Appello a Europa di Confindustria-Medef-Bdi: “Siamo troppo indietro, rischiamo declino”

Italia, Francia e Germania insieme, per far correre l’Europa più forte. Le tre associazioni degli industriali (Confindustria, Medef e Bdi) si danno appuntamento a Roma per il settimo Forum Trilaterale e firmano una dichiarazione congiunta che è un appello urgente a Bruxelles: “Si rischia il declino industriale”, denunciano.

Con i presidenti Emanuele Orsini, Peter Leibinger e Patrick Martin, nella Capitale, tra le corsie di Santo Spirito in Sassia, arriva anche Stéphane Séjourné. Il vicepresidente esecutivo della Commissione europea promette, presto, decisioni strategiche, su auto, chimica e acciaio: “Dovremo prenderle nelle prossime settimane”, afferma. Dall’inizio del mandato, la Commissione europea ha cambiato radicalmente il suo approccio, ricorda: “Stiamo integrando l’industria ovunque, ci siamo allontanati da questo approccio a compartimenti stagni, stiamo organizzando un dialogo continuo”. La politica di decarbonizzazione, ma anche l’occupazione, la concorrenza e tutte le politiche commerciali estere, rivendica il vicepresidente, “vengono ora esaminate alla luce delle sfide che il settore industriale si trova ad affrontare”.

“Oggi l’Europa si trova a un bivio. Il mondo sta cambiando e l’Europa non può restare a guardare”, si legge nel testo sottoscritto dalle organizzazioni. “Ora più che mai, deve affermare la propria indipendenza, proteggere la sicurezza comune e assumere la leadership nello sviluppo delle tecnologie essenziali per i propri interessi strategici”. Gli imprenditori delle prime tre economie dell’Unione europea ritengono sia giunto il momento di riconoscere che l’Europa sta “seriamente rimanendo indietro e che il rischio di declino e deindustrializzazione è oggi più alto che mai”. Gli industriali si richiamano ai Rapporti Draghi e Letta per chiedere che si compia un passo avanti decisivo, per rafforzare la resilienza e l’autonomia strategica del continente, colmare il divario di competitività nelle principali catene del valore e promuovere la ricerca e l’innovazione. Per invertire la rotta, le tre organizzazioni individuano sei priorità: semplificare le regole e completare il mercato unico; fare della decarbonizzazione un motore di competitività; rafforzare la sovranità tecnologica; costruire un bilancio orientato alla crescita; pensare a una strategia per le scienze della vita; investire nell’autonomia strategica con la difesa e lo spazio. Nel documento conclusivo, le tre organizzazioni avvertono che, senza una politica industriale forte, l’Europa rischia di perdere influenza, sicurezza e benessere. In collaborazione con BusinessEurope, si impegnano a promuovere una visione di Europa industrialmente solida, digitalmente autonoma e sostenibile. “La competitività deve diventare la bussola di ogni politica, regolamentazione e investimento europeo”, è l’appello finale degli imprenditori francesi, tedeschi e italiani.

Quelli appena trascorsi, sono stati tre giorni di incontri “molto importanti”, sottolinea Orsini parlando con i cronisti. Il presidente degli industriali italiani lamenta una mancanza di proattività nelle istituzioni comunitarie: “Purtroppo un’Europa che non fa è un’Europa che non serve e lo dico da europeista convinto”, confessa. Il vero problema, per Orsini, è che i tempi dell’industria non sono sincroni con i tempi dell’Europa e il rischio di una deindustrializzazione europea a favore della competitività di altri continenti come la Cina e gli Stati Uniti è “molto forte”. Quindi, insiste: “Abbiamo bisogno di azioni vere, forti e subito”.

Per l’industria francese la priorità è “lavorare insieme”, fa eco Fabrice Le Saché, vicepresidente di Medef. Ricorda che Parigi, Roma e Berlino insieme valgono il 60% del Pil europeo e rivendica la possibilità di ‘guidare’ il vecchio Continente a tre sui dossier più caldi che coinvolgono l’industria. “Siamo 27 Paesi, se dobbiamo sempre avere discussioni molto lunghe non si va avanti”, ribadisce, precisando che “la cosa più importante è che Confindustria, Medef e BDI oggi abbiano deciso lavorare di più insieme a Bruxelles e Strasburgo, perché se vanno d’accordo l’Europa avanza molto più velocemente”. RIB

Confindustria: Moda sotto attacco, serve visione strategica

Il fashion made in Italy è “sotto attacco”. La denuncia arriva da Luca Sburlati, presidente di Confindustria Moda che di fronte a un contesto globale sempre più complesso chiede risposte lungimiranti: “Serve una visione strategica di lungo periodo, anche fondata su pilastri Esg solidi e soprattutto condivisi”, commenta dalla presentazione della quarta edizione del Venice Sustainable Fashion Forum, che si terrà il 23 e 24 ottobre nel capoluogo veneto. La kermesse, per l’industriale, deve diventare il luogo in cui le imprese mettono a fattor comune idee e istanze, per arrivare a “regole e pratiche condivise su tre fronti decisivi”: la Responsabilità Estesa del Produttore, un quadro normativo nazionale che garantisca trasparenza e legalità nei contratti di filiera e un sistema di auditing armonizzato, capace di creare un linguaggio condiviso lungo tutte le supply chain. Insomma, la richiesta è quella di avere un luogo in cui si definiscano le politiche per l’evoluzione sostenibile del settore moda, con impegni concreti a favore delle imprese in una prospettiva europea e internazionale.

“È nostro dovere preservare e rafforzare quel ‘bello e ben fatto’ che rappresenta l’essenza e l’unicità del nostro Paese anche di fronte ad attacchi strumentali e non accettabili mentre ogni giorno mezzo milione di persone in Italia lavorano a creare prodotti unici”, denuncia Sburlati. L’obiettivo del forum è appunto quello di raccogliere le idee e le istanze di brand e imprese, per tradurle in norme e processi condivisi: il titolo – esplicativo – dell’edizione 2025 è appunto ‘Harmonizing Values’. Perché le complessità di scenario hanno trasformato la percezione del comparto moda sempre più intrecciato al concetto di responsabilità e attento alla dimensione sociale del lavoro. Si punta quindi a individuare strumenti per affrontare la fase di cambiamento senza compromettere la competitività delle imprese. Durante il Forum si discuteranno le norme condivise a livello europeo e si approfondirà il valore strategico della “nuova” sostenibilità, oggi più che mai fattore distintivo capace di differenziare la produzione di qualità da quella di massa. La sfida principale è realizzare un percorso armonico di trasparenza e tracciabilità lungo tutti i passaggi della filiera.

Quest’anno verrà presentata la quarta edizione dello studio ‘Just Fashion Transition 2025’, l’Osservatorio permanente sulla transizione sostenibile delle filiere chiave della moda, abbigliamento, calzature e pelletteria di TEHA. Tra le evidenze dello studio emerge che, pur essendo percepita come ostacolo alla competitività del settore, la ricetta europea per la transizione sostenibile della moda dimostra di rappresentare una leva efficace per favorire contemporaneamente sia la crescita economica che la decarbonizzazione: rispetto al periodo pre-Covid, i ricavi complessivi sono aumentati dell’11,4% mentre le emissioni si sono ridotte del 17%. La decarbonizzazione rappresenta una sfida decisiva per le filiere, specialmente in Italia, dove la pressione economica e le ridotte dimensioni delle imprese rendono gli investimenti addizionali richiesti non sostenibili in autonomia per circa il 58% delle aziende. Sul palco della Fondazione Giorgio Cini si alterneranno istituzioni, esperti, case history del mondo moda, start-up, ricercatori e protagonisti del nuovo Made in Italy, unico al mondo per qualità, creatività e know-how. E anche quest’anno il Forum si svolgerà a Venezia, città simbolo di eccellenza e al tempo stesso di un ecosistema fragile da proteggere, in un parallelismo con l’industry della moda italiana.

“Siamo partiti nel 2022, dopo un anno di studio e preparazione, con la prima edizione del Venice Sustainable Fashion Forum. Avevamo il vento in poppa: la sostenibilità e gli obiettivi ESG erano al centro dell’attenzione, mentre l’industria della Moda e del Lusso usciva con slancio ed entusiasmo dalla fase pandemica e da un biennio segnato da paura e incertezza”, ricorda Flavio Sciuccati, Partner & Director Global Fashion Unit TEHA. Oggi, quattro anni dopo, ammette, “ci ritroviamo in un contesto profondamente diverso, se non addirittura opposto”. Sciuccati parla di un contesto europeo in cui le politiche ESG sono “circondate da un clima di incertezza”. Nel settore Moda e Lusso, si registra una forte contrazione dei volumi nella fascia alta dei consumi, che colpisce direttamente il Made in Italy. A tutto questo si è aggiunto, quest’anno, un tema delicato: l’intervento della Procura di Milano nelle indagini sul caporalato nel settore Moda, con misure cautelari nei confronti di alcuni grandi marchi. “In questo contesto, il nostro Forum di Venezia – rivendica – rappresenta un’occasione fondamentale per discutere, approfondire e ribadire da un lato, la centralità dell’impegno condiviso tra brand e produttori verso una moda più etica e sostenibile; dall’altro, l’importanza strategica del sistema ‘Made in Italy’ e della sua manifattura come leva economica e culturale essenziale per il Paese”. In questa fase complessa, tra tensioni geopolitiche, cambiamenti normativi e dei consumi, Paola Carron, presidente Confindustria Veneto Est, sottolinea l’urgenza di “armonizzare gli standard di sostenibilità sociale ed economica oltre che ambientale, di trasparenza e valore, e la determinazione a evolvere verso una nuova competitività”. Il messaggio alle istituzioni nazionali ed europee è chiaro: “Solo insieme possiamo fare la differenza, attraverso la condivisione di responsabilità, visione industriale, competenze e investimenti lungo tutta la catena del valore, e mantenere la leadership mondiale in questo settore strategico del Made in Italy”.

Senza Pnrr crescita ferma, allarme Confindustria: Serve piano triennale da 8 mld

Serve un “piano con visione a tre anni” da 8 miliardi per rifinanziare le misure che hanno funzionato. L’alert parte da Confindustria, che stima una crescita bassa per il 2025 (+0,5%), ma anche per il prossimo anno (+0,7%). La fotografia scattata dal Centro studi è chiara: la “crescita anemica” del Prodotto interno lordo “rende necessario muovere l’Italia”. La buona notizia, però, è che il nostro Paese dovrebbe scendere sotto la soglia del 3% di deficit nel 2026, in modo da avviare l’uscita dalla procedura di infrazione europea. Così come l’inflazione è calcolata in terreno stabile (+1,8% nel biennio) e i consumi in lieve aumento (+0,5% nel 2025 e +0,7% l’anno successivo).

L’attenzione deve comunque restare alta, perché il debito pubblica “continua a salire, a causa della spesa per interessi e degli ulteriori effetti contabili del Superbonus”. La parola d’ordine è investimenti, come insegna il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che ha dato una scossa importante al Paese. La simulazione del Csc rileva effetti positivi sul Pil dello 0,8% nel 2025 e 0,6% nel 2026, rispetto alla variazione nello scenario base (+1,4% cumulato nei due anni), ma “questo significa che la dinamica in assenza di Pnrr sarebbe di -0,3% nel 2025 e di +0,1% nel 2026 (-0,2% nel biennio): non ci sarebbe crescita, ma una stagnazione”. Anche una delle voci di bilancio più fruttuose di questi anni, l’export, rischia un contraccolpo molto serio dalla combinazione di fattori come i dazi imposti dagli Usa e il perdurare delle crisi geopolitiche. Ad oggi, infatti, le esportazioni risultano “la componente più debole della domanda in Italia”, con uno scenario su ritmi vicini allo zero nel 2025-2026 per i beni e servizi. Gli industriali, però, vogliono vedere la luce ma soprattutto la fine del tunnel. “Continuiamo a insistere su un piano che abbia una visione di un piano industriale di 3 anni, perché rispecchia il fatto di avere una continuità di misure”, dice il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini. “Non ci accontentiamo dello 0,5-0,6% di crescita, dobbiamo essere ambiziosi e puntare all’1,5-2%”. Come? Confermando misure come Industria 4.0, Transizione 5.0, Decontribuzione Sud, Ricerca e sviluppo (aumentando le risorse) e soprattutto le Zes. In questo senso rassicurano le parole del sottosegretario, Luigi Sbarra: “L’obiettivo è far fare un salto di qualità: da misura con limiti temporali a vera strategia di politica economica e rilancio degli investimento per il Mezzogiorno”.

Dal canto suo Adolfo Urso annuncia che il governo sta lavorando a una rimodulazione di misure (e risorse) sugli strumenti messi in campo finora e che non hanno funzionato come previsto, prevedendo di poter arrivare a rimettere in circolo quasi 30 miliardi di euro che serviranno a sostenere le imprese. Sarebbe una boccata d’ossigeno importante per l’industria, che dovrebbe recuperare quest’anno (+1%) per poi rallentare nuovamente nel prossimo (+0,4%). Intanto, dice il ministro delle Imprese e del Made in Italy, “sino a questo momento sono prenotati dalle imprese circa 2,2 miliardi” di Transizione 5.0 e “calcoliamo che si possa arrivare, a fine anno, a 2,5 miliardi”. Una delle fonti di forte preoccupazione per il mondo produttivo è il costo dell’energia, che in Italia resta alto. Orsini cerca di suonare la carica: “Fa piacere che il disaccoppiamento sia entrato nel vocabolario italiano, ma lo facciamo?”. Il presidente di Confindustria rincara anche la dose: “Non stiamo facendo nulla perché l’energia costi poco”, invece “bisogna fare presto, perché è essenziale che venga pagata come gli altri Paesi, per essere competitivi”. Del resto le nostre aziende ben presto dovranno tornare a competere con colossi come la Germania, che ha messo sul piatto circa 40 miliardi l’anno per rialzare la propria economia. Tra l’altro, questa è l’eventualità che lo stesso Csc auspica, ricordando che per l’Eurozona “cruciale sarà la traiettoria su cui riuscirà a posizionarsi la prima economia dell’area”. L’Ue se la passa maluccio con il macigno dei dazi americani e “investimenti finora molto volatili”.

I consumi invece sono più stabili, ma comunque deboli. Certo, anche il Vecchio continente risente di un calo generalizzato del commercio mondiale, che il Centro studi di Confindustria prevede in crescita moderata quest’anno (+2,8%), per poi frenare nel 2026 (+1,2%). L’incertezza, dunque, “resta su livelli elevatissimi”. Almeno il prezzo del petrolio è stimato in calo, 67 dollari nel 2025 (erano 81 nel 2024) e 62 dollari il prossimo anno. Chi non si fermerà, secondo i calcoli del Csc, sono i Paesi emergenti (+4,1% nel 2025 e +4,2% nel 2026), compresa la Russia che resta a galla con una “crescita moderata” grazie alla partnership con la Cina. Tutte queste ragioni, comprese sempre le tariffe imposte dall’amministrazione di Donald Trump, spingono l’Europa a esplorare nuovi mercati, come il Mercosur, di cui potranno beneficiare soprattutto Germania e Italia. Almeno l’inflazione dovrebbe rimanere stabile, mentre non si prevedono nuovi tagli ai tassi da parte della Bce.

A Bruxelles il quadro è chiaro, come dimostra l’intervento del vicepresidente esecutivo della Commissione Ue, Raffaele Fitto, che parlando delle revisioni dei Pnrr usa la parola “flessibilità”. Spiegando che andrà coniugata anche sul bilancio pluriennale, perché “la rigidità, soprattutto per il modo alle imprese, costituisce un limite enorme. E noi non possiamo compiere scelte, che durano alcuni anni, senza poterle modificare mentre il mondo ci cambia intorno in poche settimane”.

Ex Ilva, firmato l’accordo sulla piena decarbonizzazione. Urso esulta, i sindacati no

Alla fine accordo fu. Per l’ex Ilva, dopo una riunione fiume durata quasi otto ore, tutte le amministrazioni, più le aziende coinvolte, anche quelle dell’indotto, firmano l’accordo per la decarbonizzazione degli impianti. C’è il sigillo anche del Comune di Taranto, dopo il braccio di ferro degli ultimi giorni, a sancire un nuovo percorso per quello che era il colosso italiano ed europeo della siderurgia.

Entrando nel dettaglio, l’intesa prevede che, nell’ambito della nuova procedura di vendita degli asset, il futuro acquirente “presenti nel rispetto dei tempi che saranno indicati in fase di aggiudicazione”, tutte le richieste “sul versante ambientale e sanitario” per la progressiva e completa decarbonizzazione dello stabilimento “attraverso la realizzazione di forni elettrici in sostituzione degli altoforni che saranno gradualmente dismessi in un tempo certo”.

Non c’è ancora la parola finale sul polo del preridotto a Taranto. La decisione viene, infatti, rinviata a dopo il 15 settembre, data in cui scadrà il termine per la presentazione delle offerte vincolanti. Saranno esaminate e valutate le possibilità di localizzazione degli impianti Dri “utili per l’approvvigionamento dei forni elettrici presso lo stabilimento ex Ilva di Taranto, a partire dall’impianto già previsto con il Fsc (ex Pnrr), qualora sia possibile assicurare il necessario approvvigionamento energetico”. In questo documento, invece. non viene fatto accenno alla nave rigassificatrice per alimentare le macchine.

Le altre novità del testo riguardano l’esame di “nuove prospettive per la reindustrializzazione delle aree libere, tenendo presente il principio della valorizzazione dell’indotto”. Inoltre, l’incremento del Fondo sanitario regionale, il potenziamento delle attività di ricerca e studio attraverso ‘l’istituto di ricerche mediterraneo per lo sviluppo sostenibile’ e il potenziamento delle infrastrutture, anche portuali. Sul fronte occupazionale, invece, nella fase di transizione degli stabilimenti saranno valutate “misure di politica attiva e passiva del lavoro. Ovviamente, alla fine del lungo elenco c’è l’impegno delle parti a sottoscrivere l’Accordo di programma interistituzionale.

Esulta il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso: “È prevalso il senso di responsabilità e interesse comune: finalmente esiste una vera Squadra Italia unita e coesa, lo abbiamo dimostrato. È una svolta importante, che potrà finalmente incoraggiare gli investitori a presentare i propri piani industriali, puntando sulla riconversione green del settore”.

Sorride anche Piero Bitetti: “Abbiamo sottoscritto un documento, non un accordo di programma, che recepisce le nostre richieste”, verga in una nota il sindaco di Taranto. Che rivendica: “In nessun passaggio si fa cenno all’ipotesi di approvvigionamento tramite nave gasiera” ma “si fa riferimento invece alla tutela occupazionale quale principio inderogabile”. Che si arrivasse a questo punto era tutt’altro che scontato alla vigilia della riunione al Mimit. Lo dimostrano le parole scelte dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, per celebrare la firma: “E’ un giorno che resterà nella storia della Puglia e dell’Italia intera. Si dà il via alla piena decarbonizzazione degli impianti dell’ex Ilva di Taranto. Abbiamo scritto una pagina nuova, attesa da dieci anni, costruita con tenacia, sacrificio e visione”.

Soddisfazione la esprime anche il numero uno degli industriali, Emanuele Orsini: “Si è deciso di non chiudere l’Ilva”, che “è un asset strategico per il Paese”. Il presidente di Confindustria apprezza l’accordo e auspica che “venga rispettato e portato a termine, mantenendo saldi alcuni paletti. In primis si deve arrivare alla decarbonizzazione”, poi “che ci siano investitori del settore capaci di un rilancio vero e competitivo, sia a livello nazionale che internazionale” e che “ci sia il giusto e fondamentale rilievo per gli impianti Dri per l’alimentazione dei nuovi forni elettrici”.

A Roma si presentano anche i sindacati, nonostante la possibilità di organizzare il tavolo da remoto. Ma alla fine l’accordo non convince le sigle. “L’intesa non garantisce i 18mila lavoratori”, tuona il segretario generale della Fiom, Michele De Palma. “Abbiamo detto al ministro e alle forze istituzionali presenti che l’accordo, per noi, ha due gambe: una riguarda la decarbonizzazione e l’altra la garanzia occupazionale, ma nel testo non l’abbiamo letta, in termini concreti”. Ecco perché annuncia che a settembre chiederà al governo, nell’incontro “che dovremo fare a settembre, a Palazzo Chigi, una assunzione di responsabilità piena, che passa anche dalla partecipazione pubblica”. Sulla stessa lunghezza d’onda è la Uilm: “Il testo condiviso tra Mimit ed enti locali pugliesi è un documento privo di tutele e certezze sotto ogni punto di vista per i lavoratori e le comunità interessate”, commenta il segretario generale, Rocco Palombella.

Indirettamente è Urso a rispondere alle critiche. “Attraverso il tavolo Taranto, svilupperemo in parallelo gli altri investimenti che potranno collocarsi negli spazi lasciati liberi dagli impianti siderurgici e nelle aree contigue affinché nessuno resti fuori. Tutti possono avere giustamente una occupazione – conclude il responsabile del Mimit -, sia coloro che già lavorano negli impianti siderurgici, sia coloro che lavorano nella filiera dell’indotto, sia altri che giustamente reclamano di poter avere la propria sfida occupazionale”. Se la partita non è ancora chiusa, dunque, forse stavolta il risultato è davvero indirizzato.

Dazi, Industriali: “Accettabile è solo portarli a zero”. Tajani: “Difficile entro l’1 agosto”

Sui dazi si tratta ancora, fino alla fine. Il governo italiano rifiuta di usare la linea dura e continua a chiedere agli alleati il dialogo. Senza “colpi di testa” o “frenesie“, ma solo con “sano realismo“, come spiega il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti.

E se anche le trattative dovessero naufragare, per Foti “l’Europa non è impreparata. Ha già individuato gli strumenti“. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si dice “ottimista di natura”: “Penso che ogni partita si possa vincere“, sostiene, assicurando che l’impegno è massimo, e la preoccupazione principale ora è cercare di rispondere all’incertezza delle imprese.

Che però sembrano tutto fuorché tranquille. Non c’è una percentuale accettabile per chiudere un accordo, secondo il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini. “Se lo chiedete a me è zero“, ribadisce, ricordando che il cambio euro-dollaro è già un dazio. La svalutazione è al 13%, la più importante al mondo, perché la media è del 2%. “Oggi avremmo il 30% di dazi e un costo del cambio del 13%, andremmo così al 43%“, lamenta. Se i dazi Usa per i prodotti europei fossero davvero del 30%, l’impatto solo in Italia sarebbe di 35,6 miliardi. Gli industriali puntano il dito soprattutto contro l’Europa: “Dopo la lettera di Trump, mi aspettavo che l’Ue facesse almeno la convocazione del voto sul Mercosur“, confessa Orsini, chiedendo a Bruxelles di “darsi una mossa, perché non c’è più tempo“. Sburocratizzare e aprirsi “velocissimamente” a nuovi mercati è la chiave.

Su questo, gli industriali trovano sponda nel ministro delle Imprese, Adolfo Urso, che insiste per concludere l’accordo con il Mercosur (“preservando però la nostra produzione agricola“), ma anche con quello con gli Emirati, che è, riferisce, “una delle aree che ci sta dando maggiore soddisfazione“. Con il Piano Mattei, poi, l’Italia si apre molto di più anche all’Africa.

Dal governo, l’auspicio è che si arrivi a chiudere al 15%. Ma Tajani non entra nel merito della trattativa in corso: “Difficile dire come andrà a finire, abbiamo ancora una quindicina di giorni“, ricorda, aggiungendo che l’Indonesia ha chiuso al 19%: “Sono sicuro che noi saremo più bassi del 19%”. Le trattative sono in corso, e con realismo il ministro degli Esteri confessa: “L’obiettivo zero-zero non credo sia possibile da realizzare entro il primo di agosto“.

La strategia italiana sarà anche quella di investire di più negli Stati Uniti, dove il Paese è già presente in modo massiccio, con 300mila posti di lavoro offerti da aziende italiane negli States. Ma “possiamo fare ancora di più“, è sicuro il vicepremier. L’accordo sull’acquisto di gas americano nei prossimi 20 anni è per lui un “messaggio chiaro“.

Dal fagiolo di Meloni al tappo delle bottiglie di Metsola

Il fagiolo di Giorgia Meloni e il tappo delle bottiglie di plastica di Roberta Metsola sono stati i momenti più ‘alti’ dell’assemblea di Confindustria, là dove il presidente Orsini è stato molto diretto nel lanciare l’allarme energia, nel chiedere all’Europa un brusco cambio di passo e nell’invocare un nuovo piano industriale, anzi un piano industriale straordinario per l’Italia, quantificabile in 8 miliardi all’anno per i prossimi tre, meglio sarebbe per cinque.

Il fagiolo (se è più piccolo di un centimetro non è europeo) è il paradosso che ha usato la premier per fare capire come questa Europa sia fuori dal tempo e distante dalla realtà, vittima di regole che si autoimpone e di dazi interni che sono molto peggio di quelli ballerini millantati da Donald Trump. Il tappo attaccato al collo delle bottiglie di plastica è invece l’immagine usata dalla presidente del Parlamento Ue per dire che la Ue medesima non è quella di questo provvedimento ecologico ma può e deve essere qualcosa di diverso. Delicata ma netta, insomma. Quasi critica. Poi l’una ha aperto le porte di Chigi agli industriali sul tema dell’energia (come dire: se avete un problema venite da me e non lamentatevi pubblicamente), l’altra ha voluto chiarire subito, ad inizio intervento, che il parlamento di Strasburgo e gli uffici ovattati di Bruxelles stanno dalla parte degli imprenditori e sono al fianco degli industriali. Non sia mai.

Riavvolgendo il nastro dell’appuntamento bolognese, emerge che Orsini, Meloni e Metsola la pensano allo stesso modo sull’Europa. Che va cambiata. Che va riformata. Che va adeguata alle necessità dei 400 milioni e passa di cittadini. E in fretta. Ma la nota dolente è che troppe volte si è sentito questo refrain senza che nulla di concreto sia stato fatto per imprimere una svolta radicale. Al massimo ci sono state delle correzioni in corsa con evidenti malumori interni. Ma tra Trump che incombe e la Cina che minaccia, tra guerre sparse e terre (rare) da conquistare il conto alla rovescia si è esaurito da un pezzo. Il pachiderma di Bruxelles non ha più ragione di esistere, bisogna essere grilli, saltare di qua e di là.

Dopo aver detto che l’Italia è più credibile e quindi spendibile verso l’esterno, la chiosa della presidente del Consiglio agli industriali è stato un inno alla gioia: “pensate in grande perché io lo farò”. Un ‘claim‘ a presa rapida accolto con molti assensi del capo da una platea gremita di eccellenze, anche se prima si è andati a sbattere contro il muro dei costi energetici. Disaccoppiamento di gas ed elettricità, oltre al nucleare di ultima generazione sono le strade da battere per uscire da una situazione delicatissima, che sta piegando la nostra industria riducendone la competitività. Per Meloni le speculazioni energetiche sono inaccettabili, per Orsini a Roma non devono frenare sulle rinnovabili, che da sole non risolvono il problema ma nell’ambito di un indispensabile mix energetico sicuramente aiutano.

Dopo le richieste e le risposte si attendono a strettissimo giro atti concreti. Dimenticandosi di fagioli e tappi di bottiglia.

Sos industriali: “Costi energia insostenibili”. Meloni: “Porte governo sempre aperte”

La prima, tra le preoccupazioni delle imprese, resta il costo dell’energia. Una situazione “insostenibile” tuona dal palco di Bologna, per l’assemblea annuale, il presidente di Confindustria Emanuele Orsini. In platea, c’è quasi tutto il governo, premier inclusa.

L’industriale supplica l’esecutivo di “agire con urgenza“, perché si tratta di un “vero dramma che si compie ogni giorno: per le famiglie, per le imprese e per l’Italia intera“. D’altra parte, i consumi industriali italiani rappresentano il 42% del fabbisogno elettrico nazionale (125 TWh) e per le imprese il prezzo dell’energia viene calcolato in base al costo dell’elettricità prodotta con il gas. La produzione di energia da fonti rinnovabili rappresenta il 45% dell’elettricità messa in rete, ma “non concorre alla formazione di un prezzo più competitivo per l’industria”, ricorda Orsini.

L’Autorità dell’Energia ha calcolato che gli incentivi alle rinnovabili ammontano, fino ad oggi, a 170 miliardi di euro. Incentivi “pagati da famiglie e imprese attraverso le loro bollette”. Dopo tutti gli incentivi per le rinnovabili, noi “non possiamo più accettare di continuare a pagare l’energia al prezzo vincolato a quello del gas. Per questo dobbiamo entrare subito nella logica del disaccoppiamento”, sollecita.

La porta del governo è e rimane sempre aperta“, assicura Giorgia Meloni, che sull’energia si dice disponibile ad accogliere “proposte, idee nuove e progetti seri“. E torna sul “cammino del nucleare“, sui mini reattori, una “scelta coraggiosa per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione rafforzando la competitività delle nostre imprese“, spiega. Per Orsini è “possibile e necessario” ridurre nella bolletta gli oneri generali di sistema, che da soli gravano per circa 40 euro per MWh. Questo dovrebbe riguardare tutte le PMI industriali, non solo gli artigiani e i commercianti con utenze in bassa tensione.

“Bisogna battersi in Europa per sospendere l’ETS, visto che consumo ed emissione di CO2 pesano a loro volta in bolletta elettrica tra i 25 e i 35 euro a MWh”. E poi, “bisogna snellire e accelerare le procedure dell’Energy Release e della Gas Release che sulla carta riservano all’industria quote di energia a prezzi minori”. Confindustria domanda a politica e sindacati cooperazione per un piano industriale straordinario per l’Italia, un sostegno agli investimenti di 8 miliardi di euro l’anno per i prossimi 3 anni, “ancora meglio se avessimo un orizzonte temporale di 5 anni”. Con un obiettivo di crescita ambizioso: raggiungere almeno il 2% di crescita del Pil nel prossimo triennio.

Il governo è “perfettamente consapevole” dell’impatto che i costi energetici hanno sulle famiglie e sulle imprese soprattutto su quelle di piccole e medie dimensioni e “lo sappiamo anche perché dall’inizio di questo governo noi abbiamo stanziato circa 60 miliardi di Euro, l’equivalente di due leggi finanziarie per cercare di alleviare i costi”, ribatte la premier. Ma mette in chiaro che “continuare a cercare di tamponare spendendo soldi pubblici non può essere la soluzione”. Per questo, lo stanziamento delle risorse è stato accompagnato da diversi interventi. Uno, già disponibile, è il disaccoppiamento del prezzo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili da quello del gas. Poi c’è lo strumento dei contratti pluriennali a prezzo fisso di acquisto di energia prodotta da fonti rinnovabili, dove il corrispettivo viene è stabilito tra le parti e riflette i reali costi di produzione per ciascuna tecnologia.

Accoglie l’sos anche il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica: “Il primo obiettivo che ci unisce è ridurre strutturalmente il peso che oggi grava su famiglie e imprese”, spiega Gilberto Pichetto Fratin. Il piano è accelerare nella trasformazione del modello energetico: “Lavoriamo su strumenti innovativi e più mirati, anche in chiave di disaccoppiamento del prezzo delle rinnovabili da quello del gas, puntando – conferma – su contratti pluriennali a prezzo fisso che offrano maggiore stabilità e prevedibilità a cittadini e imprese”.

Alla fine del suo lungo intervento, il messaggio di Meloni per gli industriali è “pensate in grande, perché l’Italia è grande“. Fuori dai confini, per la presidente del Consiglio, c’è una voglia d’Italia che “troppo spesso noi siamo gli unici a non vedere”, per questo, insiste “la prima cosa che noi dobbiamo fare è crederci. Pensate in grande, perché io farò lo stesso”.

In Italia 18.400 imprese a controllo estero. Tajani: “Valore export a 700 mld per fine legislatura”

Aumentare l’export italiano, una delle sfide più importanti intraprese dal governo italiano. Obiettivo: portarlo a 700 miliardi entro la fine di questa legislatura. Il ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Antonio Tajani lo spiega intervenendo a Roma alla presentazione del settimo Rapporto dell’Osservatorio imprese estere (Oie), svolto da Confindustria e Luiss. Occasione per sottolineare come l’esecutivo abbia “lanciato una vera e propria offensiva con una strategia per l’export”, con l’obiettivo “di rimanere negli Stati Uniti e rafforzare il mercato interno europeo”.

I numeri in fondo parlano chiaro. Tra il 2018 e il 2022 – si legge nel Rapporto – le imprese a controllo estero in Italia (oltre 18.400) hanno consolidato il loro ruolo nel sistema economico del Paese, registrando una crescita significativa e progressiva della loro presenza, aumentando l’incidenza sul valore aggiunto dal 15,5% del 2018 al 17,4% nel 2022, pari a circa 173 miliardi di euro. Sempre nello stesso periodo, l’export merci delle imprese a controllo estero in Italia è salito dal 29,4% al 35,1% nel 2022, pari a circa 200 miliardi di euro.

Le imprese estere nel nostro Paese si distinguono per il loro contributo alla transizione digitale e ai processi di innovazione. Nel triennio 2020-2022, il 71,2% delle imprese a controllo estero ha introdotto innovazioni, rispetto a una media nazionale di poco inferiore al 60%. In tutto, sono oltre 18.400 le imprese a controllo estero nel nostro Paese. Un universo che gioca un ruolo sempre più rilevante nello sviluppo economico dell’Italia: generano 173 miliardi di euro di valore aggiunto, pari al 17,4% del totale nazionale, dando lavoro a 1,7 milioni di persone, il 9,7% degli occupati in Italia. Secondo Emanuele Orsini, presidente Confindustria, il nostro Paese “ha potenzialità enormi, il made in Italy ha una grande capacità di riuscire a performare nel mondo”. Bisogna però costruire “un percorso virtuoso di competitività, oggi il tema dell’attrattività è fondamentale, riuscire ad essere attrattivi per un’impresa che arriva dall’estero è fondamentale, se si impiega 17 mesi per ottenere una concessione non si è attrattivi”, “attrarre persone nel Paese vuol dire generare Pil”. Sulle imprese estere pesa però la minaccia dei dazi. Si tratta di segmenti limitati in termini di numerosità, ma rilevanti all’interno del complesso delle vendite di merci dall’Italia agli Stati Uniti soprattutto in alcuni settori come l’industria delle bevande, la fabbricazione degli altri mezzi di trasporto, l’industria farmaceutica e la fabbricazione di autoveicoli.

Complessivamente, la quota di export nazionale verso gli Stati Uniti si attesta al 10,3%. Nel triennio 2022-2024 il 43,6% delle imprese estere esportatrici mostra flussi di export verso gli Usa in quota superiore al valore medio (29,7%), ma inferiore a quella registrata per le multinazionali italiane (51,4%). “Mi auguro si giunga ad un accordo con tariffe zero e mercato unico Usa-Europa-Canada”, confessa Tajani, in contatto col commissario UE per il commercio Maros Sefcovic. “L’ho sentito qualche giorno fa e mi sembrava più ottimista di qualche settimana fa”. Orsini è ancora più chiaro: “La guerra dei dazi per noi che esportiamo 626 miliardi di prodotto e generiamo 100 miliardi di surplus è ovviamente una follia. Non dobbiamo dimenticarci che gli Usa sono il secondo nostro mercato di esportazione, ma bisogna correre a trovare nuovi mercati”.

Con la minaccia dei dazi Usa, Confindustria abbassa stime Pil 2025 a +0,6%

L’Italia rallenta nel 2025 ma riprende slancio nel 2026 (+1%). A dirlo è il Centro Studi di Confindustria nel suo tradizionale Rapporto di previsione che fornisce una stima dell’impatto che la nuova politica tariffaria potrebbe avere sull’Europa. Nel documento vengono riviste al ribasso le stime della crescita del Pil 2025 a +0,6% da +0,9% previsto a ottobre 2024 a causa della spada di Damocle rappresentata dai dazi minacciati dall’amministrazione Trump.

Non possiamo pensare che non siano un problema per un Paese come il nostro – ha detto il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini – se stasera verranno applicati i dazi all’Europa sarà un ennesimo stop alle nostre imprese e alle nostre industrie“. Per questo, il numero uno di Confindustria invita l’Europa “a cambiare rotta” e ad aprire un tavolo di trattativa: “Serve negoziare tutti insieme, l’Europa deve essere unita per poter costruire un punto di negoziato, credo ci possa essere la possibilità di farlo”.

Perdere il mercato a stelle e strisce sarebbe esiziale, secondo Orsini: “Come Italia spediamo verso gli Stati Uniti 65 miliardi di prodotti italiani, con un saldo positivo di 42 miliardi. Quindi per noi è un grande problema perdere un mercato così importante”. Per questo motivo, Orsini ripete due espressioni “che ho utilizzato spesso negli ultimi mesi: una è ‘sveglia’, l’altra è ‘il tempo è finito’”. Il presidente si rivolge pertanto al governo italiano: “Abbia coraggio, serve fiducia. Abbiamo bisogno che ci siano politiche serie dell’Europa e un piano strutturale per l’Italia e per l’Europa”.

Da qui la proposta di un’apertura verso mercati alternativi, “come Mercosur e India che possono apprezzare i nostri prodotti”. Per l’Italia nel 2024 l’export di beni negli Stati Uniti è stato di 65 miliardi di euro, oltre il 10% del totale. Secondo il Rapporto, i settori più esposti ai dazi sono bevande, farmaceutica, autoveicoli e altri mezzi di trasporto. Le nuove tariffe su acciaio e alluminio al 25%, inoltre, porteranno a un calo medio di circa -5% dell’export di queste materie verso gli Usa, con un impatto macroeconomico minimo (circa -0,02% dell’export italiano di beni). Lo scenario peggiore “di un’eventuale escalation protezionistica, che comporti un persistente, invece che temporaneo, innalzamento dell’incertezza (+80% sul 2024), l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni Usa, comprese quelle dall’Europa, e del 60% dalla Cina e l’applicazione di ritorsioni tariffarie sui beni di consumo esportati avrebbe dunque un impatto cumulato negativo sul Pil“.

Ci sono poi alcuni fattori che agiranno in positivo, come il taglio dei tassi, la risalita del reddito disponibile reale totale delle famiglie grazie al progressivo recupero delle retribuzioni pro-capite, il buon contributo dei redditi non da lavoro, l’aumento dell’occupazione totale e il calo dell’inflazione, “sebbene gli ultimi due fenomeni si attenueranno nel 2025 e 2026”. Sul fronte dell’occupazione “nel 2025 e 2026 il ritmo di crescita dell’input di lavoro, misurato in termini di unità equivalenti a tempo pieno, è atteso riallinearsi con quello dell’attività economica (+0,5% e +0,7%, ritmo appena inferiore a quello dell’occupazione in termini di teste), contrariamente a quanto accaduto negli ultimi due anni. Ciò permetterà un miglioramento della produttività del lavoro, dopo i forti cali negli anni precedenti”. Sui conti pubblici, invece, il deficit pubblico “si attesterà al -3,2% del Pil nel 2025 e al -2,8% nel 2026, creando così le condizioni per l’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo nel 2027”. 

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Nucleare a livelli record nel 2025, Pichetto auspica ok delega entro autunno

L’energia nucleare nel 2025 “è destinata a raggiungere livelli record”. Sarà dunque necessario affrontare le varie sfide correlate, tra cui i costi relativi a questa tecnologia, i ritardi dei progetti e il loro finanziamento. E’ la previsione contenuta nel rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie) presentato nella sede di Confindustria a Roma. Nell’analisi è sottolineato l’impulso che sta avendo il nucleare ultimamente su nuove politiche, progetti, investimenti e progressi tecnologici, vedi gli Small modular reactor (SMR). Dal suo rinnovato slancio, sostiene dunque l’Aie, si può ottenere quel potenziale per aprire una nuova era per questa fonte di energia sicura e pulita, vista la domanda di elettricità fortemente cresciuta in tutto il mondo. La conferma arriva dal direttore esecutivo dell’Aie, Fatih Birol: “Il forte ritorno dell’energia nucleare previsto dall’Agenzia diversi anni fa è ormai ben avviato”, “il nucleare è destinato a generare un livello record di elettricità nel 2025”. E ancora: più di 70 GW di nuova capacità nucleare sono in costruzione a livello globale, “è uno dei livelli più alti degli ultimi 30 anni”, precisa Birol. E più di 40 paesi in tutto il mondo hanno piani per espandere il ruolo del nucleare nei loro sistemi energetici, con gli SMR in particolare che offrono un potenziale di crescita notevole. Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin sposa il percorso: “Il dovere mio, del governo e del parlamento è mettere il Paese nelle condizioni di poter scegliere tra 3-4 anni”. Quanto allo schema di ddl delega al Governo in materia di nucleare sostenibile, il Mase lo ha inviato nei giorni scorsi a Chigi. “Sono state fatte alcune piccole modifiche”, precisa il ministro. Al suo interno c’è la trasformazione dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin) in ente certificatore, mentre Arera rimane l’ente regolatore. L’obiettivo ora è inserirlo “quando faremo un Consiglio dei ministri che vada anche oltre la contingenza attuale”. Il ddl “è pronto, può darsi che arrivi presto in Cdm insieme al dl Bollette”. La speranza è che poi il parlamento “riesca, senza comprimere nel modo più assoluto il dibattito, ad approvare la delega entro l’autunno”. Della stessa opinione Confindustria. “Se vogliamo garantire al Paese di avere energia sicura, energia a prezzi competitivi e un futuro decarbonizzato – afferma Aurelio Regina, delegato del presidente di Confindustria per l’energianon possiamo che puntare sul nucleare”. Però prima si deve intervenire sul meccanismo di formazione del prezzo. “Abbiamo un differenziale di prezzo con Germania, Francia e Spagna oggi ingiustificato ed è dovuto principalmente al nostro mix produttivo”, termina Regina.