Mattarella torna in Africa: visita in Costa d’Avorio e Ghana, energia e istruzione tra i temi

Costa d’Avorio e Ghana: sono le due tappe del nuovo viaggio istituzionale del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in Africa. Da oggi, 2 aprile, a sabato 6, accompagnato dal vice ministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, il capo dello Stato tornerà nel continente africano, stavolta visitando due Paesi molto importanti dal punto di vista geostrategico e per il programma di cooperazione italiano, che si collega anche al Piano Mattei varato dal governo. Dopo essere stato in Etiopia e nell’area australe (Mozambico e Zambia), ora Mattarella visiterà la parte occidentale: per dare un ulteriore segnale a un continente che da sempre ha ricevuto l’attenzione italiana, ma che ora assume un ruolo sempre più centrale. Ovviamente, con questa doppia visita completa ma non esaurisce la geografia politica del Quirinale.

Sono principalmente tre i temi che saranno affrontati. Innanzitutto, Costa d’Avorio e Ghana, trovandosi a sud di un’area turbolenta come quella del Sahel, messa a durissima prova negli ultimi anni tra colpi di Stato e terrorismo, fungono anche da ‘cerniera’ grazie al fatto di aver sviluppato modelli e strutture democratiche nella regione. Soprattutto il Ghana, che ha una storia ‘esemplare’ anche sui processi elettorali. Ma entrambi i Paesi possono vantare economie dinamiche e aperte, dunque nonostante risentano delle turbolenze cercano comunque di portare avanti un’azione moderatrice e stabilizzatrice. Il 3 aprile Mattarella sarà ricevuto al Palazzo Presidenziale di Abidjan, dove incontrerà il presidente della Repubblica della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara. Nel pomeriggio, poi, sarà alla cerimonia di consegna delle Chiavi del Distretto di Abidjan, molto sentita dalla comunità locale: un’onorificenza riconosciuta a personalità ritenute di alto valore. Nella mattinata del 5 aprile, invece, ad Accra, Mattarella sarà alla Jubilee House, dove avrà un incontro con il presidente della Repubblica del Ghana, Nana Addo Dankwa Akufo-Addo. A seguire, si recherà al Memoriale di Kwame Nkrumah e successivamente al Castello di Christiansborg.

La visita in Africa sarà anche l’occasione per portare il saluto al comandante e ai membri dell’equipaggio del Pattugliatore d’altura ‘Bettica‘ della Marina Militare italiana, impegnata in operazioni di monitoraggio nel Golfo di Guinea, nell’ambito di un programma di lotta alla pirateria e ad altre forme di criminalità in mare, come contributo al quadro di sicurezza di Paesi come Costa d’Avorio e Ghana, appunto, che essendo rivieraschi dipendono molto dai commerci e, quindi, dal transito delle imbarcazioni. Mattarella sarà a bordo della nave, attraccata al porto di Tema, ad Accra, il 6 aprile, prima di rientrare in Italia.

Altro argomento sarà la formazione e l’istruzione, molto centrale nel programma di cooperazione con l’Africa e ora anche con il Piano Mattei. Il 4 aprile, in Costa d’Avorio, Mattarella (primo presidente della Repubblica italiana in visita nel Paese) farà tappa al complesso scolastico di Canal Vridi, ristrutturata grazie all’impegno della Ong Avsi e dell’Eni, mentre sabato 6 aprile, sarà al Centro di formazione professionale don Bosco di Ashaiman, in Ghana, gestito dai padri salesiani e creato grazie al contributo di Confindustria Alto Adriatico: un progetto legato allo sviluppo dei flussi regolari dell’immigrazione, necessari alla nostra economia, che prevede la preparazione dei giovani africani, che poi saranno chiamati a fare pratica in Italia.

Si parlerà anche di energia nel viaggio del capo dello Stato. Sempre il 4 aprile, infatti, Mattarella visiterà la stazione a terra del giacimento di olio e gas associato di Baleine, scoperto nel 2021 dall’Eni a 70 chilometri dalla costa di Abidjan e a 1.200 metri di profondità, che ha potenzialità di 2,5 miliardi di barili di olio in posto e dall’entrata in produzione ha prodotto 100 miliardi di metri cubi di gas associato. Nell’area il Cane a sei zampe è molto attivo e ha in cantiere diversi progetti, non solo per le estrazioni ma anche per lo sviluppo delle comunità locali, che saranno illustrate del managing director Eni Costa d’Avorio e dall’intervento del ministro delle Miniere, del Petrolio e dell’Energia ivoriano.

 

 

Photo credit: sito internet ufficiale del Quirinale

I cinque pilastri del Piano Mattei: dalla formazione all’energia

Il piano Mattei potrà contare su una dotazione iniziale di 5,5 miliardi tra crediti, operazioni a dono e garanzie, dei quali circa 3 miliardi verranno destinati dal fondo italiano per il clima e 2,5 miliardi da fondo per la cooperazione allo sviluppo. Si articola su cinque pilastri, interconnessi con gli interventi sulle infrastrutture, generali e specifiche su ogni settore di intervento.

ISTRUZIONE E FORMAZIONE. Il Piano si occuperà degli interventi che si prefiggono di promuovere la formazione e l’aggiornamento dei docenti, l’adeguamento dei curricula, l’avvio di nuovi corsi professionali e di formazione in linea con i fabbisogni del mercato del lavoro e la collaborazione con le imprese, coinvolgendo in particolare gli operatori italiani e sfruttando il ‘modello’ italiano di Piccola e Media Impresa.

AGRICOLTURA. Gli interventi saranno finalizzati a diminuire i tassi di malnutrizione; favorire lo sviluppo delle filiere agroalimentari; sostenere lo sviluppo dei biocarburanti non fossili. In questo quadro noi riteniamo fondamentali lo sviluppo dell’agricoltura familiare, la salvaguardia del patrimonio forestale e il contrasto e l’adattamento ai cambiamenti climatici tramite un’agricoltura integrata.

SALUTE. Si punta a rafforzare i sistemi sanitari, migliorando l’accessibilità e la qualità dei servizi primari materno-infantili; a potenziare le capacità locali in termini di gestione, formazione e impiego del personale sanitario, della ricerca e della digitalizzazione; sviluppare strategie e sistemi di prevenzione e contenimento delle minacce alla salute, in particolare pandemie e disastri naturali.

ENERGIA. L’energia è uno dei settori centrali del Piano. L’obiettivo è quello di rendere l’Italia un hub energetico, un “vero e proprio ponte tra l’Europa e l’Africa“, spiega la premier, Giorgia Meloni. Sarà centrale il nesso clima-energia, come tutti gli interventi che verranno portati avanti per rafforzare l’efficienza energetica e l’impiego di energie rinnovabili con azioni volte ad accelerare la transizione dei sistemi elettrici, in particolare per la generazione elettrica da fonti rinnovabili e le infrastrutture di trasmissione e distribuzione. È un impegno che ricomprenderà anche lo sviluppo in loco di tecnologie applicate all’energia anche attraverso l’istituzione di centri di innovazi I cinque pilasti del Piano Mattei: dalla formazione all’energiaone, dove le aziende italiane potranno selezionare start-up locali e sostenere così l’occupazione e la valorizzazione del capitale umano.

ACQUA. La scarsità della risorsa idrica in Africa rappresenta uno dei principali fattori di insicurezza alimentare, conflittualità e spinta alla migrazione. In questo quadro gli interventi riguarderanno: la perforazione di pozzi, alimentati da sistemi fotovoltaici; la manutenzione dei punti d’acqua preesistenti; gli investimenti sulle reti di distribuzione; e le attività di sensibilizzazione circa l’utilizzo dell’acqua pulita e potabile.

Giorgia Meloni pronta a presentare il Piano Mattei al Vertice Italia-Africa

Non è più il tempo delle parole. Nel fine settimana la premier, Giorgia Meloni, accoglierà a Roma diversi leader per il Vertice Italia-Africa, nel quale presenterà il Piano Mattei, il progetto di cooperazione che nelle intenzioni del governo dovrà far diventare il nostro Paese hub energetico dell’Europa e allo stesso tempo avviare un programma di sviluppo infrastrutturale, economico e occupazionale negli Stati a sud del Mediterraneo che decideranno di aderire all’iniziativa, anche per bloccare i flussi migratori in uscita.

A Palazzo Madama sono attesi anche la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, i rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale, anche se difficilmente – secondo quanto scrive France Presse – arriverà sostegno economico al Piano da Bruxelles, che ha già presentato un pacchetto di aiuti per l’Africa da 150 miliardi di euro entro il 2022. L’Italia, che in questi mesi ha comunque continuato a interloquire con l’Ue lontana dai riflettori, si è già cautelata stanziando per il continente africano il 70% dei 4 miliardi di Fondo nazionale sul clima.

Adesso manca solo il paper. Ad oggi, infatti, è nota esclusivamente la ‘cornice’ di governance, con il decreto approvato nel 2023 che istituisce cabina di regia e struttura di missione, oltre a definire gli ambiti di azione. Non solo energia, come aveva detto a inizio gennaio la presidente del Consiglio. Infatti si va dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, l’istruzione e formazione professionale, la ricerca e innovazione, la salute, l’agricoltura e sicurezza alimentare, l’approvvigionamento e sfruttamento sostenibile delle risorse naturali, incluse quelle idriche ed energetiche, ma anche la tutela dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici. Inoltre, l’ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture, anche digitali, nonché la valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico anche nell’ambito delle fonti rinnovabili, il sostegno all’imprenditoria, in particolare a quella giovanile e femminile.

Nell’immediata vigilia della presentazione, però, le organizzazioni della società civile africana chiedono che il Vertice di domenica e lunedì prossimi tracci un nuovo corso per la cooperazione euro-africana, proteggendo le popolazioni africane, gli ecosistemi e la biodiversità del continente e affrontando l’emergenza climatica. Le Cso, inoltre, temono tuttavia che il piano non abbia seguito un approccio consultivo e che sia insufficiente nell’identificare e incorporare gli obiettivi centrali per l’Africa.

Meloni, intanto, continua a tessere la tela di relazioni internazionali. Nel pomeriggio di venerdì, in vista proprio dell’appuntamento del fine settimana, ha avuto colloqui telefonici sia con il presidente dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, sia con il presidente egiziano, Abdelfattah al-Sisi. Secondo quanto riferisce Palazzo Chigi, in entrambe le conversazioni c’è stato uno scambio di idee sul rilancio delle relazioni dell’Italia con il continente africano e sullo sviluppo congiunto del Piano Mattei, ma anche sulle ultime evoluzioni delle crisi mediorientalale. Sia Tebboune che al-Sisi, poi, esprimono l’auspicio di poter presto avere una occasione di incontro con la premier italiana.

Il rapporto con l’Africa, così come “il nesso clima-energia e la sicurezza alimentare“, saranno tra le priorità nell’agenda della Presidenza italiana del G7, iniziata lo scorso 1 gennaio. “Centrale sarà il rapporto con le nazioni in via di sviluppo, con le economie emergenze con un’attenzione particolare rivolta all’Africa – spiega proprio Meloni in un video di presentazione -. Perché l’obiettivo che ci siamo dati è quello di costruire un modello di cooperazione da pari a pari, che rifiuta l’approccio predatorio e che sia capace di offrire benefici per tutti”. Anche l’Intelligenza artificiale avrà ampio spazio nelle iniziative in programma. Con un approccio ben definito: “Tra le sfide al centro della Presidenza italiana ci sarà anche quella che molti ritengono la più decisiva di questo tempo: l’Ia, tecnologia che può generare grandi opportunità ma anche enormi rischi, oltre a incidere sugli equilibri globali”, dice la premier. Che rilancia: “Il nostro impegno è sviluppare meccanismi di governance e fare in modo che l’intelligenza artificiale sia incentrata sull’uomo e controllata dall’uomo”.

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Gozzi: “L’Occidente non può lasciare il continente africano alla Cina e alla Russia”

Nell’editoriale della scorsa settimana ragionando sulle prospettive economiche del 2024 e cercando di collocarle all’interno di un quadro più strutturale di medio-lungo periodo ho evidenziato i ritardi e le debolezze dell’Europa rispetto alle altre grandi aree economiche del mondo (USA, Cina e in prospettiva India).

Ho scritto che, a mio giudizio, questa debolezza relativa parte da una degenerazione culturale (la presunzione di pensare che “siamo i più bravi di tutti” e quindi regole, regole, regole) e da un declino industriale e demografico: tra le prime 10 aziende del mondo non ce n’è neppure una europea, e la popolazione del nostro continente invecchia a ritmi impressionanti con tutto ciò che ne consegue in termini economici e sociali.

La situazione che si è creata rischia di spiazzare definitivamente l’Unione Europea e i suoi sogni di gloria, relegandola al ruolo di attore minore nelle dinamiche mondiali.

Dinanzi a un quadro del genere, che mi pare difficilmente contestabile, può essere utile cercare di definire una prospettiva strategica ed economica non velleitaria per l’Europa all’interno della quale collocare l’Italia.

Mi sono divertito ad usare per questo esercizio uno dei modelli classici della teoria d’impresa: forze/debolezze, minacce/opportunità. Pur consapevole dei limiti di un’applicazione del genere non a singole imprese ma a sistemi economici globali, sono convinto che la provocazione possa servire.

Ho due convinzioni radicate che hanno sostenuto la mia riflessione e che voglio sviluppare. La prima vede inscindibilmente legate le prospettive economiche e industriali del nostro continente alle dimensioni geo-strategica e della sicurezza. La seconda è che, poiché il tema del Mediterraneo si imporrà sempre di più nei prossimi anni, vi è un ruolo importantissimo che l’Italia può giocare partendo non solo dalla sua collocazione geografica ma anche da un dato culturale e di vicinanza alle popolazioni del Sud e dell’Est.
Ma procediamo con ordine.

Come detto la situazione di oggi è che l’Europa, per differenziale negativo di crescita e per minore tasso di innovazione tecnologica della sua economia industriale, è indietro rispetto ad USA e Cina; ciò in particolare in quelle aree che sono coperte da protezione brevettuale come intelligenza artificiale, biotecnologie, aero-spazio, e in parte farmaceutica e vaccini. Oggi si trova in terza posizione ma in pochi anni rischia, con la travolgente crescita indiana, di diventare quarta. Se le cose continuano così il declino e la marginalizzazione mi appaiono francamente inevitabili.

Dall’altro lato, in termini geo-strategici e di sicurezza la posizione europea è super delicata. Pressata com’è a est dal neo-imperialismo russo e a sud, nel Mediterraneo e nel Golfo, dall’affacciarsi di nuove potenze e nuovi protagonisti come Turchia e Iran, nonostante una spesa militare sì ingente (oltre 200 miliardi di euro l’anno ) ma del tutto scoordinata e quindi inutile alla creazione di campioni industriali europei, non può fare a meno dell’ombrello protettivo USA come è successo negli ultimi 70 anni.

Le due guerre in corso in Ucraina e in Israele testimoniano ciò in maniera solare. In base a questi due assunti le debolezze europee sono dunque evidenti: spiazzamento competitivo economico, industriale e demografico; fragilità geo-strategica e della sicurezza.

Abbiamo per contro punti di forza? Certamente almeno due: un grande mercato, anzi il più grande e ricco mercato del mondo (almeno per ora) non a caso concupito da economie non europee, ed un sistema di valori e istituzioni democratici saldo (sempre almeno per or ) e garante di diritti economici, sociali e civili che non ha eguali al mondo e che, non a caso, attira grandi flussi migratori.

Se si condivide questa analisi, e se per un attimo si lascia da parte la retorica europeista che crede di risolvere i problemi dell’oggi e di domani mattina con la stanca riproposizione di un modello ideale di Stati Uniti d’Europa difficile da attuare nel breve periodo, con un’unica politica estera, un sistema di difesa comune fuori dalla Nato, ed una transizione energetica tutta ideologica e destinata, se portata avanti così, a desertificare industrialmente il continente senza incidere per nulla sul climate change a livello mondiale, nella situazione data non restano molte strade da percorrere.

L’unica, riconoscendo onestamente l’impossibilità di rimanere soli, è perseguire con forza la realizzazione di una grande area di cooperazione euro-atlantica che veda in un’alleanza geostrategica, militare, economica e industriale USA/UE l’unica prospettiva realisticamente possibile in un mondo nel quale si registra una convergenza antioccidentale negli altri protagonisti.

All’interno di quest’area, che deve ovviamente coinvolgere alleati asiatici e ‘pacifici’ (in primis Giappone, Corea del Sud e Australia) vanno individuate complementarietà e sinergie economiche e industriali che possono esprimere una forza esponenziale.

Un’idea per gli amici di Aspen: sarebbe bello che due grandi centri di ricerca economica e industriale, uno statunitense l’altro europeo, iniziassero a studiare quali potrebbero essere i terreni industriali di questa possibile collaborazione. Tu fai questo, io faccio quello, tu investi lì io investo là, in un disegno coordinato e unitario soprattutto in tutte le aree del de-risking e cioè in tutte le aree industriali sensibili a questioni di sicurezza strategica: di nuovo, intelligenza artificiale, microprocessori, biotecnologie, farmaceutica e vaccini e aero-spazio.

Per le esperienze industriali maturate a livello internazionale ho visto molte volte opportunità e grandi potenzialità in questa ipotesi di cooperazione euro-atlantica. Basti ricordare nel settore automotive la straordinaria vicenda FIAT/Chrysler e il genio di Marchionne. Ma ci sono altre importanti aree di dialogo e possibile cooperazione industriale con gli USA.

Come siderurgici italiani abbiamo molto insistito, ad esempio, sulla necessità di accogliere la proposta dell’Amministrazione Biden di un’area di libero scambio Stati Uniti ed Europa estesa a Canada e Messicoper l’acciaio e l’alluminio, con l’eliminazione del dazio del 25% a suo tempo introdotto da Trump sulle importazioni di questi prodotti negli Usa. L’unica condizione richiesta dagli americani è che questo dazio possa essere mantenuto nei confronti di quei Paesi, fuori dall’area di libero scambio, che praticano unfair-trade, a partire dalla Cina.

L’ideologismo mercatista della Commissione Europea e le ambiguità della Germania, che di fatto rifiuta ogni provvedimento daziario nei confronti della Cina, hanno impedito questo accordo. L’Europa, nel non cogliere questa opportunità, ha fatto un grave errore ed ha mostrato la sua insipienza. Un’eventuale vittoria di Trump alle elezioni presidenziali del novembre 2024 renderebbe tutto maledettamente più difficile.

E ancora: sulla definizione di green steel, e cioè sulle caratteristiche di processo e intrinseche che deve avere l’acciaio verde, la posizione italiana è molto più vicina a quella dell’Associazione dei siderurgici statunitensi che a quella di Eurofer (l’organizzazione dei siderurgici europei a cui aderisce anche l’italiana Federacciai).

Questa comunanza deriva dall’oggettivo fatto che la stragrande maggioranza dell’acciaio prodotto sia in Usa che in Italia è da forno elettrico e rottame quindi già largamente decarbonizzato.

I nostri amici americani di Nucor (la prima siderurgia Usa con oltre 24 milioni di tonnellate di acciaio prodotte ogni anno e che per più di 12 anni è stata socia di Duferco negli impianti italiani) produce acciaio da forno con utilizzo di rottame e di DRI (direct reduction iron). Nucor dispone di due grandi impianti di DRI (identici a quelli che dovrebbero essere installati a Taranto) uno in Lousiana e l’altro a Trinidad. Certamente l’esperienza di questo grande gruppo americano, amico dell’Italia, pur senza coinvolgimenti diretti sarebbe preziosissima per il processo di decarbonizzazione dell’Ilva e per il suo rilancio.

Una stretta cooperazione economica e industriale tra Stati Uniti d’America e Europa darebbe tra l’altro un sostrato e una ancor più grande giustificazione al permanere di una stretta alleanza militare della Nato di cui l’Europa non può fare a meno per la sua sicurezza. Cosa ne sarebbe stato dell’Ucraina senza gli aiuti militari degli Usa e del Regno Unito?

Allargando il ragionamento dall’economico e industriale ai temi strategici e della sicurezza il ruolo dell’Italia in uno schema del genere diventa importantissimo. Vediamo perché.

Nei prossimi anni la divisione con il Nord Africa si andrà attenuando e il baricentro europeo, oggi tutto concentrato sull’asse franco-tedesco, si abbasserà spostandosi verso il Mediterraneo.

In questo contesto la posizione geografica dell’Italia, che è sostanzialmente una gigantesca piattaforma logistica proiettata verso il Sud e l’Est; l’internazionalizzazione della sua economia e la sua capacità culturale, di empatia e di dialogo con i Paesi della sponda adriatica e del Nord Africa costituiscono un formidabile patrimonio non solo per noi ma per l’Occidente tutto.

L’Italia può e deve diventare il ‘traduttore’ dei valori civili, democratici, istituzionali dell’Occidente per quei Paesi che sono alla ricerca del benessere e di un riscatto economico ma anche di una via verso il progresso democratico. Grazie al solido ancoraggio atlantico mantenuto anche dal Governo Meloni e alla capacità di dialogo che ci contraddistingue possiamo svolgere questo ruolo molto meglio di altri Paesi europei il cui passato coloniale è molto più ingombrante del nostro.

Ci vuole un approccio al tempo stesso dialogante ma anche molto più sofisticato di quello usato dall’occidente nelle vicende recenti delle cosiddette ‘primavere arabe’ e della crisi libica; un approccio che la politica estera italiana e la sua diplomazia sono capaci di esprimere.

Il piano Mattei, a partire dalle iniziative in campo in Tunisia: la linea di connessione elettrica che Terna sta per realizzare; la disponibilità degli industriali energivori italiani a partecipare con il loro consorzio Interconnector al finanziamento della linea e alla realizzazione di impianti di energia rinnovabile e di produzione di idrogeno verde in quel Paese; l’iniziativa sull’acqua che grandi aziende italiane come Acea e Fisia potrebbero intraprendere; un primo accordo per la messa a disposizione dell’industria italiana di 4000 lavoratori tunisini opportunamente formati può diventare davvero un nuovo modello di intervento in Africa basato su una cooperazione concreta e fattiva.

Una delle grandi direttrici dello sviluppo mondiale nei prossimi 20 anni sarà in Africa.

L’Occidente non può lasciare il continente africano alla Cina e alla Russia, che vi opera con i mercenari della Wagner per proteggere clepto-dittature autoctone. L’Italia, se pensa in grande, può giocare una partita fondamentale. Abbiamo tutto per farlo, dobbiamo concentrarci su quella che gli americani chiamano execution.

Piano Mattei, in Cdm arriva il decreto sulla governance con cabina di regia e struttura di missione

di Dario Borriello

La partita entra nella fase caldissima. Domani, 3 novembre, alle ore 11, in Consiglio dei ministri arriverà il decreto legge che definisce la governance del Piano Mattei, il progetto su cui il governo, e la premier Giorgia Meloni, puntano per ampliare la cooperazione con l’Africa e fare dell’Italia l’hub energetico d’Europa, favorendo lo sviluppo delle popolazioni locali per frenare i flussi migratori dal sud del Mediterraneo. Gli obiettivi del Piano, infatti, sono quelli di costruire un “nuovo partenariato tra Italia e Stati del continente africano, volto a promuovere uno sviluppo comune, sostenibile e duraturo, nella dimensione politica, economica, sociale, culturale e di sicurezza“.

Sono diversi anche gli ambiti di intervento. Dalla cooperazione allo sviluppo alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, l’istruzione e formazione professionale, la ricerca e innovazione, la salute, l’agricoltura e sicurezza alimentare, l’approvvigionamento e sfruttamento sostenibile delle risorse naturali, incluse quelle idriche ed energetiche, ma anche la tutela dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici, l’ammodernamento e potenziamento delle infrastrutture, anche digitali, nonché la valorizzazione e sviluppo del partenariato energetico anche nell’ambito delle fonti rinnovabili, il sostegno all’imprenditoria, in particolare a quella giovanile e femminile. Il governo, però, allo stesso tempo intende promuovere l’occupazione sul territorio africano, anche per prevenire e contrastare l’immigrazione irregolare.

Il Piano Mattei prevede, poi, “strategie territoriali riferite a specifiche aree del continente africano, anche differenziate a seconda dei settori di azione“, e avrà una durata quadriennale, con possibilità di rinnovo e aggiornamento “anche prima della scadenza“.

Per portare avanti il progetto sarà istituita una cabina di regia, guidata dal presidente del Consiglio e composta dal ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, con funzioni di vicepresidente, e dagli altri ministri, oltre al presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, dal direttore dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, dai presidenti dell’Ice-Agenzia italiana per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, di Cassa depositi e prestiti e Sace. Inoltre, ne faranno parte i rappresentanti di imprese a partecipazione pubblica, del sistema dell’università e della ricerca, della società civile e del terzo settore, rappresentanti di enti pubblici o privati, esperti nelle materie trattate, individuati con un Dpcm che sarà varato entro 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto.

Per assicurare “supporto al presidente del Consiglio dei ministri per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e coordinamento dell’azione strategica del governo” sul Piano Mattei verrà istituita, sempre presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, anche una struttura di missione, alla quale è preposto un coordinatore, articolata in due uffici di livello dirigenziale generale, compreso quello del coordinatore, e in due uffici di livello dirigenziale non generale, il cui coordinatore sarà individuato tra gli appartenenti alla carriera diplomatica. Alla sdm è assegnato pure un contingente di esperti e avrà a disposizione risorse annue per 500mila euro.

Altro punto importante del decreto è la relazione annuale sullo stato di attuazione del Piano Mattei, che il governo dovrà trasmettere alle Camere (con l’ok della cabina di regia) entro il 30 giugno di ogni anno.

Ue, Meloni: Per Green Deal ridurre dipendenze strategiche o sarà insostenibile

Imporre a “tappe forzate” alcuni provvedimenti del Green Deal senza aver prima ridotto le dipendenze strategiche è un “errore” che rischia di “impattare pesantemente” sui cittadini, che potrebbero trovarsi a pagare un “prezzo insostenibile” alla doppia transizione.
Alla vigilia di un consiglio europeo che “non sarà semplice“, la premier Giorgia Meloni torna a insistere sull’importanza di non trascurare la sostenibilità economica e sociale della doppia transizione. E’ un punto su cui promette di insistere: “Il governo continuerà a sostenere la necessità di un approccio pragmatico e non ideologico alla transizione“, garantisce. Parla di valutazioni di impatto affidabili, criteri di gradualità e strumenti di incentivazione e di accompagnamento per le imprese e per i cittadini.

Il 26 e 27 ottobre in Europa terrà banco il conflitto in Medioriente e la difficile gestione delle tensioni tra Hamas e Israele. “Prima e più che una serie di provvedimenti concreti, mi aspetto una discussione franca sulla visione e sulla missione che vogliamo svolgere come europei in un mondo che ci sollecita a sfide sempre più stringenti e sempre più drammatiche“, tuona la presidente del Consiglio in aula al Sentato.

E non trascura il peso della transizione che significa, davanti a uno scacchiere geopolitico impazzito, sicurezza e indipendenza.  “Se ben impostata“, precisa, può essere uno “straordinario strumento per rafforzare la competitività europea“. Ma se portata avanti con un “approccio miope“, può portare a una “irreparabile desertificazione industriale del continente“.

L’Italia, in Europa, sosterrà tutto ciò che “parla di autonomia strategica, sostanzialmente di sovranità“, spiega Meloni nelle comunicazioni al Senato. Si riferisce al Chips Act sui semiconduttori, al critical raw materials Act, sulle materie prime critiche, e a Step, l’iniziativa per le tecnologie critiche. “In buona sostanza mi riferisco a tutto ciò che serve a sostenere la doppia transizione limitando e auspicabilmente diminuendo la nostra dipendenza dai Paesi terzi, in particolare modo dalla Cina e dai Paesi asiatici“, spiega.

Sulla via dell’indipendenza, Roma punta tutto sulla proposta del Piano Mattei per l’Africa, sostenendo la necessità di integrare il Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, definendo un “errore” rivedere il bilancio solo per aumentare gli aiuti all’Ucraina, perché “se non fossimo in grado di rispondere alla conseguenze che il conflitto in Ucraina genera per i nostri cittadini finiremmo inevitabilmente per indebolire anche il sostegno a quella causa“, mette in guardia. Non sarà una “cosa astratta“, tranquillizza l’Aula, assicurando che ci sarà un passaggio parlamentare per un “confronto a 360 gradi“. Il Piano, rivendica, “fa guardare l’Italia con molto interesse. Puntiamo a essere pionieri di un nuovo approccio con l’Africa. E’ un’iniziativa strategica italiana di politica estera, come non ne ho viste tante in passato“. La strategia si intreccia inevitabilmente con l’emergenza migranti. Per questo, in Consiglio, l’Italia si prepara a sostenere l’implementazione dell’accordo con la Tunisia, l’attuazione piena del Piano di azione in dieci punti della Commissione, il varo di una missione navale con le autorità del Nord Africa. Sull’ultimo punto però la premier italiana vuole essere chiara: “Per ottenere questa disponibilità è necessario un radicale cambio di rapporto con quelle autorità, basato sul rispetto e non su un approccio paternalistico e predatorio, come purtroppo spesso è accaduto in passato“.

Medioriente, rischio effetto domino su economia. Italia rinvia anche Med Dialogues

Il rischio di un effetto domino sull’economia è più che concreto. Non è difficile immaginare che sulla scrivania di Giorgia Meloni, al piano nobile di Palazzo Chigi, passino continui aggiornamenti sull’andamento delle borse, oltre a un flusso di informazioni costante sulle evoluzioni delle tensioni in Medio Oriente.

Il fronte è caldissimo non solo per la questione umanitaria, su cui anche la premier continua a battere sperando che si possa aprire uno spiraglio che consenta di far tacere le armi, ma anche per le conseguenze che il conflitto può, anzi sta già avendo sui mercati di gas, petrolio e molte altre voci che compongono il paniere del commercio internazionale. Il quantum dei vari rimbalzi sulla vita di famiglie, cittadini e imprese si comprenderà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, ma gli effetti si stanno già riverberando sull’attività di ogni governo. Compreso quello italiano, costretto a tirare il freno dei negoziati con i Paesi dell’Africa su quello che la premier ha chiamato Piano Mattei. Un progetto di cooperazione per fare dell’Italia l’hub energetico d’Europa, attraverso accordi per investire in diversi Paesi della sponda sud del Mediterraneo. La presentazione sarebbe dovuta avvenire il prossimo mese di novembre, al vertice Italia-Africa in programma a Roma, ma i venti di guerra del Medio Oriente hanno costretto a cancellare le date e spostare tutto al prossimo anno.

Adesso arriva anche un altro slittamento importante. A comunicarlo è la Farnesina: “A causa della congiuntura internazionale attuale, anche la IX edizione dei Med Dialogues, prevista a Roma dal 2 al 4 novembre prossimi, è rinviata al 2024, a data da destinarsi”. Un segnale che dà chiaramente la misura del livello di incertezza che offre lo scenario internazionale. Così come le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la cerimonia di consegna delle insegne di Cavaliere dell’Ordine ‘Al merito del lavoro’, sono un monito da tenere in grande considerazione. “La storia ci chiama a un’ora di responsabilità”, dice infatti il capo dello Stato, sottolineando che “l’aggressione russa in Ucraina, il barbaro attacco di Hamas contro Israele con la spirale di violenze che si è perseguita, la destabilizzazione che rischia di coinvolgere l’intero Medio Oriente, per restare solo nell’area del Mediterraneo allargato, reclamano un’Europa capace di esercitare la propria positiva influenza”, testimoniando “con convinzione i propri valori di pace, cooperazione, rispetto dei diritti delle persone e dei popoli”.

Tra gli effetti della guerra israelo-palestinese sull’Italia, c’è anche quello sui flussi di persone e merci sul territorio nazionale. Il governo, infatti, ha deciso di reintrodurre i controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, in base all’articolo 28 del Codice delle frontiere Schengen. La decisione è stata comunicata dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, alla vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas, al commissario agli Affari interni, Ylva Johansson, alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, al segretario generale del Consiglio dell’Ue, Thérèse Blanchet, e ai ministri dell’Interno degli Stati membri Ue e dei Paesi associati Schengen. Palazzo Chigi spiega che “l’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa ha aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione. Un quadro ulteriormente aggravato dalla costante pressione migratoria cui l’Italia è soggetta, via mare e via terra (140 mila arrivi sulle coste italiane, +85% rispetto al 2022)”. L’esempio portato è il Friuli Venezia Giulia: “Dall’inizio dell’anno sono state individuate 16mila persone entrate irregolarmente” e “nelle valutazioni nazionali le misure di polizia alla frontiera italo-slovena non risultano adeguate a garantire la sicurezza richiesta”. L’Italia comunque assicura che “le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci”.

Deforestazione

Ripristino natura in Africa? Mancano i semi per piantare nuovi alberi

Il vertice sul clima in Africa, che si è chiuso la scorsa settimana, ha messo sul piatto gli impegni per ripristinare 24 milioni di ettari di terreno degradato nel continente, attraverso la piantumazione di alberi, considerato obiettivo fondamentale a livello mondiale. C’è, però, un problema e non di poco conto: mancano i semi. Burkina Faso, Camerun, Ghana e Kenya hanno in programma di ripristinare un’enorme superficie entro il 2030, ma mentre diversi punti del piano sono pronti, resta da risolvere la questione più urgente, cioè come reperire e piantare abbastanza materiale da specie arboree autoctone come semi, piantine e talee.

Un nuovo studio ha rilevato che, nonostante la volontà politica a livello nazionale e l’importante sostegno internazionale per il ripristino della natura, i sistemi di semina – le relazioni politiche, ambientali, economiche e culturali a più livelli che fanno fiorire le specie arboree autoctone – non sono ancora del tutto pronti. In base ai risultati pubblicati su Diversity, anche molti dei settori pubblici e privati coinvolti nel ripristino non sono pienamente consapevoli delle risorse disponibili.

I quattro Paesi stanno facendo progressi sostanziali verso i loro obiettivi di riforestazione, ma rischiano di non raggiungere gli obiettivi prefissati”, spiega Chris Kettle, autore principale dello studio e ricercatore della CGIAR Initiative on Nature-Positive Solutions. “Tuttavia, questo problema può essere risolto. I nostri risultati hanno dimostrato che la domanda di materiale di specie arboree autoctone è forte, ma l’offerta è carente”, dice.

Non si tratta di una mancanza di foreste intatte da cui attingere materiale da piantare, perché è rimasta una diversità sufficiente per procurarsi in modo sostenibile almeno 100 specie arboree necessarie per un ripristino efficace. I problemi riguardano diversi aspetti. Intanto, le comunità che vivono più vicine a queste fonti di semi sono potenzialmente attori chiave, anche perché meglio di chiunque altro conoscono gli alberi autoctoni, ma il loro coinvolgimento non è strutturale, anche se potrebbe offrire posti di lavoro nelle aree rurali e “incentivi per la conservazione della biodiversità”.

Il secondo limite riguarda le ‘consuetudini’ in questo campo. Spesso i progetti di ripristino si basano su alberi non autoctoni, come il teak e il pino, coltivati per i loro prodotti legnosi o l’eucalipto, utile per la produzione di olio essenziale. In genere, però, questi alberi non favoriscono la flora e la fauna locali, e spesso comportano un’elevata richiesta di risorse idriche. Inoltre, non aiutano a ripristinare i paesaggi degradati e, anzi, rischiano di mettere in crisi gli ecosistemi. Cambiare queste pratiche, spiegano i ricercatori, è necessario per recuperare davvero gli spazi aperti.

“Lo studio evidenzia l’urgente necessità di investimenti nel settore delle sementi arboree, sia pubblici che privati, se si vuole che i sistemi di sementi soddisfino le richieste poste dagli impegni di ripristino”, chiarisce Fiona L. Giacomini, del Politecnico di Zurigo.

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I giganti mondiali del grano: Russia è primo esportatore al mondo

La Cina produce molto ma non esporta, la Russia domina il commercio e detta le regole: una panoramica del mercato del grano, cereale essenziale per il pane, che solo una decina di Paesi al mondo è in grado di esportare.
Semola, farina o pane: “Tutti mangiano il grano, ma non tutti sono in grado di produrlo“, sintetizzava l’economista francese Bruno Parmentier, autore di ‘Nourrir l’humanité’, nel luglio 2022.

Frutto dei climi temperati, nato in Mesopotamia, il grano tenero consumato oggi da miliardi di esseri umani può diventare un vettore di guerra, quando manca o la sua mobilità è ostacolata.
Ad agosto, l‘International Grain Council (IGC), che riunisce i principali Paesi importatori ed esportatori del mondo, ha previsto una produzione mondiale di grano di 784 milioni di tonnellate nel 2023-24, in leggero calo del 2,4% rispetto all’anno precedente.

Solo una decina di Paesi produce abbastanza da poter esportare: la Cina, di gran lunga il maggior produttore mondiale con 138 milioni di tonnellate nel 2022-23, importa ancora più di 10 milioni di tonnellate all’anno per nutrire i suoi 1,4 miliardi di abitanti, tenendo sempre a disposizione un’enorme scorta.
Dopo un raccolto record di 92-100 milioni di tonnellate nel 2022-23, a seconda delle fonti, la Russia è “sulla buona strada per avere il secondo miglior raccolto di sempre“, secondo Sébastien Poncelet, specialista del mercato dei cereali di Agritel (gruppo Argus media), che prevede circa 90 milioni di tonnellate.

In quanto primo esportatore mondiale, con 46 milioni di tonnellate nel 2022-23 secondo le stime dell’USDA, la Russia da sola potrebbe rappresentare un quarto del commercio mondiale di grano quest’anno. Dietro Mosca, i principali esportatori sono il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti, che dovrebbero scendere sotto i 20 milioni di tonnellate, il livello più basso degli ultimi 50 anni, e la Francia. L’Ucraina, che prima della guerra stava per diventare il terzo esportatore mondiale, dovrebbe esportare solo 10 milioni di tonnellate, secondo l’USDA.

Secondo Sébastien Abis, ricercatore associato presso l’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), dal 2018 la Turchia è il principale cliente di grano della Russia, seguita dall’Egitto: questi due Paesi rappresentano il 40% delle esportazioni russe. Seguono Iran e Siria. L’esperto sottolinea che il grano russo sta facendo progressi costanti sul mercato delle esportazioni e si sta ritagliando uno spazio tra i clienti tradizionali, dall’Europa occidentale al Maghreb e all’Africa subsahariana.

Secondo l’Istituto africano per gli studi sulla sicurezza (ISS), nel 2020 il commercio totale tra Russia e Africa ammontava a circa 14 miliardi di dollari, rispetto ai 295 miliardi di dollari con l’Unione europea, ai 254 miliardi di dollari con la Cina e ai 65 miliardi di dollari con gli Stati Uniti. Inizialmente incentrato su energia e armi, questo commercio si è esteso sempre più alle materie prime agricole, in particolare al grano.

Sebbene il grano non sia un alimento base nella maggior parte dell’Africa, rimane un’importante fonte di calorie in molti Paesi, in particolare nei centri urbani, dove la mancanza di pane può portare rapidamente a rivolte.

Secondo uno studio dell’IFPRI (International Food Policy Research Institute), tra il 2019 e il 2021, il grano destinato all’Africa subsahariana rappresenterà in media circa il 18% delle esportazioni annuali totali di questo cereale da parte della Russia. I volumi, pur non essendo enormi, non sono insignificanti: 3,9 milioni di tonnellate di grano russo nel 2022-23 (poco meno del 20% delle importazioni di grano della regione, ma in calo rispetto ai 4,5 milioni di tonnellate del 2021-22).
La Russia, che ha intensificato le promesse di forniture a basso costo all’Africa, “non ha compensato” il calo delle esportazioni ucraine, che si sono più che dimezzate a 701.000 tonnellate nel 2022-23, sottolinea lo studio. Il Corno d’Africa, la Liberia e il Madagascar sono tra i Paesi più dipendenti dalle importazioni di grano russo.

L’Africa punta alle rinnovabili: a Nairobi al via il Vertice africano sul clima

(Photocredit: AFP)

“Offrire prosperità e benessere alle popolazioni africane in crescita senza far precipitare il mondo in un disastro climatico più profondo non è una proposta astratta o un pio desiderio. È una possibilità reale, dimostrata dalla scienza”. Lo ha detto il presidente del Kenya, William Ruto nel suo discorso di apertura dello storico vertice africano sul clima, che ha preso il via oggi a Nairobi. “La questione principale – ha aggiunto – è l’opportunità senza precedenti che l’azione per il clima rappresenta per l’Africa. Per molto tempo abbiamo solo guardato a questo problema, è ora di fare il grande passo”.

Per Ruto è necessario “considerare la crescita verde non solo come un imperativo climatico, ma anche come una fonte di opportunità economiche del valore di miliardi di dollari che l’Africa e il mondo sono pronti a capitalizzare”. Secondo il presidente, l’Africa ha il potenziale per essere completamente autosufficiente dal punto di vista energetico grazie alle risorse rinnovabili. Il Kenya, ha sottolineato, “punta al 100% di energia rinnovabile entro il 2030“.

L’Africa ha un “potenziale unico” nella lotta al cambiamento climatico grazie alle possibilità legate all’energia rinnovabile, alla giovane forza lavoro e alle risorse naturali della regione, tra cui il 40% delle riserve mondiali di cobalto, manganese e platino, essenziali per le batterie e l’idrogeno. E’ questo il cuore della bozza della ‘Dichiarazione di Nairobi’, il documento che sarà discusso questa settimana al vertice. Questo primo vertice africano dà il via ai quattro mesi più intensi dell’anno per i negoziati internazionali sul clima, che culmineranno nella battaglia per la fine dei combustibili fossili alla COP28 di Dubai a dicembre. Per tre giorni, una ventina di leader e funzionari africani e non, tra cui il capo delle Nazioni Unite António Guterres, saranno accolti nella capitale keniota dal presidente William Ruto, che spera che questo vertice permetta al continente di trovare un linguaggio comune su sviluppo e clima per “proporre soluzioni africane“ alla prossima conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima.

Ma le sfide sono enormi per un continente in cui circa 500 milioni di persone non hanno accesso all’elettricità. E i leader africani sottolineano costantemente i notevoli ostacoli finanziari. L’Africa, che ospita il 60% del miglior potenziale mondiale di energia solare al mondo, ha una capacità installata simile a quella del Belgio, come hanno recentemente sottolineato il presidente Ruto e l’Agenzia internazionale dell’energia. La ragione principale è che solo il 3% degli investimenti globali nella transizione energetica raggiunge l’Africa.

Un risultato positivo a Nairobi su una visione condivisa per lo sviluppo verde dell’Africa darebbe impulso a diversi incontri internazionali chiave prima della COP28, a partire dal vertice del G20 in India e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre, seguiti dalla riunione annuale della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (FMI) a Marrakech in ottobre. Secondo Joseph Nganga, nominato da William Ruto a presiedere il vertice, la conferenza dovrebbe dimostrare che “l’Africa non è solo una vittima, ma un continente dinamico con soluzioni per il mondo”.

La sicurezza è stata rafforzata a Nairobi e le strade intorno alla sede del vertice sono state chiuse. Secondo il governo, 30.000 persone si sono registrate per l’evento.