Mattarella scrive a Trump: “Stati Uniti partner insostituibile per l’Italia”

È il secondo messaggio inviato da Sergio Mattarella a Donald Trump dopo il ritorno alla Casa Bianca. Come ogni 4 luglio il capo dello Stato scrive, a nome della Repubblica e suo personale, al presidente Usa per celebrare l’Independence Daydell’amico popolo americano”, ma quest’anno il significato è particolarmente importante.

Mattarella già dalle prime righe sottolinea che “gli Stati Uniti costituiscono un partner insostituibile per l’Italia”. Nel pieno del negoziato con l’Unione europea per scongiurare la guerra dei dazi, a poche ore dalla fine della missione a Washington del commissario Ue al Commercio, Maros Sefcovic, il presidente della Repubblica ricorda “la solidità dei rapporti bilaterali e la straordinaria intensità del dialogo politico” con l’Italia, “riflesso di un legame fortemente sentito e partecipato dai nostri popoli”. Non solo: “Proficui scambi a livello economico, culturale e sociale (che si avvantaggiano dell’apporto della dinamica comunità italo-americana) contribuiscono ad uno storico partenariato che intendiamo continuare a consolidare su basi di equità e reciproca prosperità”, scrive ancora Mattarella.

Nei primi mesi del nuovo mandato, Trump è stato in Italia soltanto lo scorso 25 aprile, per partecipare ai funerali di Papa Francesco, ma non c’è stato un passaggio ufficiale al Quirinale, né a Palazzo Chigi con la premier, Giorgia Meloni, che lo ha incontrato sul sagrato di San Pietro ma era stata ricevuta alla Casa Bianca, in visita ufficiale, appena una settimana prima. L’ultima volta in cui il tycoon è stato ricevuto al Colle risale al 2017, durante il suo primo mandato, mentre Mattarella è stato a Washington nell’ottobre del 2019, un anno prima delle elezioni presidenziali che segnarono il passaggio di testimone con Joe Biden. Da allora il mondo ha subito diversi cambiamenti, a partire dalla pandemia, seguita poi dalla guerra scatenata in Ucraina dalla Russia e quelle in Medio Oriente, tra Israele e Palestina prima e Israele-Iran poche settimane fa, dove c’è stato anche l’intervento militare Usa che ha preceduto l’accordo per il cessate il fuoco tra Tel Aviv e Teheran.

Le tensioni, però, restano. Di fatti, nella missiva inviata a Trump, Mattarella mette in luce che “di fronte a una congiuntura internazionale caratterizzata da sfide molteplici e complesse, a partire dalle drammatiche situazioni in Ucraina e Medio Oriente, Stati Uniti e Italia condividono l’obiettivo di promuovere percorsi di stabilizzazione e di pace, oggi così compromessi, favorendo la cooperazione e la sicurezza globale”. Nel passaggio, inoltre, il capo dello Stato ribadisce un concetto che più volte ha espresso: “In questo contesto, denso di criticità e tensioni, la perdurante centralità del vincolo transatlantico resta la chiave per affrontarle con efficacia”. Un punto cruciale nella fase storica che vive la Nato e l’Alleanza atlantica.

Dazi e clima di incertezza frenano il Pil. Giorgetti: “Spese difesa al 2% già dal 2025”

I conti pubblici dell’Italia tengono, il problema è capire per quanto ancora. Dalle audizioni sul Documento di finanza pubblica 2025 emergono tre rischi sostanziali per la crescita: i dazi voluti e imposti da Donald Trump, le tensioni geopolitiche ancora lontane da una soluzione e l’aumento delle spese per la difesa. Partendo dall’ultimo punto, è il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, a dare la notizia: “Già da quest’anno saremo in grado di raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil”.

Il sentiero resta comunque prudente, del resto il troppo rigore nel Psb e nel Dfp è una delle principali critiche che arrivano dalle opposizioni, ma anche da alcune realtà economiche all’indirizzo del Mef. “Faccio una metafora calcistica: se una squadra parte da un passivo di 2-0 e prende gol è finita – dice Giorgetti -. Io ho un debito da gestire che, ahimè, grava per circa 90 miliardi di interessi che mi divorano spese anche nobili come sanità o scuola. Dunque, prima regola: non prenderle”.

Questo significa che “la soluzione non è uno scostamento di bilancio” né una manovra correttiva, lo dice chiaro e tondo il ministro. Del resto, il “frangente internazionale caratterizzato da cambiamenti sempre più repentini, rendono particolarmente complesso elaborare stime non solo nel lungo termine, ma anche nel breve”. Questo, però, non significa vedere tutto a tinte fosche, anzi. Giorgetti conferma le stime di crescita dimezzate allo 0,6% quest’anno e allo 0,8 il prossimo, ma avverte: “Sembra prospettarsi uno scenario meno avverso di quello messo in conto nelle previsioni ufficiali, più favorevole in termini sia di possibile esito finale della struttura dei dazi a livello internazionale, sia di variabili esogene (quali i prezzi dell’energia e i tassi d’interesse) che condizionano la crescita. Il quadro macroeconomico è pertanto soggetto anche a rischi positivi”. Tutto ciò a patto che il negoziato tra Ue e Usa porti buoni risultati e che l’Europa non faccia scherzi con i possibili ‘bazooka‘, lascia intendere.

Fin qui c’è la visione del governo, ma il Parlamento ascolta anche la voce delle parti sociali. Con i dazi Usa “al 20% la crescita del Prodotto interno lordo sarebbe più contenuta: 0,3% nel 2025 e 0,6% nel 2026”, calcola Confindustria. Che boccia il piano Transizione 5.0 spiegando che “non funziona” e sottolinea il crollo degli investimenti. Sul punto Giorgetti mette in luce che il governo sta lavorando a un “riorientamento” del programma nato dai fondi del RePowerEu per renderlo più fruibile alle aziende e, ovviamente, efficace.

Intanto, non fa sorridere nemmeno la previsione dell’Istat, che ha svolto simulazioni con risultati preoccupanti: una guerra commerciale con gli Usa farebbe contrarre il Pil italiano dello 2 decimi di punto quest’anno e tre decimi il prossimo.

In questo scenario, dunque, è fondamentale – è il coro quasi unanime – portare a piena attuazione il Pnrr, accelerando opere e spesa. Anche Banca d’Italia lo suggerisce, come ‘antidoto’ a “instabilità delle politiche commerciali, la possibilità di prolungate turbolenze sui mercati finanziari e l’adozione di eventuali misure ritorsive da parte dei partner commerciali degli Stati Uniti” che “possono compromettere l’andamento delle esportazioni e incidere negativamente sulla spesa per investimenti e consumi”.

Via Nazionale, però, avverte anche di altri rischi. Innanzitutto che in questo contesto economico contesto economico il rallentamento della crescita potrebbe essere “ancor più marcato di quanto atteso”, ma soprattutto che sull’inflazione (ora contenuta) “un contraccolpo sarà inevitabile se vi sarà un forte rallentamento del commercio mondiale”.

Giorgetti prende nota, poi indirettamente risponde. Sul Piano nazionale di ripresa e resilienza manda un messaggio a Bruxelles quando dice di ritenere “fisiologico che, indipendentemente dal conseguimento degli obiettivi e dei traguardi entro la fine del 2026, parte della spesa dovrà essere contabilizzata anche negli esercizi successivi”. E assicura: “Stiamo lavorando per il raggiungimento degli obiettivi previsti nelle ultime tre tranche e ad un monitoraggio rafforzato dello stato di attuazione del Piano”.

Sono, però, i dazi il tema principale. Il ministro dell’Economia non nega che i toni di Trump siano “eccessivi”, ma a suo modo di vedere non devono nascondere la necessità di rivedere l’intero sistema del commercio internazionale, passando dal “il far west della globalizzazione senza regole”, ovvero il free trade, a un più utile fare trade. Dunque, lascia intendere che il presidente americano può essere lo shock necessario ad aprire il dibattito.

Lo stesso termine, shock, lo usa anche la Corte dei Conti, per definire i dazi che colpiscono l’economia italiana “in una fase di rallentamento dei ritmi produttivi che sono tornati ad assumere intensità inferiori a quelli dell’area euro”. Nel Dfp, spiegano i magistrati contabili, “manca lo sviluppo programmatico” e sono “limitate” le indicazioni sulla composizione di spesa, ragion per cui è “difficile valutare la tenuta del quadro complessivo”.

Altri dati di cui tenere conto sono quelli dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che stima una contrazione del Pil italiano dello 0,2 percento nel 2026 se Trump andasse avanti creando un bug nel commercio internazionale. Tra i settori più colpiti, ovviamente, c’è l’automotive.

Non se la passa bene nemmeno il comparto agroalimentare. Da Coldiretti a Confagricoltura, Cia-Agricoltori italiani e Copagri tutti chiedono a governo e Parlamento di confermare le misure di sostegno al comparto, oltre a favorire il credito e intervenire sulle infrastrutture, in particolare quelle idriche. In particolare, i coltivatori diretti propongono di creare “una sinergia tra vari attori istituzionali, ad esempio Ice, Sace, Simest, Cdp, per supportare anche a costo zero le imprese dell’agroalimentare che esportano negli Stati Uniti, creando una vera e propria infrastruttura a supporto delle aziende”. Martedì 22 aprile l’ultimo giro di audizioni per le commissioni Bilancio di Camera e Senato, con consulenti del lavoro, commercialisti, cooperative e pmi, sperando che nel frattempo, da Washington e Bruxelles, arrivino buone notizie.

Meloni boccia i dazi, ma teme di più calo dei consumi: “Presto per quantificare gli effetti”

Non vuole allarmismi, Giorgia Meloni, e chiede ai suoi ministri, ma alle istituzioni in generale, di “riportare l’intera discussione alla reale dimensione del problema”. Teme più i danni che può provocare il panico nei consumatori che il crollo delle Borse, la premier, confermando in Cdm il giudizio “negativo” sui dazi imposti da Donald Trump, ma allo stesso tempo invitando a tenere i nervi saldi, perché “è ancora presto per quantificarne l’effetto”, sebbene riconosca che “qualsiasi ostacolo agli scambi internazionali è penalizzante per una nazione come l’Italia”, che ha nell’export una delle armi più importanti per la crescita e il Pil. Un effetto domino con impatti anche indiretti, se si pensa ad esempio al mercato dell’auto tedesco, in buona parte prodotto grazie all’indotto tricolore.

Per questo motivo ha chiesto ai suoi vicepremier, Antonio Tajani e Matteo Salvini, ai ministri dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, delle Imprese, Adolfo Urso, dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, e delle Politiche Ue, Tommaso Foti, di rivedersi nel pomeriggio di lunedì 7 aprile a Palazzo Chigi, portando ognuno per la propria parte degli studi “sull’impatto che questa situazione può avere per la nostra economia”. Vuole avere dati certi in mano, Meloni, che al momento si allinea allo speech tenuto qualche giorno fa da Christine Lagarde in audizione all’Europarlamento, dove il grande capo della Bce sosteneva che “un dazio statunitense del 25% sulle importazioni dall’Europa ridurrebbe la crescita dell’area dell’euro di circa 0,3 punti percentuali nel primo anno”. Un impatto “certamente significativo, ma di un ordine di grandezza affrontabile”, argomenta la premier davanti alla sua squadra di governo. Ben conscia che questa situazione potrebbe portare a una riduzione delle esportazioni italiane negli Usa. Perciò chiede ai suoi di attivarsi per studiare strategie da presentare ai rappresentanti delle categorie produttive, convocati a Palazzo Chigi per martedì prossimo, 8 aprile.

Nel frattempo Meloni ripete (all’Ue) che con gli Usa si tratta e non bisogna rispondere ‘a brigante con brigante e mezzo‘. Nel senso che reagire con controdazi non farebbe altro che attivare una guerra commerciale sanguinosa per il continente, per l’Occidente e, in particolare, per l’Italia. Meglio incidere dove si può, in casa propria: “Sappiamo che il settore auto è colpito dai dazi in maniera importante, dovremmo ragionare sul sospendere le norme del Green Deal”. Non solo, insiste sulla necessità di rivedere il Patto di stabilità e sull’accelerare la riforma del mercato elettrico: sull’energia chiede a Bruxelles di essere “un po’ più decisi e coraggiosi”. Del resto, anche Bankitalia avverte che “l’inflazione si collocherebbe all’1,6%” nel 2025, 1,5 nel 2026 e al 2 nel 2027” con l’entrata in vigore del nuovo sistema di scambio di quote di emissione di inquinanti e di gas a effetto serra nell’Unione europea, gli Ets, che provocherebbero un transitorio aumento dei prezzi dell’energia.

La cronaca quotidiana, intanto, dice che i mercati vanno in picchiata, al punto che la Borsa italiana raggiunge i livelli shock del post 11 Settembre. Anche se Tajani si veste da pompiere: “Le borse crollano perché c’è un allarmismo eccessivo di stampa, politici, ma non sta crollando il mondo”. Il responsabile della Farnesina è convinto che qualora dovesse esserci una reazione da parte dell’Ue “sarà piuttosto un segnale politico agli Usa per dire ‘basta’, quindi assolutamente inferiore alla loro azione”. Semmai, l’obiettivo è quello di avere, alla fine della trattativa, “un grande mercato transatlantico, Europa e Stati Uniti, cioè il mercato dell’Occidente, senza dazi“. ‘Sogno’ condiviso anche dal collega Urso. In questo il governo italiano con “Meloni in primis, io in secundis” può “convincere l’Ue ad avere un’azione positiva, attraverso un’azione facilitatrice di un accordo tra Unione europea e America”, spiega Tajani a ‘Cinque minuti’ (Rai1).

Se la traiettoria dovesse deviare, però, l’Italia – assicura il vicepremier – ha già un piano d’azione pronto per esplorare altri mercati. Con un ‘partner’ d’eccezione, Poste Italiane, che “può distribuire sui mercati i prodotti anche delle piccole imprese, ne abbiamo già parlato con l’ad, Matteo Del Fante”.

Tutta la carne messa a cuocere a Roma, comunque, continua a non convincere le opposizioni. Il Pd ritiene che l’esecutivo sia arrivato impreparato alla sfida dei dazi, mentre Matteo Renzi (Iv) rintuzza gli appelli contro l’allarmismo di Meloni: “Abbiamo un governo di influencer incapaci, serve una reazione subito”. Da Avs, poi, Angelo Bonelli chiede alla premier di “farsi da parte”, infine i Cinquestelle, impegnati nella manifestazione del 5 aprile a Roma contro il Rearm Eu, picchiano duro: “Tutti gli altri Paesi si muovono e noi restiamo fermi, il governo è in uno stato comatoso”.

Dazi, Italia predica cautela e spera in retromarcia Trump. Tajani: “Usa non autolesionisti”

Il rischio è fare il passo sbagliato, ma le pressioni aumentano giorno dopo giorno. Dal 2 aprile i dazi imposti da Donald Trump dovrebbero essere effettivi e l’Italia potrebbe pagare un prezzo molto alto alle politiche del presidente degli Stati Uniti. Ma la parola d’ordine nel governo è prudenza, ben sapendo che l’onere della trattativa con Washington spetta all’Ue. Anche se l’uscita di Ursula von der Leyen sull’Europa pronta alla “vendetta”, poi corretta in “risposta”, non lascia tanto tranquilla Roma.

Per il vicepremier, Antonio Tajani, “una guerra commerciale non credo possa produrre effetti positivi anche per l’economia americana, sia per quel che riguarda il mercato delle auto, sia per quanto riguarda l’inflazione, perché se arriva, poi, la Fed come reagisce? Aumentando il costo del denaro”. Il ministro degli Esteri crede ancora nella forza del dialogo e del confronto, perché “non penso che gli americani vogliano essere autolesionisti”.

Non prende bene le parole della presidente della Commissione Ue nemmeno l’altro vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, anche se le concede il beneficio d’inventario stavolta. “Vendicarsi dei dazi di Trump? Se von der leyen ha detto così è stata una scelta infelice: vendicarsi e aprire guerre commerciali non fa l’interesse di nessuno, spero sia stata fraintesa e mal tradotta – dice il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti -. Fare la guerra agli Stati Uniti non è una cosa intelligente, le guerre su campo vanno risolte sul tavolo non con le vendette o controdazi”.

L’obiettivo dichiarato del leader leghista, semmai, è stringere ancora di più i bulloni dell’alleanza con gli States. Personalmente ci ha provato nei giorni scorsi, in un colloquio telefonico con il vice di Trump, JD Vance, col quale ha parlato di una missione con le aziende italiane Oltreoceano. Opportunità di cui potrebbero parlare di persone dal 18 al 20 aprile prossimi, perché proprio Vance ha in programma una visita a Roma – come segnala Bloomberg -, sebbene trapeli solo di una richiesta, quella di incontrare la premier, Giorgia Meloni. Ma se questa volta non sarà possibile il faccia a faccia, Salvini non ne farà un dramma: “Non posso inseguire le agende mediatiche. Io l’ho invitato a vedere le Olimpiadi, se venisse anche prima sarebbe un’opportunità incontrarlo”. Chi vivrà vedrà.

Nel frattempo c’è da risolvere la grana dei dazi. Che la strada da seguire sia il dialogo ne è convinto anche Adolfo Urso: “Dobbiamo scongiurare l’escalation che accrescerebbe il danno. Bene fa la Commissione europea a riflettere prima di reagire”. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy predica “cautela”, perché è meglio “aspettare le decisioni del presidente Trump, che spesso ha annunciato delle cose e poi ne ha fatte altre o comunque le ha commisurate”.

Posizioni, quelle degli esponenti di governo, che agli occhi delle opposizioni sembrano andare in senso opposto l’una dall’altra. Infatti, il fuoco di fila va dal Pd ai Cinquestelle, ad Avs e Italia viva. La partita sembra comunque ancora aperta e tutta da giocare, a patto che l’Europa assuma un ruolo da protagonista in un negoziato con gli Usa che si presenta tutt’altro che facile.

Avanza la guerra commerciale di Trump: da domani dazi a Canada, Messico e Cina

La Casa Bianca imporrà i dazi annunciati da Donald Trump sui prodotti provenienti da Canada, Messico e Cina a partire da domani, 1 febbraio.

Domani il Presidente imporrà dazi del 25% sul Messico, del 25% sul Canada e del 10% sulla Cina per il Fentanyl illegale che Pechino produce e permette di distribuire nel nostro Paese”, ha annunciato la portavoce, Karoline Leavitt.

Trump giovedì ha anche ribadito la minaccia di imporre dazi “al 100%” ai Brics se questo blocco di 10 Paesi (Brasile, Russia, India, Cina, ecc.) farà a meno del dollaro nel commercio internazionale.

Secondo Oxford Economics, se queste tariffe venissero applicate, l’economia statunitense perderebbe 1,2 punti percentuali di crescita e il Messico potrebbe precipitare in recessione. Per Wendong Zhang, professore della Cornell University, lo shock non sarebbe così forte per gli Stati Uniti, ma lo sarebbe senza dubbio per Canada e Messico. “In un simile scenario, Canada e Messico possono aspettarsi una contrazione del Pil rispettivamente del 3,6% e del 2%, e gli Stati Uniti dello 0,3%”, ha affermato. Anche Pechino “soffrirebbe di un’escalation dell’attuale guerra commerciale, ma allo stesso tempo beneficerebbe (delle tensioni tra Stati Uniti), Messico e Canada”.

Durante la campagna elettorale, il candidato repubblicano aveva dichiarato di voler imporre dazi doganali dal 10% al 20% su tutti i prodotti importati negli Stati Uniti, e addirittura dal 60% al 100% sui prodotti provenienti dalla Cina. All’epoca l’obiettivo era quello di compensare finanziariamente i tagli alle tasse che avrebbe voluto attuare durante il suo mandato. Dopo la sua elezione, il tono è cambiato. Piuttosto che uno strumento per compensare il calo delle entrate fiscali, le tariffe sono diventate, come durante il suo primo mandato, un’arma brandita per forzare i negoziati e ottenere concessioni. Trump ha spiegato che i dazi sarebbero una risposta all’incapacità del Messico di contenere il flusso di droga, in particolare di fentanyl, e di migranti verso gli Stati Uniti. Il suo candidato alla carica di Segretario al Commercio, Howard Lutnick, lo ha definito un “atto di politica interna” volto “semplicemente a far chiudere le frontiere”, durante l’udienza di conferma al Congresso di martedì.

La presidente messicana Claudia Sheinbaum è stata piuttosto ottimista mercoledì: “Non pensiamo che accadrà. Ma se dovesse accadere, abbiamo un piano”. Nonostante tutto, ci sono preoccupazioni, soprattutto per il settore agricolo, che esporta molto negli Stati Uniti. “Quasi l’80% delle nostre esportazioni è destinato a questo Paese e, in ogni caso, tutto ciò che potrebbe causare uno shock ci preoccupa”, ha ammesso martedì all’AFP Juan Cortina, capo del Consiglio nazionale dell’agricoltura. Da parte canadese, la possibilità di dazi è servita a mettere in evidenza la crisi politica che stava già logorando il governo del Primo Ministro Justin Trudeau, ora dimissionario. Il ministro canadese della Pubblica sicurezza, David McGuinty, si è recato a Washington giovedì per presentare i contorni di un piano di rafforzamento della sicurezza al confine tra Canada e Stati Uniti. Howard Lutnick è stato molto chiaro martedì: “So che si stanno muovendo rapidamente”, ha detto riferendosi ai due Paesi. “Se faranno la cosa giusta, non ci saranno tariffe”.

Iran

Iran contro nuove sanzioni Usa: “Risposta sarà ferma e immediata”

Teheran critica duramente gli Stati Uniti dopo l’annuncio di nuove sanzioni sul petrolio iraniano, promettendo di rispondere alle misure mentre i colloqui tra i due Paesi sull’accordo nucleare iraniano si sono arenati per mesi. L’amministrazione Biden “continua a prendere iniziative infruttuose e distruttive anche in un momento in cui sono in corso sforzi per riprendere i negoziati per rilanciare l’accordo sul nucleare iraniano“, ha dichiarato in un comunicato il portavoce del ministero degli Esteri, Nasser Kanani.

Proprio ieri Washington ha annunciato misure punitive contro “sei entità che facilitano le transazioni illecite legate al petrolio iraniano“, ha fatto sapere il Segretario di Stato americano, Antony Blinken. I colloqui tra l’Iran e le principali potenze, tra cui gli Stati Uniti, per rilanciare l’accordo internazionale del 2015 sul programma nucleare iraniano sono in stallo da marzo, dopo oltre un anno di discussioni. Inoltre, il 26 luglio scorso, il capo diplomatico dell’Unione europea e coordinatore dell’accordo sul nucleare iraniano, Josep Borrell, ha presentato una bozza di compromesso e ha invitato le parti coinvolte nei colloqui ad accettarla per evitare una “crisi pericolosa.

Kanani ha comunque accusato l’amministrazione Biden di “continuare e persino espandere” le politiche “fallimentari” del suo predecessore, Donald Trump. All’inizio del 2021, il presidente democratico Joe Biden aveva scommesso su negoziati rapidi per ‘resuscitare’ l’accordo del 2015, dal quale gli Stati Uniti si erano ritirati sotto il predecessore repubblicano. Washington ha quindi reimposto le sanzioni, dopo le quali Teheran si è gradualmente svincolata dai suoi obblighi.

La “risposta” della Repubblica islamica alle sanzioni sarà “ferma e immediata e l’Iran “prenderà tutte le misure necessarie per neutralizzare i possibili effetti negativi” sul “commercio del Paese“, ha promesso Kanani. Ieri l’Iran ha espresso “ottimismo” sulla ripresa dei colloqui nucleari dopo l’esame della bozza di compromesso di Borrell.

(photo credits: ATTA KENARE / AFP)