Aumentano le infezioni di malaria, Hiv e tubercolosi: colpa del cambiamento climatico

Tra le innumerevoli conseguenze del cambiamento climatico c’è anche quella sulla salute delle persone. Secondo il Fondo mondiale della lotta contro l’Aids, la malaria e la tubercolosi il surriscaldamento globale contribuisce pesantemente alla diffusione delle malattie infettive. Il direttore esecutivo del Fondo, Peter Sands, ha annunciato che nel 2022 si sta assistendo a una “escalation” dell’impatto del cambiamento sulla salute e sulla vita umana. Ad esempio, se finora l’aumento della diffusione della malaria è stato finora guidato dalla crescente frequenza e devastazione delle tempeste tropicali, “con le inondazioni in Pakistan, ha assunto una dimensione completamente nuova”, ha spiegato.

Il meccanismo attraverso il quale il cambiamento climatico “alla fine ucciderà le persone” è il suo impatto sulle malattie infettive, ha ricordato Sands, osservando che alcune parti dell’Africa finora “immuni” dalla malaria, stanno correndo un grande rischio, poiché le temperature aumentano e consentono alle zanzare di moltiplicarsi. La popolazione, però, non è affatto immune, con tutte le conseguenze del caso, compreso un aumento del tasso di mortalità.

Rischi anche sul fronte della tubercolosi, che si diffonde facilmente “nei luoghi in cui molte persone si concentrano in uno spazio ristretto, con un’alimentazione inadeguata” e condizioni igieniche precarie, ricorda Sands. E le migrazioni dovute al cambiamento climatico non faranno che aumentare le probabilità di contrarre questa malattia. La pandemia di Covid19, inoltre, non ci avrebbe insegnato molto. Se dovesse ricapitare una diffusione così rapida di una malattia, ha detto l’esperto, “non saremmo comunque preparati”.

Entro la fine del 2022, il Fondo investirà la cifra record di circa 5,4 miliardi di dollari per la mitigazione del rischio. I maggiori donatori dell’organizzazione con sede a Ginevra sono i governi del G7, guidati da Stati Uniti e Francia. “Il 2022 è stato un anno brutale”, ha insistito Sands, “nelle comunità più povere del mondo, l’Hiv, la tubercolosi e la malaria stanno uccidendo molte più persone del Covid-19”. Basti pensare che circa il 95% dei decessi per malaria in tutto il mondo si concentra in 31 Paesi. Sei paesi africani, quali Nigeria (23%), Repubblica Democratica del Congo (11%), Repubblica Unita di Tanzania (5%), Mozambico (4%), Niger (4%) e Burkina Faso (4%), riportano da soli oltre il 50% di tutti i decessi per malaria registrati nel 2019.

 

(Photo credits: AFP)

Su Twitter aumentano i post degli scettici sul clima: 4 volte più veloci di quelli per la salvaguardia

Twitter è un social per gli scettici del clima. O, quantomeno, è quanto emerge dallo studio pubblicato su Nature Climate Change dall’Alan Turing Institute e redatto, fra gli altri, da esperti delle università italiane Ca’ Foscari di Venezia, La Sapienza di Roma e Università degli studi di Firenze. Nell’articolo si legge infatti che lo scetticismo sul clima sta crescendo quattro volte più velocemente dei contenuti a favore del clima su Twitter.

In un’analisi dei tweet dal 2014 al 2021 durante le conferenze annuali della Cop, i ricercatori hanno scoperto che i tweet degli scettici sui cambiamenti climatici sono stati condivisi 16 volte di più durante la Cop26 rispetto alla Cop21. Gli autori dello studio hanno scoperto che questo aumento dei tweet scettici sul clima online è stato alimentato dalla crescente “attività di destra” che si oppone all’azione per il clima. Lo studio ha mostrato che nel complesso, la polarizzazione su Twitter in relazione al clima è stata bassa durante la Cop21 fino alla Cop26 e ha identificato il 2019 come anno chiave in cui è cresciuto lo scetticismo climatico su Twitter. I ricercatori affermano che una possibile ragione dell’aumento negli ultimi anni potrebbe essere dovuta a un contraccolpo contro i gruppi di attivisti per il clima, come Extinction Rebellion e Just Stop Oil, che agiscono per attirare l’attenzione sulla crisi.

Agire in modo rapido ed efficace sulla crisi climatica si basa in gran parte su un ampio consenso e collaborazione internazionale. La crescita della polarizzazione online potrebbe rischiare una situazione di stallo politico se alimenta l’antagonismo nei confronti dell’azione per il clima. I responsabili politici dovrebbero considerare cosa sta causando esattamente questo aumento dello scetticismo online e trovare modi per affrontarlo”, spiega il professor Mark Girolami, chief scientist presso The Alan Turing Institute.

Gli autori affermano che i gruppi che si oppongono all’azione per il clima screditano i vertici organizzati dall’Onu accusandoli di ipocrisia. Ma hanno anche incredibilmente scoperto che gli scettici sul clima e i gruppi pro-clima condividono l’esposizione delle critiche sull’ipocrisia percepita su Twitter, in particolare sull’uso di jet privati. E ricerche precedenti hanno dimostrato che questo tipo di contenuto ha maggiori probabilità di diventare virale online.

Il significativo aumento dello scetticismo sul clima online è davvero preoccupante – commenta Andrea Baronchelli, autore principale del testo –. I social media possono fungere da camera dell’eco in cui le convinzioni esistenti delle persone vengono rafforzate. È davvero importante che le autorità di regolamentazione continuino a trovare modi per garantire che i contenuti condivisi online siano accurati”.

Clima, in Svezia +1,9° dal 1800 e -2 settimane di neve all’anno

La temperatura media della Svezia è aumentata di quasi due gradi Celsius dalla fine del XIX secolo e la copertura nevosa è diminuita di due settimane, mentre le precipitazioni sono aumentate.

La foto la scatta un nuovo rapporto sui cambiamenti climatici dell’Istituto meteorologico e idrologico svedese (SMHI). Secondo il dossier, tra il 1991 e il 2020 la temperatura media del Paese è stata superiore di 1,9 gradi rispetto al periodo compreso tra il 1861 e il 1890.

Lo SMHI ha osservato che la variazione è circa il doppio dei quella delle temperature medie globali nello stesso periodo. L’agenzia meteorologica ha dichiarato di non aver mai effettuato prima un’analisi così estesa, prendendo in considerazione così tanti indicatori diversi del cambiamento climatico. I risultati “mostrano chiaramente che il clima della Svezia è cambiato“, osserva Semjon Schimanke, climatologo e responsabile del progetto presso lo SMHI, in un comunicato.

Il clima più caldo con maggiori precipitazioni in Svezia è legato al riscaldamento globale osservato che deriva dall’influenza umana“, ha aggiunto Erik Kjellstrom, professore di climatologia allo SMHI. Non tutte le serie di osservazioni coprono lo stesso periodo, ha precisato l’agenzia meteorologica, notando che le precipitazioni sono aumentate dal 1930, passando da circa 600 millimetri a quasi 700 millimetri dal 2000. Al contrario, la copertura nevosa invernale nel Paese è diminuita in media di 16 giorni tra il 1991 e il 2020 rispetto al periodo 1961-1990.

Lo SMHI sottolinea che queste osservazioni sono medie annuali e che il quadro diventa più complesso se si considerano regioni o stagioni specifiche. “Ad esempio, l’aumento delle precipitazioni è legato principalmente all’aumento delle precipitazioni in autunno e in inverno, mentre non ci sono tendenze evidenti in primavera e in estate“, ha detto lo SMHI, aggiungendo che “i cambiamenti negli estremi sono generalmente più difficili da identificare“.

Il vertice delle Nazioni Unite sul clima (COP27) si è concluso in Egitto questo fine settimana. Se da un lato ha prodotto un accordo storico sulle misure di finanziamento per aiutare i Paesi vulnerabili a far fronte agli effetti del cambiamento climatico, dall’altro è stato criticato per la sua mancanza di ambizione nella riduzione delle emissioni.

Fare in modo che la Cop28 non diventi un’altra conferenza inutile

Domanda pleonastica: com’è andata a Sharm eh Sheikh? Bene non benissimo, per usare un giro di parole. Del resto, fin dall’inizio la Cop27 si è portata appresso un carico di scetticismo, per non dire di negatività, che lasciava intravvedere poche speranze per il raggiungimento di intese di largo respiro. Non a caso, a parte il documento sul ‘Loss and damage’, poco si è cavato da due settimane di incontri e scontri, là dove le grandi potenze – che sono anche grandi inquinatrici – hanno continuato a difendere i propri interessi e là dove i più deboli hanno continuato a recitare la parte dei più deboli. Come dicevamo, nulla che non fosse stato messo in preventivo, anche perché nazioni super inquinate e super inquinanti (vedi alla voce India) non si sono nemmeno presentate alla convention egiziana che, in assoluto, si è rivelato un palco sfiatato per gli annunci roboanti. Forse solo Lula, che da gennaio tornerà ad occupare la carica di presidente della repubblica federativa del Brasile, ha dato un po’ di slancio alle illusioni con il suo piano per arrivare alla deforestazione zero. Ma tra preservare l’Amazzonia nelle chiacchiere e poi farlo davvero c’è ancora un bel pezzo di strada da fare. L’altra domanda, meno pleonastica, rischia di suonare un po’ sorda: ma ne vale davvero la pena organizzare eventi come questi? Cioè, dopo il fiasco della Cop26 e quello della Cop27, ha ancora un senso mobilitare mezzo mondo per ritrovarsi con briciole tra le mani? A breve comincerà la Cop15, in Canada, sulla biodiversità: lì forse qualcosa di più si potrà raggiungere, ma la sensazione che uno sforzo enorme partorisca qualcosa di impercettibile sta prendendo il sopravvento. Forse andrebbe cambiata la formula, l’impostazione della Cop28. Ma come? Dando priorità alla scienza e allo studio degli scienziati non per due settimane – ovvero la durata dell’evento organizzato dalle nazioni unite- ma durante un anno, coinvolgendo non solo i leader mondiali ma anche i grandi gruppi che gestiscono la finanza e i grandi gruppi industriali. Insomma, non si tratta di allargare il campo, che è già largo a sufficienza, ma di selezionare meglio gli attori protagonisti con il supporto della scienza. E, soprattutto, senza generare illusioni.

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La Cop27 chiude ai supplementari: sì a fondo ‘loss & demage’, ma delusione sulle emissioni

Dopo negoziati difficili che si son protratti oltre il previsto, la Cop27 si è conclusa domenica con un testo molto contestato sugli aiuti ai Paesi poveri colpiti dal cambiamento climatico, ma anche con il fallimento nel fissare nuove ambizioni per la riduzione dei gas serra. La conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che si è aperta il 6 novembre a Sharm el-Sheikh, in Egitto, è diventata una delle Cop più lunghe della storia quando si è conclusa all’alba di domenica. “Non è stato facile“, ma “abbiamo finalmente compiuto la nostra missione“, ha dichiarato il suo presidente, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry. E’ stata adottata una dichiarazione finale, frutto di molti compromessi, che chiede una “rapida” riduzione delle emissioni, ma senza nuove ambizioni rispetto alla Cop di Glasgow del 2021. “Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questa è una domanda a cui questa Cop non ha risposto“, ha lamentato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. L’Unione Europea si è detta “delusa“, mentre il primo ministro britannico Rishi Sunak ha chiesto di fare “di più“.

Tuttavia, questa edizione è stata segnata dall’adozione di una risoluzione definita storica dai suoi promotori, sul risarcimento dei danni causati dal cambiamento climatico ai Paesi più poveri. Questo ‘loss and damage’ ha quasi fatto deragliare la conferenza prima che venisse raggiunto un compromesso all’ultimo minuto. Sebbene il testo lasci molte domande senza risposta, è d’accordo in linea di principio sulla creazione di un fondo specifico. “Le perdite e i danni nei Paesi vulnerabili non possono più essere ignorati, anche se alcuni Paesi sviluppati hanno deciso di ignorare le nostre sofferenze“, ha dichiarato Vanessa Nakate, attivista giovanile ugandese. Il Dipartimento per l’Ambiente del Sudafrica ha accolto con favore i “progressi“, ma ha chiesto “azioni urgenti” per “garantire il rispetto degli obblighi dei Paesi sviluppati“. Il presidente francese Emmanuel Macron ha proposto un vertice a Parigi prima della Cop28 a Dubai alla fine del 2023, per “un nuovo patto finanziario” con i Paesi vulnerabili.

Anche il testo sulla riduzione delle emissioni è stato fortemente contestato, con molti Paesi che hanno denunciato un passo indietro rispetto alle ambizioni definite nelle conferenze precedenti. Questo include l’obiettivo più ambizioso dell’accordo di Parigi: limitare il riscaldamento a 1,5°C, che è stato comunque riaffermato nella decisione finale. Gli attuali impegni dei Paesi firmatari non consentono di raggiungere questo obiettivo, e nemmeno quello di contenere l’aumento della temperatura entro i 2°C rispetto all’era preindustriale, quando l’uomo ha iniziato a utilizzare i combustibili fossili responsabili del riscaldamento globale su larga scala. Questi impegni, se pienamente rispettati, porterebbero il mondo, nella migliore delle ipotesi, su una traiettoria di +2,4°C nel 2100 e, al ritmo attuale delle emissioni, su una catastrofica di +2,8°C. Tuttavia, con quasi +1,2°C oggi, gli impatti drammatici si stanno già moltiplicando: il 2022 ha visto una serie di siccità devastanti, mega-incendi e inondazioni, che hanno colpito i raccolti e le infrastrutture. Anche i costi sono elevati: la Banca Mondiale stima in 30 miliardi di dollari il costo delle inondazioni che hanno ricoperto d’acqua per settimane un terzo del Pakistan e lasciato senza casa milioni di persone. I Paesi poveri, spesso tra i più esposti ma in genere poco responsabili del riscaldamento globale, chiedono da anni finanziamenti per le perdite e i danni.

Accusato da alcuni di mancanza di trasparenza nei negoziati, l’egiziano Sameh Shoukry ha affermato che non c’erano “cattive intenzioni“. Tuttavia, la battaglia non si concluderà con l’adozione della risoluzione di Sharm el-Sheikh, che rimane volutamente vaga su alcuni punti controversi. I dettagli operativi devono essere definiti per essere adottati alla Cop28, promettendo nuovi scontri. Ciò è particolarmente vero per la questione dei contributori, con i Paesi sviluppati, guidati dagli Stati Uniti, che insistono per includere la Cina. L’inviato degli Stati Uniti per il clima John Kerry ha dichiarato di essere al lavoro per aumentare il contributo degli Stati Uniti a 11 miliardi di dollari, il che renderebbe Washington “il più grande contributore all’economia del clima“. Un portavoce del Dipartimento di Stato ha tuttavia sottolineato che l’accordo non menziona alcun punto vincolante.

Un’altra questione che ha scosso la Cop è stata quella delle ambizioni di riduzione delle emissioni. Molti Paesi hanno ritenuto che i testi proposti dalla presidenza egiziana fossero un passo indietro rispetto agli impegni assunti a Glasgow di aumentare regolarmente il livello delle emissioni. Per non parlare della questione della riduzione dell’uso dei combustibili fossili, che sono la causa del riscaldamento globale, ma sono appena menzionati nei testi sul clima. Il britannico Alok Sharma, presidente della Cop26, ha affermato che un punto sui combustibili fossili è stato “annacquato all’ultimo momento“.

Maltempo

Clima, 2022 da record in Italia per fenomeni estremi: +27%

La crisi climatica accelera la sua corsa insieme agli eventi estremi, che stanno avendo impatti sempre maggiori sui Paesi di tutto il mondo, a partire dall’Italia. Nei primi dieci mesi del 2022, seppur con dati parziali, sono stati registrati nella Penisola 254 fenomeni meteorologici estremi, +27% di quelli dello scorso anno. Preoccupa anche il bilancio degli ultimi 13 anni: dal 2010 al 31 ottobre 2022 si sono verificati in Italia 1.503 eventi estremi con 780 comuni colpiti e 279 vittime. Tra le regioni più colpite: Sicilia (175 eventi estremi), Lombardia (166), Lazio (136), Puglia (112), Emilia-Romagna (111), Toscana (107) e Veneto (101). È quanto emerge in sintesi dalla fotografia scattata dal nuovo report ‘Il clima è già cambiato’ dell’Osservatorio CittàClima 2022 realizzato da Legambiente, con il contributo del Gruppo Unipol.

Entrando nello specifico, su 1.503 fenomeni estremi ben 529 sono stati casi di allagamenti da piogge intense come evento principale, e che diventano 768 se si considerano gli effetti collaterali di altri eventi estremi, quali grandinate ed esondazioni; 531 i casi di stop alle infrastrutture con 89 giorni di blocco di metropolitane e treni urbani, 387 eventi con danni causati da trombe d’aria. Ad andare in sofferenza sono soprattutto le grandi città con diverse conferme tra quelle che sono le aree urbane del Paese più colpite in questi 13 anni: da Roma – dove si sono verificati 66 eventi, 6 solo nell’ultimo anno, di cui ben oltre la metà, 39, hanno riguardato allagamenti a seguito di piogge intense; passando per Bari con 42 eventi, principalmente allagamenti da piogge intense (20) e danni da trombe d’aria (17). Agrigento, con 32 casi di cui 15 allagamenti e poi Milano, con 30 eventi totali, dove sono state almeno 20 le esondazioni dei fiumi Seveso e Lambro in questi anni.

Una fotografia nel complesso preoccupante quella scattata da Legambiente, in quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo giorno della Cop27, per lanciare un doppio appello: se da una parte al livello internazionale è fondamentale che si arrivi ad un accordo ambizioso e giusto in grado di mantenere vivo l’obiettivo di 1.5°C ed aiutare i Paesi più poveri e vulnerabili a fronteggiare l’emergenza climatica, dall’altra parte è altrettanto imprescindibile che l’Italia faccia la sua parte. Al Governo Meloni e al ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin l’associazione chiede, in primis, che “venga aggiornato e approvato entro la fine dell’anno il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), rimasto in bozza dal 2018, quando erano presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e ministro Gian Luca Galletti”.  Ad oggi sono saliti a 24 i Paesi europei che hanno adottato un piano nazionale o settoriale di adattamento al clima. Grande assente l’Italia che per altro in questi ultimi 9 anni – stando ai dati disponibili da maggio 2013 a maggio 2022 e rielaborati da Legambiente – ha speso 13,3 miliardi di euro in fondi assegnati per le emergenze meteoclimatiche (tra gli importi segnalati dalle regioni per lo stato di emergenza e la ricognizione dei fabbisogni determinata dal commissario delegato). “Si tratta di una media – sottolinea l’associazione – di 1,48 miliardi/anno per la gestione delle emergenze, in un rapporto di quasi 1 a 4 tra spese per la prevenzione e quelle per riparare i danni”.

Nella lotta alla crisi climatica – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – da troppi anni l’Italia sta dimostrando di essere in ritardo. Continua a rincorrere le emergenze senza una strategia chiara di prevenzione, che permetterebbe di risparmiare il 75% delle risorse economiche spese per i danni provocati da eventi estremi, alluvioni, piogge e frane, e non approva il Piano nazionale di adattamento al clima, dal 2018 fermo in un cassetto del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. È fondamentale approvare entro fine anno il Piano, ma anche definire un programma strutturale di finanziamento per le aree urbane più a rischio, rafforzare il ruolo delle autorità di distretto e dei comuni contro il rischio idrogeologico e la siccità, approvare la legge sul consumo di suolo, e cambiare le regole edilizie per salvare le persone dagli impatti climatici e promuovere campagne di informazione di convivenza con il rischio per evitare comportamenti che mettono a repentaglio la vita delle persone”.

La Cop27 si allunga fino a oggi: negoziati ancora indietro

Fumata nera, per il momento, alla Cop27. Il documento finale, previsto per venerdì sera, ancora non è pronto. Ecco perché il vertice si protrarrà anche nella giornata di oggi. Sperando che sia sufficiente e che non si debba continuare a lavorare al testo anche domenica. I negoziati dovranno superare lo stallo sul finanziamento da parte dei Paesi ricchi dei danni climatici già subiti dai Paesi poveri e sulla riaffermazione delle ambizioni climatiche. “Sono ancora preoccupato per il numero di questioni irrisolte, tra cui i finanziamenti, la mitigazione, le perdite e i danni“, ha dichiarato venerdì ai delegati in plenaria il presidente egiziano della Conferenza sul clima, Sameh Choukri. Il ministro degli Esteri egiziano ha quindi annunciato la proroga della Cop, invitando le parti a “cambiare marcia” e a “lavorare insieme per risolvere le questioni ancora aperte il più rapidamente possibile“.

I lavori della conferenza, che si è aperta il 6 novembre a Sharm el-Sheikh, si sono arenati per diversi giorni sulle stesse questioni e i delegati hanno criticato la conduzione dei negoziati da parte della presidenza. Ma almeno su una delle questioni, quella del ‘Loss and damage’, ossia ‘perdite e danni’, sembra emergere una via d’uscita.

Il 2022 ha visto un numero crescente di disastri legati al cambiamento climatico: inondazioni, siccità dei raccolti o mega-incendi. Per anni i Paesi ricchi sono stati molto riluttanti ad accettare finanziamenti specifici, ma giovedì l’Unione Europea ha fatto un’offerta, accettando in linea di principio un “fondo di risposta alle perdite e ai danni“, con alcune condizioni, tra cui quella di riservarlo alle “persone più vulnerabili” e di avere una “base più ampia di contributori“. In altre parole, i Paesi emergenti dotati di ingenti risorse, come la Cina. Allo stesso tempo, gli europei, sostenuti da altri gruppi, chiedono la riaffermazione di forti obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra per limitare il riscaldamento globale. Un’opzione simile è contenuta in una bozza di risoluzione diffusa nella tarda serata di giovedì ed è stata ritenuta accettabile venerdì “con alcune modifiche” dal ministro pakistano per i cambiamenti climatici, Sherry Rehman, attuale presidente del potente gruppo negoziale G77+Cina. Resta da vedere quale sarà la posizione degli Stati Uniti e Cina, le due potenze economiche mondiali e i due più grandi inquinatori, che finora si sono opposti all’idea di un fondo specifico.

Otto chili di farina contro opera di Warhol a Milano: nuova azione di Ultima Generazione

Otto chili di farina sulla BMW dipinta da Andy Warhol e esposta a Milano alla Fabbrica del Vapore nell’ambito della mostra ‘Andy Warhol: La Pubblicità Della Forma’. E’ l’ultima azione messa in atto questa mattina alle 11.15 dagli attivisti per il clima di Ultima Generazione contro le opere d’arte. Su Instagram si legge che i quattro attivisti coinvolti “denunciano un governo criminale che investe sulla morte dei cittadini e delle cittadine”. Le attiviste, dopo l’escalation dell’azione, si sono sedute a terra e hanno spiegato agli spettatori della mostra le motivazioni del loro gesto. Infine sono state portate in questura dalle forze dell’ordine arrivate sul posto.

Nelle ultime settimane, gli attivisti ambientali di tutto il mondo hanno preso di mira le opere d’arte per sensibilizzare l’opinione pubblica sul riscaldamento globale. Fra le azioni più eclatanti la zuppa di pomodoro gettata sui ‘Girasoli’ di Van Gogh a Londra e il purè di patate lanciata su un capolavoro di Claude Monet a Potsdam, vicino a Berlino.

Photo credit: Ultima Generazione

Ultimo giorno per la Cop27, ma manca ancora il ‘Loss and damage’

La Cop27 si avvia verso la sua conclusione, ma nell’ultima bozza del documento finale diffusa nella notte manca ancora il punto che, in avvio del vertice, era considerato fra i più importanti in agenda. O meglio, rispetto a giovedì qualcosa si è mosso, ma pare ancora insufficiente. Nel documento è stato inserito un paragrafo aggiuntivo che riguarda i cosiddetti ‘Loss and damage’, cioè ‘Perdite e danni’ causati dal cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Nella bozza si “esprime profonda preoccupazione per i notevoli costi finanziari associati a perdite e danni per i Paesi in via di sviluppo, che comportano un aumento dell’onere del debito e pregiudicano la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile del 2030“. Il testo, però, lascia in bianco il punto relativo alla creazione di un di un fondo ‘loss and damage’ per sostenere i Paesi più fragili. Rientrano, invece, nel documento, la necessità di esercitare tutti gli sforzi per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2°C, investire in rinnovabili, velocizzare gli impegni di decarbonizzazione. Ma soprattutto c’è “l’urgenza di affrontare le perdite e di danni del riscaldamento globale“.

A sostenere la creazione del fondo ‘loss and damage’, a poche ore dalla fine del vertice Onu sul clima a Sharm el-Sheikh, è in prima linea l’Unione europea, che ha presentato una proposta per istituirlo. Il fondo dovrebbe essere rivolto ai Paesi più vulnerabili e dovrebbe riflettere le realtà finanziarie del 2022. Ad annunciarlo il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans parlando con la stampa. Il fondo, secondo Timmermans, dovrebbe essere finanziato da “un’ampia base di donatori” e dovrebbe “andare di pari passo con una più alta ambizione sulla riduzione delle emissioni“.

Da Mohenjo Daro a Olimpia: cambiamenti climatici minacciano patrimoni Unesco

Di una delle prime città della storia, rischiava di non restare nulla dopo le tragiche alluvioni di questa estate in Pakistan. Mohenjo Daro è sopravvissuta, ma il sito incarna la minaccia che il cambiamento climatico rappresenta per il patrimonio mondiale dell’umanità.
Apparsa intorno al 3000 a.C., la metropoli costruita dal popolo dell’Indo, una misteriosa civiltà fiorita nell’Età del Bronzo nel bacino dell’omonimo fiume, deve probabilmente la sua salvezza al genio dei suoi ideatori. Infatti, questo vastissimo sito in mattoni con strade geometriche, costruito in alto rispetto al corso d’acqua, era dotato di antiche condutture e di un sistema fognario sorprendentemente funzionale, che ha permesso di evacuare parte delle acque dell’alluvione che ha colpito il Pakistan.

Mentre i monsoni eccezionali tra giugno e settembre, corredati da precipitazioni da sette a otto volte superiori al normale in agosto, hanno trasformato il sud del paese in un gigantesco lago, a Mohenjo Daro è stato registrato un “deflusso estremamente importante”, spiega Thierry Joffroy, specialista in terre architettura. I “20-40 cm” d’acqua che “hanno riempito stanze” e causato “molti crolli”, secondo l’esperto che ha visitato il sito in ottobre per conto dell’Unesco, sono però niente rispetto a quanto vissuto nel resto del Paese, a volte letteralmente inghiottito dal fango. Quasi 1.600 pakistani sono morti, altri 33 milioni sono stati colpiti dalle piogge torrenziali “probabilmente” aggravate dal cambiamento climatico, secondo il World weather attribution, una rete di ricercatori. Ma “la situazione non è stata catastrofica” a Mohenjo Daro, che “potrebbe essere restaurata”, stima Joffroy.

Il sito pakistano è comunque “vittima” del clima nonostante la “fortuna”, concorda Lazare Eloundou Assamo, direttore del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Mohenjo Daro doveva infatti celebrare il centenario della sua scoperta, nel 1922, quest’anno. Ma la metropoli rischia di “essere scomparsa con tutte le tracce archeologiche” che contiene, sospira. Dei 1.154 siti del Patrimonio Mondiale, di cui 897 sono beni culturali, 218 sono aree naturali e 39 un misto delle due, molti sono minacciati dai cambiamenti climatici: inondazioni, uragani, cicloni e tifoni ma anche gli incendi “molto più frequenti” hanno un “impatto enorme” sui siti storici.

I mega-incendi boschivi, che stanno aumentando sulla costa del Mediterraneo, sono arrivati molto vicini a Olimpia, in Grecia, nell’estate del 2021. In Perù, quest’anno si sono verificate frane ai piedi di Machu Picchu.
Anche nelle sue variazioni meno spettacolari, il clima sconvolge l’equilibrio dei luoghi. In Australia, la Grande Barriera Corallina sta vivendo episodi di sbiancamento dovuti all’innalzamento della temperatura dell’acqua. In Ghana, l’erosione ha spazzato via parte del forte di Prinzenstein, utilizzato per la tratta degli schiavi.