spiaggia

La responsabilità degli italiani passa anche dalle spiagge. Quanto ce ne prendiamo cura?

L’esperienza della sporcizia sui litorali è comune a gran parte della popolazione: 27,4 milioni gli italiani che l’hanno vissuta. Pochissimi (solo il 12%) quelli che dicono di non averla mai provata. Il sentimento più diffuso che questo stato di degrado provoca è il fastidio, provato da circa 25 milioni di persone. Per fortuna ci sono anche buone notizie: 19 milioni di italiani (circa il 62% del totale), i ‘responsabili’, si prendono cura del luogo in cui si trovano, rimuovendo se necessario gli oggetti abbandonati che incontrano. Lo fanno con stati d’animo diversi: la maggior parte di loro (circa 14 milioni) prova fastidio e sdegno, una piccola parte sembra invece non essere particolarmente colpita dalla presenza dei rifiuti in spiaggia; nonostante due sentimenti così diversi, la reazione è la medesima: fare la propria parte. I responsabili sono per lo più giovani, con meno di 24 anni, vivono in prevalenza nelle grandi città del sud, sono lettori e appassionati di sport e vita all’aperto. È quanto emerge in una indagine di Sorgenia tramite Human Highway sul sentimento degli italiani rispetto alla pulizia delle spiagge.

Ci sono poi i vorrei ma non posso (18,7%): persone che provano rabbia di fronte ai litorali sporchi ma non agiscono. Le ragioni? Non ritengono sia compito loro, non hanno gli strumenti adeguati o sono preoccupati per ragioni igieniche, ancora più sentite dopo questi anni di Covid. In fin dei conti pensano sia pressoché impossibile cambiare lo status quo.

Troviamo anche gli indifferenti, ovvero 2,5 milioni di italiani che, pur notando la sporcizia, non provano alcun fastidio né sentono il bisogno di intervenire.

Infine, abbiamo i distratti (l’11,7% del totale), persone che addirittura non vedono i rifiuti; difficile risalire alle possibili motivazioni: abitudine oppure frequentazione di litorali molto curati dove la pulizia è impeccabile? È questo il quadro che emerge dal sondaggio di Sorgenia realizzato da Human Highway su un campione statisticamente rilevante, con l’obiettivo di misurare i sentimenti di 31 milioni di italiani che frequentano abitualmente le spiagge del Paese. L’indagine arriva a conclusione delle iniziative di plogging promosse da Sorgenia in alcuni lidi italiani in concomitanza con il progetto M.A.R.E. (Marine Adventure for Research & Education), ideato da Centro Velico Caprera e One Ocean Foundation per studiare la salute del Tirreno.

Ma quali sono i rifiuti più diffusi? Al primo posto i mozziconi di sigaretta (notati dal 72,3% del campione), poi bottiglie, lattine e plastiche (intorno al 50%) e, new entry tra gli oggetti d’uso quotidiano, le mascherine (39,8%). Nella classifica degli oggetti indebitamente abbandonati sui litorali anche avanzi di alimenti, carte e giornali, escrementi di animali domestici e indumenti.

Per prevenire il degrado, il 40% degli italiani suggerisce un maggior numero di cestini e bidoni a margine dei lidi e una quota simile reclama la figura della “guardia marina” per far rispettare le regole. Tra le altre proposte, aumentare i cartelli informativi e dare ai bagnanti gli strumenti per portare via i propri rifiuti. Soprattutto i responsabili sono favorevoli a nuove forme di interventi condivisi, come flashmob da organizzare periodicamente sulle spiagge: il 22,8% di loro vorrebbe istituire la “mezz’ora di pulizia” e uno su sette consiglia di puntare sulla tecnologia, segnalando gli appuntamenti di plogging su canali social o promuovendo apposite App che indichino le spiagge più sporche e convochino i volontari a pulirle.

plastica spiaggia

Plastica, mascherine e cotton fioc: così Legambiente ripulisce le spiagge

Le spiagge italiane? Sono sporche, senza distinzioni geografiche e con la costante di una tendenza all’aumento della quantità di rifiuti. Che, comunque, non rappresentano l’unica problematica per le nostre coste ma – come emerge dai risultati dell’indagine ‘Mare Monstrum’ firmata da Legambiente – sono in compagnia dell’insidioso diffondersi di scarichi illegali di liquami e dell’aggressivo abusivismo edilizio ‘vista mare’. Senza calcolare gli effetti prodotti dalla pandemia che ha ‘popolato’ le spiagge di dispositivi di sicurezza come mascherine e guanti.

Legambiente si occupa di pulizia delle spiagge fin dal 2014, e lo fa in un’ottica di citizen science, ossia coinvolgendo direttamente le persone perché si prendano cura con impegno del pianeta”, racconta a GEA Stefania di Vito, Ufficio Scientifico di Legambiente. “Attraverso la recente indagine Beach Litter è stato effettuato un monitoraggio accurato dei litorali italiani applicando un protocollo comune messo a punto da Ministero dell’Ambiente e basato sulla valutazione di 11 parametri, tra i quali rientra anche la presenza di rifiuti marini. Degli oltre 44mila rifiuti censiti nell’indagine svolta quest’anno la plastica ha rappresentato il materiale di composizione dominante, costituendo oltre l’80% degli oggetti rinvenuti”, aggiunge.

Proprio sugli oggetti in plastica – dalle stoviglie usa e getta per arrivare ai cotton fioc – è necessario intervenire. Ad esempio, agire in maniera mirata sulla riduzione della plastica monouso permetterebbe di limitare considerevolmente la portata del problema, diminuendo una parte importante dei rifiuti. In questa direzione si inserisce la direttiva europea Single Use Plastics, che contempla anche il ripensamento del design degli oggetti: ne costituisce un modello la produzione di tappi che restano attaccati per un lembo al collo delle bottiglie. Per attutire invece l’impatto dei mozziconi – ne vengono abbandonati nelle spiagge 5 milioni ogni giorno – è stato incentivato il coinvolgimento dei produttori di sigarette nelle attività di raccolta e smaltimento.

Ma che fine fanno poi i rifiuti raccolti? Una domanda che non può restare sospesa nell’aria: “Ci sono alcuni progetti sperimentali per il recupero della plastica – racconta di Vito –. Tuttavia soltanto una minima parte, quella che non ha subito eccessive degradazioni, può essere riutilizzata e avere una seconda vita. Non si tratta di una filiera strutturata in quanto il materiale risulta spesso danneggiato in maniera importante”.

La presenza di plastica e microplastica è un pericolo per gli organismi marini sotto diversi versanti: intrappolamento, ingestione, soffocamento e rilascio di sostanze tossiche come additivi e composti persistenti che si insinuano nei tessuti delle specie ittiche causando problematiche in tutta la filiera trofica. “A questo proposito – dichiara di Vito – Legambiente sta seguendo un progetto di studio in collaborazione con i dipartimenti di Ecologia ed Ecotossicologia dell’Università di Siena per approfondire l’impatto delle microplastiche in mare”.

Come si diceva, ad aggravare la situazione, complici gli ultimi anni di pandemia, le spiagge italiane e di tutto il mondo si sono ‘sporcate’ dei rifiuti legati all’emergenza sanitaria, come mascherine e guanti. Tanto che i dispositivi di sicurezza individuale sono presenti in quasi la metà delle spiagge censite dall’iniziativa ‘Clean up the Med’ svoltasi lo scorso maggio: i quantitativi maggiori sono stati rinvenuti in Grecia, seguita da Algeria, Croazia, Libano e Spagna.

incendio

Anno record per incendi in Europa: bruciati già 5mila km2

I roghi che hanno imperversato durante le recenti ondate di calore in Europa dimostrano che il riscaldamento globale favorisce gli incendi boschivi, che dall’inizio dell’anno hanno già distrutto più terreni che in tutto il 2021.”La situazione è persino peggiore del previsto, anche se ci aspettavamo anomalie di temperatura grazie alle previsioni meteorologiche a lungo termine“, dichiarato a Afp Jesus San Miguel, coordinatore del Sistema europeo di informazione sugli incendi boschivi (Effis). Per lui non ci sono dubbi: “L’ondata di calore è un fattore determinante nella situazione e chiaramente legato al riscaldamento globale“.

Nei 27 Paesi dell’Unione Europea, dall’inizio dell’anno gli incendi hanno devastato un totale di 517.881 ettari (dati del 16 luglio), pari a poco più di 5.000 km2 , equivalenti alla superficie di un dipartimento francese come Mayenne o delle isole di Trinidad e Tobago nei Caraibi. Nell’intero 2021, nonostante i numerosi incendi in Italia e Grecia, 4.700 km2 sono bruciati nei Paesi dell’Ue, secondo i dati compilati dall’Effis dal 2000.

Se la tendenza continua, il 2022 potrebbe eguagliare o superare il 2017, l’anno peggiore registrato nell’Ue da quando è stato creato l’Effis, quando sono bruciati quasi 10.000 km2 di vegetazione, superficie pari a quella del Libano.

Nei Paesi più colpiti dalle recenti ondate di calore di giugno e luglio, dall’inizio dell’anno sono bruciati quasi 40.000 ettari in Francia, rispetto a poco più di 30.000 per tutto il 2021, oltre 190.000 ettari in Spagna, rispetto a quasi 85.000 nel 2021, e oltre 46.000 in Portogallo, rispetto a oltre 25.000 nel 2021. Anche la Romania è stata colpita duramente, con 149.264 ettari bruciati rispetto ai 20.364 del 2021. Al contrario, l’Italia e la Grecia, molto colpite lo scorso anno, sono state finora risparmiate: 25.103 ettari bruciati contro i 150.552 dell’Italia, 7.810 contro i 130.058 della Grecia.

Ma con l’ondata di calore che ha colpito la parte occidentale del continente, vicino all’Atlantico, anche i Paesi non abituati a tali incendi hanno visto aumentare la superficie colpita. È il caso della Gran Bretagna, dove la temperatura ha superato i 40°C per la prima volta questa settimana. Dall’inizio dell’anno sono bruciati poco più di 20.000 ettari, rispetto ai 6.000 del 2021, secondo l’Effis.

Sapevamo che sarebbe stata un’estate difficile e ci aspettiamo che continui, non siamo nemmeno a metà della stagione degli incendi, dice San Miguel. “Prima la stagione era concentrata da luglio a settembre, ora abbiamo stagioni più lunghe e incendi molto intensi”. “Ciò che è notevole è la durata della combustione“, concorda Mark Parrington, scienziato capo del servizio europeo di monitoraggio atmosferico Copernicus (Cams). “Non è una cosa che vediamo normalmente in Europa“, continua, ma con il riscaldamento i terreni e la vegetazione si stanno seccando e “c’è molto carburante“. Con questi cambiamenti nelle condizioni fisiche, “c’è una chiara tendenza all’aumento del rischio di incendio nell’Europa meridionale e centrale“, afferma.

Questi incendi più numerosi e intensi influiscono sulla qualità dell’aria respirata dalle persone. Nel sud-ovest della Francia, il fumo, carico di particelle e biossido di azoto, è stato avvertito a Bordeaux, la cui area urbana conta più di 800.000 abitanti, e persino a Parigi, a più di 500 km di distanza. Inoltre, la combustione delle foreste emette CO2, uno dei gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale. In quantità trascurabili in termini assoluti per l’Europa. Ma gli alberi scomparsi non assorbiranno più nemmeno il carbonio.

(Photo credits: Federico SCOPPA / AFP)

nucleare

Il Giappone scaricherà in mare le acque contaminate di Fukushima

L’autorità di regolamentazione nucleare del Giappone ha approvato il piano di scarico in mare delle acque contaminate dell’impianto di Fukushima Daiichi proposto dall’operatore Tepco, che deve ancora convincere le autorità e le comunità locali. Questo controverso progetto era già stato approvato l’anno scorso dal governo ed è supervisionato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea). Si tratta del rilascio graduale nell’Oceano Pacifico, al largo delle coste di Fukushima, di oltre un milione di tonnellate di acqua contaminata da trizio, un radionuclide che non può essere eliminato con le attuali tecnologie ma che viene già diluito in mare in Giappone e all’estero presso gli impianti nucleari attivi.

L’acqua triziata proviene dalla pioggia, dalle acque sotterranee o dalle iniezioni di acqua necessarie per raffreddare i nuclei di diversi reattori nucleari di Fukushima Daiichi che si sono fusi quando lo tsunami ha colpito la centrale l’11 marzo 2011. Intorno all’impianto sono stati installati più di mille serbatoi per immagazzinare l’acqua triziata dopo le operazioni di filtraggio per rimuovere altre sostanze radioattive. Ma la capacità di stoccaggio in loco raggiungerà presto la saturazione.

Secondo gli esperti, il trizio è pericoloso per l’uomo solo in dosi elevate e concentrate, una situazione che è esclusa a priori nel caso di un rilascio in mare distribuito su diversi decenni, come previsto dalla Tepco. L’Aiea ritiene inoltre che questo progetto sarà realizzato “nel pieno rispetto degli standard internazionali e che non causerà “alcun danno all’ambiente“. La Tepco prevede di iniziare l’operazione nella primavera del 2023, dopo la costruzione di una conduttura sottomarina per trasportare l’acqua triziata a circa un chilometro dalla costa.

Ma l’operatore deve ancora ottenere le autorizzazioni dalla Prefettura di Fukushima e dai comuni vicini all’impianto e sta cercando di placare le preoccupazioni dei pescatori locali, che temono conseguenze negative per la reputazione del loro pesce presso i consumatori. Il progetto è stato criticato anche dai vicini del Giappone, Cina e Corea del Sud, e da organizzazioni ambientaliste come Greenpeace.

(Photo credits: Jung Yeon-je / AFP)

L’Italia è in ritardo sulla decarbonizzazione delle città

L’Italia è in ritardo sulla decarbonizzazione delle città. La tecnologia c’è, le risorse pure. Ma ancora una volta il Belpaese sconta una lentezza (dettata in particolare dalla burocrazia) rispetto agli altri Paesi europei. Anche la recente situazione di incertezza politica non aiuta di certo. Purtroppo però il pianeta non aspetta e gli impegni presi a Bruxelles dovranno essere onorati. Anche perché 9 città italiane sono state selezionate dalla Commissione Ue per la missione ‘100 Climate-Neutral and Smart Cities’, impegnandosi a raggiungere la neutralità climatica (vale a dire, zero emissioni nette) entro il 2030. Sono Bergamo, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Parma, Prato, Roma e Torino. C’è da dire che gli enti locali si sono attivati introducendo svariate misure di restrizione del traffico inquinante anche se prevalentemente nei mesi invernali e durante specifiche fasce orarie.

Sono ancora poche le vere zone a basse emissioni sul modello di Area C e Area B a Milano”, denuncia la campagna Clean Cities, nel rapporto lanciato oggi (‘The development trends of low- and zero-emission zones in Europe’). Perché la maggior parte delle zone italiane a basse emissioni (in inglese Lez, low-emission zone) “non sono sottoposte a controlli sistematici, ad esempio tramite varchi elettronici, o almeno regolari da parte della polizia locale. Inoltre mancano una comunicazione efficace rivolta ai cittadini e piani per il rafforzamento nel tempo delle restrizioni”.

LA CLEAN CITIES CAMPAIGN

La Clean Cities Campaign è una coalizione europea di oltre 70 Ong, associazioni ambientaliste e movimenti di base che ha come obiettivo una mobilità urbana a zero emissioni entro il 2030. E nell’ultimo rapporto segnala il gap tra le diverse realtà europee. Oltre 300 città hanno una zona a basse emissioni e si stima che saranno oltre 500 nel 2025. Quasi 30 città europee (tra Paesi Bassi, Regno Unito, Francia e Paesi scandinavi) si sono impegnate a trasformare le loro zone a basse emissioni in zone a zero emissioni tra il 2030 e il 2035, di fatto impedendo alle auto inquinanti di accedere alla propria area urbana. L’Italia è in ritardo anche su questo, perché al momento non c’è un Consiglio comunale che stia pianificando di trasformare la Lez in una zona a zero emissioni, entro il 2030. Eppure un sondaggio del 2021 commissionato dalla stessa Clean Cities Campaign ha dimostrato che l’84% dei cittadini italiani interpellati “vogliono che i loro sindaci facciano di più per proteggerli dall’inquinamento dell’aria”.

COSA SONO LE LEZ

Si potrebbe considerare le Lez come delle Ztl rafforzate in ottica ambientale. Specifiche misure infatti vietano la circolazione a determinate categorie di veicoli inquinanti all’interno di un’area urbana. Ma a differenza della Zona a traffico limitato, la zona a basse emissioni restringe l’accesso prevalentemente sulla base del tipo di veicolo e della sua classe di inquinamento con riferimento alla normativa europea (Euro 0 – Euro 6). La Ztl invece restringe l’accesso a tutte le categorie di veicoli, salvo eccezioni (generalmente applicate a residenti e operatori commerciali). “Nel corso dell’ultimo decennio – spiega il dossier di Clean Cities – le zone a basse emissioni sono diventate uno strumento sempre più diffuso di regolazione del traffico e riduzione degli inquinanti dell’aria, inclusi il biossido di azoto (NO2) derivato dalle emissioni di NOx, e i particolati, Pm10 e Pm2,5”.

CAMPANELLO D’ALLARME

Le zone a basse emissioni hanno anche un impatto positivo sul clima. Ad esempio a Londra le emissioni di gas a effetto serra sono diminuite del 13% nei primi 6 mesi della Ultra Low-emission zone (Ulez) e a Milano sono scese del 22% dopo l’introduzione dell’Area C. Insomma, spiega Claudio Magliulo, responsabile italiano della campagna Clean Cities. “le zone a basse emissioni funzionano, ma è essenziale che i sindaci comunichino efficacemente e per tempo, e che siano presenti misure di supporto alla transizione, quali ad esempio schemi che diano un accesso gratuito ai servizi di trasporto pubblico e di sharing mobility a fronte della rottamazione dei veicoli inquinanti”. Da qui il campanello d’allarme di Clean Cities: “È evidente – spiega Magliulo – che se le città italiane fanno sul serio, non potranno raggiungere la neutralità climatica senza eliminare dalle proprie aree urbane i veicoli inquinanti nell’arco di questo decennio. Si tratta di una sfida complessa, ma tecnologicamente alla nostra portata. Servono lungimiranza, coraggio politico e attenzione al creare una transizione giusta che non lasci indietro nessuno”.

Il dossier della coalizione delle Ong inoltre chiede maggiori sforzi sui piani di mobilità: non basta aumentare le linee di tram e metro o i chilometri di ciclabili, ma “servono anche misure restrittive ben governate che producano non solo una riduzione dell’inquinamento dell’aria e delle emissioni di CO2, ma anche un complessivo restringimento del parco veicolare privato, per il quale l’Italia ha il triste primato in Europa: 67 auto per 100 abitanti”.

In Messico il megaprogetto treno Maya viola norme ambientali

Il governo messicano ha ripreso la costruzione di una sezione del treno turistico Maya, progetto di punta del presidente Andres Manuel Lopez Obrador, nonostante l’ordine dei giudici di sospendere i lavori per violazioni ambientali. Il cantiere ha ripreso a lavorare grazie a un provvedimento che ha classificato, a novembre, i grandi progetti di infrastrutture pubbliche come questioni di “sicurezza nazionale“.

Con l’ordine, che ha l’effetto di un decreto, López Obrador cerca di proteggere le sue riforme infrastrutturali da contestazioni legali, che ne rallenterebbero la costruzione, e di accelerare l’ottenimento di permessi e licenze.

Il Treno Maya “è un progetto di sicurezza nazionale a causa delle ferrovie“, ha spiegato ieri Javier May, direttore del Fondo Nazionale per lo Sviluppo del Turismo (Fonatur), che sta pilotando il progetto di 1.500 chilometri. Di conseguenza, il governo ha deciso di riprendere i lavori sulla sezione 5, lunga 60 chilometri, che collega le località turistiche di Playa del Carmen e Tulum sulla costa caraibica, ha dichiarato May.

La costruzione del tratto è stata ostacolata anche da modifiche al tracciato del progetto, dalla scoperta di resti archeologici, di pozzi sotterranei di acqua dolce e di fiumi sommersi. Alla fine di maggio, un giudice ha sospeso il progetto dopo diversi appelli delle ONG, che hanno accusato il treno di violare le norme ambientali. Il governo ha presentato ricorso contro la sospensione.

Ieri, Greenpeace e Save Me from the Train hanno avvertito separatamente che il governo stava riprendendo i lavori sul progetto prima della decisione finale del tribunale, che secondo loro violava la legge e minacciava gli ecosistemi della Riviera Maya, gioiello turistico del Messico.

López Obrador respinge queste accuse, affermando che provengono da “pseudo-ambientalisti” legati a gruppi di interesse e all’opposizione.

Il Treno Maya è uno dei megaprogetti di punta di López Obrador, insieme all’aeroporto Felipe Ángeles, inaugurato a Città del Messico, alla raffineria di Tabasco (sud) e alla modernizzazione di un corridoio inter-oceanico.

inquinamento

Chi inquina di più? Un quinto delle emissioni CO2 causate dai trasporti

Viaggiare inquina. Secondo i dati pubblicati dall’Emissions Database for Global Atmospheric Research (EDGAR), nel 2020 il mondo dei trasporti è stato responsabile di circa un quinto del totale delle emissioni di CO2 a livello globale, arrivate a sfiorare i 36 miliardi di tonnellate. Dai numeri emerge anche il peso preponderante dei trasporti su strada in termini di inquinamento: auto, mezzi pesanti, autobus, veicoli commerciali e moto/scooter arrivano assieme al 78% delle emissioni generate dal settore. A seguire ci sono i mezzi marittimi (11%), gli aerei (8%) e i mezzi su rotaia (appena il 3%).

Il quadro si conferma simile, se non peggiore, restringendo l’analisi alla sola Unione europea. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (Eea), attualmente i trasporti sono la fonte di circa un quarto delle emissioni di CO2 e la quota legata a veicoli su strada arriva a toccare il 71,7%, precedendo la navigazione (14,1%) e l’aviazione (13,4%). Non solo: a preoccupare è il trend legato al comparto mobilità, opposto a quello di tutti gli altri principali macrosettori. L’Eea, nel suo Transport and environment report 2021 evidenzia come le politiche in materia di clima ed energia nell’Ue hanno portato, tra il 2000 e il 2019, a riduzioni significative delle emissioni di gas serra in campi come la produzione di energia, l’industria manifatturiera, l’edilizia e l’agricoltura. Nei trasporti invece le emissioni totali di gas serra sono aumentate di oltre un terzo nello stesso lasso di tempo, mentre considerando soltanto i veicoli su strada il balzo è del 28%.

La situazione è senza dubbio destinata a migliorare nei prossimi anni, anche se con un ritmo quasi certamente non sufficiente per raggiungere i target di decarbonizzazione fissati da Bruxelles. In particolare, secondo la Commissione Ue le emissioni di CO2 dei trasporti saranno ancora superiori del 3,5% nel 2030 rispetto al 1990 e diminuiranno solo del 22% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. Cifre ben lontane da quanto previsto nel Green Deal europeo dove, pur non essendo fissati obiettivi specifici per settore, si parlava della necessità di una riduzione del 90% delle emissioni di gas a effetto serra dai trasporti entro il 2050 (rispetto al 1990) per arrivare al traguardo complessivo della neutralità climatica nell’Ue. Non stupisce quindi che si stia accelerando su misure quali lo stop alla vendita di autoveicoli con motori diesel e a benzina nel 2035. Anche perché, sempre secondo i dati dell’Eea riferiti al 2019, le automobili sono il mezzo di mobilità meno pulito, arrivando a produrre il 60,6% di tutte le emissioni del comparto trasporti.

La situazione italiana collima solo in parte con quella comunitaria, mostrando alcune peculiarità significativa del nostro paese. La quota dei trasporti sul totale di emissioni di gas serra si è attestata nel 2019 (dati dell’Ispra) al 25,2%, in linea quindi con il contesto complessivo dell’Ue. In Italia però si nota l’ancora più netta preponderanza del trasporto su strada dal quale deriva addirittura il 92,6% dell’inquinamento. Decisamente ridotto l’impatto della navigazione (4,3%) e dell’aviazione (2,3%), praticamente inesistente quello dei mezzi su rotaia (0,1%). Numeri che fotografano perfettamente l’eccessiva dipendenza dell’Italia nei confronti del trasporto su gomma e l’attuale arretratezza in tema di intermodalità gomma-ferro. Con un problema in più: il peso preponderante, rispetto a altri Paesi, dei carburanti fossili, con i consumi di gasolio e benzina che rappresentano circa l’88% del consumo totale su strada.

Per quanto riguarda il trend, le emissioni di gas serra dei trasporti in Italia sono aumentate del 3,2% tra il 1990 e il 2019, mentre quelle del trasporto su strada sono salite leggermente di più (+3,9%). Anche nel nostro Paese però sono attesi miglioramenti significativi, favoriti sia dalle politiche più green in tema di trasporti sia dall’evoluzione tecnologica. Secondo Ispra, nel 2030 le emissioni di CO2 da trasporto su strada diminuiranno del 39% rispetto al 1990, passando da circa 97 a 59 milioni di tonnellate: una tendenza, questa, nettamente migliore rispetto a quella complessiva dell’Ue. Entro il 2050 il calo proseguirà fino a raggiungere i 22 milioni di tonnellate.

auto elettrica

Stop ai motori termici nel 2035, la battaglia in Europa

L’Unione europea si prepara a rendere obbligatoria entro il 2035 l’immissione sul mercato Ue di auto e furgoni nuovi a zero emissioni, con lo stop alla vendita dei veicoli a combustione interna, come benzina e diesel, entro tredici anni.

Prima la plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo, poi gli Stati membri al Consiglio ambiente: entrambi i co-legislatori dell’Ue hanno finalizzato a giugno, durante la presidenza francese di turno dell’Ue, la rispettiva posizione negoziale su una delle principali proposte avanzate dalla Commissione europea a luglio di un anno fa, nel pacchetto sul clima ‘Fit for 55’. La proposta prevede l’introduzione graduale di standard più rigorosi sulle emissioni di CO2 per auto e furgoni per accelerare la transizione verso una mobilità a emissioni zero richiedendo che le emissioni medie delle auto nuove scendano del 55% a partire dal 2030 e del 100% dal 2035 rispetto ai livelli del 2021. Di conseguenza, tutte le nuove auto immatricolate a partire dal 2035 saranno a emissioni zero.

Il ‘Fit for 55’ è il pacchetto sul clima pensato per abbattere le emissioni del 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990), come tappa intermedia per la neutralità climatica entro metà secolo. L’Ue stima che i trasporti sono l’unico settore in cui le emissioni di gas serra sono in aumento e quelle del trasporto su strada non fanno eccezione: rappresentano quasi il 20% delle emissioni totali di gas serra nell’Unione Europea e sono aumentate in modo significativo dal 1990, con un aumento del traffico che continua a influenzare negativamente la qualità dell’aria.

Nella sua proposta, Bruxelles ricorda che l’industria automobilistica è oltre il 7% del Pil dell’Unione, impegnando direttamente o indirettamente, 14,6 milioni di europei nei settori della produzione, vendita, manutenzione e trasporto. L’iniziativa di Bruxelles sui motori a combustione è stata particolarmente sentita in Italia, che insieme a Bulgaria, Portogallo, Romania e Slovacchia, si era mossa nelle scorse settimane a livello di Consiglio proponendo di posticipare l’eliminazione dei motori a combustione di cinque anni, dal 2035 al 2040 e di ridurre quindi le emissioni di CO2 del 90% nel 2035 (invece del 100% come proposto dalla Commissione europea), lasciando, nei fatti, sul mercato una quota del 10% di veicoli con motori a combustione interna.

Nonostante le pressioni dei governi, la linea non è passata. Nella sostanza, lo stesso tentativo lo aveva fatto all’Eurocamera il Partito popolare europeo (PPE) con l’appoggio della destra conservatrice, presentando due emendamenti con la richiesta di applicare l’obbligo di emissione zero al 90% (non il 100%) nel 2035. Anche a Strasburgo la linea meno ambiziosa non è passata. Il nucleo duro della proposta avanzata un anno fa da Bruxelles, lo stop a benzina e diesel per auto e furgoni nuovi nel 2035, resta quindi invariata ed è un buon punto di partenza per avviare a settembre i negoziati a tre (il cosiddetto trilogo) tra Parlamento e Consiglio, mediati dalla Commissione europea.

Bicicletta

Un italiano su due pedala. Ma l’Italia non è (ancora) un Paese per bici

Se c’è un mezzo di trasporto che di fronte alla parola ‘emissioni’ può ritenersi al sicuro da ogni responsabilità, quello è la bicicletta. Amata e utilizzata regolarmente – ogni giorno o, almeno, una volta alla settimana – dal 50% degli italiani, può contare su 4700 chilometri di piste ciclabili (in crescita di oltre il 15% dal 2015). I dati, contenuti nel rapporto del Mims ‘Verso un nuovo modello di mobilità locale sostenibile’, raccontano che la densità è molto maggiore nelle città del nord (57,9 km per 100 km2, contro 15,7 del centro e 5,4 del Mezzogiorno). Tra i capoluoghi metropolitani, Torino e Milano presentano i valori più elevati (166,1 e 123,3 km per 100 km2), seguiti da Bologna e Firenze (poco meno di 100). E proprio il Piemonte punta a diventare la prima regione in Europa per chilometri ciclabili attrezzati. Per farlo sono stati messi in campo 40 milioni di euro di fondi europei per attuare il Piano regionale della mobilità ciclistica. Il Pnrr, poi, a livello nazionale, prevede investimenti per 600 milioni di euro per finanziare la realizzazione delle ciclovie turistiche (400 milioni) e delle ciclovie urbane (200 milioni), per un totale di 1.800 chilometri.

Recentemente il ministro dei Trasporti e della Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, ha ricordato che nel 2022 le Regioni si sono “azzuffate” sulle risorse da destinare alle piste ciclabili, “proprio come hanno sempre fatto su strade e ferrovie“. “Segnale – ha detto – che la mentalità è cambiata“. Della stessa opinione anche Alessandro Tursi, presidente della Fiab (Federazione italiana ambiente e bicicletta), che ricorda come la bici sia “una soluzione climatica, energetica, sociale e urbanistica fondamentale, e come tale deve diventare una priorità”. E anche l’Europa, come spiega la commissaria per l’Energia, Kadri Simson, “fa riferimento alla sostenibilità della mobilità ciclabile per aumentare l’indipendenza a livello energetico“.

I capoluoghi italiani con servizi di bike sharing sono 53 (di cui solo 8 nel Mezzogiorno). L’offerta pro capite è più che triplicata nel corso degli ultimi anni, passando da 6 a 19 biciclette ogni 10.000 abitanti tra il 2015 e il 2019. Anche in questo caso l’offerta è più elevata nei comuni capoluogo di provincia del Centro (17) e del Nord (32), a fronte di valori modesti nel Mezzogiorno (2). Il fenomeno è concentrato prevalentemente nei comuni capoluogo delle città metropolitane come Firenze (109 biciclette ogni 10.000 abitanti), Milano (96), Bologna (68) e Torino (35).

Sul fronte economico i dati sono incoraggianti. La mancanza di prodotto, le difficoltà globali di approvvigionamento e i ritardi nelle consegne, che interessano la filiera del pedale negli ultimi anni, non frenano il desiderio di bici degli italiani. Secondo i dati di Confindustria Ancma, dopo i numeri record del 2020, con oltre 2 milioni di pezzi venduti – merito anche del bonus bici – il mercato 2021 sfiora infatti il dato dell’anno precedente, fermandosi a 1.975.000, pari a un -2%. Eppure, nonostante i dati positivi, “non siamo ancora davvero un Paese ciclabile”, dice Piero Nigrelli, responsabile comparto bici di Ancma. “I cittadini lo stanno dicendo: ‘È bello avere la bici, ma è ancora più bello poterla usare al meglio’. I due anni di pandemia lo hanno dimostrato”. Ecco allora che, ancora una volta, il Pnrr potrebbe venire in soccorso. “È tutto pronto”, afferma Nigrelli, per far partire i cantieri delle nuove ciclovie, “ma mancano i tecnici per seguirli. Ci auguriamo che i soldi vengano utilizzati e spesi beni. Per farlo ci va coraggio”.

Intanto dal 16 al 22 settembre si svolgerà la ‘Settimana europea per la mobilità’. Per l’edizione 2022 la Commissione Europea ha scelto di sottolineare l’importanza di una maggiore sinergia per aumentare la consapevolezza verso la mobilità sostenibile e per promuovere un cambiamento degli stili di vita in favore di una mobilità attiva.

malattia

L’inquinamento ambientale uccide. A Firenze i medici cercano soluzioni

Di fronte alla crisi climatica e all’inquinamento ambientale i medici non possono stare a guardare”. È stato chiaro il presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze, Piero Dattolo, nel parlare delle conseguenze del cambiamento climatico sulla pelle degli italiani nel corso di uno degli appuntamenti periodici durante i quali medici specialisti di medicina generale e del territorio si ritrovano per affrontare temi che riguardano il loro lavoro e la salute della popolazione. “L’inquinamento ambientale – ha continuato Dattolo – determina direttamente patologie tumorali, cardiovascolari, polmonari ed anche mentali”.

La situazione attuale, aggravata dall’emergenza siccità che ha preso di mira l’Italia (e anche l’Europa), conduce i medici fiorentini a porsi la fatidica domanda: “Cosa possiamo fare per fronteggiare la crisi climatica?”. La risposta del presidente è nitida: per prima cosa, occorre “essere consapevoli e fare da portavoce verso i pazienti di quali sono e saranno le conseguenze sulla salute della popolazione” rimanendo, tuttavia, parte attiva nel movimento per la giustizia climatica. Tra le priorità si fa strada anche la necessità di sensibilizzare la comunità sull’adozione di stili di vita sostenibili e quella di “esigere interventi strutturali urgenti che mirino a costruire un modello di società e di sviluppo che salvaguardino l’ambiente e la vita delle persone”, la sottolineatura di Dattolo.

E le previsioni per il prossimo futuro sono ancora più allarmanti: “L’aumento delle temperature di cui siamo spettatori negli ultimi decenni, porterà presto ad un innalzamento del livello dei mari che cancellerà le città costiere, alla morte delle barriere coralline, a periodi di siccità che cancelleranno le coltivazioni”. L’aria è irrespirabile già in molte regioni. “Questo porterà – ancora prima che il primo secolo del 2000 si sia potuto concludere – all’emigrazione di masse enormi di persone dalle loro case”. Sembra quasi un paradosso. Scapperemo per sfuggire a eventi meteorologici estremi causati da noi stessi. E ancora una volta la morale della favola ci insegna a fare attenzione, perché la vita dipende totalmente dalle nostre scelte.