L’Ue risponde agli Usa: dazi sui prodotti per 26 miliardi. Trump: “Vinceremo noi”

Bruxelles risponde di primo mattino a Washington. Nel giorno di entrata in vigore dei dazi Usa del 25% su acciaio e alluminio, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, annuncia “misure pesanti ma proporzionate”. Da oggi rientrano non solo in vigore le tariffe imposte dalla prima amministrazione Trump nel 2018, su diversi tipi di prodotti semilavorati e finiti, come tubi in acciaio, filo metallico e fogli di stagno, ma anche su altri prodotti derivati come articoli per la casa, pentole o infissi e diversi macchinari, alcuni elettrodomestici o mobili. Interesseranno un totale di 26 miliardi di euro delle esportazioni europee, circa il 5% del totale dell’export Ue negli Usa.

La Commissione Ue, intanto, calcola che gli importatori americani pagheranno fino a 6 miliardi di euro la mossa di Trump. E per fonti Ue, i dazi Usa “non sono intelligenti” perché “danneggeranno davvero la loro economia”.

Due gli elementi di risposta, duque: la reimposizione delle misure di riequilibrio del 2018 e del 2020 – che erano state sospese fino al 31 marzo prossimo e che ora rientreranno automaticamente in vigore dal primo aprile – e un nuovo pacchetto di misure aggiuntive che colpiranno circa 18 miliardi di euro di beni e che saranno poi applicate con le misure reimposte dal 2018. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, però, “non basta difendersi sul piano commerciale, occorre una nuova politica industriale che restituisca competitività alle nostre imprese. Occorre agire, non solo reagire”. Per definire i prodotti del nuovo pacchetto, la Commissione ha avviato oggi le consultazioni di due settimane con le parti interessate dell’Ue.

Si mira a beni industriali e agricoli: da quelli in acciaio e alluminio ai tessili, dalla pelletteria agli elettrodomestici, dagli utensili per la casa alle materie plastiche e i prodotti in legno; dal pollame al manzo, da alcuni frutti di mare alle noci, dalle uova ai latticini, dallo zucchero alle verdure. Come spiegato da fonti Ue, la Commissione sta “cercando di colpire gli Stati Uniti in settori importanti per loro – ma che non costeranno tanto all’Ue” – e in particolare i beni rilevanti per gli Stati a maggioranza repubblicana. I Paesi Ue saranno invitati, poi, ad approvare le misure proposte prima della loro adozione e partenza previste per metà aprile. Ma se Bruxelles, da un lato, restituisce il favore all’alleato d’oltreoceano, allo stesso tempo prova a tenere aperto il dialogo. Precisa che “le misure possono essere revocate in ogni momento qualora si trovi una soluzione” e von der Leyen conferma al commissario europeo per il Commercio, Maros Sefcovic, l’incarico di “riprendere i colloqui” e aggiunge: “Rimarremo sempre aperti al negoziato”. Stesso messaggio del presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, secondo cui si deve “evitare un’escalation” e la situazione richiede “dialogo e negoziazione“. Non la pensa allo stesso modo Washington, secondo cui l’Ue è “fuori contatto con la realtà” e le sue “azioni punitive non tengono conto degli imperativi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti e internazionale”. Non solo. In un incontro con il premier irlandese, Micheal Martin, Donald Trump dichiara: “Vinceremo noi questa battaglia finanziaria”. Lo scorso 10 febbraio, Washington aveva annunciato l’aumento dei dazi sulle importazioni di acciaio, alluminio e prodotti derivati dall’Ue. Da quel giorno, è partito il dialogo tra le due parti che ha visto anche Sefcovic volare negli Usa per provare a “evitare il dolore inutile” della guerra commerciale. Ma, proprio lunedì scorso, Sefcovic aveva annunciato che l’amministrazione Usa “non sembra impegnata a trovare un accordo” con l’Ue.

Il centrodestra vince le elezioni in Groenlandia. Volano i nazionalisti

L’opposizione di centrodestra ha vinto le elezioni legislative in Groenlandia, segnando una forte spinta dei nazionalisti che chiedono la rapida indipendenza dell’isola artica, ambita da Donald Trump. Secondo gli ultimi risultati ufficiali pubblicati mercoledì, il partito Democratici, formazione autoproclamata “social-liberale” favorevole all’indipendenza a termine, ha ottenuto il 29,9% dei voti, più del triplo del risultato ottenuto nelle precedenti elezioni del 2021.

I nazionalisti di Naleraq, la forza più attivamente impegnata a far sì che il territorio autonomo danese interrompa i legami rimanenti con Copenaghen, si sono piazzati al secondo posto con il 24,5% dei voti. La coalizione uscente composta da Inuit Ataqatigiit (IA, sinistra ecologista) e dai socialdemocratici di Siumut è stata ampiamente punita dagli elettori che si sono recati alle urne in massa. IA ha perso 15,3 punti e Siumut 14,7 rispetto a quattro anni fa.

Mai prima d’ora le elezioni in Groenlandia avevano avuto un tale impatto internazionale, conseguenza delle mire del presidente americano che vuole mettere le mani sul territorio agitando alternativamente la carota e il bastone. Convinto di poter conquistare “in un modo o nell’altro” la Groenlandia, Trump ha cercato fino all’ultimo minuto di influenzare le elezioni. L’affluenza è stata altissima e ha superato il 70%.

“Rispettiamo il risultato delle elezioni”, ha risposto su KNR il primo ministro uscente, Mute Egede, capo di IA. Poiché nessuna delle parti è in grado di ottenere la maggioranza dei 31 seggi in Parlamento, saranno ora necessari dei negoziati per formare un’alleanza. Quest’ultima dovrà in particolare delineare le modalità e un calendario che porti all’indipendenza, come desidera la stragrande maggioranza dei 57.000 abitanti. “Democratici è aperto alla discussione con tutti i partiti e alla ricerca dell’unità, soprattutto con ciò che sta accadendo all’estero”, ha dichiarato il suo giovane leader di 33 anni, Jens-Frederik Nielsen, ex campione di badminton della Groenlandia.

Con quasi il 90% di inuit, i groenlandesi si lamentano di essere stati storicamente trattati come cittadini di seconda classe dall’ex potenza coloniale, accusata di aver soffocato la loro cultura, di aver effettuato sterilizzazioni forzate e di aver sottratto i bambini alle loro famiglie. I principali partiti groenlandesi desiderano tutti l’indipendenza, ma divergono sulla tabella di marcia. Naleraq la vuole molto rapidamente. “Possiamo farlo nello stesso modo in cui abbiamo lasciato l’Unione Europea (nel 1985, ndr). Ci sono voluti tre anni. La Brexit è durata tre anni. Perché impiegare più tempo?”, ha dichiarato il capo del partito, Pele Broberg, all’AFP.

Ricoperto per l’80% di ghiaccio, il territorio dipende economicamente dalla pesca, che rappresenta la quasi totalità delle sue esportazioni, e dagli aiuti annuali di circa 530 milioni di euro versati da Copenaghen, pari al 20% del prodotto interno lordo locale. Secondo Naleraq, la Groenlandia potrebbe volare con le proprie ali grazie alle sue risorse minerarie, ma il settore minerario rimane per ora in fase embrionale, ostacolato dagli elevati costi di esercizio.

Dopo aver già lanciato l’idea di prendersi la Groenlandia durante il suo primo mandato, ricevendo un rifiuto dalle autorità danesi e groenlandesi, Donald Trump ribadisce la sua volontà di mettere le mani – senza escludere la forza – sul territorio ritenuto importante per la sicurezza americana. Secondo un sondaggio pubblicato a gennaio, circa l’85% dei groenlandesi esclude questa possibilità. Ma Naleraq vede nell’interesse americano per l’isola una leva nelle future trattative con la Danimarca.

Musk e Tesla nel mirino degli anti-Trump. E il presidente ne acquista una

Musk chiama? Trump risponde. Tesla a picco? Il presidente Usa si mette al volante. Poco dopo il forte calo del prezzo delle azioni della casa automobilistica fondata dal suo più stretto consigliere e mentre gli oppositori del governo repubblicano lanciano appelli al boicottaggio, il repubblicano ha invitato i suoi sostenitori a un’azione di “soccorso” .“Domani mattina comprerò una Tesla nuova di zecca in segno di fiducia e sostegno a Elon Musk”, ha annunciato Trump. “Ai repubblicani, ai conservatori e a tutti i grandi americani, Elon Musk si mette in prima linea per aiutare la nostra nazione, e sta facendo un lavoro fantastico”, ha scritto sul suo account Truth Social. “Grazie presidente”, gli ha risposto il miliardario su X.

Consigliere di Trump, Musk è un elemento essenziale dell’amministrazione Usa e guida in particolare il lavoro della Commissione incaricata di ridurre drasticamente le spese del governo federale (il Doge). “I pazzi della sinistra radicale, come spesso fanno, stanno cercando di boicottare illegalmente Tesla, uno dei più grandi produttori di automobili al mondo e il ‘bambino’ di Elon, per attaccarlo e danneggiarlo per tutto ciò che rappresenta”, ha accusato Trump. Il miliardario, che è anche proprietario del social network X, è diventato un capro espiatorio per gli oppositori di Trump, che lo accusano, tra le altre cose, di aver fatto il saluto nazista, di aver oltrepassato i suoi doveri di consigliere e di mettere a rischio il funzionamento delle attività pubbliche federali.

Il sostegno da parte di Trump arriva in un momento difficile per il costruttore. Lunedì, le azioni del pioniere dei veicoli elettrici sono calate di oltre il 15% alla Borsa di New York, a causa del crollo delle vendite e di un netto calo del settore tecnologico a Wall Street. Il suo valore di mercato è stato dimezzato da dicembre.
Le prese di posizione di Elon Musk hanno raffreddato alcuni acquirenti, anche se è ancora difficile valutare quanto il miliardario e il suo sostegno all’estrema destra europea possano aver spaventato potenziali clienti di Tesla. Nelle ultime settimane, invece, sono stati lanciati appelli al boicottaggio.

“Tesla è in caduta libera. I suoi prodotti sono attaccati. I suoi clienti sono derisi”, ha reagito su X l’influencer tecnologico e scrittore Robert Scoble. “Ho visto diversi adesivi per paraurti nella Silicon Valley” contro Musk. “Anch’io continuo a subire le critiche della mia famiglia e dei miei amici perché sono pro-Elon. Mi aspetto che la situazione peggiori per gli investitori e i fan di Tesla”.

Martedì, la casa automobilistica sudcoreana Kia ha dichiarato di non aver approvato una campagna pubblicitaria ostile a Elon Musk, trasmessa in Norvegia, che mostrava un’auto Kia con un adesivo che diceva “L’ho comprata dopo che Elon è impazzito”. Su diverse piattaforme anarchiche francofone circolano appelli a prendere di mira le Tesla e persone che si dichiarano appartenenti a un collettivo anarchico ne hanno bruciato una dozzina all’inizio di marzo a Tolosa. Negli Stati Uniti, le autorità stanno indagando sulle cause dell’incendio di quattro veicoli Tesla a Seattle (Ovest) domenica sera, come riporta il New York Times, ricordando che diverse stazioni di ricarica erano state precedentemente incendiate vicino a Boston. Inoltre, sempre lunedì, Elon Musk ha dichiarato che X ha subito un “massiccio attacco informatico”, dopo ore di problemi di accesso alla piattaforma segnalati da migliaia di utenti.

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La politica energetica di Trump sotto i riflettori della conferenza di Houston

Diversi membri del governo di Trump sono attesi questa settimana a Houston, in Texas, per precisare gli orientamenti del nuovo presidente americano in materia di energia, in particolare il suo impatto sulle energie rinnovabili.

Appena entrato in carica, il 20 gennaio, Donald Trump ha firmato un decreto intitolato ‘Unleashing American Energy’ (Liberare l’energia americana), destinato a segnare il suo secondo mandato.
Il programma prevede deregolamentazione e liberalizzazione, con misure favorevoli all’estrazione di energie fossili e altre volte a limitare o annullare i vincoli ambientali, nonché sussidi e incentivi fiscali per la transizione energetica.

Di conseguenza, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) statunitense ha tentato di costringere la California, un modello in materia di transizione energetica, a revocare il divieto di circolazione dei veicoli a combustione interna entro il 2035. L’iniziativa è stata tuttavia bloccata giovedì dal Government Accountability Office, un osservatorio indipendente che monitora il Congresso americano.

Tre funzionari del governo Trump hanno annunciato la loro partecipazione alla conferenza CERAWeek, il più importante raduno mondiale in materia di energia, che si aprire oggi. Il ministro dell’Energia, Chris Wright, interverrà in apertura. Fondatore della società Liberty Energy, che fornisce attrezzature all’industria del gas e del petrolio di scisto, questo imprenditore è noto per il suo sostegno all’estrazione di energie fossili. Durante la sua audizione di conferma al Senato, si è detto favorevole alla crescita dell’offerta energetica americana, anche per quanto riguarda le energie fossili.
Chris Wright sarà seguito, nel corso della settimana, dal ministro dell’Interno Doug Burgum, responsabile della gestione dei terreni federali, alcuni dei quali sono affittati a privati del settore energetico. Un altro ospite, Lee Zeldin, avvocato scettico sul clima a capo dell’EPA. Questi tre emissari potrebbero chiarire la struttura della politica energetica di Donald Trump, in particolare per quanto riguarda le fonti rinnovabili.

Il presidente americano ha già promesso di bloccare qualsiasi nuovo progetto eolico negli Stati Uniti durante il suo mandato e di annullare gli incentivi fiscali per la costruzione di parchi eolici, anche se questi dipendono dal Congresso e non dall’esecutivo.
Regna l’incertezza sulla propensione del governo a cambiare la traiettoria energetica degli Stati Uniti, fermamente impegnati nella transizione verso fonti a basse emissioni di carbonio sotto la guida di Joe Biden. Questo contesto dovrebbe “rendere il 2025 un anno bianco, durante il quale ci saranno esitazioni nel portare avanti qualsiasi progetto di decarbonizzazione”, ritiene Dan Pickering, dello studio Pickering Energy Partners.

Per quanto riguarda i combustibili fossili, al momento nulla indica che il segnale inviato da Donald Trump abbia avuto un effetto sulla produzione di petrolio, che era già a livelli record prima dell’investitura del miliardario repubblicano. Il settore del gas, invece, si è animato, con l’annuncio, venerdì, dell’ampliamento del terminale GNL (gas naturale liquefatto) di Plaquemines, a sud di New Orleans, da parte dell’operatore Venture Global, che investirà altri 18 miliardi di dollari.

Siamo già diventati il primo esportatore mondiale” di gas naturale, ha ricordato giovedì Chris Wright su Bloomberg Television. “E penso che nei prossimi anni le esportazioni aumenteranno di oltre il doppio”. Il decreto presidenziale del 20 gennaio ha revocato il moratorio sull’autorizzazione di nuovi terminali di esportazione decretato un anno prima da Joe Biden, che aveva parlato di ‘minaccia’ climatica.

L‘Europa è di gran lunga il primo mercato di esportazione del GNL americano, che “ha svolto un ruolo importantissimo” nell’aiutare il Vecchio continente a ridurre la sua dipendenza dal gas russo dopo l’invasione dell’Ucraina, ricorda Jonathan Elkind, ricercatore presso il centro di riflessione sulle politiche energetiche mondiali dell’Università di Columbia.
Il grande sconvolgimento diplomatico avviato da Donald Trump in queste ultime settimane, caratterizzato da un riavvicinamento alla Russia e da divergenze con l’Europa sulla questione ucraina, solleva tuttavia interrogativi sull’impegno degli Stati Uniti a rifornire l’Europa di energia. “È difficile dire se Donald Trump sia un partner o un avversario”, osserva Jonathan Elkind. ‘”E questo – ammette – è uno shock dopo 70 anni di stretta alleanza”.

Da Trump ‘guerra commerciale’: Cina, Canada e Messico preparano contromisure a dazi

E’ di fatto una guerra commerciale quella avviata da Donald Trump: Pechino, Ottawa e Messico hanno lanciato misure di ritorsione contro i dazi doganali punitivi imposti da Washington, descritti come una decisione “stupida” dal premier canadese Justin Trudeau. I nuovi dazi del governo degli Stati Uniti stanno facendo aumentare notevolmente i prezzi dei beni che attraversano il confine, dagli avocado alle magliette alle automobili. Le importazioni dal Canada e dal Messico sono ora tassate al 25% mentre salgono al 10% gli idrocarburi canadesi. I prodotti cinesi saranno colpiti da dazi doganali aggiuntivi del 20% rispetto alla tassazione in vigore prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Il Canada ha risposto “immediatamente” applicando tariffe mirate del 25% su alcuni prodotti americani, la cui portata verrà ampliata nel corso del mese, ha spiegato Trudeau ricordando che la misura americana avrebbe danneggiato entrambe le economie e in particolare i portafogli degli americani. “L’obiettivo di Trump è quello di far crollare l’economia canadese” e poi “parlare di annettere” il Paese, ha aggiunto Trudeau. Dal social Truth gli ha risposto Trump:  “Per favore spiegate al governatore Trudeau che se decide dazi di ritorsione contro gli Stati Uniti, le nostre tariffe reciproche aumenteranno immediatamente dello stesso ammontare”.

Risposte arrivano anche da Pechino che ha annunciato tariffe del 10 e del 15 percento su una serie di prodotti agricoli provenienti dagli Stati Uniti, che vanno dal pollo alla soia. Questa risposta, tuttavia, resta di poco inferiore all’offensiva americana, che riguarda tutti i prodotti cinesi che entrano negli Stati Uniti. Pechino ha comunque presentato un nuovo reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro gli Stati Uniti. “Le misure fiscali unilaterali degli Stati Uniti violano gravemente le norme del Wto e minano le fondamenta della cooperazione economica e commerciale tra Cina e Stati Uniti”, ha affermato il Ministero del Commercio cinese in una nota, aggiungendo di essere “fortemente insoddisfatto e fermamente contrario” ai dazi. “La Cina, in conformità con le norme del Wto, proteggerà fermamente i suoi legittimi diritti e interessi e sosterrà l’ordine economico e commerciale internazionale”, ha aggiunto la dichiarazione del Ministero del Commercio.

Dal Messico la presidente Claudia Sheinbaum ha promesso ritorsioni “doganali e non doganali” per la decisione di Donald Trump. La leader ha intenzione di chiarirne il contenuto domenica e di parlare prima con il presidente americano, “probabilmente giovedì”.

Donald Trump – che può giustificare l’imposizione di nuovi dazi doganali solo per decreto con un’emergenza legata alla sicurezza nazionale – accusa i tre Paesi di non combattere a sufficienza il traffico di fentanyl, una droga dagli effetti devastanti negli Stati Uniti. Ma “se le aziende si stabiliscono negli Stati Uniti, non avranno dazi doganali!!!”, ha affermato ancora Trump.

Dal canto suo l’Unione europea “deplora profondamente” la decisione degli Stati Uniti con dazi che “rischiano di perturbare il commercio mondiale” e “minacciano la stabilità economica su entrambe le sponde dell’Atlantico”. “L’Ue si oppone fermamente alle misure protezionistiche che minano il commercio aperto ed equo. Chiediamo agli Stati Uniti di riconsiderare il loro approccio e di lavorare per una soluzione cooperativa e basata su regole che vadano a vantaggio di tutte le parti”, ha dichiarato Olof Gill, portavoce della Commissione europea per il commercio. Questi fazi “rischiano di perturbare il commercio mondiale, danneggiare i principali partner economici e creare inutili incertezze in un momento in cui la cooperazione internazionale è più cruciale che mai”, ha risposto Olof Gill. “Il Messico e il Canada non sono solo alleati stretti dell’Ue, ma anche partner economici vitali”, ha sottolineato. “Questi Dazi minacciano le catene di approvvigionamento profondamente integrate e i flussi di investimenti”, ha aggiunto il portavoce.

Per il momento, l’inquilino della Casa Bianca non ha intenzione di fermarsi qui, nonostante i crescenti timori negli Stati Uniti circa l’impatto sulle imprese e sul potere d’acquisto delle famiglie. Sono in programma altre tasse sulle importazioni statunitensi, in particolare su acciaio e alluminio. “Poi arrivano le automobili, i farmaci, i semiconduttori, i prodotti forestali e agricoli e, più in generale, tutti i paesi esportati dall’Unione Europea… Come ha indicato il presidente durante la campagna, potrebbero esserci variazioni di prezzo nel breve termine, ma nel lungo termine saranno completamente diversi”, ha dichiarato il Segretario al Commercio americano, Howard Lutnick, sul canale CNBC. “Avremo la migliore America possibile, un bilancio in pareggio, i tassi di interesse crolleranno”, ha assicurato.

Dazi boomerang in Usa: colpiranno le economie dei singoli Stati americani

Entro una settimana entreranno in vigore i dazi alle importazioni annunciati dal presidente americano Donald Trump, a meno di un’altra proroga, concessa un mese fa per spingere Messico, Canada e Cina a scendere a compromessi. Nonostante le potenziali misure ritorsive, l’aumento probabile dell’inflazione e le trattative ancora in corso. Al di là dei benefici ipotizzati dalla Casa Bianca, tuttavia, le tariffe avranno effetti su ogni singolo Stato americano. E per alcuni, come Montana e New Mexico, le conseguenze sono potenzialmente significative.

Un’analisi della CNBC evidenzia il grado di esposizione dei primi 10 Stati in relazione all’origine dei prodotti importati. “Messico, Canada e Cina sono i nostri principali partner commerciali, quindi le importazioni statunitensi da questi Paesi non si limitano a una manciata di prodotti – ha spiegato William George, direttore Ricerca di ImportGenius -. I beni provenienti da questi Paesi possono essere trovati su qualsiasi scaffale di un nostro negozio e utilizzati in qualsiasi settore immaginabile. Stiamo parlando di petrolio, elettronica e beni per auto che dominano le importazioni statunitensi”.

I primi 10 Stati che importano dal Canada sono Montana (92%), Maine (69,4%), Vermont (68%), North Dakota (64%), Wyoming (55%), Oklahoma (51%), West Virginia (44%), South Dakota (41%), Minnesota (38%) e Colorado (31%). “Per tutti gli stati, l’energia è stata la voce di spesa più importante per le importazioni”, spiega il reportage. I 10 Stati la cui quota maggiore di importazioni proviene dal Messico sono invece Nuovo Messico (41%), Michigan (40,3%), Texas (37,3%), Arizona (33,2%), Utah (26,2%), Alabama (22%), Iowa (21%), Louisiana (18,4%), Missouri (18%) e Connecticut (16%). Infine i 10 Stati con la percentuale più alta di importazioni dalla Cina sono California (27%), Nuovo Messico (26,4%), Nevada (22%), Illinois (20,3%), Tennessee (19%), Distretto di Columbia (19%), Washington (18%), Virginia (17%), Pennsylvania (16%) e Missouri (16%).

Nei singoli settori, emerge la forte dipendenza di Montana e Oklahoma dai beni energetici, soprattutto petrolio, del Canada. Solo per avere un riferimento, il Montana importa greggio e prodotti petroliferi per 4,9 miliardi di dollari. La Cina è invece il principale partner commerciale per l’elettronica in Nuovo Messico e le importazioni di componenti per auto come le batterie per veicoli elettrici sono preponderanti in Texas e California, dove Tesla ha una grande presenza. Solo nel 2023, spiega l’analisi di CNBC, la società di Elon Musk ha importato nei due Stati oltre 12.000 container di batterie.

Gli Usa dovranno però prepararsi a possibili contromisure ai dazi statunitensi (le famigerate ritorsioni). Anche in questo caso l’esposizione varia a seconda dei singoli Stati. Secondo i dati di LendingTree, quelli che affrontano il rischio tariffario più elevato, con almeno due terzi delle loro esportazioni dirette in Canada, Messico e Cina, sono Dakota del Nord (88%), Nuovo Messico (79%) e Dakota del Sud (72%). Il Dakota del Nord esporta grandi volumi di greggio in Canada: rappresentano l’80% dell’export complessivo. Il Nuovo Mexico è invece più legato al Messico per i componenti da computer (1,7 miliardi di dollari in valore, 70% del totale delle esportazioni). Considerando i primi 10 Stati che esportano in Canada, il Dakota del Nord è dunque in cima alla lista (82%), seguito da Maine (49%), Montana (46%), Dakota del Sud (44%), Michigan (43%), Ohio (39%), Virginia Occidentale (38%), Idaho (37%), Missouri (37%) e Vermont (34%). Le principali esportazioni includono l’agricoltura soia, mais, carne di manzo viva e congelata, maiali, pesce e pollame. I primi 10 Stati che esportano in Messico sono invece Nuovo Messico (70%), Texas (29%), Arizona (28%), Oregon (24%), Michigan (23%), Missouri (22%), Dakota del Sud (21%), Kansas (20%), California (19%) e Nebraska (18%). Tra gli Stati che esportano maggiormente in Cina ci sono Alaska (22%), Washington (18%), Oregon (15%), Carolina del Nord (14%), Louisiana (14%), Alabama (13,6%), Carolina del Sud (10,4%), California (9,4%), Massachusetts (9,4%) e Virginia Occidentale (9,3%).

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Se dalla casa al terziario la crescita Usa perde tutto il suo slancio

I recenti dati economici provenienti dagli Stati Uniti mostrano segnali di rallentamento della crescita, suggerendo che l’economia americana stia perdendo slancio dopo mesi di performance positive. A febbraio, l’indice dell’attività manifatturiera della Fed di Dallas ha subito un netto calo, scendendo di 22 punti a -8,3, rispetto al picco di 14,1 di gennaio. Un altro indicatore chiave, l’indice delle prospettive aziendali, è diminuito di 24 punti, registrando un valore di -5,2, mentre l’incertezza sulle prospettive future ha toccato il massimo dei sette mesi, salendo a 29,2. Il settore manifatturiero continua a mostrare debolezza, con l’indice di produzione che è sceso a -9,1, un segno evidente di difficoltà nella produzione statunitense. Tuttavia, i prezzi delle materie prime e dei prodotti finiti sono aumentati, suggerendo una certa pressione sui costi.

A livello nazionale, il Chicago Fed National Activity Index è sceso a -0,03 a gennaio, in calo rispetto al dato rivisitato di dicembre (0,18), indicando una contrazione nell’attività economica complessiva. In particolare, la categoria dei consumi personali e abitazioni ha contribuito negativamente con -0,14, un ulteriore segno di rallentamento nei consumi.

Un altro dato significativo è arrivato la scorsa settimana dall’indice Pmi dei servizi, che a febbraio è sceso sotto la soglia di espansione, registrando 49,7 rispetto ai 52,9 di gennaio. Questa è la prima contrazione dell’attività del settore dei servizi in oltre due anni, un indicatore che evidenzia una perdita di slancio in un settore chiave per l’economia statunitense.

Anche le vendite di case esistenti hanno subito una flessione del 4,9% a gennaio, il calo più marcato in sette mesi, scendendo a un tasso annualizzato di 4,08 milioni. Questo segna un indebolimento nel mercato immobiliare, con un prezzo medio di vendita sceso dell’1,9% rispetto al mese precedente. L’aumento delle scorte di case invendute, che sono passate a 3,9 mesi di fornitura, aggiunge ulteriori preoccupazioni.

Il rallentamento però non sembra andare di pari passo con una discesa dei prezzi. Infatti anche l’inflazione preoccupa, con le aspettative dei consumatori riguardo all’andamento dei prezzi aumentate al 4,3% per il 2025, il valore più alto dal novembre 2023. A lungo termine, le aspettative di inflazione sono salite al 3,5%, il più grande aumento mese su mese dal maggio 2021. E questi rialzi hanno avuto impatti negativi sul sentiment dei consumatori, con un crollo del 19% nelle condizioni di acquisto di beni durevoli, in parte dovuto ai timori legati all’innalzamento dei prezzi causato dai dazi.

In mezzo a questo scenario incerto, il presidente della Fed di Atlanta, Raphael Bostic, ha sottolineato nel suo blog come la politica economica degli Stati Uniti sia sempre più influenzata da un clima di incertezza. Le preoccupazioni per le politiche fiscali, commerciali e di immigrazione, insieme alle fluttuazioni dei mercati, stanno creando un ambiente di decisioni difficili per i responsabili politici. Un ritornello simile a quello degli altri banchieri centrali della Fed, i quali pur rimanendo ottimisti sulla posizione economica, hanno espresso cautela, facendo riferimento alla difficoltà di prevedere gli effetti di eventuali cambiamenti nelle politiche economiche. Il termine “incertezza” è ormai ricorrente nelle dichiarazioni ufficiali, e i verbali dell’ultimo incontro della Fed evidenziano preoccupazioni sulla portata e sull’impatto dei cambiamenti nelle politiche commerciali e fiscali.

La Fed dunque sembra voler stare ferma sui tassi in attesa di capire l’effetto che avranno le politiche di Donald Trump, a partire dai dazi. Wall Street ha capito l’antifona e da tre sedute zoppica.

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L’esito del voto in Germania (forse) può dare la sveglia all’Europa

La narrazione comune è che l’esito delle elezioni in Germania, per certi versi abbastanza scontato (la crisi dei socialdemocratici e dell’ormai ex cancelliere Scholz, la vittoria di Friedrich Merz, l’ascesa di AfD), possa giovare all’Europa, alla sua coesione, alla sua capacità di reazione di fronte a eventi mondiali che la stanno rapidamente stritolando. Sempre la narrazione post-voto è che la potenziale stabilità della Germania porti a un riconsolidamento del legame con la Francia e determini un cambio di passo anche a livello economico. In fondo, Berlino che inciampa e rallenta, che è vittima della recessione, non fa bene a nessuno. Nemmeno all’Italia. Con il massimo rispetto, non di solo Macron si può vivere e nemmeno solo di Meloni come principale interlocutrice di Donal Trump, e nemmeno di Orban come ‘amico’ russo. Ci vuole Unione, perché l’unione fa la forza. La svolta tedesca aiutera?

Il punto adesso è il passaggio dalla narrazione alla concretezza fattuale, quella che – chi parla bene – chiama la messa a terra di (buone) intenzioni e di (altrettanto buone) progettualità. Il tema della Difesa, quello dello scudo economico e la rivisitazione del Green Deal (in Clean Industrial Deal) sono le sfide che attendono gli inquilini di Strasburgo e Bruxelles in un contesto geopolitico in cui non ci si possono più permettere litigi di condominio ed eccessi regolamentari. Il vecchio adagio per cui gli Stati Uniti innovano, la Cina copia e l’Europa regolamenta è quanto mai aderente alla realtà e determina una condizione inadeguata. In quest’ottica, una Germania di nuovo forte non può che essere un bene per la Ue, ammesso e non concesso che a Berlino riescano a trovare la chimica giusta per formare un esecutivo. E qui, sempre ad ascoltare la narrazione di cui sopra, da subito ci si arrovella per trovare la formula adeguata, magari una ‘Grosse Koalition’ che metta insieme Cdu, Csu e Spd sulla falsariga di quanto è accaduto per due volte con Angela Merkel. Il nodo, però, sta in quel ‘magari’.

In questa Europa “la Germania deve avere un ruolo guida. Dobbiamo assumerci la responsabilità e io sono pronto a farlo”, ha detto Merz gonfiando il petto. Che si tratti di una dichiarazione meditata o propagandista, si tratta di un compito non facile. Gli scogli sono quelli della contrapposizione a Trump e dell’argine all’esuberanza della Cina. La Difesa comune europea e i dazi sono temi caldissimi, quasi roventi, là dove non è possibile definire una scala gerarchica di priorità. Vanno affrontati subito e bene, senza esitazioni e con unione di intenti. A seguire, il nuovo equilibrio delle politiche verdi, che non possono più essere quelle in cui imperversava Frans Timmermans ma che nemmeno possono e devono scomparire all’improvviso. Gli Accordi di Parigi meritano rispetto nella lotta al cambiamento climatico e alla limitazione delle emissioni di Co2, così come nella salvaguardia del Pianeta che scotta sempre di più. Serve solo più buonsenso per evitare che delle best practice diventino una minaccia alla salute dell’economia.

Cannucce, lampadine e soffioni della doccia: la crociata di Trump per tornare al passato

Fornelli a gas, manopole per doccia, lampadine a incandescenza, cannucce di plastica… Da quando è tornato alla Casa Bianca, Donald Trump ha nel mirino le norme ambientali che riguardano molti oggetti di uso quotidiano, con il leitmotiv: “Era meglio prima”. Martedì, ad esempio, ha ordinato al suo governo di “tornare immediatamente” alle norme del suo primo mandato su “lavandini, docce, servizi igienici, lavatrici, lavastoviglie”. Il miliardario 78enne si lamenta da molti anni dei soffioni doccia che, secondo lui, hanno una portata d’acqua troppo bassa. “Se siete come me, non potete lavare bene i vostri bei capelli”, aveva detto nel 2020.

Durante il suo primo mandato, la sua amministrazione aveva emanato norme per consentire ai soffioni doccia di utilizzare più acqua, poi revocate dal suo successore Joe Biden. Negli ultimi anni, Donald Trump ha anche fatto campagna sull’idea che i democratici volessero vietare i fornelli a gas o le auto a combustione interna, e ne aveva fatto una questione di libertà di scelta per gli americani. Si oppone spesso anche alle lampadine a LED, che hanno gradualmente sostituito quelle a incandescenza nell’ultimo decennio. “Non sono una persona vanitosa”, aveva dichiarato nel 2019, “ma ho un aspetto migliore sotto una lampada a incandescenza invece che sotto queste luci da pazzi”. Con le nuove lampadine, “sembro sempre arancione”, aveva scherzato il presidente americano. Da qui l’annuncio di martedì di voler firmare un decreto per tornare agli “standard di buon senso sulle lampadine”.

Per Andrew deLaski dell’associazione Asap, le preoccupazioni di Donald Trump “sembrano obsolete”. “Oggi esiste una vasta gamma di prodotti moderni ed efficienti che sono tra quelli che funzionano meglio”, ha dichiarato il responsabile esecutivo di questa organizzazione che si batte per gli standard di efficienza energetica dei prodotti di uso quotidiano. Asap sottolinea, ad esempio, che le lampadine a LED “limitano i costi energetici per le famiglie e le imprese e riducono l’inquinamento”. Allo stesso modo, “gli standard sui soffioni doccia fanno risparmiare denaro ai consumatori sulle bollette dell’acqua e dell’elettricità e aiutano a proteggere l’ambiente”.

Ma la crociata del settantenne presidente, noto scettico del clima, sembra meno legata a ragionamenti ecologici o economici che a un attaccamento malinconico agli oggetti del passato. Dal suo clamoroso ingresso sulla scena politica americana nel 2015, il miliardario usa la nostalgia come una potente arma elettorale. “Donald Trump sembra capire – e forse è lui stesso sensibile a – queste spinte nostalgiche”, ritiene Spencer Goidel, professore di scienze politiche all’Università di Auburn (Alabama). Il ricercatore, che ha studiato la questione della nostalgia in politica, fa un parallelo con i gusti musicali. “La maggior parte degli americani pensa che il periodo migliore nella musica sia stato quello in cui erano giovani adulti”, dice, ricordando le canzoni migliori e dimenticando quelle cattive. “Nella società è la stessa cosa: i grandi uomini e le grandi donne della storia sono immortalati; gli uomini e le donne mediocri (a volte corrotti o incompetenti) sono dimenticati”. Non sorprende quindi che i responsabili politici si approprino del sentimento nostalgico, perché “elaborare un messaggio orientato al futuro è difficile”, sottolinea Spencer Goidel. “È molto più facile invocare un ritorno” alle cose di un tempo, aggiunge il ricercatore.

Lo slogan preferito di Donald Trump, “Make America Great Again”, vuole essere un richiamo al passato, volendo “restituire la grandezza all’America”. Se, secondo Spencer Goidel, “la nostalgia non è intrinsecamente democratica o repubblicana”, il suo lavoro condotto con altri ricercatori mostra che il sentimento è più “associato ad atteggiamenti razzisti e sessisti, a uno stato d’animo autoritario e a un voto repubblicano”. E secondo la sua ricerca, le persone che mostrano forti sentimenti nostalgici tendono maggiormente a “sostenere un uomo forte che infrange le leggi e disgrega le istituzioni”.

Avanti con la guerra dei dazi: dal 12 marzo imposte Usa su acciaio e alluminio. Ue: “Reagiremo”

Nuova tappa della guerra commerciale di Donald Trump: il presidente degli Stati Uniti ha firmato un ordine esecutivo che fissa al 12 marzo la data di entrata in vigore delle nuove tariffe del 25% su acciaio e alluminio, “senza eccezioni o esenzioni”, quindi “per tutti i Paesi”. Parlando con i giornalisti alla Casa Bianca, Trump ha giustificato la misura parlando di rischi per la “sicurezza nazionale”.

I dazi sulle importazioni di prodotti in acciaio e di articoli derivati si applicano ad Argentina, Australia, Brasile, Canada, Paesi dell’Unione Europea, Giappone, Messico, Corea del Sud e Regno Unito. Le imposte sulle importazioni di alluminio e derivati, invece, riguardano Argentina, Australia, Canada, Messico, Paesi dell’Unione Europea e Regno Unito. “Non vogliamo che questo danneggi altri Paesi, ma loro si sono approfittati di noi per anni e anni”, ha accusato Trump nello Studio Ovale.

Da Parigi, dove si trova per il vertice sull’intelligenza artificiale, è arrivata la risposta dell’Europa. “Mi rammarico profondamente della decisione degli Stati Uniti – ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen – di imporre tariffe sulle esportazioni europee di acciaio e alluminio. Le tariffe sono tasse: dannose per le aziende, peggio per i consumatori. Le tariffe ingiustificate sull’Ue non rimarranno senza risposta: innescheranno contromisure ferme e proporzionate. L’Ue agirà per salvaguardare i propri interessi economici. Proteggeremo i nostri lavoratori, le nostre aziende e i nostri consumatori”.

Durante il suo primo mandato (2017-21), aveva già imposto tariffe del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Molte di queste misure erano state successivamente revocate da lui stesso o dal suo successore democratico, Joe Biden. I dazi sono la leva principale della politica economica di Donald Trump, che mira a ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti facendo pressione sui suoi partner economici.

Le misure colpiranno in particolare il Canada, principale fornitore di acciaio e alluminio degli Stati Uniti. I dazi doganali “sarebbero totalmente ingiustificati”, ha reagito in serata François-Philippe Champagne, ministro canadese dell’Industria, promettendo una risposta “chiara e misurata”, senza fornire ulteriori dettagli. Anche Brasile, Messico e Corea del Sud sono importanti fornitori di acciaio. La federazione britannica dell’acciaio, UK Steel, ha espresso preoccupazione per un “colpo devastante” a un settore già in declino.

E l’annuncio potrebbe avere un effetto deleterio anche su alcuni settori di attività negli Stati Uniti. “L’acciaio e l’alluminio sono materie prime fondamentali per i produttori statunitensi, compresi gli esportatori”, ha avvertito Maurice Obstfeld, esperto del Peterson Institute for International Economics. I dazi potrebbero causare “un forte shock dell’offerta” da parte americana, ha dichiarato all’AFP.

Il ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot ha assicurato che l’Unione europea “si vendicherà” come ha fatto durante il primo mandato del presidente statunitense. All’epoca, l’Ue aveva preso di mira prodotti emblematici come il bourbon e le moto Harley-Davidson. In Germania, la più grande economia europea, il ministro dell’Economia e del Clima, Robert Habeck, ha chiesto di “continuare a cooperare con gli Stati Uniti”. E la Commissione europea ha annunciato lunedì di non aver ricevuto “alcuna notifica” di nuovi dazi doganali.

Finora Donald Trump ha esercitato più pressione sui partner degli Stati Uniti che sulla grande rivale Cina, che da martedì è soggetta a dazi doganali del 10% in aggiunta a quelli già in vigore. Le misure di ritorsione, basate su sovrattasse mirate su alcuni prodotti americani, sono entrate in vigore lunedì. Si applicano a 14 miliardi di dollari di merci statunitensi, mentre i dazi annunciati dal Presidente degli Stati Uniti si applicano a 525 miliardi di dollari di merci cinesi.