Ecuador, il petrolio è l’oro nero ma sta uccidendo l’Amazzonia

Tutto ebbe inizio un giorno di febbraio del 1967. Il ‘pozzo Lago Agrio n. 1’ fu il primo pozzo petrolifero trivellato in Ecuador, dal consorzio americano Texaco-Gulf, aprendo l’era dell’oro nero nell’Amazzonia ecuadoriana. “Quel giorno, ministri e funzionari fecero il bagno nel petrolio. Poi gettarono tutto nel fiume dietro di loro… fu un buon inizio”, racconta Donald Moncayo, coordinatore generale dell’Unione delle vittime della Texaco (Udapt). Cinquantasei anni dopo, il petrolio, principale esportazione del Paese, continua a scorrere. Lago Agrio è diventata la capitale petrolifera del Paese, la foresta si sta costantemente ritirando e l’inquinamento continua a causare danni, dicono gli attivisti locali.

Del pozzo n. 1 rimane la pompa in acciaio con la testa di cavallo, congelata in mezzo a un prato verde, sormontata da un bel segno di ricordo. È stato chiuso nel 2006, dopo aver prodotto quasi 10 milioni di barili. Ma in tutta la regione, che è stata colonizzata economicamente dallo Stato fin dagli anni ’60, milioni di ettari di pozzi, oleodotti, cisterne, autocisterne, stazioni di lavorazione e torce sono tutti lì… in una strana sovrapposizione di petrolio nero e vegetazione lussureggiante.

Il petrolio in Ecuador significa quasi 500.000 barili al giorno e una media di 13 miliardi di dollari all’anno di entrate. Una benedizione per le casse dello Stato e per lo “sviluppo” del Paese, secondo le autorità. Una maledizione sinonimo di debito, povertà e inquinamento su larga scala, afferma Donald Moncayo senza alcuna concessione. L’uomo, 49 anni, “nato a 200 metri da un pozzo petrolifero”, dagli anni ’90 conduce una difficile e interminabile crociata contro la Texaco, insieme a un manipolo di altri attivisti.

La storia è nota: nel 1993, circa 30.000 abitanti della regione hanno presentato una denuncia contro il gigante americano (dal 2001 di proprietà della Chevron) presso un tribunale di New York. In 30 anni di attività, l’azienda ha scavato 356 pozzi e per ognuno di essi ha creato bacini di ritenzione (880 in totale) che raccolgono resti di petrolio, rifiuti tossici e acqua contaminata (60 milioni di litri in totale, secondo l’Udapt). Queste ‘piscine’, sparse per la foresta, hanno causato un grave disastro ecologico, spesso citato come uno dei peggiori disastri petroliferi della storia. Dopo molti procedimenti e colpi di scena, nel 2011 la Texaco, ora Chevron, è stata condannata dalla giustizia ecuadoriana a pagare 9,5 miliardi di dollari per riparare i danni. Nel 2018, però, il colosso americano ha ottenuto l’annullamento della sentenza davanti alla Corte permanente di arbitrato dell’Aia. “Texaco ha saccheggiato questa parte dell’Amazzonia. Da allora, hanno fatto di tutto per sfuggire alla giustizia e non hanno pagato un centesimo per riparare i danni. Che paghino”, ha detto Moncayo. La Chevron ha dichiarato che la Texaco ha pagato 40 milioni di dollari per ripulire l’area.

Abbandonato nel 1994, il pozzo “Agua-Rico 4” è ora nascosto nella foresta alla fine di un piccolo sentiero. Basta un bastone per rompere lo strato di humus che ricopre la vecchia vasca e far uscire un liquido nero e denso. Anche un ruscello sottostante è sporco. “È così dappertutto”, dice Donald Moncayo, i cui guanti bianchi da chirurgo sono imbrattati dalla spugna grezza sul terreno. Qui è stata costruita una capanna di legno accanto a una vecchia piscina. Qui le mucche pascolano sull’erba, mentre il greggio emerge dal sottosuolo. “Il bestiame lo mangia come una gomma da masticare”, brontola l’attivista.

All’epoca, fu la Chiesa cattolica locale a lanciare l’allarme per l’inspiegabile aumento di problemi di salute, aborti e tumori. Quando Texaco ha lasciato l’Ecuador negli anni ’90, ha ceduto i suoi pozzi alla Petroecuador, di proprietà dello Stato, che ha continuato a operare. Secondo l’Udapt, le piscine lasciate dalla compagnia statunitense non sono state in gran parte decontaminate. Chevron sostiene che Texaco era allora “solo un partner di minoranza” in un consorzio con Petroecuador. E che quest’ultima, nonostante un accordo del 1995 con Texaco, “non ha effettuato la bonifica ambientale che era obbligata a fare e ha continuato a operare e sviluppare le sue attività”.

“I problemi sono continuati con Petroecuador”, dice Moncayo. Dal 1995, la compagnia ha reiniettato l’acqua contaminata nel terreno, un processo considerato più pulito. “Ma a mio parere, solo dove monitoriamo. Altrove, gettano l’acqua tossica nei fiumi”, dice. L’inquinamento deriva anche dalle perdite di greggio dagli oleodotti (tra 10 e 15 al mese, secondo uno studio dell’Università di Quito e dell’Udapt) o dalle 447 torce che bruciano notte e giorno.

Dopo essere salito al potere nel 2021, il presidente Guillermo Lasso ha promesso di raddoppiare la produzione di petrolio fino a un milione di barili al giorno.

Carburanti impazziti, è colpa della raffinazione. L’Italia in controtendenza

Pare che un problema – o il problema – legato all’aumento dei carburanti, in particolar modo del gasolio, dipenda dalla raffinazione. Detto in poche parole: si raffina poco e male. Non solo in Italia ma in tutto il mondo. Poi, ma solo poi, entrano in gioco la speculazione e il taglio dello sconto sulle accise. Che, detto tra parentesi, da noi sono tra le più alte d’Europa.

Sostiene il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giovambattista Fazzolari, che quei dieci miliardi di euro recuperati togliendo il risparmio a famiglie e imprese sono soldi che “verranno impiegati meglio” e che quel bonus alla pompa del carburante era a vantaggio essenzialmente “dei ceti più abbienti”. Al netto del fatto che si tratta di affermazioni da verificare – e ne scopriremo la veridicità nei prossimi mesi – resta in piedi un tema cogente: spendere di più per benzina e diesel significa mettere in ginocchio l’intera filiera di produzione nazionale. Però è altrettanto vero che salvaguardare le accise equivale a incamerare un gruzzolo di denaro che – verosimilmente – a marzo servirà per rimettere un freno al caro bollette. In sostanza, la coperta è corta.

Torniamo alla mancata raffinazione. Esiste una vera e propria geopolitica della raffinazione, che è mutata con la pandemia e con gli scenari che sono scaturiti da due anni vissuti al di fuori della normalità. Sintetizzando: benino l’Asia, male l’Europa, senza futuro l’Africa. Con certe prospettive, lanciarsi in previsioni diventa quanto mai azzardato. Ma riavvolgiamo il nastro. Il prezzo del greggio è tendenzialmente in calo perché viene determinato da domanda e offerta. L’inverno che stiamo attraversando, con temperature molto miti, aiuta a contenere le richieste, quindi a calmierare i prezzi perché c’è meno necessità. Eppure, sempre accise e speculazione a parte, i prezzi non scendono. Al contrario, salgono. La ragione di questo strano andamento è determinata appunto dalla mancata raffinazione del petrolio che viene estratto nel nostro pianeta. Solo una parte è sottoposto ai passaggi di raffinazione e questo determina il fatto che molte domande non possano essere evase.

È un deficit generalizzato, che va dagli Usa all’Africa, con la presa di coscienza che in Europa da anni è cominciata una lenta agonia del sistema, colpa di impianti desueti e di regolamenti sulle emissioni di Co2 in continua evoluzione. La Russia, poi, ha dato il colpo di grazia. Il Cremlino ha rallentato la sua raffinazione di fronte alle sanzioni imposte dalla Ue nonostante abbia dirottato il greggio verso la Cina e la Turchia. Putin che per parecchio tempo ha rappresentato una soluzione ai problemi di raffinazione di molti Paesi: si acquistavano prodotti già pronti all’uso, bypassando il disagio. Ora non funziona più così. In Italia sono 10 le raffinerie attive, dal caso particolare di Priolo in su e in giù. Sempre a meno di ulteriori dismissioni. Rimane un dato, nostro, cioè che ci riguarda direttamente ed è in controtendenza: nei primi nove mesi del 2022 le lavorazioni delle raffinerie italiane sono cresciute del 10,5%, ovvero 5 milioni di tonnellate in più rispetto al 2021. Ma non basta, a quanto pare…

Il re del petrolio è preoccupato: “I giacimenti calano del 6% l’anno”

Parla poche volte, per questo quando interviene dà sempre una rotta. Ci riferiamo ad Amin H. Nasser, Presidente e Ceo di Saudi Aramco, ovvero la più grande azienda petrolifera del mondo. Ieri è intervenuto in Svizzera allo Schlumberger Digital Forum 2022. Due i messaggi lanciati al pianeta, soprattutto all’Europa afflitta dalla crisi energetica: 1) servono più investimenti altrimenti i giacimenti rischiano di non sopportare la domanda petrolifera quando ripartirà il ciclo economico; 2) la transizione energetica è fondamentale ma deve essere pratica, proponendo una ricetta a suo dire sostenibile.

Il Vecchio continente è alle prese col caro-bollette, tuttavia secondo Nasser gli interventi degli ultimi settimane non risolvono il problema. Poiché prima bisognerebbe ricordare le cause che hanno portato a questa emergenza. Intanto – ricorda il potente saudita – “gli investimenti in petrolio e gas sono crollati di oltre il 50% tra il 2014 e l’anno scorso, da 700 miliardi a poco più di 300 miliardi di dollari. Gli aumenti di quest’anno sono troppo piccoli, troppo tardivi, troppo a breve termine. Nel frattempo però – ha aggiunto – il piano di transizione energetica è stato minato da scenari irrealistici e ipotesi errate. Ad esempio, uno scenario ha portato molti a supporre che i principali settori di utilizzo del petrolio sarebbero passati ad alternative quasi dall’oggi al domani, e quindi la domanda di petrolio non sarebbe mai tornata ai livelli pre-Covid”.

In realtà, una volta che l’economia globale ha iniziato a uscire dai blocchi, la domanda di petrolio è tornata a crescere, e così anche il gas. Queste – ha sottolineato Nasser – sono le vere cause di questo stato di insicurezza energetica: scarsi investimenti in petrolio e gas; alternative non pronte; e nessun piano di riserva”. Ora, “poiché gli investimenti in gas a minore intensità di carbonio sono stati ignorati e la pianificazione di emergenza ignorata, si prevede che il consumo globale di carbone aumenterà quest’anno a circa 8 miliardi di tonnellate. Questo lo riporterebbe al livello record di quasi un decennio fa. Nel frattempo – ha continuato Nasser – le scorte di petrolio sono basse e la capacità inutilizzata globale effettiva è ora circa l’uno e mezzo percento della domanda globale. Altrettanto preoccupante è che i giacimenti petroliferi in tutto il mondo stanno diminuendo in media di circa il 6% ogni anno e di oltre il 20% in alcuni giacimenti più vecchi l’anno scorso. A questi livelli, semplicemente mantenere stabile la produzione richiede molto capitale di per sé, mentre aumentare la capacità richiede molto di più. Eppure, incredibilmente, un fattore di paura sta ancora causando una contrazione degli investimenti critici di petrolio e gas in grandi progetti a lungo termine. Ma quando l’economia globale si riprenderà – ha insistito il numero uno di Saudi Aramco possiamo aspettarci un ulteriore rimbalzo della domanda, eliminando la poca capacità di produzione di petrolio disponibile. E quando il mondo si sveglia con questi punti ciechi, potrebbe essere troppo tardi per cambiare rotta. Ecco perché sono seriamente preoccupato”.

Vorrei essere chiaro“, ha puntualizzato Nasser: “Non stiamo dicendo che i nostri obiettivi climatici globali dovrebbero cambiare a causa di questa crisi. Ma il mondo merita una risposta molto migliore a questa crisi. Questo è il momento di aumentare gli investimenti in petrolio e gas. E almeno questa crisi ha finalmente convinto le persone che abbiamo bisogno di un piano di transizione energetica più credibile. A sua volta, credo che ciò richieda un nuovo consenso energetico globale basato su tre pilastri strategici solidi e a lungo termine, ovvero 1) riconoscimento da parte dei responsabili politici e di altre parti interessate che la fornitura di energia convenzionale ampia e conveniente è ancora necessaria a lungo termine, 2) ulteriori riduzioni dell’impronta di carbonio dell’energia convenzionale e una maggiore efficienza nell’uso dell’energia, con la tecnologia che consente entrambe, 3) nuova energia a basse emissioni di carbonio, che integra costantemente le comprovate fonti convenzionali. In Aramco, ci stiamo rivolgendo a tutti e tre”.

E quindi? Quindi ecco il piano d’azione: “Stiamo lavorando per aumentare la nostra capacità di produzione di petrolio a 13 milioni di barili al giorno entro il 2027. Stiamo anche aumentando la nostra produzione di gas, aumentandola potenzialmente di oltre la metà fino al 2030 con un mix di gas convenzionale e non convenzionale. Allo stesso tempo, stiamo lavorando per abbassare la nostra intensità di carbonio a monte, il nostro gas flaring e la nostra intensità di metano, che sono già tra le più basse al mondo. È importante sottolineare – ha concluso il presidente di Saudi Aramco – che stiamo costantemente aggiungendo nuova energia a basse emissioni di carbonio al nostro portafoglio come idrogeno blu e ammoniaca blu, energie rinnovabili ed elettrocombustibili. Questo è il nostro piano per far parte di una transizione energetica pratica, stabile e inclusiva”.

Carollo (esperto petrolio e gas): “Abbandonare Ttf subito o l’economia rischia grosso”

Salvatore Carollo è stato un dirigente Eni e ora è analista e trader specializzato in petrolio e gas. È una sorta di autorità in materia. Recentemente sulla Rivista Energia ha lanciato una proposta per uscire dal dramma dei prezzi del Ttf, la Borsa olandese che ha visto schizzare fino a 350 euro/Mwh: abbandonare la piazza dei Paesi Bassi e legare il parametro delle nostre bollette all’Henry Hub, piattaforma americana, dove le quotazioni sono 7-8 volte inferiori a quelle europee.

Dottor Carollo, perché il Ttf non va bene e perché sforna prezzi così imprevedibili?

“La natura del Ttf non è tale da essere punto di riferimento del mercato europeo del gas. Io la chiamo fiera di Paese e molti mi hanno bacchettato, dicendo che esce da un meccanismo degno di una borsa. Bene, non la chiamerò più allora fiera di paese, ma miniatura di un Borsa… La Borsa petrolifera di Londra o di New York, ogni giorno vede transazioni per 2-3mila miliardi di dollari. C’è una liquidità straordinaria, che consente a tutti di operare, mentre ad Amsterdam la liquidità è di 1 miliardo. In Europa però il mercato del gas è più grande di quello petrolifero. Come fa allora un indicatore di un miliardo a rispondere a esigenze di un mercato da centinaia di miliardi?”.

Già, come è possibile? Per questo si parla di speculazione?

“Il Ttf è inadeguato per l’Europa. Mi spiego: la maggior parte del gas, 90-95%, va direttamente dall’origine alla destinazione finale, non ci sono intermediazioni, le forniture sono stabilite con contratti anche decennali. Per cui su quali scambi di volumi si basano le contrattazioni di Amsterdam? Pochi metri cubi, quelli fra Olanda, Belgio e Renania… Ora, se io e lei fossimo grandi traders avremmo modo di manipolare una Borsa così piccola: ci presentiamo la mattina e vogliamo 5 miliardi di contratti, la Borsa dice che 4 miliardi di domanda non sono stati soddisfatti, che era a corto di offerta, così il prezzo schizza in alto. La mattina dopo chiediamo di comprare 10 miliardi di contratti. Risultato: manca offerta e prezzo schizza alle stelle. Così hanno portato il prezzo da 20 a 380 euro in un anno e mezzo”.

Intanto l’economia, che paga bollette legate al Ttf, soffre…

“È una cosa grave e drammatica, che grida vendetta stiamo mettendo a repentaglio l’economia italiana ed europea perché difendiamo il Ttf. Capisco molti interessi, gli extra-profitti, tutti quelli del mare del Nord che stanno facendo il bagno nell’oro, però c’è un silenzio imbarazzante sul Ttf”.

Lei propone di legare il calcolo delle tariffe di luce e gas all’Henry Hub americano, come si può fare?

“L’Arera, l’authority per l’energia, dovrebbe definire il prezzo al consumo in base alla media pesata dei prezzi d’acquisto delle società italiane sul mercato internazionale, loro hanno l’obbligo di comunicarlo. E se si smettesse di riferirsi al Ttf, la Borsa olandese andrebbe in crisi, scenderebbe il prezzo e tutti i contratti basati su quell’indice produrrebbero tariffe inferiori”.

Ma perché proprio Henry Hub?

“Noi principalmente importiamo gas allo stato gassoso, via tubo. Il gas liquefatto, Gnl, per il processo tecnologico con cui si produce – fra raffreddamento, trasporto e ritorno allo stato gassoso, senza contare che il 30% evapora – è più caro di quello che arriva da un gasdotto. Questo è un dato oggettivo. Allora prendiamo il prezzo del gas liquido più caro che ci sia: ecco l’Henry Hub, terminale dal quale il gas viene esportato in tutto il mondo, un prezzo di mercato indiscutibile, usiamo quello come tetto per determinare le bollette. Se Arera vede che un operatore ha comprato a un prezzo più alto, a quel punto lo tira fuori dalla media pesata”.

L’Italia ha demandato all’Europa la grana energia…

“Quello che io propongo va fatto tutto in Italia, la politica energetica è materia esclusiva al 100% dei singoli Paesi”.

Come vede i prezzi futuri del gas?

“Se l’Italia smette di nascondersi dietro la foglia di fico dell’Europa, il problema si risolve subito. Se però la classe politica non ha coraggio di intervenire, chiaro che il mercato resterà pazzo. Quanti cittadini italiani hanno capito se abbiamo gas o non ce l’abbiamo? Assistiamo a uno scontro fra propagande, ma i pipeline che da Ucraina vengono in Europa non hanno smesso di portarci gas. La scorsa settimana, infine, Eni ha dichiarato a Gastech che porterà 20 miliardi di metri cubi di gas in più. Allora da dove nasce il problema della mancanza di gas? Perchè tagli e ristrettezze? Vedo dunque una crisi del prezzo più che dei volumi, ma il prezzo dipende dalle nostre scelte politiche. Andiamo a vedere gli interessi che ci legano al Ttf e poi ne riparliamo…”.

fracking petrolio

L’Europa ha più gas di scisto degli Usa, ma non “può” usarlo

La nuova premier britannica, Liz Truss, qualche giorno fa ha annunciato che porrà fine alla moratoria al fracking sulle “nostre enormi riserve di scisto che potrebbero far circolare il gas in appena sei mesi“. Parlando alla Camera dei Comuni, ha anticipato che il governo concederà nuove licenze per petrolio e gas già questa settimana – lutto per Regina permettendo – che dovrebbero portare a oltre 100 nuove concessioni, dalle due attuali. Un cambio di rotta epocale, dopo il blocco deciso nel 2019 poiché – sostenevano istituzioni e associazioni inglesi – “non è possibile con la tecnologia attuale prevedere con precisione la probabilità di tremori associati al fracking“.

Il fracking è una tecnica estrattiva di petrolio e gas naturale che fu utilizzata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1947 dalla Halliburton. In pratica si sfrutta la pressione dei liquidi per provocare delle fratture negli strati rocciosi più profondi del terreno, così da agevolare la fuoriuscita del petrolio o dei gas presenti nelle rocce. Proprio gli Stati Uniti, grazie al cosiddetto gas di scisto, sono diventati primi esportatori mondiali e ce lo stanno vendendo sotto forma di Gnl, gas liquefatto.

La mossa di Liz Truss ha riaperto il dibattito in Europa, alle prese con la scarsità di metano visto il blocco operato dalla Russia. Alcuni osservatori hanno ritirato fuori uno studio dell’Eia, Energy information administration americana, del 2015 in base al quale ci sarebbe più gas di scisto in Europa che negli Stati Uniti. In realtà lo studio considera nel Vecchio Continente anche Russia e Turchia, tuttavia anche escludendo anche questi due Paesi, sfruttando il fracking si potrebbero coprire i fabbisogni europei per oltre 30 anni.

Nel dettaglio gli Usa nel 2015 erano seduti su 622 trilioni di piedi cubi di shale gas, ovvero 17.612 miliardi di metri cubi di gas, che saranno diminuiti vista la corsa allo sfruttamento scattata soprattutto nell’ultimo decennio. In Europa ci sarebbero invece ancora 16.944 miliardi di metri cubi, benché l’unica grande attività di fracking sia proprio in Ucraina, che è riuscita a staccarsi dal gas russo anni fa. I Paesi più ricchi di gas di scisto sono Polonia, Romania, Francia, Danimarca, Olanda e Regno Unito. L’Italia nemmeno compare in questa classifica stilata dall’Eia. Eppure nel Vecchio continente non è stato praticamente mosso un dito, principalmente per due motivi: la densità di popolazione, tre volte quella americana, e le proteste delle comunità locali, le quali hanno fatto letteralmente scappare investitori-perforatori del calibro di Exxon o Chevron.

Secondo il sito oilprice.com, inoltre, ci sono altri due fattori che giocano in favore della Russia e contro lo sfruttamento di gas dalle rocce: la terra disabitata in Europa è scarsa, così come talvolta è insufficiente l’acqua per sfruttare i pozzi di scisto. Burocrazia e proteste ambientaliste a parte, inoltre il costo di produzione di gas russo è circa un sesto inferiore al costo di pareggio dello shale britannico. Anche se a questi prezzi ad Amsterdam perfino il gas di scisto sembra economico… difficile però che in Europa si prenda questa direzione, se non si è nemmeno in grado di stabilire un tetto al prezzo del gas o acquisti comuni di metano…

Von der Leyen

Cinque proposte della Commissione Ue contro il caro-prezzi

La Commissione europea proporrà ai governi dell’Ue di fissare un tetto al prezzo del gas russo importato insieme ad altre quattro misure contro il caro energia: dalla riduzione obbligatoria dell’uso dell’elettricità durante le ore di punta, a un tetto sulle entrate dei produttori di energia elettrica non prodotta da gas e dai combustibili fossili, passando per sostegni sotto forma di liquidità alle compagnie energetiche. È quanto ha annunciato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un punto stampa, anticipando le proposte che l’esecutivo presenterà alla riunione straordinaria dei ministri dell’energia che si terrà venerdì 8 settembre a Bruxelles.

Nello specifico, la prima misura prevede di fissare un obiettivo obbligatorio per la riduzione del consumo di elettricità nelle ore di punta, quando si verificano i picchi di prezzo. “Lavoreremo a stretto contatto con gli Stati membri per raggiungere questo obiettivo”, ha assicurato la presidente. Secondo indiscrezioni del Financial Times, che ha preso visione della “bozza di proposte” in questione, il target proposto dalla Commissione sarebbe fissato al 5%. In secondo luogo, secondo la Commissione è arrivato il momento di proporre un tetto alle entrate delle compagnie “che producono elettricità a basso costo, quelle a basse emissioni di CO2 come le rinnovabili che stanno ottenendo “entrate inaspettate, che non riflettono i loro costi di produzione”. Queste entrate dovrebbero essere reindirizzate “ai più vulnerabili” così come, in terzo luogo, Bruxelles proporrà per i profitti inaspettati delle compagnie che si occupano di combustibili fossili. Gli “Stati membri dovrebbero investire queste entrate per sostenere le famiglie vulnerabili e investire in fonti energetiche pulite di produzione propria”, ha affermato la presidente. La quarta iniziativa riguarderà il sostegno alla liquidità da parte degli Stati membri per le società energeticheper far fronte alla volatilità dei mercati”. Von der Leyen ha assicurato che “aggiorneremo il nostro quadro temporaneo per consentire la rapida consegna delle garanzie statali”. In ultimo, la Commissione Ue dà infine il via libera alla proposta per un tetto al prezzo del gas importato dalla Russia “per ridurre le entrate” con cui il Cremlino sta finanziando la guerra in Ucraina. Il price-cap sul gas russo è una misura richiesta a più riprese a livello comunitario dal premier dimissionario Mario Draghi per ottenere un doppio effetto: da un lato, per affrontare il rincaro sulle bollette elettriche e far valere il potere dell’Unione Europea come principale acquirente dei combustibili fossili importati da Mosca; dall’altro, perché un tetto solo per il gas russo si tradurrebbe in una sanzione indiretta nei confronti della Russia, principale fornitore di gas all’Ue.

Dobbiamo tagliare le entrate della Russia che Putin usa per finanziare questa atroce guerra contro l’Ucraina”, ha affermato von der Leyen, compiacendosi del fatto che prima della guerra il gas russo era il 40% di tutto il gas importato. “Oggi è solo il 9% delle nostre importazioni di gas” e la Norvegia esporta più gas in Europa del Cremlino.

L’Italia ha pagato 8,6 mld a Putin da inizio guerra per gas e petrolio

Bloomberg scrive che l’economia russa rischia una forte crisi, Mosca invece fa sapere che quest’anno il Pil calerà di appena il 2,9%. La decisione di Mosca di interrompere il flusso del Nord Stream per alcuni osservatori sta a indicare che, senza export di metano, Putin vedrebbe ridurre drasticamente i propri introiti. Altri sostengono che le sanzioni stanno facendo male più all’Europa che alla Russia. Chi ha provato a fare luce sui numeri è il Center for Research on Energy and Clean Air (Crea), un think tank indipendente finlandese, secondo il quale la Russia ha guadagnato 158 miliardi di euro di entrate dalle esportazioni di combustibili fossili nei primi sei mesi di guerra (dal 24 febbraio al 24 agosto), poco meno di un miliardo al giorno. E la Ue ne ha importato il 54%, per un valore di circa 85 miliardi di euro. Più precisamente le esportazioni di combustibili fossili hanno contribuito con circa 43 miliardi al bilancio federale russo dall’inizio dell’invasione, contribuendo a finanziare la stessa guerra in Ucraina, sottolinea il Crea.

La principale importatrice di combustibili fossili è stata appunto la Ue (85,1 miliardi di euro), seguita da Cina (34,9 miliardi), Turchia (10,7), India (6,6), Giappone (2,5 miliardi), Egitto (2,3) e Corea del Sud (2 miliardi di euro). A sua volta, all’interno della Ue, la parte del leone la fa la Germania con 19 miliardi di euro pagati a Mosca per importare principalmente gas e petrolio, poi segue l’Olanda (11,1 miliardi soprattutto per il petrolio) nonostante sia la base della borsa che fa impazzire il prezzo del gas e nonostante sia seduta su decine di miliardi di metri cubi inutilizzati a Groningen, al terzo posto l’Italia che in 180 giorni ha versato nelle casse di Putin 8,6 miliardi pari a circa 50 milioni al giorno per ricevere in cambio gas via Tarvisio (sempre meno), petrolio, derivanti dal petrolio e un po’ di carbone (materia prima sulla quale è scattato l’embargo a inizio agosto). In pratica il nostro Paese durante i sei mesi che hanno sconvolto il mondo ha versato più soldi a Putin dell’India, che recentemente ha confermato di non voler applicare sanzioni verso il Cremlino e di voler intensificare gli acquisti di metano e greggio da Mosca. Fuori dal podio europeo troviamo infine la Polonia (7,4 miliardi di euro di prodotti fossili importati), Francia (5,5 miliardi), Bulgaria (5,2), Belgio (4,5) e Spagna 3,3).

Tornando sull’Italia nei due mesi che hanno preceduto il blocco all’import di carbone russo, abbiamo continuato a comprarne in compagnia di Olanda, Polonia, Germania e Spagna. Più o meno gli stessi Paesi che nelle ultime settimane si sono convertiti al carbone sudafricano che parte dal Richards Bay Coal Terminal benché la domanda fosse già cresciuta del 40% da gennaio a maggio. A proposito di carbone, ieri il prezzo del Newcastle Coal ha toccato i massimi a 463 euro a tonnellata. Ad agosto, i ricavi e i volumi delle esportazioni di combustibili fossili della Russia sono leggermente rimbalzati dal minimo raggiunto a giugno, nonostante le esportazioni russe siano diminuite del 18% rispetto al livello record raggiunto all’inizio dell’invasione (febbraio-marzo). Infatti rispetto all’inizio dell’invasione, le riduzioni delle importazioni di combustibili fossili russi sono costate al Paese 170 milioni di euro al giorno in mancate entrate in luglio e agosto. Il calo complessivo dei volumi delle esportazioni è stato determinato da un calo delle esportazioni verso la Ue, che sono diminuite del 35%.

Da notare infine un dato: dopo l’Europa il più grande importatore dalla Russia è la Cina. E la spesa maggiore di Pechino è per il petrolio, per il quale ha investito circa 25 miliardi. Il gas? Pesa molto meno dell’import di carbone: un paio di miliardi per il metano, quasi 4 per il carbone. E pure l’India è affamata di petrolio e non di gas. Per cui sorge una domanda: se il gas russo non va in Europa, a chi lo venderà Mosca?

(Photo credits: Odd ANDERSEN / AFP)

Ue non ha fatto i conti col petrolio: l’Opec+ sale sopra il tetto al prezzo

L’Europa in piena emergenza gas non aveva fatto i conti col petrolio. L’Opec+, ovvero l’organizzazione dei Paesi esportatori di greggio allargata alla Russia, ha deciso che a ottobre ridurrà di 100mila barili al giorno la sua produzione, primo taglio da oltre un anno. Di fatto si torna ai livelli di agosto, dopo il leggero incremento produttivo deciso lo scorso mese per settembre. Una mossa, quella dei signori del petrolio, più politica che di sostanza. Infatti il messaggio diffuso dal comunicato è che una riunione d’urgenza dell’Opec potrebbe essere indetta in qualsiasi momento. Come dire: per ora ci accontentiamo di tenere i prezzi tra i 90 e i 100 dollari al barile, tuttavia se la recessione dovesse avanzare bruscamente e la domanda calare precipitosamente, siamo disposti a rivedere tutto. In che direzione però non si sa.

La decisione dell’Opec+ ha così fatto tornare sopra i 90 dollari al barile il prezzo del future del Wti texano e ben oltre i 95 quello del Brent europeo. Da notare che la Russia non voleva una riduzione della produzione, perché non intendeva far sapere soprattutto ai partner asiatici che di petrolio ce n’è più di quanto serva.

L’Arabia Saudita, vero azionista di maggioranza dell’organizzazione, non ha ancora assecondato i desiderata di Joe Biden, recatosi a Jedda a metà luglio per chiedere un incremento della produzione allo scopo di raffreddare i prezzi. C’è il tema dell’Iran, che tratta un ammorbidimento delle sanzioni, che potrebbe preoccupare la casa regnante saudita. C’è poi il tema dell’embargo deciso dall’Occidente al petrolio russo, che comincerà a dicembre. C’è il tema gas: se effettivamente la Ue precipitasse in una profonda recessione, come suggeriscono i dati sui costi alla produzione, il consumo di petrolio e carburanti rischierebbe di precipitare e con esso il prezzo del greggio. C’è, in questo senso, soprattutto il tema posto dal G7 di un tetto al prezzo del petrolio.

Abdulaziz bin Salman, ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita ha detto a Bloomberg che l’aver deciso un mini-taglio alla produzione “è un’espressione della volontà di utilizzare tutti gli strumenti del nostro kit. La semplice modifica mostra che saremo attenti, preventivi e proattivi in termini di supporto alla stabilità e al funzionamento efficiente del mercato“. Con l’Europa in crisi, la Cina affamata di energia e l’America impegnata su più fronti, il mondo arabo intende ora aumentare il proprio peso internazionale.

(Photo credits: Mazen Mahdi / AFP)

Il G7 spinge su price cap a petrolio russo via mare, serve l’unanimità Ue

Si spinge per il price cap sul petrolio russo via mare, ora serve l’unanimità tra i 27 membri dell’Unione europea. Il vertice ministeriale del G7 delle Finanze ha approvato il piano per stabilire un tetto al prezzo dei prodotti petroliferi in arrivo da Mosca e la palla passa a Bruxelles, dove dovrà essere aggiornato il sesto pacchetto di sanzioni, quello che per un mese (durante tutto il mese di maggio) era rimasto ostaggio del veto dell’Ungheria di Viktor Orbán.

Confermiamo la nostra intenzione politica comune di finalizzare e attuare un divieto globale di servizi che consentano il trasporto marittimo di greggio e prodotti petroliferi di origine russa a livello globale“, si legge nel comunicato del G7 ministeriale, che riprende l’impegno del vertice dei leader a Elmau di impedire alla Russia di trarre profitto dalla guerra di aggressione in Ucraina e di sostenere la stabilità dei mercati energetici globali. “La fornitura di tali servizi sarà consentita solo se il petrolio e i prodotti petroliferi saranno acquistati a un prezzo pari o inferiore rispetto a quello determinato dall’ampia coalizione di Paesi che aderiscono al price cap e lo attuano“, specificano i ministri di Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti.

Il price cap sul petrolio è “specificamente concepito” per ridurre le entrate del Cremlino, ma allo stesso tempo anche per “limitare l’impatto della guerra russa sui prezzi globali dell’energia“, permettendo ai fornitori di servizi del settore di operare con prodotti petroliferi russi via mare venduti solo a un prezzo pari o inferiore al tetto fissato: “Questa misura si baserebbe e amplificherebbe la portata delle sanzioni esistenti, in particolare del sesto pacchetto dell’Ue, garantendo la coerenza attraverso un solido quadro globale“. Come confermato anche dal commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, adesso bisogna “allargare il sostegno europeo e globale al price cap, contro gli extra profitti destinati alla guerra e per ridurre i prezzi dell’energia“. L’accordo del G7 “si basa e rafforza ulteriormente” il sesto pacchetto di sanzioni dell’Unione, in linea con le tempistiche concordate del 5 dicembre per il greggio e del 5 febbraio del prossimo anno per i prodotti petroliferi.

Il tetto iniziale dei prezzi sarà basato su “una serie di dati tecnici” e sarà deciso “dall’intera coalizione prima dell’attuazione in ogni giurisdizione“, precisano i sette ministri, che sottolineano con forza che la comunicazione sarà fatta in modo “pubblico, chiaro e trasparente“. Inoltre, “il prezzo, l’efficacia e l’impatto saranno monitorati attentamente e il livello dei prezzi sarà rivisto se necessario“. Secondo le previsioni del G7, l’attuazione pratica del price cap sul petrolio russo importato via maresi baserà su un modello di registrazione e attestazione che coprirà tutti i tipi di contratti pertinenti“, limitando le possibilità di aggirare il regime e riducendo al minimo l’onere amministrativo per gli operatori di mercato. Nel frattempo continuerà il confronto con Paesi e parti interessate “in vista della progettazione e dell’implementazione definitiva“.

L’obiettivo è proprio quello di creare “un’ampia coalizione per massimizzare l’efficacia” della misura: “Esortiamo tutti i Paesi che vogliono ancora importare petrolio e prodotti petroliferi russi a impegnarsi a farlo solo a prezzi pari o inferiori al massimale di prezzo“, ribadiscono i ministri del Gruppo dei Sette. Il punto di forza della misura è non solo l’ambizione di affrancarsi dal petrolio in arrivo da Mosca per chi ne ha la forza e la volontà, ma soprattutto l’essere “particolarmente vantaggiosa per i Paesi, in particolare quelli vulnerabili a basso e medio reddito, che soffrono per gli alti prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari“. È proprio in quest’ottica che saranno sviluppati anche “meccanismi di mitigazione mirati accanto alle nostre misure restrittive“, in modo da garantire che i partner più svantaggiati possano mantenere la sicurezza dell’accesso ai mercati dell’energia, “anche dalla Russia“.

Iran

Iran contro nuove sanzioni Usa: “Risposta sarà ferma e immediata”

Teheran critica duramente gli Stati Uniti dopo l’annuncio di nuove sanzioni sul petrolio iraniano, promettendo di rispondere alle misure mentre i colloqui tra i due Paesi sull’accordo nucleare iraniano si sono arenati per mesi. L’amministrazione Biden “continua a prendere iniziative infruttuose e distruttive anche in un momento in cui sono in corso sforzi per riprendere i negoziati per rilanciare l’accordo sul nucleare iraniano“, ha dichiarato in un comunicato il portavoce del ministero degli Esteri, Nasser Kanani.

Proprio ieri Washington ha annunciato misure punitive contro “sei entità che facilitano le transazioni illecite legate al petrolio iraniano“, ha fatto sapere il Segretario di Stato americano, Antony Blinken. I colloqui tra l’Iran e le principali potenze, tra cui gli Stati Uniti, per rilanciare l’accordo internazionale del 2015 sul programma nucleare iraniano sono in stallo da marzo, dopo oltre un anno di discussioni. Inoltre, il 26 luglio scorso, il capo diplomatico dell’Unione europea e coordinatore dell’accordo sul nucleare iraniano, Josep Borrell, ha presentato una bozza di compromesso e ha invitato le parti coinvolte nei colloqui ad accettarla per evitare una “crisi pericolosa.

Kanani ha comunque accusato l’amministrazione Biden di “continuare e persino espandere” le politiche “fallimentari” del suo predecessore, Donald Trump. All’inizio del 2021, il presidente democratico Joe Biden aveva scommesso su negoziati rapidi per ‘resuscitare’ l’accordo del 2015, dal quale gli Stati Uniti si erano ritirati sotto il predecessore repubblicano. Washington ha quindi reimposto le sanzioni, dopo le quali Teheran si è gradualmente svincolata dai suoi obblighi.

La “risposta” della Repubblica islamica alle sanzioni sarà “ferma e immediata e l’Iran “prenderà tutte le misure necessarie per neutralizzare i possibili effetti negativi” sul “commercio del Paese“, ha promesso Kanani. Ieri l’Iran ha espresso “ottimismo” sulla ripresa dei colloqui nucleari dopo l’esame della bozza di compromesso di Borrell.

(photo credits: ATTA KENARE / AFP)