Ci risiamo: bomba di Trump sui dazi all’Europa. Strategia o fa sul serio?

Ci risiamo. In un tranquillo (si fa per dire) venerdì di metà maggio, Donald Trump sgancia l’ennesima bomba dei dazi: 50% dal mese di giugno nei confronti dei Paesi europei. Che sono brutti, cattivi, bla bla bla… Il refrain è il solito e le conseguenze sui mercati, che sono ipersensibili anche agli starnuti delle formiche, sono parimenti le solite: i listini vanno a picco, lo spread riparte, l’allarme genera panico, l’oro tocca vette inimmaginabili. Solo gas e, soprattutto, petrolio non fanno una piega perché al presidente degli Stati Uniti, adesso, va bene che i prezzi stiano bassi per gli affari che deve portare avanti e per una certa Russia da mettere all’angolo.

Allo stato dell’arte è difficile stabilire se questa volta Trump farà sul serio o se sarà la solita minaccia che genera un po’ di confusione prima della consueta marcia indietro, però su una cosa rischia di avere ragione: trattare con l’Europa non porta a nulla. O, per lo meno, non ha portato a nulla, a differenza dell’interlocuzione con la Cina che ha generato in tempi abbastanza brevi un’intesa su larga scala. Ora, è vero che la Ue non è il gigante di Pechino e che, per raccontarla con un’immagine è una nobile decaduta, ma probabilmente qualcosa di più e di diverso a Bruxelles dovrebbero inventarsi. Per il momento siamo all’apertura (al dialogo) con minacce (di ritorsioni) annesse.

Quella per presidente Usa, che è uno dei più bravi direttori commerciali del Pianeta, è una tattica che fino adesso ha prodotto spaventi (agli altri) e qualche vantaggio (a lui e al suo Paese, alla prese con un debito da vertigini). La bomba di Donald è arrivata paradossalmente il giorno dopo in cui il ministro Giancarlo Giorgetti, chiacchierando al Festival dell’Economia di Trento, aveva pronosticato un accordo al 10% in perfetto stile British. Già, perché Trump ha siglato un’intesa rapida anche con il Regno Unito e con mister Starmer.

Dubitiamo che l’inquilino della Casa Bianca abbia risposto al nostro ministro dell’Economia, però è certo che con lui non bisogna mai dare nulla per scontato. Come è abbastanza singolare che dopo una serie di annunci sempre smentiti dai fatti, i mercati cadano subito in preda al panico, legittimando speculazioni a molti zeri. Come è curioso constatare che i medesimi stati di angoscia non si siano sollevati per i nuovi dazi imposti dalla Ue alla Russia su fertilizzanti e prodotti. Dazi che andranno a impattare pesantemente sull’agricoltura. Tanto per capirsi, la tassazione extra passerà per alcuni fertilizzanti a base di azoto dal 6,5 a quasi il 100% per un periodo di tre anni, con ovvie ricadute economiche. E dire che il valore stimato del traffico commerciale è di circa 1 miliardo e mezzo di euro, insomma qualche mal di pancia doveva pur venire a qualcuno e invece niente. Forse perché ci sono dazi e dazi. O no?

Tags:
, , ,

Usa, primo sì a riforma fiscale di Trump: tagliati sgravi al solare, titoli ko a Wall Street

La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, a maggioranza repubblicana, ha approvato con un solo voto di scarto (215 sì contro 214 no) la vasta proposta di legge del presidente Donald Trump su tasse e spesa pubblica, un pacchetto ambizioso che ora passa al Senato, dove è atteso un esame più approfondito e probabili modifiche.

Trump, intervenuto sulla sua piattaforma Truth Social, ha celebrato il voto ringraziando la leadership della Camera e invitando il Senato ad agire rapidamente per inviargli il testo da firmare, definendo la legge come “storica“.

Il pacchetto legislativo, lungo oltre 1.100 pagine, punta a estendere in modo permanente i tagli fiscali del 2017, ridurre la tassazione su mance e straordinari, aumentare la spesa per difesa e sicurezza delle frontiere e tagliare significativamente fondi destinati a programmi come Medicaid e buoni pasto. Inoltre, prevede l’eliminazione di diversi crediti d’imposta per l’energia pulita, tra cui quello per i veicoli elettrici introdotto dall’amministrazione Biden.

Le modifiche inserite nel testo finale includono l’introduzione anticipata di requisiti lavorativi per l’accesso a Medicaid, la fine di numerosi incentivi fiscali per le rinnovabili entro il 2028, la rimozione della tassa sui silenziatori per armi da fuoco, un tetto formale di 40.000 dollari sulla detrazione delle imposte statali e locali, e un fondo da 12 miliardi di dollari per il rimborso agli stati per le spese legate alla sicurezza dei confini. La legge include anche un aumento del tetto del debito federale di 4.000 miliardi di dollari. E questo ha mandato in fibrillazione i rendimenti dei titoli del Tesoro, col decennale che ha visto gli interessi salire sopra la soglia critica del 4,5%.

I critici della legge sostengono che la riforma aumenterebbe il debito pubblico federale di oltre 2.500 miliardi di dollari nel prossimo decennio, aggravando le disuguaglianze. Secondo il Congressional Budget Office, i tagli previsti al Medicaid potrebbero lasciare senza copertura sanitaria circa 7,6 milioni di americani entro il 2034.Se il Congresso non cambia rotta, questa legge sconvolgerà un boom economico in questo Paese che ha portato a una storica rinascita manifatturiera americana, bollette elettriche più basse, centinaia di migliaia di posti di lavoro ben retribuiti e decine di miliardi di dollari di investimenti principalmente negli Stati che hanno votato per il presidente Trump”, ha commentato Abigail Ross Hopper, presidente e Ceo della Solar Energy Industries Association (Seia). “Questa legislazione inattuabile ignora deliberatamente che l’implementazione dell’energia solare e dell’accumulo è l’unico modo in cui la rete elettrica statunitense può soddisfare la domanda dei consumatori, delle imprese e dell’innovazione americani. Se questa legge diventasse legge, l’America cederebbe di fatto la corsa all’intelligenza artificiale alla Cina e le comunità di tutto il paese andrebbero incontro a blackout”, ha aggiunto. “Ma non è tutto: le bollette elettriche degli americani saliranno alle stelle. Centinaia di fabbriche chiuderanno. Centinaia di miliardi di dollari di investimenti locali svaniranno. Centinaia di migliaia di persone perderanno il lavoro. Le famiglie perderanno la libertà di controllare i costi dell’energia. E la nostra rete elettrica sarà destabilizzata”, ha concluso la leader della lobby solare americana.

A Wall Street è stato dunque un bagno di sangue per le azioni del settore solare. Sunrun è crollato di oltre il 35%, poiché la legge elimina i crediti d’imposta per gli installatori come Sunrun che noleggiano le attrezzature ai clienti. Per gli analisti di Jefferies, citati da Cnbc, lo scenario è “peggiore di quanto temuto” per l’energia pulita, in quanto rappresenta un duro colpo per l’Inflation Reduction Act. Circa il 70% del settore dell’energia solare sui tetti ricorre ormai a contratti di leasing, rendendo la bolletta disastrosa per aziende come Sunrun, ha detto ai clienti l’analista del Guggenheim, Joseph Osha. Anche Enphase e SolarEdge sono crollati rispettivamente del 16% e del 24%, poiché le vendite dei loro inverter dovrebbero subire un colpo a causa della minore domanda di pannelli solari sui tetti. Il disegno di legge elimina anche i crediti per investimenti e produzione di energia elettrica per gli impianti di energia pulita la cui costruzione inizia 60 giorni dopo l’entrata in vigore della legge o che entrano in servizio dopo il 31 dicembre 2028. Forti vendite pure su Array (oltre -13%) e Nextracker (sopra il -6%) che producono dispositivi che consentono ai pannelli solari di tracciare la posizione del sole. Si salva, o quasi, invece First Solar – il più grande produttore di pannelli solari negli Stati Uniti – che cede il 3%. Questo perché il disegno di legge ha lasciato il credito d’imposta per la produzione pressoché intatto

Leone XIV incontra Vance in Vaticano e riceve l’invito di Trump alla Casa Bianca

Photo credit: VATICAN MEDIA

 

Sorrisi, strette di mano, e un faccia a faccia sulle aree di crisi del mondo, “auspicando il rispetto del diritto umanitario e del diritto internazionale e una soluzione negoziale tra le parti coinvolte“. Papa Leone XIV e JD Vance si incontrano a porte chiuse nel Palazzo Apostolico, un confronto ravvicinato che dà anche l’occasione al vicepresidente americano di consegnare al Pontefice una lettera da parte di Donald Trump, per invitarlo ufficialmente alla Casa Bianca. “È stato un incontro positivo e produttivo”, riferisce in conferenza stampa Karoline Leavitt, precisando che Trump spera di vedere Leone XIV a Washington “non appena potrà venire“.

Vance incontra poi, come da protocollo, anche il “ministro degli Esteri” della Santa Sede, Paul Gallagher. Il Vaticano pubblica una foto del Pontefice di Chicago mentre riceve il vice di Trump e il segretario di Stato Marco Rubio e diffonde una breve nota. Poche righe per assicurare che in Segreteria di Stato è stato “rinnovato” il “compiacimento per le buone relazioni bilaterali“, ci si è soffermati sulla collaborazione tra la Chiesa e lo Stato, sulla libertà religiosa e, appunto, sulla attualità internazionale. I due rappresentanti della delegazione statunitense hanno assistito domenica, insieme a decine di politici e teste coronate, con 200mila fedeli, alla messa che ha segnato ufficialmente l’inizio del ministero petrino di Robert Prevost. Che, prima di diventare papa, non aveva risparmiato critiche al governo di Trump dal suo profilo personale su X, in particolare sulla politica migratoria del tycoon newyorkese, e aveva criticato direttamente Vance. Tensioni che sembrano però sciolte, almeno per il momento: “Le nostre preghiere lo accompagnano mentre intraprende questa missione molto importante”, commenta Vance durante una riunione domenica pomeriggio, con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e la premier Giorgia Meloni.

La presidente del Consiglio sente poi anche Trump, insieme ai leader di Regno Unito, Keir Starmer, Francia, Emmanuel Macron, e Germania, Friedrich Merz, per alcune consultazioni prima della telefonata il presidente degli Stati Uniti e Vladimir Putin. Meloni ribadisce il sostegno dell’Italia, insieme ai partner europei e occidentali, agli sforzi del presidente americano per “una pace giusta e duratura in Ucraina, sottolineando l’importanza di un cessate il fuoco immediato e incondizionato“, fa sapere Palazzo Chigi. Ed esprime apprezzamento per la disponibilità dimostrata ancora una volta da parte ucraina a favore del dialogo e reiterando “l’auspicio che Mosca si impegni seriamente attraverso contatti diretti tra Leader in un negoziato che conduca alla pace”. La prossima settimana sarà “cruciale”, chiarisce da Roma von der Leyen. “Il presidente è determinato a ottenere risultati” sull’Ucraina, conferma l’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, prima di avvertire: “Se non ci riesce lui, allora non ci riuscirà nessuno”.

Ucraina, telefonata di due ore Trump-Putin. Il presidente Usa: Al via subito i negoziati

Da un lato Donald Trump – “stanco e frustrato” – dall’altro il presidente russo, Vladimir Putin. E, dall’altro ancora, il leader ucraino, Volodymyr Zelensky. A pochi giorni dal fallimento dei negoziati di Istanbul, il presidente degli Stati Uniti tenta ancora il ruolo di mediatore nelle trattative sulla guerra in Ucraina e lo fa con due distinte telefonate ai capi delle nazioni in guerra per “porre fine al bagno di sangue“. Quella con Putin è durata circa due ore e, secondo lo stesso leader russo, si è trattato di un dialogo “utile e costruttivo“, verso “la giusta direzione”. Un colloquio durante il quale Mosca si è detta pronta a collaborare con l’Ucraina su un memorandum per un futuro trattato di pace, che potrebbe includere “i principi di risoluzione, la tempistica di un possibile accordo di pace e così via, incluso un possibile cessate il fuoco per un certo periodo qualora vengano raggiunti gli accordi pertinenti“. Per Putin, che ha parlato alla tv di Stato, è necessario, però, che “entrambe le parti parti dimostrino la massima volontà di pace e trovino compromessi che soddisfino” tutti. “Il tono e lo spirito della conversazione sono stati eccellenti“, ha assicurato Trump sul social Truth, al termine del discorso di Putin. La Russia e l’Ucraina, ha detto il repubblicano, “avvieranno immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco e, cosa ancora più importante, per porre fine alla guerra”. Le condizioni saranno negoziate tra le due parti, “come è giusto che sia, poiché solo loro conoscono i dettagli di una trattativa di cui nessun altro è a conoscenza”. Ma la telefonata si è spinta oltre la trincea di guerra, perché la Russia, ha detto Trump, “vuole commerciare su larga scala con gli Stati Uniti quando questo catastrofico ‘bagno di sangue’ sarà finito, e io sono d’accordo”. In sostanza, “c’è un’enorme opportunità per la Russia di creare un numero enorme di posti di lavoro e ricchezza. Il suo potenziale è illimitato”. Allo stesso modo, “l”Ucraina può essere un grande beneficiario del commercio, nel processo di ricostruzione del suo Paese”. I negoziati tra Russia e Ucraina inizieranno immediatamente. Al termine della telefonata, Trump ha informato non soltanto Zelensky, ma anche la presidente della Commissione europea, il presidente Emmanuel Macron, la premier Giorgia Meloni il cancelliere tedesco, Friedrich Merz e il presidente finlandese Alexander Stubb. “Il Vaticano, rappresentato dal Papa – ha detto ancora Trump – ha dichiarato che sarebbe molto interessato ad ospitare i negoziati. Che il processo abbia inizio”.

I colloqui di pace di venerdì scorso tra ucraini e russi, i primi dal 2022, non hanno portato al cessate il fuoco richiesto dall’Ucraina e dai suoi alleati, mentre continuano gli attacchi mortali sul campo. Dopo l’incontro di Istanbul, che ha messo in evidenza il divario tra le posizioni di Mosca e Kiev, Trump sabato aveva annunciato la telefonata con Putin auspicando “una giornata produttiva” per raggiungere “un cessate il fuoco”. Anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato di volere un cessate il fuoco “completo e incondizionato” di 30 giorni, “sufficientemente lungo” per consentire le discussioni e con “la possibilità di una proroga”. Il presidente russo ha finora respinto tutte le richieste di Kiev di una tregua prima dei colloqui, ritenendo che una pausa nei combattimenti consentirebbe alle forze ucraine di riarmarsi grazie all’aiuto militare occidentale. La telefonata Trump-Putin è “ovviamente importante”, ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, assicurando che Mosca “apprezza molto” la “mediazione” americana in questa spinosa questione. La Russia, ha ricordato, desidera “ovviamente” “raggiungere i propri obiettivi” in Ucraina “con mezzi politici e diplomatici”, dopo oltre tre anni dall’invasione che ha causato la morte di almeno decine di migliaia di persone, tra civili e militari.

Prima della telefonata, il portavoce del Cremlino aveva detto di aspettarsi un lavoro “laborioso” e “forse lungo” per la risoluzione del conflitto, evocando “numerose sfumature che devono essere discusse”. Domenica a Roma, il vicepresidente americano JD Vance e Volodymyr Zelensky si sono incontrati, discutendo in particolare, dei “preparativi per il colloquio” tra Trump e Putin e “un cessate il fuoco”. Si è trattato del primo incontro tra i due dopo il loro alterco nell’Ufficio Ovale alla fine di febbraio, al fianco di Donald Trump. I Paesi europei, sostenitori di Kiev, cercano di fare fronte comune e di esercitare pressioni su Mosca, minacciando “massicce” sanzioni se il Cremlino non accetterà una tregua. Domenica, i leader francese, britannico, tedesco e italiano hanno parlato al telefono con Donald Trump, ribadendo “la necessità” di una tregua “incondizionata” e hanno chiesto che “il presidente Putin (prenda) sul serio i colloqui di pace”

Si chiude il tour del Golfo per il presidente Trump: tanti affari ma meno diplomazia

Trump, viaggio più d’affari che di diplomazia tra Abu Dhabi, Doha e Ryad

Si conclude oggi oggi negli Emirati Arabi Uniti il tour nel Golfo di Donald Trump, caratterizzato da promesse di investimenti milionari, ma anche da un’apertura storica nei confronti della Siria e da ottimismo sul dossier nucleare. Dopo aver raccolto 600 miliardi di dollari in Arabia Saudita e un contratto da 200 miliardi di dollari per Boeing in Qatar, giovedì ad Abu Dhabi il presidente americano ha ottenuto la promessa di 1.400 miliardi di dollari di investimenti in dieci anni. Sono stati firmati accordi per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari, tra cui un ordine di 14,5 miliardi di dollari per Boeing e Ge Aerospace e la partecipazione del gigante petrolifero degli Emirati Adnoc a un progetto da 60 miliardi di dollari negli Stati Uniti, secondo la Casa Bianca.

Il primo importante viaggio internazionale di Donald Trump è stato anche caratterizzato da dichiarazioni shock sulle crisi che scuotono la regione, dalla revoca delle sanzioni contro la Siria, alla guerra a Gaza, passando per il nucleare iraniano.

Ad Abu Dhabi, Doha e Riyadh, il miliardario repubblicano è stato accolto con tutti gli onori, dimostrando la sua vicinanza ai leader delle monarchie petrolifere e del gas della regione. “Siete un Paese straordinario. Siete un Paese ricco. Potete scegliere, ma so che sarete sempre al mio fianco”, ha detto giovedì al presidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohamed bin Zayed, dopo che quest’ultimo ha annunciato il suo piano di investimenti faraonici. “È il più grande investimento che abbiate mai fatto e lo apprezziamo davvero. E vi tratteremo come meritate, in modo magnifico”.

Venerdì, secondo i media locali, Trump dovrebbe partecipare a un incontro con alcuni uomini d’affari. Dovrebbe poi recarsi all’Abrahamic Family House, un centro interreligioso che ospita una moschea, una chiesa e una sinagoga, dopo aver visitato giovedì la più grande moschea del Paese. Gli Emirati Arabi Uniti hanno normalizzato le relazioni con Israele nel 2020 nell’ambito degli accordi di Abramo conclusi durante il primo mandato di Trump. Giovedì, in Qatar, Donald Trump aveva affermato che Washington e Teheran si stavano avvicinando a un accordo sul nucleare iraniano, dopo quattro cicli di discussioni condotte tra i due paesi nelle ultime settimane, facendo scendere i prezzi del petrolio. In Arabia Saudita, ha sorpreso tutti annunciando la revoca delle sanzioni americane contro la Siria. Ha poi incontrato il presidente siriano Ahmad al-Chareh, ex jihadista che ha rovesciato Bashar al-Assad.

Per quanto riguarda la Striscia di Gaza, il presidente americano ha dichiarato di voler assumere il controllo di questo territorio palestinese, devastato da 19 mesi di guerra tra Israele e il movimento islamista palestinese, e di volerne fare “una zona di libertà”, al che Hamas ha replicato che Gaza “non è in vendita”.

Adepto di una diplomazia transazionale, il presidente americano ha definito il suo tour “storico”, affermando che potrebbe “fruttare, in totale, da 3.500 a 4.000 miliardi di dollari in soli quattro o cinque giorni”. Secondo la Casa Bianca, gli Emirati e gli Stati Uniti hanno anche firmato un accordo sull’intelligenza artificiale (Ia), un settore in cui il Paese del Golfo cerca di affermarsi assicurandosi l’accesso alle tecnologie americane all’avanguardia. L’accordo prevede investimenti degli Emirati in centri dati negli Stati Uniti e l’impegno a “allineare maggiormente le loro normative in materia di sicurezza nazionale a quelle degli Stati Uniti, comprese solide protezioni per impedire la diversione di tecnologie di origine americana”, secondo la Casa Bianca. L’ex promotore immobiliare ha inoltre chiaramente confermato la rottura con la diplomazia dell’ex presidente democratico Joe Biden, basata in parte su appelli al rispetto dei diritti umani e alla democrazia. Questi concetti non sono stati messi in primo piano nel Golfo dal presidente repubblicano.

Tags:
, ,

Guerre, povertà, cambiamento climatico: gli sfollati nel mondo sono 83 milioni

I conflitti come quelli in Sudan e Gaza e le catastrofi naturali hanno portato il numero degli sfollati interni a un nuovo record di 83,4 milioni alla fine del 2024, in crescita del 50% rispetto a sei anni fa. E’ quanto emerge da un rapporto dell’Osservatorio delle situazioni di sfollamento interno (Idmc) e del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nnr) nel loro rapporto congiunto pubblicato a Ginevra.

Questo numero, cioè 83,4 milioni, equivalente alla popolazione della Germania, è da confrontare con i 75,9 milioni di sfollati interni che il mondo contava alla fine del 2023. “Lo sfollamento interno è il punto di incontro tra conflitti, povertà e crisi climatica, e colpisce con maggiore forza i più vulnerabili”, dice Alexandra Bilak, direttrice dell’Idmc.

A differenza dei rifugiati, che fuggono da un paese per stabilirsi altrove, gli sfollati sono persone che hanno dovuto lasciare la loro casa ma rimangono all’interno della loro nazione. Il numero di paesi che segnalano spostamenti dovuti sia a conflitti che a catastrofi è triplicato in 15 anni. Più di tre quarti degli sfollati interni a causa di conflitti vivono in zone molto vulnerabili ai cambiamenti climatici. Quasi il 90% di questi sfollamenti forzati sono dovuti a violenze e conflitti. Riguardano 73,5 milioni di persone, un numero in aumento dell’80% dal 2018.

Le catastrofi hanno costretto quasi 10 milioni di persone a fuggire e a stabilirsi altrove, un numero che è raddoppiato in cinque anni. Alla fine del 2024, 10 paesi contavano ciascuno più di tre milioni di sfollati interni a causa di conflitti e violenze. Con 11,6 milioni di sfollati, il Sudan conta il numero più alto di queste persone mai registrato in un solo paese, sottolinea il rapporto. Quasi tutta la popolazione della Striscia di Gaza era sfollata alla fine del 2024, prima ancora della ripresa dei bombardamenti israeliani il 18 marzo, dopo la fine di una tregua di due mesi.

A causa di diversi uragani di grande intensità come Helene e Milton, che hanno provocato evacuazioni di massa, gli Stati Uniti hanno registrato da soli 11 milioni di sfollamenti legati a catastrofi naturali, quasi un quarto del totale mondiale, secondo il rapporto. I fenomeni meteorologici, spesso aggravati dai cambiamenti climatici, hanno causato il 99,5% degli sfollamenti dovuti a catastrofi lo scorso anno. Spesso, le cause e gli effetti dello sfollamento “sono collegati, rendendo le crisi più complesse e prolungando l’angoscia degli sfollati”, spiega il rapporto.

Questi dati allarmanti arrivano in un momento in cui le organizzazioni umanitarie mondiali sono in grave difficoltà a causa del congelamento da parte di Donald Trump della maggior parte degli aiuti finanziari statunitensi. Numerosi tagli di bilancio colpiscono gli sfollati, che in genere ricevono meno attenzione dei rifugiati.

“I dati di quest’anno devono essere un segnale d’allarme per la solidarietà mondiale”,  commenta Jan Egeland, direttore dell’Nrc. “Ogni volta che vengono tagliati i finanziamenti, uno sfollato non ha più accesso al cibo, alle medicine, alla sicurezza e perde la speranza”, avverte. La mancanza di progressi nella lotta contro gli sfollamenti nel mondo è “sia un fallimento politico che una macchia morale per l’umanità”.

A Ginevra i colloqui Pechino-Washington sui dazi: i nodi della guerra commerciale

Pechino e Washington discutono questo fine settimana a Ginevra, una prima volta da quando Donald Trump ha lanciato la sua guerra commerciale, che minaccia gli scambi bilaterali e sconvolge le catene di approvvigionamento mondiali.

Quali misure sono già state prese?

Gli Stati Uniti hanno aumentato i dazi doganali su gran parte delle importazioni cinesi al 145%. La Cina è anche oggetto di sovrattasse settoriali che colpiscono l’acciaio, l’alluminio e i veicoli elettrici. Secondo le dogane cinesi, i prodotti “made in China” esportati negli Stati Uniti lo scorso anno hanno superato i 500 miliardi di dollari. Queste merci rappresentavano il 16,4% delle esportazioni totali del gigante asiatico. La Cina ha promesso di combattere “fino alla fine” i dazi di Donald Trump e ha introdotto dazi doganali fino al 125% sui prodotti americani come ritorsione. Secondo Washington, lo scorso anno le esportazioni di merci dagli Stati Uniti verso la Cina hanno rappresentato 143,5 miliardi di dollari. La Cina ha avviato procedure presso l’OMC, congelato le consegne di aeromobili Boeing alle sue compagnie aeree e annunciato restrizioni all’esportazione di terre rare, alcune delle quali utilizzate nell’imaging magnetico e nell’elettronica di consumo.

Qual è stato l’impatto finora?

Pechino suscita da tempo l’ira dell’amministrazione Trump perché il gigante asiatico, dove hanno sede numerose fabbriche, ha un forte surplus commerciale con gli Stati Uniti. Secondo l’Ufficio di analisi economica del Dipartimento del Commercio americano, lo scorso anno era pari a 295,4 miliardi di dollari. La Cina sembra poco incline a modificare questo equilibrio, soprattutto perché le sue esportazioni, che hanno raggiunto livelli record nel 2024, fungono da motore dell’economia in un contesto di consumi interni stagnanti. Ma un’escalation della guerra commerciale potrebbe proprio avere forti ripercussioni su queste esportazioni e indebolire la ripresa economica post-Covid in Cina, già minata da una crisi immobiliare. L’impatto si fa sentire anche negli Stati Uniti: l’incertezza ha provocato un calo dell’attività manifatturiera il mese scorso. Le autorità americane lo ritengono responsabile dell’inaspettato rallentamento del PIL nel primo trimestre. “I due paesi hanno dovuto arrendersi all’evidenza: un disaccoppiamento totale non è così facile”, spiega all’AFP Teeuwe Mevissen, economista di Rabobank. “Sia gli Stati Uniti che la Cina stanno perdendo economicamente in questa guerra commerciale. Anche se uno dei due dovesse chiaramente prendere il sopravvento, la sua situazione economica rimarrebbe comunque meno favorevole rispetto a prima dell’inizio di questa guerra commerciale”, precisa.

Il direttore dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), Ngozi Okonjo-Iweala, aveva avvertito ad aprile che la guerra commerciale potrebbe ridurre dell’80% gli scambi di merci tra le due potenze. Mercoledì la Cina ha annunciato una serie di tagli dei tassi destinati a rilanciare i consumi, un possibile segnale che il Paese sta iniziando a risentire degli effetti del conflitto. Gli analisti prevedono inoltre che i dazi americani peseranno in modo significativo sul PIL cinese, che il governo spera di vedere crescere “di circa il 5%” nel 2025. I principali prodotti cinesi esportati negli Stati Uniti – elettronica, macchinari, tessili e abbigliamento – dovrebbero essere i più colpiti. Ma poiché i prodotti cinesi svolgono un ruolo cruciale nell’approvvigionamento delle imprese statunitensi, questi dazi potrebbero colpire anche gli industriali e i consumatori americani, avvertono gli analisti.

Quali progressi sono possibili?

Ansiosi di apparire forti, entrambi i paesi affermano che è stata la pressione economica a spingere l’altro a negoziare. Ma un progresso significativo a Ginevra sembra improbabile. La Cina afferma che la sua posizione rimane invariata. Chiede che gli Stati Uniti revocino i dazi doganali e rifiuta di negoziare sotto “minaccia”. Il ministro delle Finanze americano, Scott Bessent, ha dichiarato che i colloqui verteranno su una “riduzione della tensione” e non su un “grande accordo commerciale”. Gli analisti prevedono tuttavia potenziali riduzioni dei dazi doganali. “Un possibile risultato dei colloqui in Svizzera potrebbe essere un accordo per sospendere la maggior parte, se non tutti, i dazi doganali imposti quest’anno, e questo per tutta la durata dei negoziati” bilaterali, ha dichiarato all’AFP Bonnie Glaser, che dirige il programma Indo-Pacifico del German Marshall Fund, un think tank con sede a Washington. Lizzi Lee, esperta di economia cinese presso l’Asia Society Policy Institute, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti, si aspetta un potenziale “gesto simbolico e provvisorio”, che potrebbe “placare le tensioni, ma non risolvere i disaccordi fondamentali”.

Più import e meno spesa pubblica: Pil Usa in negativo. Petrolio ko, Trump accusa Biden

Secondo la stima preliminare pubblicata dal Bureau of Economic Analysis degli Stati Uniti, il prodotto interno lordo reale è diminuito a un tasso annuo dello 0,3% nel primo trimestre del 2025, mentre il mercato puntava su un +0,2% Nel quarto trimestre del 2024, il Pil reale era invece aumentato del 2,4%. Il calo del Pil reale nel primo trimestre ha riflesso principalmente un aumento delle importazioni, “che rappresentano una sottrazione nel calcolo del Pil “, sottolinea il Bureau of Economic Analysis, e una calo della spesa pubblica.

Movimenti che “sono stati in parte compensati dall’aumento degli investimenti, della spesa dei consumatori e delle esportazioni“. Si tratta del primo dato negativo dal secondo trimestre del 2022. Solo 4 mesi fa, si prevedeva che il Pil sarebbe cresciuto di oltre il 3% nel primo trimestre del 2025. E’ l’inizio dell’effetto dazi? Più nel dettaglio – si legge nel comunicato del Tesoro Usa – “rispetto al quarto trimestre, la flessione del Pil reale nel primo trimestre riflette una ripresa delle utilizzate, una decelerazione della spesa dei consumatori e una flessione della spesa pubblica, in parte compensati dalla ripresa degli investimenti e delle esportazioni“. E inoltre “le vendite finali reali agli acquirenti privati ​​nazionali, ovvero la somma della spesa dei consumatori e degli investimenti fissi privati, sono aumentate del 3% nel primo trimestre, rispetto a un aumento del 2,9% nel trimestre quarto“.

Fuori dai tecnicismi, il presidente Donald Trump ha dato subito la colpa al suo predecessore e ha difeso i dazi dopo un dato del Pil negativo dello 0,3%. nel primo trimestre negli Usa , ben al di sotto delle attese. “Questo è il mercato di Joe Biden, non di Trump. Ho preso il potere solo il 20 gennaio“, ha dichiarato il Tycoon in un post su Truth Social. “I dazi entreranno presto in vigore e le aziende stanno iniziando a trasferirsi negli Stati Uniti in numeri record. Il nostro Paese prospererà, ma dobbiamo liberarci del ‘sovrappeso’ di Biden“, ha affermato. “Ci vorrà un po’, non ha nulla a che vedere con i dazi, solo che ci ha lasciato con numeri negativi, ma quando inizierà il boom, sarà come nessun altro. Siate pazienti!!!“, ha scritto Trump.

Il problema non è solo il Pil però… perché il peggior incubo della Fed rischia di peggiorare: oltre alla crescita negativa, oggi è uscito il dato dell’indice dei prezzi al consumo che balzato al +3,7%, il livello più alto da agosto 2023. Cosa fa adesso Jerome Powell? Per questo i rendimenti dei bond Usa sono in forte aumento, con il rendimento delle obbligazioni a 10 anni in rialzo di quasi 10 punti base rispetto al minimo precedente alla pubblicazione dei dati. Perché i tassi aumentano in un’economia in contrazione? Il mercato teme che stia arrivando la stagflazione? Oggi, pochi minuti prima dei dati sul PIL, sono stati pubblicati i dati Adp sull’occupazione. Ebbene, l’economia statunitense ha creato solo 62.000 posti di lavoro ad aprile, il livello più basso da luglio 2024, come mostrato di seguito da ZeroHedge.

Ecco perché – mentre Wall Street ha provato a recuperare arrivando fino a perdere meno dell’1% dopo un tonfo iniziale – invece i prezzi del petrolio sono crollati di oltre il 3%, attestandosi al di sotto dei 60 dollari, scontando una recessione e un calo della domanda. Per Richard Clarida quello del Pil però è un dato fuorviante, distorto dall’aumento delle importazioni in vista dell’entrata in vigore dei dazi. Per questo la Fed lo ignorerà, secondo l’ex vicepresidente della Federal Reserve. Intanto un nuovo studio del Kiel Institute, che considera l’impatto dell’attuale regime tariffario statunitense del 145% su tutte le importazioni cinesi, sulle contro-tariffe imposte dalla Cina del 125% e su una tariffa generale aggiuntiva del 10% su quasi tutte le importazioni degli Usa, segnala che “l’attuale guerra commerciale tra Stati Uniti e la Cina peserà soprattutto sull’economia americana. L’aumento aumenterà probabilmente del 5,5% e le esportazioni crolleranno di quasi il 17% e il Pil diminuirà fino al -1,6%. Le conseguenze per la Cina stessa sono considerevoli, ma molto meno gravi in ​​Germania e non subiranno praticamente alcun impatto negativo sui vicini asiatici della Cina che dovranno invece affrontare una concorrenza aggiuntiva e sostanziale sul mercato globale“.

Trump allenta la pressione dei dazi sulle auto, ma la misura è temporanea

Il presidente americano Donald Trump ha alleggerito il carico dei dazi doganali per i costruttori automobilistici che producono negli Stati Uniti con componenti importati, evitando in particolare un accumulo delle imposte che sono in vigore dall’inizio di aprile. L’annuncio è arrivato in occasione dei primi 100 giorni del repubblicano alla Casa Bianca durante un comizio a Warren, vicino a Detroit, il cuore dell’industria automobilistica americana. “Vogliamo semplicemente aiutarli in questo periodo di transizione, ma a breve termine”, ha dichiarato il presidente prima di partire per il Michigan. “Se non potevano avere pezzi di ricambio, non volevamo penalizzarli”, ha aggiunto.

Dal 3 aprile, tutti i veicoli importati sul territorio americano sono tassati al 25%. Il decreto presidenziale firmato martedì esenta i costruttori automobilistici dal pagamento di altri dazi doganali, come quelli sull’acciaio o sull’alluminio, per evitare un cumulo. Pagheranno l’importo “più elevato”, ha precisato un responsabile del ministero del Commercio, affermando che queste nuove disposizioni avranno effetto retroattivo al 3 aprile.

I costruttori americani sono tra i più colpiti perché hanno stabilito fabbriche in Messico e Canada. Questi due paesi hanno un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, ma ciò non ha impedito a Donald Trump di includerli nella sua guerra commerciale mondiale. Il loro processo di produzione spesso comporta spostamenti tra i tre paesi. I pezzi di ricambio dovrebbero essere interessati al più tardi il 3 maggio. Alla chiusura della Borsa di New York, le azioni Ford erano in rialzo dell’1,30% e quelle di General Motors in calo dello 0,64%.

La Casa Bianca, inoltre, ha pubblicato sul suo sito web un decreto che istituisce un dispositivo di riduzione per due anni dei dazi doganali per i costruttori. Per tutti i veicoli fabbricati e venduti negli Stati Uniti con parti di ricambio importate, i costruttori americani e stranieri potranno così dedurre il 15% del prezzo di vendita raccomandato il primo anno – e il 10% il secondo – dai dazi doganali del 25% sulle importazioni successive. Questo corrisponderà, secondo quanto specificato nella dichiarazione, a una detrazione del 3,75% del prezzo consigliato nel primo anno (dal 3 aprile 2025 al 30 aprile 2026) e del 2,50% nel secondo (dal 1° maggio 2026 al 30 aprile 2027). Si tratta di “una riduzione e non di un rimborso”, ha precisato Trump, affermando che questo periodo di due anni è stato ritenuto sufficiente dagli industriali per installare una catena di approvvigionamento negli Stati Uniti. Non sono state fornite precisazioni sulle importazioni dalla Cina, che possono essere tassate fino al 245% (ad esempio i veicoli elettrici).

“Ford accoglie con favore e apprezza queste decisioni del presidente Trump, che contribuiranno ad alleggerire l’impatto dei dazi doganali sui costruttori automobilistici, i fornitori e i consumatori”, ha commentato Jim Farley, amministratore delegato del costruttore americano, prima dell’annuncio presidenziale, il cui contenuto era trapelato sui media già lunedì sera. Il costruttore “ritiene essenziali le politiche che incoraggiano le esportazioni e garantiscono una catena di approvvigionamento a costi accessibili per promuovere una maggiore crescita nazionale”, ha aggiunto. Da parte sua, l’amministratrice delegata di General Motors, Mary Barra, ha apprezzato “il sostegno del presidente Trump all’industria automobilistica e ai milioni di americani che dipendono da noi”. Stellantis, che oggi ha presentato i risultati del primo trimestre 2025 “si sta impegnando a fondo con le autorità politiche in materia di tariffe doganali, adottando al contempo misure per ridurne gli impatti”. “Proteggere l’azienda e al tempo stesso dialogare con le istituzioni governative competenti per facilitare l’implementazione e l’evoluzione informata dei provvedimenti” sono gli obiettivi indicati dal gruppo. Allo stesso tempo, “il management si sta attivando per adeguare i piani di produzione e individuare opportunità per migliorare gli approvvigionamenti”.

Dopo l’annuncio presidenziale, l’Associazione dei costruttori americani (AAPC), che rappresenta i tre storici costruttori Ford, GM e Stellantis (Chrysler, Jeep, Dodge, ecc.), ha accolto con favore queste decisioni. “L’applicazione di dazi multipli sullo stesso prodotto o sullo stesso pezzo di ricambio rappresentava una preoccupazione importante per i costruttori americani e siamo lieti che la questione sia stata risolta”, ha commentato Matt Blut, presidente dell’associazione, salutando anche il dispositivo di deduzione. Ha precisato che il decreto presidenziale sarà “esaminato attentamente” per valutarne l’“efficacia” nell’alleggerire il conto doganale.

Tags:
, ,

Il liberale Carney trionfa in Canada e promette: “Non dimentichiamo tradimento Usa”

Storica vittoria elettorale in Canada per il primo ministro liberale Mark Carney che ha promesso di trionfare sugli Stati Uniti nella guerra commerciale lanciata da Donald Trump e di non dimenticare mai il “tradimento” americano. I liberali potrebbero tuttavia fallire di poco l’ottenimento della maggioranza in Parlamento e quindi essere costretti a governare con l’appoggio di un altro partito. Lo spoglio è ancora in corso in alcune regioni.

Solo pochi mesi fa, la strada sembrava spianata per consentire ai conservatori canadesi guidati da Pierre Poilievre di tornare al potere, dopo dieci anni di governo di Justin Trudeau. Ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca e la sua offensiva senza precedenti contro il Canada, con dazi doganali e minacce di annessione, hanno cambiato le carte in tavola. Davanti ai suoi sostenitori nella notte tra lunedì e martedì, Carney ha affermato che “il vecchio rapporto con gli Stati Uniti è finito”. Il “presidente Trump sta cercando di distruggerci per possederci”, ha aggiunto, invitando il Paese all’unità per “i difficili mesi a venire che richiederanno sacrifici”.

In un discorso in cui ha riconosciuto la sua sconfitta, il suo principale avversario, Poilievre, ha promesso di lavorare con Carney e di mettere l’interesse del Paese al di sopra delle lotte partigiane di fronte alle “minacce irresponsabili” del presidente americano. Poco prima, nell’arena di hockey dove erano riuniti i sostenitori liberali, l’annuncio della vittoria aveva provocato un’ovazione e grida entusiastiche.

Per il ministro della Cultura Steven Guilbeault, “i numerosi attacchi del presidente Trump all’economia canadese, ma anche alla nostra sovranità e alla nostra stessa identità, hanno davvero mobilitato i canadesi”, ha dichiarato alla rete pubblica CBC.E gli elettori “hanno visto che il primo ministro Carney ha esperienza sulla scena mondiale”.

Nelle lunghe file davanti ai seggi elettorali durante tutta la giornata, i canadesi hanno sottolineato l‘importanza di questo voto, parlando di elezioni storiche e decisive per il futuro di questo Paese di 41 milioni di abitanti. A 60 anni, Mark Carney, novizio in politica ma economista di fama, ha saputo convincere una popolazione preoccupata per il futuro economico e la sovranità del Paese che era la persona giusta per guidare il Canada in questi tempi difficili.

L’ex governatore della Banca del Canada e della Gran Bretagna ha ripetuto più volte durante la campagna elettorale che la minaccia americana è reale. “Il caos è entrato nelle nostre vite. È una tragedia, ma è anche una realtà. La questione chiave di queste elezioni è chi è nella posizione migliore per opporsi al presidente Trump”, aveva ripetuto più volte.

Per far fronte alla situazione, ha promesso di mantenere i dazi doganali sui prodotti americani fintanto che le misure di Washington saranno in vigore, ma anche di sviluppare il commercio all’interno del suo Paese eliminando le barriere doganali tra le province e cercando nuovi sbocchi, in particolare in Europa. I legami tra Europa e Canada “sono forti e si stanno rafforzando”, ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, congratulandosi con Carney per la vittoria. “Non vedo l’ora di lavorare a stretto contatto, sia a livello bilaterale che all’interno del G7. Difenderemo i nostri valori democratici comuni, incoraggeremo il multilateralismo e saremo paladini del commercio libero ed equo”, ha scritto su X. A Londra, anche il primo ministro britannico Keir Starmer si è congratulato con Carney e ha espresso la sua soddisfazione per il “rafforzamento dei legami” tra Regno Unito e Canada.

Anche la Cina si è detta pronta “a sviluppare le relazioni sino-canadesi sulla base del rispetto reciproco, dell’uguaglianza e dei vantaggi reciproci”, ha dichiarato Guo Jiakun, portavoce del ministero degli Affari esteri cinese. La vittoria di Carney è stata salutata positivamente anche dall’India. Il primo ministro Narendra Modi ha annunciato di voler “rafforzare la partnership” e “aprire nuove opportunità” tra i due paesi. E di legami più stretti ha parlato anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “Siamo convinti – ha scritto sui social – che la nostra partnership non potrà che rafforzarsi nella nostra comune ricerca di pace, giustizia e sicurezza”.

Il leader conservatore Poilievre, che aveva promesso tagli alle tasse e alla spesa pubblica, non è riuscito a convincere gli elettori di questo Paese del G7, nona potenza mondiale, a voltare le spalle ai liberali. E alla fine ha anche pagato per la sua vicinanza, per il suo stile e per alcune delle sue idee, al presidente americano, che gli ha alienato una parte dell’elettorato, secondo gli analisti.

Quasi 29 milioni di elettori erano chiamati alle urne in questo vasto Paese che si estende su sei fusi orari. E più di 7,3 milioni di persone hanno votato in anticipo, un record.