all’inquinamento atmosferico, al fumo passivo, al radon, ai raggi ultravioletti, all’amianto, a determinate sostanze chimiche e ad altri inquinanti.

Con circa 3 milioni di nuove diagnosi e 1,3 milioni di decessi ogni anno in tutta l’Unione Europea, il cancro ha ripercussioni pesantissime sulla società. Anche i costi economici, stimati in circa 178 miliardi di euro nel solo 2018, sono enormi.

Lo studio, però, lancia un segnale di speranza. È possibile, infatti, ridurre la maggior parte di questi fattori di rischio oncologico di tipo ambientale e professionale prevenendo l’inquinamento e modificando i comportamenti collettivi e individuali. Diminuire l’esposizione a questi rischi, spiega l’Agenzia, rappresenta una soluzione efficace, anche in termini di costi, per ridurre i casi di tumore e i relativi decessi. Il piano di azione dell’Ue per la riduzione dell’inquinamento e la strategia in materia di sostanze chimiche sostenibili, spiega Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell’AEA, “contribuirebbe a ridurre sensibilmente i casi tumore, rappresentando un investimento efficace per il benessere dei nostri cittadini“.

Con l’obiettivo ‘inquinamento zero’ del Green Deal europeo – spiega il commissario Ue per l’Ambiente, Virginijus Sinkevičius – possiamo fare progressi efficaci in termini di costi nella prevenzione del cancro diminuendo l’esposizione agli inquinanti nocivi. Ciò che è meglio per l’ambiente è meglio anche per noi“.

In particolare, dal rapporto emerge come l’inquinamento atmosferico sia correlato all’1 % circa di tutti i casi di cancro in Europa e provoca circa il 2% dei decessi complessivi ascrivibili a tale malattia. Quest’ultimo dato sale al 9 % se si considerano solo i tumori ai polmoni.

Anche il radon e i raggi ultravioletti contribuiscono in misura significativa all’incidenza dei tumori in Europa, dove l’esposizione al radon in ambienti chiusi è correlata al 2 % di tutti i casi di cancro e al 10 % dei casi di tumore ai polmoni, mentre le radiazioni ultraviolette naturali potrebbero essere la causa del 4 % del totale dei casi oncologici. Negli ultimi decenni, in particolare, l’incidenza del melanoma, una grave forma di cancro della pelle, è aumentata in tutto il continente.

L’esposizione al fumo passivo può aumentare il rischio generale d’insorgenza di tumori fino al 16 % nelle persone che non hanno mai fumato. Il 31 % circa degli europei è esposto al fumo ambientale da tabacco in casa, sul lavoro, nel tempo libero, negli istituti scolastici o in ambienti pubblici.

Inoltre, alcune sostanze chimiche utilizzate nei luoghi di lavoro europei e rilasciate nell’ambiente sono cancerogene e contribuiscono a provocare tumori. È noto o si sospetta che molte di queste sostanze – tra cui il piombo, l’arsenico, il cromo, il cadmio, l’acrilammide, i pesticidi, il bisfenolo A nonché le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) – causino il cancro a livello di diversi organi.

Tutte le forme di amianto sono noti agenti cancerogeni, associati al mesotelioma e a tumori polmonari, della laringe e delle ovaie. Sebbene l’Ue l’abbia vietato nel 2005, l’amianto è ancora presente in edifici e infrastrutture, con conseguente esposizione dei lavoratori impegnati in attività di ristrutturazione e demolizione. Inoltre, i tumori continuano a manifestarsi molti anni dopo l’esposizione; secondo le stime, l’amianto è responsabile del 55-88 % dei tumori ai polmoni di origine professionale.

È emergenza oceanica, Onu: “Agire subito”

Migliaia di politici, esperti e attivisti ambientali si sono riuniti a Lisbona per sostenere l’appello delle Nazioni Unite a lavorare per preservare la fragile salute degli oceani ed evitare “effetti a cascata” che minacciano l’ambiente e l’umanità.

Purtroppo, abbiamo dato per scontato l’oceano. Attualmente stiamo affrontando quello che definirei uno stato di emergenza oceanica“, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite. “La nostra incapacità di preservare l’oceano avrà effetti a cascata“, ha sottolineato nel suo discorso di apertura della conferenza, che durerà cinque giorni, più volte rinviata a causa della pandemia.

I mari, che coprono più di due terzi della superficie del pianeta, generano metà dell’ossigeno che respiriamo e rappresentano una fonte vitale per la vita quotidiana di miliardi di persone. L’oceano svolge anche un ruolo chiave per la vita sulla Terra mitigando gli impatti dei cambiamenti climatici. Ma pagano un prezzo altissimo.

Assorbendo circa un quarto dell’inquinamento da CO2, con un aumento di emissioni del 50% negli ultimi 60 anni, il mare è diventato più acido, destabilizzando le catene alimentari acquatiche e riducendo la sua capacità di catturare sempre più gas carbonici. E, assorbendo oltre il 90% del calore in eccesso causato dal riscaldamento globale, l’oceano sta subendo potenti ondate di calore che stanno distruggendo preziose barriere coralline e diffondendo zone morte prive di ossigeno.

Abbiamo ancora poca idea dell’entità della devastazione provocata dai cambiamenti climatici sulla salute degli oceani“, ha spiegato Charlotte de Fontaubert, la principale esperta di economia blu della Banca mondiale. Al ritmo attuale, l’inquinamento da plastica triplicherà entro il 2060, raggiungendo un miliardo di tonnellate all’anno, secondo un recente rapporto dell’Ocse. Le microplastiche causano già la morte di un milione di uccelli e di oltre 100mila mammiferi marini ogni anno. I partecipanti alla riunione di Lisbona discuteranno proposte per affrontare questo problema, che vanno dal riciclaggio al divieto totale dei sacchetti di plastica.

All’ordine del giorno c’è anche il problema della pesca intensiva. “Almeno un terzo degli stock ittici selvatici è sovrasfruttato e meno del 10% dell’oceano è protetto“, ha detto Kathryn Mathews, direttrice scientifica dell’Ong americana Oceana. “I pescherecci illegali devastano impunemente le acque costiere e in alto mare“, ha aggiunto.

I dibattiti verteranno anche su una possibile moratoria volta a proteggere i fondali marini dall’attività mineraria alla ricerca di metalli rari necessari alla fabbricazione delle batterie per il fiorente settore dei veicoli elettrici. Molti ministri e alcuni capi di Stato, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, atteso giovedì, prenderanno parte alla conferenza che, però, non vuole diventare una sessione formale di negoziazione. Alcuni partecipanti coglieranno comunque l’occasione per difendere un’ambiziosa politica a favore degli oceani in vista dei due vertici cruciali che si terranno a fine anno: la conferenza delle Nazioni Unite sul clima COP27, che si svolgerà a novembre in Egitto, seguita a dicembre dalla tanto attesa conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità COP15, che si svolgerà in Canada sotto la presidenza cinese.

 

(Photo credits: CARLOS COSTA / AFP)