La sicurezza alimentare passa per un super-commissario Ue dell’Agricoltura

Il ripensamento della politica agricola per la sicurezza alimentare, ma un cambio di rotta di più ampio respiro per l’Unione europea dell’immediato futuro, alle prese con tante sfide, nessuna semplice, a partire dall’allargamento e la prospettiva di un ingresso dell’Ucraina all’interno dell’Unione europea. Il cambio di marcia si rende indispensabile, e dovrà avvenire a partire dalla prossima legislatura europea. E’ quanto emerge dalla decima edizione di ‘How can we govern Europe?’, organizzato da Withub con la direzione editoriale di Eunews, GEA e Fondazione Art. 49 a Bruxelles.

Come Europa stiamo subendo un attacco competitivo senza precedenti, e se non riusciamo a cambiare l’Europa non riusciremo a rispondere a questa concorrenza”, la premessa di Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia e direttore Mercati, politiche europee e internazionalizzazione di Coldiretti. Per rispondere alla doppia sfida, quella di una popolazione in aumento e una produzione messa a dura prova da cambiamenti climatici e un conflitto russo-ucraino che ha posto il tema della sicurezza alimentare, serve “più output con tecnologia avanzata”. Per questo servono le giuste misure, i giusti stimoli. “E’ molto importante quello che non devi fare”, e in tal senso “non dobbiamo far chiudere le aziende e caricarle di oneri”. In estrema sintesi, “dati e non confronto ideologico, questo è quello che vogliamo”. Non manca la critica all’esecutivo comunitario e all’ormai ex vicepresidente esecutivo per il Green Deal. “Noi siamo pronti a qualsiasi nuova normativa, ma vogliamo che si discuta dei numeri. Timmermans ci diceva di farci andar bene i dati a sua disposizione”.

Patrick Pagani, Senior Policy coordinator di Copa-Cogeca, suggerisce altro, una riorganizzazione del collegio dei commissari. Per rilanciare la produzione agricola e la competitività agro-alimentare dell’Ue “abbiamo bisogno di un commissario forte per l’Agricoltura e le politiche rurali, con il ruolo di vicepresidente”. E’ questa “una delle priorità per la prossima legislatura” europea, dopo le elezioni del 6-9 giugno. Altro punto nella lista delle cose da fare, spiega, “un bilancio adeguato al contesto”. E’ una condizione che si rende necessaria, visto che “abbiamo bisogno di più agricoltura per rimettere al centro la sicurezza alimentare”. Nella pratica “vuol dire Pnrr e fondi strutturali, perché non possono esserci solo aiuti di Stato”. Per Pagani non ci sono alternative. “Se le sfide sono maggiori servono più soldi. Le sinergie con i fondi e il coinvolgimento del privato sarà la vera chiave per il futuro”.

Dati, nessuna ideologia, un nuovo commissario, e risorse. Ma anche ripensamenti di agende. Perché, sottolinea Herbert Dorfmann (Fi/Ppe), membro della commissione Agricoltura del Parlamento europeo, “l’allargamento che si prospetta è una grande sfida”. Politica, innanzitutto. “Non posso immaginare l’ingresso dell’Ucraina senza imbarcare i Balcani. Non è politicamente credibile”. Ma anche agricolo e quindi commerciale. “Ci sarà un allargamento grande, e in questo contesto l’asseto agricolo è dei più difficili. Io non penso che l’Ucraina distruggerà l’agricoltura europea. Se fatto bene l’allargamento dell’ucraina non è un problema”. Semmai, in prospettiva “se c’è l’Ucraina (all’interno dell’Ue, ndr) dovremmo comprare meno mais dal sud America”. Un aspetto, quest’ultimo, che impone all’Unione un ripensamento nei rapporti con i Paesi del Mercosur, con cui si negozia un accordo di libero scambio che potrebbe essere investito da scenari di un’Ue diversa da quella di adesso.

In Commissione ci si interroga su altro. “Abbiamo la questione del cambio generazionale”, fa notare Mihail Dumitru, direttore generale aggiunto del Direzione generale Agricoltura della Commissione europea (Dg Agri). “Dobbiamo saper attrarre i giovani, che al momento non sono attratti dal settore”. Fermo restando che “il nostro settore (primario, ndr) deve fare i conti sempre di più con eventi climatici estremi. Lo abbiamo visto anche questa estate, tra siccità, incendi e alluvioni”.

Sulla questione generazionale ci sono attenzione e disponibilità di Camilla Laureti (Pd/S&D), membro della commissione Agricoltura del Parlamento europeo. “Oggi in Europa sono il 12 per cento i giovani che conducono un’azienda agricola. Sono pochi, pochissimi. Dobbiamo cominciare ad agire”. Un’idea, l’esponente socialdemocratica ce l’ha. “Dobbiamo ascoltare quei giovani che sono su questa strada, e aiutarli. Mi piace pensare che la prossima Politica agricola comune (PAC) abbia una fetta più importante per chi questa strada la sta già percorrendo”. Senza tralasciare il contributo ‘in rosa’ per un’agricoltura sostenibile e capace di garantire la sicurezza alimentare. “Anche l’ingresso delle donne in agricoltura ci aiuta”. Una traccia di azione politica per la legislatura che verrà.

Piano Mattei, in Cdm arriva il decreto sulla governance con cabina di regia e struttura di missione

di Dario Borriello

La partita entra nella fase caldissima. Domani, 3 novembre, alle ore 11, in Consiglio dei ministri arriverà il decreto legge che definisce la governance del Piano Mattei, il progetto su cui il governo, e la premier Giorgia Meloni, puntano per ampliare la cooperazione con l’Africa e fare dell’Italia l’hub energetico d’Europa, favorendo lo sviluppo delle popolazioni locali per frenare i flussi migratori dal sud del Mediterraneo. Gli obiettivi del Piano, infatti, sono quelli di costruire un “nuovo partenariato tra Italia e Stati del continente africano, volto a promuovere uno sviluppo comune, sostenibile e duraturo, nella dimensione politica, economica, sociale, culturale e di sicurezza“.

Sono diversi anche gli ambiti di intervento. Dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, l’istruzione e formazione professionale, la ricerca e innovazione, la salute, l’agricoltura e sicurezza alimentare, l’approvvigionamento e sfruttamento sostenibile delle risorse naturali, incluse quelle idriche ed energetiche, ma anche la tutela dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici, l’ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture, anche digitali, nonché la valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico anche nell’ambito delle fonti rinnovabili, il sostegno all’imprenditoria, in particolare a quella giovanile e femminile. Il governo, però, allo stesso tempo intende promuovere l’occupazione sul territorio africano, anche per prevenire e contrastare l’immigrazione irregolare.

Il Piano Mattei prevede, poi, “strategie territoriali riferite a specifiche aree del continente africano, anche differenziate a seconda dei settori di azione“, e avrà una durata quadriennale, con possibilità di rinnovo e aggiornamento “anche prima della scadenza“.

Per portare avanti il progetto sarà istituita una cabina di regia, guidata dal presidente del Consiglio e composta dal ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, con funzioni di vicepresidente, e dagli altri ministri, oltre al presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dal direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, dai presidenti dell’Ice-Agenzia italiana per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, di Cassa depositi e prestiti e Sace. Inoltre, ne faranno parte i rappresentanti di imprese a partecipazione pubblica, del sistema dell’università e della ricerca, della società civile e del terzo settore, rappresentanti di enti pubblici o privati, esperti nelle materie trattate, individuati con un Dpcm che sarà varato entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto.

Per assicurare “supporto al presidente del Consiglio dei ministri per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento dell’azione strategica del governo” sul Piano Mattei verrà istituita, sempre presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, anche una struttura di missione, alla quale è preposto un coordinatore, articolata in due uffici di livello dirigenziale generale, compreso quello del coordinatore, e in due uffici di livello dirigenziale non generale, il cui coordinatore sarà individuato tra gli appartenenti alla carriera diplomatica. Alla sdm è assegnato pure un contingente di esperti e avrà a disposizione risorse annue per 500mila euro.

Altro punto importante del decreto è la relazione annuale sullo stato di attuazione del Piano Mattei, che il governo dovrà trasmettere alle Camere (con l’ok della cabina di regia) entro il 30 giugno di ogni anno.

Al via Plan’Eat, progetto europeo guidato dal Crea per un cibo amico dell’ambiente

Il cibo amico dell’ambiente è una possibilità reale. Attraverso il progetto Horizon PLAN’EAT, Trasformazione dei sistemi alimentari per comportamenti alimentari più sani e più sostenibili, il Crea (il Consiglio per la ricerca in agricoltura e analisi dell’economia agraria) intende infatti promuovere l’adozione generalizzata di abitudini alimentari corrette e rispettose per l’ambiente con un approccio multi-sistemico e un ruolo attivo della filiera agroalimentare.

Il progetto Horizon coinvolge 24 tra enti e organizzazioni di 12 Paesi europei (Italia, Belgio, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Ungheria, Irlanda, Olanda, Polonia, Svezia e Regno Unito) e ha l’obiettivo finale di fornire all’Unione europea gli strumenti per l’attuazione di politiche nutrizionali e di sostenibilità efficaci, con un possibile grado di armonizzazione tra i diversi Paesi Membri, e ad includere i temi della sana alimentazione e della sostenibilità nelle Linee Guida Nutrizionali delle nazioni europee.

A coordinare le azioni è il Crea che, attraverso lo studio approfondito dei fattori che determinano le abitudini alimentari, cercherà di mettere punto efficaci raccomandazioni, strumenti e interventi ad hoc per gli attori della filiera alimentare per rendere la produzione sempre più compatibile con le raccomandazioni dietetiche, migliorando salute e sostenibilità delle scelte alimentari. Nel dettaglio, il centro di ricerca Alimenti e Nutrizione si occuperà di raccogliere i dati sui consumi e costumi alimentari della popolazione dei 12 paesi europei partecipanti, dividendola in 9 fasce vulnerabili, ossia gruppi di popolazione che hanno esigenze nutrizionali particolari come bambini e anziani oppure gruppi di popolazione che non hanno accesso a una dieta sana, come gli individui a basso reddito o a bassa scolarità. Sulla base dei risultati ottenuti, saranno formulate proposte mirate di diete e raccomandazioni che possano gradualmente sostituire abitudini alimentari dannose per l’organismo.

I consumatori – dichiara Laura Rossi, ricercatrice del Crea Alimenti e Nutrizione e coordinatrice di PLAN’EAT saranno i protagonisti del progetto perché primi destinatari delle raccomandazioni. Verranno effettuati 9 Living Labs, che coinvolgeranno, oltre alla popolazione generale, determinati sottogruppi di popolazione (bambini, adolescenti, persone con basso reddito e anziani) in diverse aree europee, per mappare i loro pattern dietetici e analizzarli sotto il punto di vista ambientale, socioeconomico e salutare”. In particolare, PLAN’EAT adotterà un approccio sistemico a più livelli, interessando il settore della filiera alimentare, la sfera ambientale e quella individuale. Infatti, uno degli obiettivi strategici del progetto è la promozione di stili di vita alimentari che coniughino la sostenibilità nutrizionale e la promozione della salute con la protezione dell’ambiente e delle risorse energetiche. L’operazione culturale a favore di un’alimentazione sostenibile, a cui si lavora da diverso tempo, consiste nel favorire l’allineamento dei consumi di cibo alle raccomandazioni delle Linee Guida realizzate dal Crea, che suggeriscono di orientarsi maggiormente verso prodotti vegetali rispetto a quelli animali, con una preferenza, in quest’ultimo caso, per alimenti a minor impatto ambientale, come il latte, le uova, i pesci piccoli del Mediterraneo e il pollo. Senza tralasciare l’adozione di una serie di “sane” abitudini, come l’acquisto da filiere corte e locali di prodotti con pochi input esterni.

Pulina (Carni Sostenibili): Emissioni e assorbimento CO2 allevamenti si azzerano

Con un valore di oltre 30 miliardi di euro, 135mila aziende presenti in tutta Italia e più di 230mila lavoratori, la filiera della carne è uno dei pilastri del sistema agroalimentare italiano. Salumi, tagli pregiati e formaggi rappresentano fiori all’occhiello del made in Italy, esportati e apprezzati sulle tavole di tutto il mondo. Se l’impatto del settore sul Pil del nostro Paese è evidente, quello sull’ambiente è invece al centro di un aspro confronto tra scienziati, attivisti e addetti ai lavori. GEA ne ha parlato con Giuseppe Pulina, professore di Etica e Sostenibilità degli Allevamenti dell’Università di Sassari e presidente di Carni Sostenibili, associazione per il consumo consapevole e la produzione sostenibile di carni e salumi.

Secondo la Fao, ogni anno gli allevamenti emettono 7,1 gigatonnellate di Co2 equivalente, cioè il 14,5% dei gas serra prodotti dall’uomo. Questa attività è quindi considerata tra le maggiori responsabili del cambiamento climatico. Cosa ne pensa?

“Innanzitutto è necessario tenere conto che l’impatto di un’attività sull’ambiente dev’essere sempre commisurato ai vantaggi dei beni che produce. E nella classifica dei bisogni umani l’alimentazione occupa il primo posto. Nel caso degli allevamenti, le emissioni devono essere quindi commisurate all’importanza della produzione di cibo per otto miliardi di persone: se è vero che dobbiamo ridurre, meglio iniziare da altri settori. È poi importante ricordare che le emissioni di metano provocate dai ruminanti sono in aumento solo nei Paesi in via di sviluppo, che necessitano di alimenti per sfamare le proprie popolazioni: in Europa e negli Usa la percentuale si sta riducendo da trent’anni, grazie a una zootecnia sempre più efficiente. Infine un’ultima considerazione sulle metriche utilizzate da questi studi: se usassimo quelle di ultima generazione messe a punto dai fisici dell’atmosfera di Oxford, le stime sarebbero ridotte al 20% circa rispetto a quanto dichiarato dalla Fao”.

Uno studio pubblicato su Nature Food sostiene però che la produzione alimentare globale sia responsabile del 35% di tutte le emissioni di gas serra: quelle derivanti da alimenti di origine vegetale contribuiscono per il 29%, quelle da cibi di origine animale il 57%. Conviene essere vegetariani per salvare il Pianeta?

“In questi studi tutto dipende dall’unità funzionale che si decide di usare. Si tratta di due categorie di cibo completamente diverse: gli alimenti di origine animale sono consumati perché altamente proteici, quelli vegetali (soprattutto amidacei) perché portatori di energia. Possono quindi essere confrontati solo sulla base della quantità di amminoacidi essenziali che contengono, fondamentali per il nostro metabolismo. Tenendo in considerazione questi apporti nutritivi, la quantità di emissioni risulta addirittura favorevole ai cibi di origine animale. Per fare un esempio, nessuno si stupisce se un chilo di pane costa 3 euro e un chilo di prosciutto 30, perché il loro valore nutrizionale è diverso: questo giustifica il fatto che, per realizzare quel prosciutto, si produca una quantità maggiore di gas serra”.

Nel libro ‘La sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia’ sostiene che gli allevamenti nel nostro Paese siano già net zero dal punto di vista delle emissioni. Che cosa intende?

“Secondo i dati dell’Ispra e dell’Istat, gli allevamenti italiani emettono complessivamente 20 milioni di tonnellate di Co2 equivalente all’anno. Gli assorbimenti complessivi di carbonio di tutte le aziende zootecniche del Paese – che avvengono attraverso la componente arborea, i pascoli, la silvicoltura, ecc. – hanno un valore simile: questo significa che, sommando le due quote, il bilancio totale delle emissioni risulta pari a zero. Ciò non deve stupire: la produzione di questi cibi avviene nei pascoli, nelle campagne, dove non solo si produce ma anche si sequestra carbonio, si ricicla azoto, si purificano le acque. Vengono quindi attivati veri e propri servizi eco-sistemici. È l’unica attività umana di questo tipo: piuttosto che parlare di emissioni, dovremmo parlare di bilanci. E qui le cose iniziano a cambiare”.

Resta però vero che l’impronta idrica della carne bovina è molto superiore rispetto a quella di altri alimenti: secondo uno studio del Water Footprint Network, per produrre un chilo di carne bovina sono necessari 15mila litri di acqua contro i 300 impiegati per le verdure…

“Per il calcolo dell’impronta idrica c’è una grande confusione sugli standard da utilizzare. Il metodo del Water Footprint Network, ideato da due studiosi sul finire degli anni Novanta, è stato molto criticato perché considera anche l’acqua piovana. Un sistema certificato più sicuro è quello dell’ISO 14046, legato a convezioni accettate a livello internazionale: in questo caso l’impronta idrica degli alimenti include solo l’acqua effettivamente consumata (chiamata anche ‘blue water’) e attinta da falde, corsi superficiali, laghi, ecc. Se le colture sono quindi alimentate da piogge, il loro impatto sul consumo di acqua sarà ovviamente inferiore. Se si usano questi parametri l’impronta idrica della carne assume un valore molto variabile in funzione della tipologia di allevamento: si passa però a ordini di grandezza nettamente inferiori calcolati in centinaia, e non migliaia, di litri”.

Se a suo parere la filiera della carne è più sostenibile di quello che si pensa, perché il consumo di bistecche, salumi e prosciutti è fortemente osteggiato da associazioni, ambientalisti, ecc.?

“È sicuramente una questione di interessi economici. Spendiamo una quota importante del nostro reddito – circa il 35-40% a livello mondiale – per acquistare prodotti alimentari: si tratta di consumi importantissimi in termini di business, ma estremamente rigidi perché legati a gusti, tradizioni, abitudini, ecc. Per spostarli è necessario lanciare campagne di demonizzazione contro alcuni alimenti, come ad esempio la carne, con l’obiettivo di lasciare spazio a nuovi cibi, magari sintetizzati in laboratorio, attorno ai quali ruotano grandi investimenti. Quella in atto contro gli alimenti di origine animale è una battaglia che vuole cancellare l’agricoltura dalla faccia della Terra, in favore di surrogati alimentari costruiti a tavolino. Oggi nell’occhio del ciclone c’è la carne, ma domani toccherà al pesce, alle uova, ai pomodori, fino ad arrivare a tutto ciò che è naturale, tradizionale, genuino. Bisogna controbattere lanciando un’offensiva che non sia di retroguardia, ma rivolta al futuro: è importante farlo affinché i nostri figli possano continuare a mangiare non solo una buona bistecca, ma anche un buon piatto di pesce, dell’Asiago ben fatto accompagnati da contorni come insalata, pomodori e patate”.

allevamento

Mangimi di qualità: è il primo passo importante verso un’alimentazione sicura

Nella prospettiva di una filiera integrata e amica dell’ambiente, la sicurezza alimentare riguarda direttamente il cibo destinato a nutrire gli animali. È una questione disciplinata per legge. I mangimi, infatti, possono essere venduti soltanto se soddisfano determinate condizioni. Devono essere sani, adatti all’utilizzo a cui sono destinati e, anche, non avere effetti nocivi sull’ambiente, sul benessere animale e dell’uomo. “Il sistema di produzione industriale di mangimi applica un severo controllo qualità delle materie prime acquistate”, spiega Lea Pallaroni, direttore generale di Assalzoo, Associazione nazionale tra i Produttori di alimenti zootecnici. “Le aziende hanno un piano di ‘prerequisiti’ che definisce le caratteristiche igienico-sanitarie delle materie prime e prevede standard a norma di legge o più rigorosi, a seconda del parametro valutato e della destinazione del prodotto finito”. Così è possibile garantire un mangime finito di qualità, che rispetta i limiti legali e i parametri stabiliti dall’azienda o da specifici disciplinari di produzione.

La policy europea sulla gestione del rischio della sicurezza dei mangimi è la base della nostra legislazione alimentare. “La normativa mangimistica europea è molto rigorosa”, sottolinea la dirigente di Assalzoo. Sono regole che si applicano a tutti i paesi della Ue. “Dagli anni 2000, il nuovo impianto normativo prevede il censimento di tutti gli operatori coinvolti nella filiera dell’alimentazione animale”. La norma si basa sulla valutazione del rischio effettuata da EFSA , l’Autorità europea sulla Sicurezza alimentare. “La nostra è una legislazione dove in primis viene cautelato il consumatore, grazie a un sistema ‘di paletti’ che indirizza il percorso del sistema produttivo”.

Alcuni aspetti legislativi, per Assalzoo, potrebbero però essere migliorati. “La normativa mangimistica dovrebbe talvolta essere resa più flessibile e lasciare spazio all’innovazione”, afferma Lea Pallaroni. “Soprattutto là dove non sussistono rischi per i consumatori, potrebbero essere individuate soluzioni alternative. Un esempio è la richiesta strategica di ridurre l’uso del medicinale veterinario e, al tempo stesso, di conseguire questo obiettivo ricorrendo a estratti naturali, quelli che noi ‘umani’ acquistiamo in erboristeria o che sono indicati come fitoterapici. Nell’alimentazione animale non possono essere utilizzati perché non hanno un’autorizzazione specifica”.

Insieme al rispetto di leggi e regolamenti, per garantire la loro sicurezza è fondamentale che i mangimi non conformi vengano individuati il più possibile ‘a monte’: il ruolo degli operatori del settore è dunque centrale. L’applicazione di trattamenti termici al mangime, la corretta somministrazione di quantità idonee e la riduzione degli sprechi per evitare che gli alimenti si deteriorino, sono garanzia di salubrità e di adeguatezza nutrizionale per l’animale.

Gli operatori sono tenuti ad applicare i principi e le prassi relativi alla rintracciabilità del mangime, mettendo in atto, in caso di rischio o pericolo, il ritiro o il richiamo del prodotto dal mercato. Debbono quindi verificare che i prodotti siano salubri prima del loro avvio al consumo attuando precise verifiche, suddividendole secondo i principi individuati dalla Ue: approvvigionamento, produzione e utilizzo. “A ogni ingrediente che fa il suo ingresso in stabilimento”, racconta Graziano Di Filippo, responsabile Formulazione e Sviluppo prodotti dell’azienda mangimistica Mignini & Petrini, “viene attribuito un lotto e un codice a barre, che lo segue lungo tutto il ciclo produttivo”.

Diverse, quindi, sono le procedure condotte in regime di autocontrollo dai produttori di mangimi, attraverso l’attivazione di un sistema che identifica i punti critici del processo produttivo, chiamato HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point – Analisi dei Rischi e Controllo dei Punti Critici) il cui scopo è dare la garanzia che un mangime non sia pericoloso per l’animale. “Tra le criticità del ciclo di produzione del mangime c’è la verifica delle materie prime in fase di accettazione”, prosegue Graziano Di Filippo. “Queste arrivano nei mangimifici su autotreni e per controllare la loro conformità è determinante prelevare un campione rappresentativo di tutta la partita. A seconda della materia prima, abbiamo stabilito requisiti specifici più restrittivi di quelli imposti per legge. Per esempio, per il mais e i suoi sottoprodotti è essenziale il controllo della presenza di micotossine, sostanze tossiche prodotte da funghi che possono attaccare le piante dei cereali”.

Insieme all’autocontrollo da parte dei produttori, si affiancano le diverse attività di verifica condotte dalle autorità nazionali che hanno lo scopo di assicurare il totale rispetto della normativa e di garantire la piena conformità dei prodotti che poi vengono posti in commercio. Sono azioni predisposte dal ministero della Salute e dal ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e forestale, che, tramite i rispettivi uffici territoriali, gli enti e gli organismi che operano sul territorio, mettono in atto monitoraggi e sorveglianze.

Accanto alle verifiche nazionali, le materie prime e i mangimi di importazione sono verificati anche dai Posti di Ispezione Frontalieri, che esaminano l’immissione in commercio dei prodotti sul territorio comunitario. Si tratta del Sistema di Allerta Rapido per Alimenti e Mangimi (RASFF) e si attiva nel momento in cui un prodotto può rappresentare un rischio per la salute pubblica. È una rete che fa riferimento alle autorità di ogni Stato membro della Ue, alla Commissione europea e all’Autorità europea per la Sicurezza Alimentare.

I report annuali, redatti da tutti gli organismi di verifica e controllo, ci mostrano un miglioramento progressivo e costante del grado di conformità dei mangimi ai requisiti normativi di sicurezza.
Importantissima, è anche la trasmissione di informazioni tra operatori, fornitori e acquirenti. Cooperando, infatti, si possono condividere buone pratiche di igiene, mappature geografiche, sistemi di allarme, gestione degli incidenti, schemi di monitoraggio collettivi e database per la caratterizzazione dei rischi. In sintesi, allevatori e aziende di mangimi lavorano insieme per ottimizzare i sistemi di allevamento e bilanciare gli alimenti sul fabbisogno di ogni categoria animale. La trasmissione di informazioni avviene anche tramite una etichettatura chiara, che reca tutte le dichiarazioni obbligatorie. “La norma di etichettatura è stata modificata per dare maggiore trasparenza e prevede anche la possibilità per gli acquirenti di chiedere ai produttori ulteriori informazioni”, chiarisce il direttore di Assalzoo Lea Pallaroni. “Il più grosso cambiamento è stato quello di dover indicare tutte le materie prime utilizzate, definendole con il loro nome specifico invece che con la classe di appartenenza. Gli additivi che prevedono un limite massimo di inclusione devono essere dichiarati anche quantitativamente”. Nel caso del pet food la norma ha accolto le richieste di un’etichettatura con terminologie più vicine a quella degli alimenti, per aiutare la comprensione anche da parte di operatori non professionali. “Tutte le informazioni trasmesse al consumatore, anche tramite brochure o siti web, sottostanno alla medesima legislazione e agli stessi controlli”, puntualizza Lea Pallaroni. Dunque, sono tutte garantite.

Possiamo dunque dormire sonni tranquilli, almeno sul fronte dei mangimi? “Le aziende mangimistiche, così come le altre aziende alimentari, operano in modo sicuro”, conclude il direttore di Assalzoo.

agricoltura

Sfida agricoltura sostenibile per sfamare 8 mld di persone: difendere produzione alimentare

Rispettare le risorse naturali come l’acqua, la terra e la biodiversità, assicurando contemporaneamente il nutrimento agli esseri umani nonostante l’impatto dei cambiamenti climatici e l’aumento della popolazione sulla terra. Sono questi gli obiettivi dell’agricoltura sostenibile, dove la parola sostenibilità non è riferita soltanto al rispetto dell’ambiente, ma anche all’ambito sociale: assicurando quindi la salute delle persone, la qualità della vita di chi si occupa della produzione, i diritti umani di chi opera nel settore e l’equità sociale. Un esempio su tutti: per essere sostenibile l’agricoltura dovrebbe abbandonare i pesticidi, veleni che uccidono la fertilità dei terreni, oltre a far male alla salute.

Al centro del concetto di ‘agricoltura sostenibile’, come spiega l’Agricultural Sustainability Institute, c’è proprio l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno dell’umanità, che si tratti di cibo o di tessuti, senza che questa attività sia destinata a penalizzare le esigenze delle generazioni future. Soprattutto in un pianeta sovrappopolato. Undici anni fa il mondo tagliava il traguardo dei sette miliardi di abitanti, oggi siamo arrivati a otto. E così, presto o tardi, si dovrà tornare a discutere della presunta necessità di aumentare la produzione alimentare per poter sfamare l’intera popolazione della Terra. “Per sfamare otto miliardi di persone la strada è tanto chiara quanto rivoluzionaria: smettere di inseguire la produttività e cominciare a difendere la produzione alimentare. Il cibo dev’essere un diritto, non un bene da scambiare in Borsa, non una commodity grazie alla quale arricchirsi a discapito di qualcuno, della salute del pianeta e del futuro stesso dell’umanità”, ha spiegato Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. E proprio l’aumento della produttività, l’occupazione ed il valore aggiunto nelle filiere alimentari è uno dei 5 principi a cui deve ispirarsi un’agricoltura definita ‘sostenibile’, fissati dalla Fao. In futuro sarà necessario migliorare la produttività alimentare in vista del continuo aumento della popolazione, “ma bisognerà farlo – precisa l’agenzia Onu – diversamente da come avvenuto finora, limitando l’espansione dei terreni agricoli per salvaguardare e migliorare l’ambiente”. Secondo obiettivo è quello di proteggere e migliorare lo stato delle risorse naturali da cui dipendono la produzione alimentare e agricola: quindi a sua volta la sua sostenibilità dipende dalla difesa delle risorse stesse. Sebbene l’intensificazione delle produzioni abbia avuto un esito positivo, la diminuzione dell’espansione agricola per proteggere gli ecosistemi ha avuto anche un impatto negativo per l’ uso massiccio di acqua, pesticidi e fertilizzanti. Tali tendenze dovute all’intensificazione agricola non sono compatibili con l’agricoltura sostenibile e rappresentano una minaccia per la produzione futura. “Nel mondo esistono tante realtà virtuose – continua Petrini – oltre la metà della popolazione viene alimentata da 500 milioni di produttori di piccola scala, imprese familiari oppure piccole cooperative. Un tessuto enormemente prezioso, da salvaguardare e tutelare, da difendere e promuovere, da sostenere, ma che invece si trova sempre più spesso strozzato in un sistema che privilegia le multinazionali, l’agroindustria, i big della chimica applicata al cibo, chi possiede i brevetti e i semi ibridi, gli stessi che incassano una grande fetta dei fondi stanziati a livello internazionale”.

Per questo, uno dei principi della Fao è anche quello di ottimizzare i mezzi di lavoro e sostenere una crescita economica inclusiva: garantire ai lavoratori del settore alimentare un accesso adeguato alle risorse e il controllo di queste significa ridurre la povertà e la dispersione alimentare nelle aree rurali. Il quarto obiettivo, è invece quello di migliorare la resilienza dei popoli, delle comunità e degli ecosistemi: eventi meteorologici estremi, volatilità del mercato e conflitti civili compromettono la stabilità dell’agricoltura. Questo si ripercuote sul mercato alimentare con un aumento di prezzi e perdite economiche sia per i produttori che per i consumatori. Limitare attraverso tecnologie e politiche attive questi fenomeni significa dare stabilità a tutto il sistema alimentare. La resilienza diventa quindi centrale nella transizione verso un’agricoltura sostenibile e riguarda sia la dimensione naturale che quella umana. Infine, per essere sostenibile l’agricoltura deve adattare la governance del settore alle nuove sfide, grazie a una serie di norme che renda possibile un equilibrio tra pubblico e privato assicurando trasparenza ed equità.

Da ingredienti a valori nutrizionali: le regole sull’etichettatura degli alimenti

Da quasi otto anni, precisamente dal 13 dicembre del 2014, tutti gli operatori del settore agroalimentare sono obbligati a esporre l’etichettatura degli alimenti. Questo in base alle disposizioni generali del Regolamento europeo 1169 del 2011 sulla fornitura di informazioni relative al cibo che i consumatori acquistano. L’obiettivo è assicurare chiarezza sui prodotti, in modo da non indurre il consumatore in errore su caratteristiche, proprietà o possibili effetti.

Le indicazioni sono presenti sul portale del ministero della Salute e vedono la distinzione tra alimenti preimballati, sui quali le informazioni obbligatoriedevono comparire sul preimballaggio o su un’etichetta a esso apposta”, e alimenti non preimballati, in questo caso le informazioni “devono essere trasmesse all’operatore che li riceve, affinché possa fornirle al consumatore finale”. Devono essere obbligatoriamente indicate caratteristiche come la denominazione dell’alimento, l’elenco degli ingredienti, gli ingredienti o coadiuvanti tecnologici elencato nell’allegato II o derivati da una sostanza o un prodotto elencato che provochi allergie o intolleranze usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata, la quantità degli ingredienti o categorie di ingredienti, la quantità netta dell’alimento e il termine minimo di conservazione o la data di scadenza.

Non solo, perché tra le informazioni che inderogabilmente vanno fornite al consumatore ci sono anche le condizioni particolari di conservazione e/o le condizioni d’impiego, il nome o la ragione sociale e l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare, il Paese d’origine o il luogo di provenienza, le istruzioni per l’uso (per i casi in cui la loro omissione renderebbe difficile un uso adeguato dell’alimento) e una dichiarazione nutrizionale (valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine, sale). Per le bevande che contengono più dell’1,2 % di alcol in volume, poi, va indicato il titolo alcolometrico volumico effettivo.

Ovviamente, la prescrizione è che tutte le indicazioni siano stampate in modo chiaro e leggibile, il carattere deve avere una dimensione non inferiore a 1,2 millimetri, mentre nelle confezioni più piccole non deve essere inferiore a 0,9 millimetri. Sull’etichetta possono essere inserite anche altre informazioni, che vengono però considerate facoltative o, quantomeno, su base volontaria. E devono soddisfare alcuni requisiti: non devono indurre in errore il consumatore, non devono essere ambigue né confuse, devono basarsi nel caso su dati scientifici pertinenti e non possono occupare lo spazio disponibile in etichetta per le informazioni obbligatorie.

commissione ue

Sicurezza alimentare, come l’Ue affronta i rischi della guerra

Garantire alimenti sicuri dal ‘produttore al consumatore’, dal ‘campo alla tavola’. La Commissione europea si pone questo tra gli obiettivi della sua politica di sicurezza alimentare, messa duramente alla prova dall’inizio della guerra di Russia in Ucraina. Con l’invasione si è aperta a Bruxelles una riflessione sulla necessità di aumentare la produzione alimentare in Europa, anche perché Russia e Ucraina sono tra i maggiori esportatori di materie prime agricole al mondo. La guerra, che va avanti da febbraio, ha avuto tra le conseguenze anche un rallentamento della produzione e un sostanziale blocco delle esportazioni da Kiev, che ha fatto temere per la sicurezza alimentare globale. L’Ucraina, infatti, produce il 12% del grano mondiale, il 15% del mais e il 50% dell’olio di girasole, ed è il principale esportatore di prodotti agricoli per i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente.

Sul fronte interno, l’Europa ha iniziato a lavorare a una sospensione di alcune politiche per far fronte ai timori di insicurezza alimentare. A luglio ha formalizzato una deroga temporanea alle norme sulla rotazione delle colture e sul mantenimento di elementi non produttivi sui terreni coltivabili, per aumentare la capacità di produzione dentro l’Unione europea, così da compensare il blocco delle importazioni. Si tratta di norme varate dall’Ue nell’ambito della Pac, la politica agricola comune, per rendere più sostenibile a livello ambientale il sistema agroalimentare europeo, ma che adesso Bruxelles ritiene di dover derogare temporaneamente per far fronte all’insicurezza alimentare dettata dalla guerra.

Mettendo in pausa la rotazione delle colture – una tecnica agronomica che fa ‘girare’ le colture coltivate nello stesso appezzamento, per mantenere i terreni fertili – Bruxelles ha stimato di poter rimettere in produzione attiva circa 1,5 milioni di ettari rispetto a quelli utilizzati attualmente per la produzione di cereali. Riconoscendo l’importanza di queste norme chiamate ‘BCAA’ (Buone condizioni agronomiche e ambientali) per gli obiettivi di sostenibilità dei terreni e delle aziende agricole, Bruxelles precisa che la deroga sarà solo temporanea: sarà limitata al 2023 e a quanto strettamente necessario per affrontare le preoccupazioni di sicurezza alimentare globale. Le colture necessarie all’alimentazione animale (mais e soia) non saranno interessate.

Da quando la guerra di Russia è iniziata, l’Ue ha inoltre varato un piano per aggirare il blocco dei porti sul Mar Nero, causati dall’occupazione russa, e facilitare le esportazioni di grano e cereali dall’Ucraina in tutto il mondo (attraverso le cosiddette corsie di solidarietà), ma ha anche pianificato una serie di misure per la sicurezza alimentare dell’Europa, tra cui un pacchetto di sostegno da quasi 500 milioni di euro ricorrendo alla riserva di crisi della Pac e liberando dai vincoli di produzione quasi quattro milioni di ettari per aumentare la produzione in Europa. Il piano – presentato a fine marzo – ha incluso infatti una deroga temporanea per il 2022 ai vincoli della Pac per consentire la produzione di colture per scopi alimentari e mangimi su terreni incolti (i cosiddetti ‘terreni a riposo’) e un nuovo quadro straordinario di aiuti di Stato per agricoltori e aziende agricole, per far fronte al caro dei prezzi di energia, fertilizzanti e produzione.

Pesca e acquacoltura: un 2020 da record. Fao: “Più sostenibilità”

Il settore della pesca e dell’acquacoltura, con una produzione mondiale che ha raggiunto “livelli record” nel 2020, deve intraprendere una “trasformazione blu” a livello mondiale per affrontare “la duplice sfida della sicurezza alimentare e della sostenibilità ambientale“, secondo un rapporto pubblicato dalla Fao.

Dobbiamo trasformare i sistemi agroalimentari in modo che i prodotti alimentari acquatici siano raccolti e catturati in modo sostenibile, che i mezzi di sussistenza siano salvaguardati e che la biodiversità e gli habitat acquatici siano protetti“, afferma il direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) Qu Dongyu.

LA PRODUZIONE NEL 2020

La crescita dell’acquacoltura, in particolare in Asia, ha permesso alla produzione totale della pesca e dell’acquacoltura di raggiungere il massimo storico di 214 milioni di tonnellate nel 2020, di cui “178 milioni di tonnellate di animali acquatici e 36 milioni di tonnellate di alghe“, secondo il rapporto della Fao ‘State of World Fisheries and Aquaculture’, pubblicato ogni due anni e reso noto durante la conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani a Lisbona. La produzione di animali acquatici nel 2020 è stata superiore del 30% rispetto alla media degli anni 2000. “Questi risultati sono in gran parte attribuibili alla produzione record dell’acquacoltura, pari a 87,5 milioni di tonnellate di animali acquatici“, si legge nel rapporto. “Le risorse ittiche continuano a diminuire a causa della pesca eccessiva, dell’inquinamento, della cattiva gestione e di altri fattori, ma la quantità di sbarchi da stock biologicamente sostenibili è in aumento”, ha dichiarato la FAO.

21,4 KG PRO CAPITE NEL 2030

In un mondo che dovrà sfamare 10 miliardi di persone entro il 2050, la ‘trasformazione blu’ è, per la Fao, una “strategia visionaria per affrontare la duplice sfida della sicurezza alimentare e della sostenibilità ambientale“. Dal 1961 il consumo globale di prodotti alimentari acquatici (escluse le alghe) è cresciuto a un tasso medio annuo del 3%, quasi il doppio della crescita annuale della popolazione mondiale, raggiungendo i 20,2 kg pro capite. A livello globale, questi prodotti hanno fornito circa il 17% delle proteine animali consumate nel 2019, e fino al 50% in diverse parti dell’Asia e dell’Africa. Nel 2020, la produzione di animali acquatici è aumentata del 6% rispetto al 2018. Per contro, la produzione della pesca di cattura è scesa a 90,3 milioni di tonnellate, con un calo del 4% rispetto alla media degli ultimi tre anni – un calo “dovuto principalmente alla pandemia” legata alla Covid-19. I Paesi asiatici rappresentano il 70% della produzione mondiale. La Cina è rimasta il maggior produttore di pesche, seguita da Indonesia, Perù, Russia, Stati Uniti, India e Vietnam. Secondo le stime della Fao, il consumo globale dovrebbe “aumentare del 15% fino a raggiungere una media di 21,4 kg pro capite entro il 2030”, spinto dall’aumento dei redditi e dall’urbanizzazione. “Si prevede che la produzione totale di animali acquatici raggiunga i 202 milioni di tonnellate nel 2030, soprattutto grazie alla crescita sostenuta della produzione dell’acquacoltura, che dovrebbe superare per la prima volta la soglia dei 100 milioni di tonnellate nel 2027 per poi raggiungere i 106 milioni di tonnellate nel 2030“, si legge nel rapporto. Essenziali per la sicurezza alimentare, la pesca e l’acquacoltura hanno anche un’importanza economica fondamentale:si stima che 58,5 milioni di persone siano impiegate nel settore, di cui circa il 21% sono donne” e “circa 600 milioni di persone dipendono da questo settore per il loro sostentamento. Il valore totale di prima vendita della produzione di animali acquatici nel settore “è stato stimato in 406 miliardi di dollari nel 2020“, di cui il 65% è destinato all’acquacoltura.

(Photo credits: Jonathan NACKSTRAND / AFP)

G7, coordinamento tra leader su sicurezza energetica e alimentare

Scendono in campo i leader. Unione Europea, Stati Uniti, G7, a cercare soluzioni coordinate alle crisi scatenate dall’invasione russa in Ucraina: alimentare ed energetica, in primis. “Siamo uniti e determinati a sostenere la produzione e l’esportazione di grano, olio e altri prodotti agricoli e promuoveremo iniziative coordinate che stimolino la sicurezza alimentare globale“. È quanto si legge nelle conclusioni del vertice dei leader G7 in Baviera, che intimano al Cremlino di cessare “senza condizioni” gli attacchi alle infrastrutture agricole e di trasporto dei cereali, oltre a “consentire il libero passaggio delle spedizioni dai porti ucraini nel Mar Nero.

L’aggressione armata russa, “caratterizzata da bombardamenti, blocchi e furti“, in questi mesi ha “gravemente impedito” a Kiev di esportare prodotti agricoli, con “forti aumenti dei prezzi e dell’insicurezza alimentare per milioni di persone“. Una situazione che il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, ha definito un “missile alimentare lanciato dalla Russia contro i più vulnerabili“, dopo il confronto con il presidente dell’Unione Africana, Macky Sall: “Sostengo personalmente il suo appello perché diventi membro del G20“, ha commentato, sottolineando la necessità di “ripetere con l’Africa ciò che abbiamo fatto con i vaccini“, ovvero “sostenere la produzione locale di fertilizzanti sostenibili per migliorare la produzione“.

Ma è l’energia a occupare il nucleo centrale delle discussioni tra i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia, Stati Uniti (alla presenza di quelli Ue). In un incontro aperto anche ad Argentina, India, Indonesia, Senegal e Sudafrica, è stato concordato di “esplorare le opzioni per decarbonizzare il mix energetico e accelerare la transizione dalla dipendenza dai combustibili fossili”. A questo si aggiunge la “rapida espansione” delle fonti rinnovabili e l’efficienza energetica. Alla base dell’accordo globale c’è la collaborazione sulle riforme delle politiche energetiche per “accelerare la decarbonizzazione delle economie verso l’azzeramento delle emissioni“, garantendo allo stesso tempo “l’accesso universale a un’energia sostenibile e a prezzi accessibili“.

Discussioni che riguardano da vicino i Paesi Ue e l’intesa con il maggiore tra i partner, gli Stati Uniti del presidente Joe Biden. Nella dichiarazione congiunta, firmata dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è stato messo nero su bianco che Bruxelles e Washington intensificheranno gli sforzi per “ridurre ulteriormente le entrate della Russia derivanti dall’energia nei prossimi mesi“, ma anche “la dipendenza dell’Ue dai combustibili fossili russi, diminuendo la domanda di gas naturale, cooperando sulle tecnologie di efficienza energetica e diversificando le forniture“. Una risposta coordinata che passa dalla task force Ue-Stati Uniti sulla sicurezza energetica europea (istituita il 25 marzo), per rispondere al “continuo utilizzo del gas naturale come arma politica ed economica“, che “ha esercitato pressioni sui mercati, aumentato i prezzi per i consumatori e minacciato la sicurezza energetica globale“.