La Cop è stata un flop, forse conviene cambiare format per il Brasile

Non è stata un successo, la Cop 29. E, onestamente, era facile immaginarlo. Pressappoco come le altre che l’hanno preceduta. Partito con la medaglietta di ‘Cop finanziaria’, l’appuntamento ‘verde’ più importante dell’anno ha registrato un rosario di defezioni importantissime (da Biden a Xi Jinping, da Macron a Lula, per finire con von der Leyen e con il premier australiano Anthony Albanese), distanze siderali tra la teoria e la pratica, cioè tra cosa si ipotizzava di raggiungere e gli accordi che sono stati messi su carta, una sostanziale insoddisfazione di fondo generata da uno scetticismo di base assai diffuso. Baku, insomma, non si è rivelato un punto di svolta e nemmeno un punto di raccolta fondi. Perché, in concreto, la bozza finale sui denari da investire di qui al 2035 ha scontentato tutti: i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Con una superficialità quasi imbarazzante si è parlato per giorni di 1000-1300 miliardi all’anno da destinare per la finanza climatica, tralasciando il dettaglio che non ci sono soldi. E, non a caso, il contraddittorio si è acceso fino a diventare scontro.

C’era una volta il temerario Frans Timmermars, c’era John Kerry e c’erano i pasdaran del green, ora lo scenario si è impoverito e al di là di allarmi plastificati lanciati a macchia di leopardo sul cattivissimo stato di salute del Pianeta, all’atto pratico si tratta sempre e solo di chiacchiere, idee e progetti che rimangono appesi nell’aria inquinata. Perché si scontrano con interessi di campanile e mancanza di fondi. Del resto, se l’incipit della Cop è stata la dichiarazione del presidente Ilham Alyev sui combustibili fossili “come dono di Dio”, a cascata pareva complicato ipotizzare passi avanti. Anche la premier Giorgia Meloni, immergendosi nel realismo più assoluto, ha ricordato nel suo intervento in presenza – almeno la presidente del Consiglio in Azerbaigian è andata – che di gas e petrolio dovremo ancora campare per anni, senza trascurare però la tutela della Terra. E quindi? Quindi ‘adelante ma con juicio’, soprattutto avanti con il nucleare. Ma pure su questo tema non c’è unanimità di vedute.

Liofilizzando il concetto, la Cop29 non rimarrà scolpita nella memoria collettiva. In fondo, è nata male fin da subito, cioè in concomitanza con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e si è incagliata nella recrudescenza dei conflitti e nelle ambasce finanziare degli Stati, America compresa. Appena eletto, il Tycoon ha annunciato che (ri)uscirà dagli accordi di Parigi e che riprenderà a trivellare in maniera forsennata per preservare gli interessi di patria. Non proprio un bello spot per i tavoli di discussione di Baku. Trump che, tra l’altro, all’ambiente ha designato un comprovato negazionista e sostenitore dei combustibili fossili, Christ Wright, giusto per fare capire a tutti quanto gli stia a cuore l’argomento.

Adesso l’orizzonte è quello della Cop 30 in Brasile. Lì il padrone di casa sarà Ignacio Lula da Silva che ha improntato la sua rielezione a presidente sulla salvaguardia dell’Amazzonia. Per evitare che anche le due settimane di Rio de Janeiro abbiano la consistenza di un pandoro, è indispensabile non ripetere Baku, Dubai, Sharm El Sheik. Alla ventinovesima edizione dell’appuntamento promosso dall’Onu, forse bisogna cambiare – come dire? – il format. Così è la fiera multietnica dell’inutilità, invece c’è bisogno di decarbonizzare, tutelare, coccolare il nostro Pianeta. Che non scoppia di salute. Magari è il caso di modificare approccio, di rovesciare la prospettiva visto che – ormai è conclamato – trovare un’intesa tra quasi 200 nazioni, ciascuna con ricadute diverse, è un esercizio impraticabile.

Green Deal tra (belle) promesse elettorali e (brusca) realtà

Ce l’hanno tutti con ‘questo’ green deal, pur ammettendo che la decarbonizzazione è un passaggio ineludibile per il futuro. E per il presente. Ce l’hanno tutti con le politiche verdi “ideologiche e antindustriali” portate avanti dall’Europa negli ultimi anni – alcune però votate dagli europarlamentari italiani in scadenza di mandato: conviene ricordarlo, non sia mai… – dagli inquilini di Bruxelles e Strasburgo. Ce l’hanno così tutti che tutti, ma proprio tutti, pubblicizzano (sotto elezioni) la necessità di un cambiamento nel segno del buonsenso e della fattibilità. Ecco, i candidati alle elezioni dell’8e 9 giugno in questo sembrano davvero compatti, allineati e abbastanza coperti. A destra e a sinistra, come al centro. Bisogna fare qualcosa per il clima, giusto, però non come è stato fatto fino adesso.

E allora la domanda che sorge spontanea è questa: come, allora? Perché se è facile e anche giusto mettere in evidenza cosa non ha funzionato nel Green Deal pensato da Ursula von der Leyen e da Frans Timmermans (ei fu), è più difficile ma indispensabile indicare quali sono le altre vie per raggiungere quei target considerati obbligatori dagli esperti. E qui, però, la situazione si fa più complicata, dal momento che alle intenzioni vanno poi applicate le azioni. E, insomma, la messa a terra di cosa viene promesso appare abbastanza nebulosa. Ad esempio, il claim di trasformare il Green Deal in un Good Deal è a presa rapida come la colla, ma in concreto cosa significa? Spesso ci siamo sentiti raccontare che non è questione di norme ma di tempi nell’applicazione delle stesse. Sintetizzando, l’idea è buona o quasi però la fretta rende tutto irrealizzabile. Lo stop ai motori endotermici? Non dal 2035 ma più avanti. Le case green? Non a emissioni zero dal 2030 o dal 2033 (a seconda delle classi di appartenenza) ma con più calma. E gli imballaggi? E la nuova Pac? E il Nutriscore?

Riflessioni che si accompagnano, anzi si dilatano con il megafono degli industriali, preoccupati che la Nuova Europa non attui politiche adeguate di sostegno per le imprese e che in tema di Green Deal non venga creato un fondo per la transizione, anche digitale. Il riferimento è sempre a due colossi, gli Stati Uniti e la Cina, che dispongono di risorse enormi, sicuramente superiori a quelle della Ue e che poco alla volta stanno esercitando una pressione che nel medio termine rischia di diventare insostenibile. Anche perché certe sensibilità né Usa né Cina le hanno, in considerazione che l’Europa produce l’8 per cento del gas serra mondiale.

Quindi, è semplicissimo: più soldi, tanti più soldi, più tempo, molto più tempo. Questo almeno in campagna elettorale…

Sul Green Deal autogol dell’Europa che però non può essere abbandonata

In questi mesi che precedono le elezioni, il sentire (abbastanza) comune è criticare l’Europa. Non in assoluto, no, ma quella messa in piedi da Frans Timmermans e Ursula von der Leyen, l’Europa del Green Deal tanto ‘nobile’ nelle intenzioni quanto spropositato nell’applicazione. Al punto da ripiegarsi su se stesso e da venire sconfessato pezzetto dopo pezzetto. L’ultimo dietrofront è stato sui pesticidi, con la colonna sonora assordante dei trattori che hanno invaso (con danni) Bruxelles. I motivi di questo flop sono ormai una cantilena e diventa facile sintetizzarli: va bene decarbonizzare, ci mancherebbe, ma farlo in questa maniera esasperata, ponendo obiettivi irraggiungibili ed economicamente insostenibili, significa generare un movimento di rifiuto che poco alla volta produce effetti contrari.

In fondo, le ‘trattorate’ di queste ore sono l’ultimo meccanismo di espulsione da una politica verde che ha generato malumori in grandi ei e piccole aziende, nei cittadini ‘comuni’. Perché, riavvolgendo il nastro del tempo, non è possibile sorvolare sui guasti della direttiva sulle auto elettriche, sulle case green, sui gas serra, sugli imballaggi. Battaglie che l’Europa di Timmermans e Vdl ha perso, specialmente da quando l’ultra-ambientalista olandese ha lasciato i suoi incarichi a Bruxelles. Giugno è domani e con questo andazzo sarà complicato portare i cittadini alle urne, almeno in Italia. Nel 2019 la percentuale di votanti è stata di poco superiore al 50%, pressoché in linea con il resto d’Europa a eccezione di Belgio, Lussemburgo e Malta. Questo per dire che un’elezione ‘sentita poco’ rischia di essere addirittura ignorata in una situazione di massimo disagio quando, al contrario, diventa importantissimo votare per scegliere chi governerà tra Strasburgo e Bruxelles, incidendo poi sulle politiche dei vari Paesi. Per l’Europa presa in mezzo tra Putin e Netanyahu, smaniosa di sapere che strada prenderanno gli Stati Uniti, è fondamentale uscire fortificata dalle urne. Tocca alla politica farlo capire a chi non possiede una sensibilità europea e considera le decisioni di palazzo Berlaymont una sorta di implacabile mannaia. Che sia Europa o Stati Uniti d’Europa non è dirimente, basta che sia.

Quattro mesi non sano tanti ma neppure pochissimi, conviene che la tessitura della tela cominci subito e non sia schiava della campagna elettorale che, spesso, porta a una visione miope del futuro. Proprio sul tema ambientale, ad esempio, l’Europa si gioca molto: deve continuare a essere un esempio per il mondo senza dimenticare che la sua produzione di gas serra corrisponde più o meno all’8% di quella planetaria. Cina, India, Stati Uniti ‘valgono’ infinitamente di più e sono Paesi che per adesso hanno sempre anteposto i propri interessi economici a quelli della collettività. La condivisione di due esigenze contrapposte è una sfida, la vera sfida. Senza estremismi deleteri, usando persino l’attaccatutto per tenere unito il Vecchio Continente.

Frans Timmermans

Gozzi: “Timmermans ha smesso di fare danni ma la sua eredità è pesante”

Frans Timmermans, olandese, socialista, Vice-Presidente della Commissione europea con delega al cosiddetto ‘Green Deal’, ha lasciato il suo incarico per candidarsi primo ministro dello schieramento di sinistra per le elezioni che si terranno prossimamente nel suo Paese.

Gli ultimi mesi della sua attività europea sono stati frenetici nel tentativo di far passare, nel complesso meccanismo legislativo comunitario (Commissione, Consiglio Europeo e Parlamento, il cosiddetto Trilogo), il maggior numero di norme e regolamenti riguardanti la transizione energetica e la lotta al climate change.

Timmermans, che parla un perfetto italiano e che è tutt’altro che un idealista sognatore ma, a detta di chi lo conosce bene, un politico scaltro e navigato che ha cavalcato l’onda ambientalista, è stato l’esempio e l’alfiere di un approccio ideologico ed estremista che ha pervaso tutta l’azione europea degli ultimi anni in tema di transizione, decarbonizzazione, emissioni di CO2. Un approccio fatto di obiettivi irraggiungibili in tema di decarbonizzazione (Fit for 55), di sovrana noncuranza per le conseguenze economiche, industriali e sociali delle scelte estremiste che hanno trasformato le politiche ambientali e la lotta al cambiamento climatico in una nuova religione pagana del nostro tempo, che demonizza il progresso economico e tecnologico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l’Apocalisse imminente.

In molti hanno salutato il suo ritiro dalla scena europea dicendo che “ha finito di fare danni”.

In particolare sembra finalmente farsi strada, all’interno del mondo industriale europeo, una più forte riflessione e consapevolezza sulle conseguenze e sui danni provocati da un approccio estremista alla transizione. Non stiamo parlando di posizioni negazioniste, ma al contrario di soggetti attivi che perseguono convintamente politiche di decarbonizzazione dei processi industriali, fatte però con razionalità e pragmatismo e senza fanatismi ideologici.

Alla Assemblea di Assolombarda tenutasi nel luglio scorso il presidente Alessandro Spada ha ad esempio affermato: “L’Unione Europea con i suoi ambiziosi obiettivi ambientali sta forzatamente intaccando la competitività delle imprese manifatturiere europee. E quello che è del tutto irragionevole è l’accelerazione impressa dalla Commissione Europea che con questi tempi e modalità sta dimostrando di voler scaricare sulle imprese i costi della transizione ecologica”.

Una riflessione matura sul tema apre molteplici interrogativi.

Quale è la ragione per la quale un’area del mondo, l’Europa, responsabile di meno dell’8% delle emissioni globali di CO2 deve adottare un atteggiamento così estremista e così negativo per il futuro economico, industriale e quindi sociale del continente quando a livello mondiale le emissioni crescono ogni anno soprattutto per la fame di energia e di crescita che caratterizza quelli che una volta si chiamavano paesi in via di sviluppo?

Se con un colpo di bacchetta magica l’industria europea, tutta l’industria europea, che è responsabile di meno della metà di quell’8%, chiudesse i battenti (con le conseguenze economiche e sociali facilmente immaginabili) a livello mondiale non cambierebbe praticamente niente in termini di emissioni di CO2.

Quale è la ragione per la quale l’Europa è l’unica tra le grandi aree del pianeta ad aver vietato dal 2035 la produzione di auto a combustione interna e per ridurre le emissioni ha scelto di puntare tutto sull’elettrico (senza peraltro dire come verrà prodotta tutta questa energia elettrica) anziché farlo anche attraverso l’uso di altri combustibili come biocarburanti, carburanti sintetici ecc.?

Le conseguenze di questa scelta, fatta sulla base di un postulato ideologico (rifiuto della neutralità tecnologica ma scelta di una sola tecnologia per la decarbonizzazione e cioè l’elettrico), sono l’aver creato una nuova gigantesca dipendenza dalla Cina, primo paese al mondo per la produzione di auto e di auto elettriche e quasi monopolista nel controllo di tutte le materie prime necessarie alla produzione di batterie (litio, cobalto, vanadio, nichel). Su queste basi il futuro è quello di una grave perdita di quote di mercato dell’industria dell’auto europea a favore di quella cinese.

Quale è la ragione per la quale l’Europa si appresta a perdere una parte consistente della sua produzione di acciaio fatto con gli altoforni e con il carbone quando questo acciaio, detto da ‘ciclo integrale’, è indispensabile alla produzione automobilistica?

E ancora: se perderemo quote importanti di produzione di acciaio, settore in cui l’Italia eccelle (perché applica per più dell’80% della sua produzione la tecnologia del forno elettrico che ha ridottissime emissioni di CO2) perché dobbiamo farlo a favore di Cina, India, Indonesia ecc. mettendoci in condizione di esportare lavoratori disoccupati e di importare CO2?

Abbiamo sostenuto più volte, anche da queste pagine, che l’applicazione delle direttive europee nei prossimi anni comporterà la desertificazione industriale del continente con la scomparsa e/o il ridimensionamento di settori strategici quali l’acciaio, la chimica, la carta, il cemento, il vetro, la ceramica.

Perché tutto questo? Ritorniamo alla domanda iniziale.

L’atteggiamento di Timmermans e della maggioranza della sinistra europea può essere spiegato con il fatto che, persa la rappresentanza della classe operaia e dei ceti produttivi (ad esempio, il 75% degli operai iscritti alla Fiom di Brescia, sulla base di un sondaggio coraggiosamente pubblicato dalla Fiom stessa, ha votato Lega) ha sposato l’ecologismo estremista come nuovo rifugio ideologico.

La sinistra radicale, che non ha mai vinto le elezioni in Europa, non può fare a meno di un nemico (i capitalisti che inquinano) e di un totem ideologico (la decrescita infelice).

Questo estremismo della sinistra, che purtroppo ha condizionato e talvolta improntato le politiche europee, nasce anche da un senso di colpa sui temi dell’ambiente che considerata la situazione dell’Europa è totalmente ingiustificato. Questo senso di colpa non tiene conto infatti degli importantissimi risultati positivi messi a segno, in questi anni, dalla UE sul fronte della difesa dell’ambiente.

Secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite, che tiene conto delle pressioni esercitate sull’ambiente da ogni singola nazione, l’Italia figura, nell’elenco dei virtuosi, terza al mondo dopo Regno UnitoSpagna e, tra i paesi che emettono meno CO2, sette sui primi dieci in classifica, tra cui anche Germania Francia oltreché l’Italia, appartengono all’Unione Europea.

Il perché di una posizione ambientalista radicale, astratta e ideologica della sinistra può dunque essere spiegato come sopra, anche se è in contraddizione con la tradizione di quello schieramento politico storicamente attento all’economia e ai problemi del mondo del lavoro.

Ma perché il Partito Popolare e le altre forze moderate, compreso Renew Europe di Macron, hanno seguito questo approccio in maniera quasi acritica? Mistero.

Un mistero che ha aperto spazi e consenso a movimenti populisti e sovranisti di destra cresciuti in molti paesi riscuotendo sostegno in fasce di popolazione che non si sono sentite rappresentate (gilets jaunes in Francia, il partito dei contadini in Olanda, AfD in Germania).

A me sembra che oggi si presenti l’occasione di rilanciare una nuova visione europeista, non sovranista né populista, che non neghi i problemi del climate change, che continui ad essere attenta ai problemi della transizione energetica, ma che lo faccia con gradualità e buon senso e con la consapevolezza che solo le tecnologie e le imprese possono essere i motori di questa transizione. Ciò significa mettere al centro dell’agenda europea la difesa dell’industria, la sua competitività, il suo accompagnamento e sostegno nel difficilissimo sentiero della transizione.

Tale visione deve essere comune a tutte le grandi famiglie politiche europee: Popolari, Liberal-democratici, e perfino i Verdi tedeschi che ultimamente sembrano riflettere sugli errori commessi seguendo l’approccio radicale alla Timmermans. Le recenti dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen sembrano andare in questa direzione anche se non si può negare che l’appoggio dei verdi e dei socialisti alla sua presidenza l’abbia condizionata non poco.

Anche i socialisti dovrebbero adottare una visione più realistica e razionale invece di continuare ad assecondare la retorica ideologica degli ambientalisti estremisti di fatto nemici dell’Europa. Un aiuto più importante del Sindacato in questo senso forse aiuterebbe, richiamando la sinistra al fatto che senza economia e senza lavoro l’unica transizione è verso la miseria e sarebbero i ceti più deboli a pagarne le peggiori conseguenze.

Ambiente, l’Europa vuole essere un esempio virtuoso per i Grandi Inquinatori

La plastica? Il nemico numero uno dell’ambiente. Plastiche e microplastiche, che deturpano il territori e contaminano il nostro cibo. Plastiche e microplastiche da tenere lontano, da evitare, sicuramente da raccogliere qua e là dove sono illegittimamente abbandonate. La giornata mondiale dell’ambiente è dedicata proprio a questo tema, la lotta alla plastica, crociata internazionale che non può diventare fine a se stessa perché, si dice, il Pianeta è nostro, non di altri. E va salvaguardato. Dalle plastiche, certamente, ma non solo.

La tutela dell’ambiente è diventato un must: non possiamo più ignorarla, non possiamo più farla scivolare in fondo alla lista delle cose importanti da fare. In fretta, non domani. Eppure c’è chi storce il naso, per i tempi e per i modi. Subito e bene non sempre vanno d’accordo, prova ne sia le polemiche che stanno nascendo in Europa per la brusca accelerazione data ad alcune tematiche di interesse comune dalla Commissione che ha sede a Bruxelles: auto elettriche e case green, imballaggi e condizionatori… Il rischio che ci sia una contrapposizione tra Europa dell’Est e dell’Ovest è alta, il vicepresidente olandese Frans Timmermans non è solito toccarla piano e, ormai, si porta addosso l’etichetta dell’ultra ambientalista. Timmermans non ha mezze misure, sicuramente, ma non è folle.

La plastica, dicevamo. Poi il carbone e il petrolio, poi il gas. Fossili, ecco. Il mondo ideale sarebbe quello che viene mosso, riscaldato, raffreddato attraverso energia prodotta da fonti rinnovabili, con molto idrogeno verde e con un nucleare di quarta generazione che non sia tossico. Siano a metà del guardo, adesso. Siamo al vorrei ma non posso. L’Europa ci sta provando, lo sta facendo questa Commissione agli ultimi mesi di attività, forzando i tempi, mentre altri – India, Cina. Russia, anche gli Stati Uniti – sembrano ancora lontani da una percezione allarmistica. Europa che rappresenta l’8% della produzione mondiale, bruscolini rispetto ai Grandi inquinatori mondiali. Però l’Europa vuole essere di esempio – raccontano – come una locomotiva che possiede la forza per trascinare vagoni grandi e grossi.

Frans Timmermans

L’Ue chiude sui biocarburanti: “Non riapriremo l’accordo, stop al 2035”

A Bruxelles non c’è margine per riaprire il negoziato sullo stop all’immatricolazione di auto a combustione interna, diesel e benzina, a partire dal 2035. Su questo, la Commissione europea è chiara. Nei colloqui in corso con Berlino per sbloccare lo stallo sul dossier fermo da settimane in Consiglio “non stiamo ampliando il quadro” normativo. Il testo “dell’accordo prevede un ‘considerando’ sugli e-fuels e tutto quello che stiamo facendo è essere più espliciti sul significato di quella” parte del testo, ha spiegato il vicepresidente della Commissione per il Green Deal, Frans Timmermans, a margine del pre-vertice del Partito socialista europeo che si è tenuto a Bruxelles. “Qualsiasi altra cosa riaprirebbe l’intero accordo, e non è quello che stiamo facendo”, ha assicurato. “Stiamo parlando all’interno dell’accordo per il quale c’è stata una maggioranza in Parlamento europeo e in Consiglio“.

Non solo, dunque, non c’è margine per riaprire l’accordo sullo stop alla vendita di auto a combustione interna, diesel e benzina, dal 2035, su cui Parlamento e Consiglio hanno raggiunto un accordo politico a ottobre. Ma secondo Bruxelles non c’è spazio di manovra neanche per includere una deroga sui biocarburanti oltre che agli e-fuels, come richiede il governo Meloni. “La tesi che continuiamo a sostenere è che, fermi restando gli obiettivi della transizione che condividiamo, non riteniamo che l’Unione debba occuparsi anche di stabilire quali siano le tecnologie con cui arrivare a quegli obiettivi“, ha sottolineato la premier all’arrivo al Consiglio europeo in corso a Bruxelles. Ha aggiunto che “ci sono tecnologie su cui l’Italia e l’Europa sono potenzialmente all’avanguardia e decidere di legarsi a tecnologie che invece di fatto sono detenute come avanguardia da nazioni esterne all’Unione è una scelta che non favorisce la competitività del nostro sistema“, ha detto, presumibilmente in riferimento al motore elettrico. Per la premier si tratta di “una tesi di buon senso, confidiamo possa passare anche per quel che riguarda i biocarburanti“, ha aggiunto.

Il ‘no’ secco di Meloni sulle auto è motivo di scontro con l’opposizione al governo e lo ha ricordato la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, alla sua prima riunione pre-vertice del Partito socialista europeo. Sul ‘no’ allo stop ai motori tradizionali dal 2035 i partiti di maggioranza “si sbagliano”, ha dichiarato secca. Per il Pd la sfida vera sfida non è fare la transizione, ma capire “come accompagnare la conversione ecologica” su cui ha assicurato che “l’ambizione delle proposte della Commissione continuerà ad avere il nostro pieno supporto affinché si creino le competenze per riprofessionalizzare lavoratrici e lavoratori“. Aggiornare le competenze, creare nuovi posti di lavoro dedicati alla doppia transizione verde e digitale. E’ tutto necessario, come lo è accompagnare questa riconversione dell’economia italiana e europea con ulteriori risorse. E’ necessario che “ci siano risorse in più anche da parte dell’Unione europea per accompagnare le imprese, le famiglie, i lavoratori, per accompagnare le imprese a innovare i loro processi produttivi e ridurre l’impatto negativo sull’ambiente“, ha avvertito la segretaria.

La Germania blocca da settimane ormai il dossier del ‘Fit for 55’ chiedendo alla Commissione europea di scrivere nero su bianco che anche dopo il 2035 ci sarà la possibilità di vendere le auto con motore a combustione, purché alimentate da combustibili sintetici, gli e-fuels. Nelle scorse settimane, Bruxelles ha messo a punto un piano per convincere la Germania a dire ‘sì’ al dossier su cui invece da settimane ormai sta puntando i piedi. Ma sull’idea di non riaprire un accordo già chiuso è d’accordo anche la stessa cancelleria di Berlino. “Ci sono chiare intese in Europa. Ciò include anche l’idea, sottoscritta da tutti, che dovrebbe esserci un regolamento proposto dalla Commissione europea che garantisca che dopo il 2035 i veicoli che possono essere utilizzati solo con e-fuel possano continuare a essere immatricolati“, ha chiarito il cancelliere tedesco Olaf Scholz, in arrivo al Vertice. “Questo è il risultato di un dialogo” tra le istituzioni europee e dunque “in realtà si tratta solo di trovare il modo giusto, in modo molto pragmatico, per attuare effettivamente la promessa che la Commissione ha fatto molto tempo fa“, ha spiegato.

Frans Timmermans

Timmermans: “Auto solo elettriche dal 2035? No, ma a zero emissioni”

“Lasciamo all’Industria la scelta della tecnologia, ma dal 2035 le auto prodotte in Europa saranno senza emissioni. Questo non vuol dire che le auto termiche non ci saranno più, le auto termiche ci saranno ancora. Ma le nuove auto prodotte saranno senza emissioni”. Il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans arrivando a Pollenzo, (Cuneo) per l’inaugurazione dell’anno accademico nell’Università di scienze gastronomiche, è tornato su uno dei temi più attuali nell’agenda politica del governo (e dell’Europa) e del settore industriale. Una delle questioni più dibattute è quella legata all’alimentazione delle auto green. Dovranno essere solo elettriche? “No – ha risposto Timmermans – noi diciamo emissioni zero, dipende dall’industria quale tecnologia scegliere. Io preferisco auto elettriche o a idrogeno ma se ci sono altre tecnologie tocca all’industria scegliere”.

Sullo stop alle auto termiche dal 2035, così come deciso da Bruxelles, “quando abbiamo negoziato l’accordo – ha aggiunto il vicepresidente della Commissione Ue – l’Italia era felice perché avevamo trovato soluzione per i piccoli produttori. Spero che possiamo convincere il governo italiano. “Perché la Cina arriva con 80 modelli di auto elettriche quest’anno: se vogliamo un futuro per l’auto europea dobbiamo andare avanti, non indietro. Sono centinaia di migliaia di posti di lavoro che dobbiamo creare per il futuro. Questo è il futuro. Il futuro sono le auto senza emissioni”, ha ricordato.

L’obiettivo finale, infatti, è il net zero, per il quale serve uno sforzo congiunto. “Dobbiamo mettere pressione su chi ha la maggiore responsabilità” per i cambiamenti climatici, ha spiegato Timmermans. Anche perché “i Paesi del G20 sono responsabili dell’80% delle emissioni, la sola Cina del 30. Il mio lavoro di quest’anno sarà provare a far lavorare anche la Cina. Ma sono ottimista”.

Ultimo giorno per la Cop27, ma manca ancora il ‘Loss and damage’

La Cop27 si avvia verso la sua conclusione, ma nell’ultima bozza del documento finale diffusa nella notte manca ancora il punto che, in avvio del vertice, era considerato fra i più importanti in agenda. O meglio, rispetto a giovedì qualcosa si è mosso, ma pare ancora insufficiente. Nel documento è stato inserito un paragrafo aggiuntivo che riguarda i cosiddetti ‘Loss and damage’, cioè ‘Perdite e danni’ causati dal cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Nella bozza si “esprime profonda preoccupazione per i notevoli costi finanziari associati a perdite e danni per i Paesi in via di sviluppo, che comportano un aumento dell’onere del debito e pregiudicano la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile del 2030“. Il testo, però, lascia in bianco il punto relativo alla creazione di un di un fondo ‘loss and damage’ per sostenere i Paesi più fragili. Rientrano, invece, nel documento, la necessità di esercitare tutti gli sforzi per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2°C, investire in rinnovabili, velocizzare gli impegni di decarbonizzazione. Ma soprattutto c’è “l’urgenza di affrontare le perdite e di danni del riscaldamento globale“.

A sostenere la creazione del fondo ‘loss and damage’, a poche ore dalla fine del vertice Onu sul clima a Sharm el-Sheikh, è in prima linea l’Unione europea, che ha presentato una proposta per istituirlo. Il fondo dovrebbe essere rivolto ai Paesi più vulnerabili e dovrebbe riflettere le realtà finanziarie del 2022. Ad annunciarlo il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans parlando con la stampa. Il fondo, secondo Timmermans, dovrebbe essere finanziato da “un’ampia base di donatori” e dovrebbe “andare di pari passo con una più alta ambizione sulla riduzione delle emissioni“.